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#il mercante di pelle
mercantedipelle · 1 month
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Street Glide Special
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ignotus · 10 months
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Il tocco trasforma, d’oro i tuoi piedi giocosi saltellano sul selciato, tingendo la pista di candide macchie lucenti. Bambinetta felice e imprudente, ti schiudi alla vista splendente, che in un gesto mendace ti sfiori e subito immobile resti che par di bronzea figura far finta. Immobile posa, rosa frattale, complessa e profonda. La pelle candida e dolce si flette e la metamorfosi è così compiuta e tu affliggi i miei sogni danzante. Esito incerto sul tuo corpo, se di Canova o Bernini artefatta, siffatta che pari irradiare una luce che propria dagli occhi traspare. L’incanto che porti ridendo è pari allo tintinnio dell’oro, che come mercante felice conservo al sicuro in ogni mio dolce ricordo
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Quanto è bello fare headcanon da Trieste in su 🎶
Ovvero, io che sclero e pubblico tutti i miei hc più assurdi (ma anche no)
- Marco è stato allevato da un padre (quasi) pacifista che sognava per lui un futuro da mercante. Il sogno si è avverato, ma Marco ha imparato da Impero Romano ad attaccare briga con il mondo intero.
- Marco si infilava tra i soldati del padre di nascosto, facendogli prendere un infarto ogni volta che se ne accorgeva. Il primo incontro con Emanuele e Giorgia è avvenuto letteralmente in una di queste occasioni.
- È un appassionato di orecchini e cose preziose fin da piccolo.
- Un tempo fumava la pipa, ma solo esclusivamente quelle che si intagliava lui. Il giorno che ha accettato quella che Sergio gli aveva regalato per il compleanno, Trentino ha stappato una bottiglia di vino buono per festeggiare.
- Il suo fiore preferito sono le rose rosse. Non ama solo regalarle in varie occasioni, ma le coltiva con cura, amore ed estrema delicatezza.
- Avendo sofferto più volte di pellagra, la pelle di Marco è diventata estremamente delicata, tanto da arrivare a soffrire di dermatite.
- Nonostante possa sembrare burbero, arrogante e un Don Giovanni senza scrupoli a primo impatto, Marco è in realtà molto più romantico e sensibile di quello che uno potrebbe immaginare. Don Giovanni però lo resta e con grande orgoglio.
- È un comico involontario, quel membro del gruppo che fa battute divertenti senza neppure rendersene conto. Lui infatti, in realtà, era serissimo.
- Marco ha forti problemi (per essere gentili) con la tecnologia contemporanea.
- Parla diverse lingue, ma l'inglese non vuole proprio saperne di entrargli in testa.
- Ha dimenticato il venetico, la sua lingua madre piano piano durante il periodo di alleanza con i Romani. Le ultime parole in venetico le ha pronunciate quando suo padre è morto. Da allora non lo parla e non lo capisce più.
- Pur non essendo molto religioso, Marco è molto devoto alla Madonna. Potrei scrivere un paragrafo solo sui motivi legati a questo (e forse lo farò), sappiate solo che la Madonna non si bestemmia e ne tiene una statuetta sul comodino di casa.
- Marco ha "lavorato" come cicisbeo ai tempi della Serenissima.
- Ha un armadio intero pieno di vestiti da donna settecenteschi che ama, di tanto in tanto, rindossare per sentirsi di nuovo giovane dentro. (che poi Marco lo sei!)
- Indossa sempre dei reggicalze e ha una piccola collezione di corsetti, che mette quando sta ingrassando un po' per non far vedere la pancetta. Un po' perché ci tiene alla linea e un po' perché è un nostalgico potente.
- La casa di Marco me la immagino come un vecchio casale veneto restaurato, quindi abbastanza grande e adatta ad ospitare una famiglia numerosa. È in campagna, nel trevigiano, in una zona abbastanza isolata da permettergli di non dover cambiare casa troppo spesso. Per questo spesso si sente solo.
- Va matto per i bambini, non ironicamente è ospite fisso a tutti gli Zecchino d'oro avendo inventato anche Topo Gigio.
- La sua prima crush infantile è stato Flavio. Era ai tempi dei veneti antichi, quando lui neppure sapeva che cosa volesse dire essere innamorato. Ha rotto le scatole a tutti su quanto Flavio fosse meraviglioso, stupendo e fortissimo.
- Se il suo awakening sessuale è stata Giorgia mentre lo infilzava, il primo risveglio timido di ormoni è stata Maria quando gli insegnava Giurisprudenza alle origini dell'Università di Bologna.
- È una persona molta curiosa e adora scoprire cose che non conosce. Ha preso una laurea in Teologia all'unipd.
- Marco si è fatto tutti i suoi possedimenti.
- Questo è solo un mio hc personale, non voglio creare fastidi e, se fosse essere necessario, sono disposta ad eliminarlo: Marco, secondo me, potrebbe essere pansessuale.
Disclaimer: Ovviamente Marco è un oc di @blogitalianissimo / @putesseessereallero
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shipisnotaboat · 3 years
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6. Célie. Balene e magie da nauti.
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La serata si annunciava piatta e noiosa, esattamente come quasi tutte le altre sessantadue di navigazione già trascorse.
Anche oggi ogni suo tentativo di avvicinare il capitano era stato eluso dal nauto, non aveva più dubbi a riguardo: lui la stava evitando.
Ogni volta che lei aveva provato a chiedergli di parlare lui aveva declinato gentilmente, l'aveva affidata al primo ufficiale e scusandosi a ruota si era infilato in cabina di comando, un posto in cui nemmeno al Principe D'Orsay era concesso entrare, poiché lì i nauti praticavano le loro presunte magie di navigazione.
Costantin aveva passato il pomeriggio tra allenamenti con Kurt e lezioni da parte di De Courcillon ed a fine giornata si era trascinato a letto quasi sui gomiti, talmente stanco da ammettere a mezza voce di soffrire quasi nostalgia di casa, per poi lasciarsi andare ad un sonno profondo.
Con un po' di fatica lo aveva spogliato di buona parte degli abiti da giorno ed aveva preso posto accanto a lui, come di consueto, ma dal canto suo non c'era stato proprio verso di prendere sonno.
Non si fece problemi a sedersi sulla schiena di Costantin per accendere il lume e recuperare il proprio blocco da disegno, in fondo se lo avesse svegliato avrebbe sempre potuto coinvolgerlo in qualche attività, lui non si sarebbe mai tirato indietro.
Prese di nuovo posto accanto a lui e lo osservò per un po' da quella prospettiva particolare, mentre Costantin si rovesciava su un fianco con la grazia di una foca male addestrata e gli abbracciava la vita, facendo del suo ventre il suo guanciale.
Senza fretta di iniziare, rimbalzò lo sguardo più volte dal foglio vuoto alla figura del ragazzo. Quella testa dura aveva voluto allenarsi senza camicia, il risultato che aveva ottenuto era una pelle più rossa di un'aragosta, che scottava al tatto strappandogli brividi e mugolii doloranti, persino nel sonno. E se lei aveva di che lamentarsi per le stesse ustioni sul volto, poteva solo immaginare cosa stesse passando il cugino.
In compenso l'allenamento del mercenario aveva dato i suoi frutti: i giochi di luce sulla pelle nuda del giovane disegnavano e mettevano in risalto una muscolatura che non c'era quando erano ragazzi ed i bagni al fiume erano concessi, nulla a che vedere con la fisionomia di Kurt, era evidente, ma comunque sufficiente a comprendere quanto il ragazzino stava iniziando ad essere un uomo.
Gli accarezzò i capelli con affetto, orgogliosa di quel principe d'oro, che nonostante i suoi difetti si sarebbe dimostrato all'altezza dell'incarico di governatore, di questo ne era certa.
Iniziò a tracciare le prime linee sul foglio, con delicatezza, per ritagliare una prima area per il suo soggetto.
Linea dopo linea un piccolo Costantin iniziò a prendere forma, ammirò compiaciuta l'effetto dei capelli sparpagliati in maniera disordinata contro le pieghe della sua camicia e la curva della spalla che si perdeva nel buio della stanza.
Un leggero bussare la fece voltare verso la porta, invitò distrattamente a parlare e riconobbe la voce del capitano che, dopo un primo attimo di esitazione, sembrò ritrovare la solita verve autoritaria da uomo di mare.
<Perdonate il disturbo signora, ma immagino che vostro cugino non volesse perdere questo spettacolo per nulla al mondo.>
Célie osservò Costantin, svegliarlo era probabilmente più pericoloso di guardare dentro la canna del fucile di una guardia dell'Alleanza, ma rispose ugualmente con tutta la sicurezza del caso.
<Saremo pronti in pochi minuti, spero ne varrà la pena.>
<Potete starne certa. Non indossate nulla che non volete bagnare.>
Qualche minuto dopo i due cugini si presentarono sul ponte. Costantin non si era ancora abituato del tutto al rollio della nave, cosa che invece Célie aveva fatto fin troppo bene. Era quasi l'alba, non pensava di aver passato così tanto tempo sveglia.
Le tre navi stavano procedendo più ravvicinate del solito, i mozzi avevano inserito delle lanterne nei boccaporti per illuminare l'acqua attorno a loro e chiunque non fosse prettamente impegnato nella navigazione si era ammucchiato insieme ai nobili ed agli altri passeggeri lungo il parapetto di manca per osservare dabbasso, tra esclamazioni esaltate e fischi divertiti.
Le luci dal basso, assieme al velo di luce rosata della prima alba erano sicuramente uno spettacolo degno di nota, ma non sufficiente per essere convocati a quell'ora.
Costantin sembrava pronto a muovere guerra al capitano, almeno a giudicare dal tono formale ed altolocati che raramente sfoderava.
<Carissimo capitano, comprendo che sia convinto che io di albe ne veda poche, ma come sa, baccaglio fino a tardi. Dun...!!!>
Non fece in tempo ad aggiungere altro, il suo sguardo fu rapito da uno schizzo d'acqua che da fuoribordo si sollevò sin sopra le loro teste e cadde, seminando goccie di una pioggia fredda e frizzante.
Il principino non perse tempo: bocca ed occhi spalancati ritrovò all'improvviso tutta la sua vitalità e si precipitò al parapetto per unirsi al coro di ovazioni non appena le vide. Come un bambino, allungò persino un braccio oltre il legno, come se potesse arrivare a toccarle, Célie si lasciò sfuggire un sorriso divertito nel vedere suo cugino tanto agitato, pregò nel suo cuore che il ruolo di governatore e gli intrighi politici non lo rovinassero.
<Sangue Verde, vieni a vedere questi pesci giganti. Ho già fame!> Kurt, sempre il solito, non si sarebbe stupito davanti a nulla. Le fece cenno di avvicinarsi e si scostò a sufficienza da permetterle di affacciarsi e osservarle a sua volta.
Balene, un intero branco. Gli animali si erano lasciati affiancare dalle navi e procedevano a ritmo dei loro inaspettati ospiti, lasciandosi guardare. Sbucavano da sotto la superficie scura, prendevano aria, soffiavano fuori acqua e tornavano ad immergersi nei flutti con la loro mole impressionante.
Possedevano una continuità armoniosa ed impressionante al tempo stesso, si muovevano una dopo l'altra seguendo la più grossa, in testa, creando l'effetto di tentacoli di una sola gigantesca creatura.
Mentre la sua mente già ingrassava nutrendosi di leggende e miti riguardo le più disparate dicerie, la voce entusiasta di Jonas annunciò per tutti <Guardate là! Al centro! Quello è un cucciolo!>
Il codazzo di nobili e faccendieri che i due principini si erano dovuti portare dietro si sciolsero in domande o versi di approvazione, i marinai invece risultavano più composti.
Preoccupata per l'assenza di una voce in particolare, Célie abbandonò il sorriso e cercò di allungarsi per vedere in mezzo a quell'accozzaglia di gente.
<Non vedo Costantin…>
Kurt, ben più alto di lei, lo individuò con maggiore sicurezza.
<Tranquilla Sangue Verde, non è saltato in mare per accarezzare quelle bestie. È con De Courcillon, credo che gli stia spiegando in quanti modi può farsi servire in tavola queste bestiole.>
Célie roteò gli occhi al cielo. Aprì la bocca per parlare ma improvvisamente la Cavalcaonde prese una brusca virata verso dritta nel tentativo di prendere distanza dal branco e dalle altre navi, spedendo qualche nobile con le natiche sul ponte, a lamentarsi del caprone al timone.
Célie stessa fu sorretta da una mano di Kurt.
<Gentili e nobili signori, sono spiacente di informarvi che lo spettacolo è appena terminato!> Dal timone la voce di Vasco intento a manovrare la ruota in tutta fretta. <Dobbiamo cambiare rotta e dovreste tornare tutti sotto coperta. Immediatamente.>
Uno dei nobili, un mercante ben pronto a lucidarsi le piume di fronte al futuro governatore, provò a questionare.
<Siete impazzito capitano? Il mare è calmo, le nuvole sono lontane. Ci avete quasi ammazzati, e non vedete che il principe stava contemplando quelle bestie?>
<Quelle sono balene.> Chiarì il capitano alle prese con il timone, una sola, piccola porzione della sua attenzione era dedicata all'uomo, il suo sguardo restava concentrato su quelle nuvole come una sentinella.
<Ho chiamato personalmente sua altezza, ma sta per arrivarci addosso una tempesta, è cambiato il vento.>
Insistette ancora, leggermente più autoritario. Il capitano era abile a stabilire entro quali limiti muoversi per rivolgersi ai nobili, ma non sempre il suo ruolo era rispettato a dovere, e la cosa iniziava ad appesantire i viaggi del nauto, questo Célie era riuscita a percepirlo.
<È pericoloso stare qui, se qualcuno di voi dovesse cadere in mare non farei in tempo a dire ai miei uomini di tuffarsi per ripescarvi.>
<Ma cosa state dicendo capitano.> L'uomo aveva ottenuto l'attenzione ed il malsano supporto di buona parte dei nobili, Célie notò che i nauti si erano subito messi in movimento, raggiungendo posti che il capitano andava indicando tra una stilettata e l'altra del nobile. Fece cenno a Kurt di seguirla e si fece largo fino a raggiungere Costantin, seduto a terra, nei pressi del loro vecchio maestro.
<Guardate, il mare è quasi calmo, le nuvole stanno andando nella direzione opposta!> Continuò il nobile.
Célie osservò le nuvole, inizialmente non trovò nulla di strano, ma qualcosa nel loro moto non era regolare, non come le onde che aveva osservato poco prima o come le balene ed il loro sbucare fuori dall'acqua.
Lo stesso branco sembrava essersi inabissato, forse spaventato dallo scatto improvviso delle navi. Probabilmente si stava lasciando suggestionare, ma il fatto che sui ponti scoperti delle altre navi intravedesse scene simili, la indusse ad affidare un po' di fiducia al tanto decantato Capitano.
<Costantin…> gli sussurrò <credo che il capitano abbia ragione. Dì qualcosa a questa gente prima che la situazione sfugga di mano.>
Il principino osservò sua cugina in volto, le sorrise, decisamente più cinico a riguardo ma decisamente ben disposto a lasciarsi manipolare da lei. Si rimise in piedi e lisciò il suo farsetto da viaggio, sistemò i capelli e cercò persino di non barcollare troppo per il rollio della nave, intromettendosi nel discorso con l'opportuna dose di spocchia da sangue blu.
<Signori, su questa nave la parola del capitano vale quanto quella del principe, dovreste obbedirgli senza discutere. O devo aspettarmi una ribellione una volta raggiunta l'isola?>
La voce alta, il tono che non ammetteva repliche, o forse le sue parole smorzarono davvero qualche animo e non pochi iniziarono a sciamare verso i ponti inferiori, lasciando di fatto i nauti liberi di agire con maggiore libertà.
Vasco osservò stupito i due cugini, ma tornò in fretta ad occuparsi del timone, le onde iniziavano in effetti a farsi più arroganti contro la chiglia. Fu stranamente delicato quando Célie si avvicinò.
<Siete certo di quello che dite capitano?>
<Noi nauti usiamo alcune magie per navigare. Ma ora non c'è tempo per spiegarvi, signora. Andate in cabina e chiudete gli scuri. Si ballerà un po' ma sarete al sicuro.>
Célie decise che non era il caso di ribattere. Ed il tono più premuroso usato da Vasco lasciava intendere come in qualche modo lo avesse colpito quel suo intercedere a suo favore.
Di nuovo in cabina, dopo aver eseguito gli ordini del capitano, iniziò a dubitare di aver fatto bene a dargli retta. La nave rollava un po', certo, ma una tempesta era cosa ben differente. Costantin trovò il ritratto e lo osservò, poi chiede perplesso <sono io?>
Célie sorrise <ti pare Kurt?>
<Dovrei metterlo al posto di quei ritratti così piatti e ordinari con cui continuano a tappezzarci le sta…> non fece in tempo a finire la frase, la nave piegò pesantemente di lato, spedendolo lungo e steso sul letto, Célie dovette afferrare una delle pareti per non sbatterci diretta la faccia.
L'intera struttura sembrò vibrare, emise un sinistro scricchiolio, poi la piega fu inversa e la nave iniziò a dondolare senza sosta.
La luce aveva smesso di filtrare dalle intercapedini negli scuri, salvo un unico bagliore seguito da un botto quasi immediato, non proprio lontano.
Il capitano ci aveva visto giusto, e se quella tempesta non gli stava passando sopra probabilmente non era molto lontana.
<C...Costantin stai bene?>
Il ragazzo tirò su la faccia, era verde nonostante l'abbronzatura, e cercava di arrancare e girarsi, come una tartaruga rovesciata sul guscio.
<Sto per…>
<Non sul letto ti prego…> gemette lei, naso arricciato, mentre arrancava. Aveva trovato un equilibrio molto precario, messo in difficoltà da bagagli e altri accessori che vagavano da un lato all'altro della stanza, accasciandosi o rotolando sul pavimento.
Célie quasi inciampò, ma riuscì a raccattare da terra almeno una delle vaschette in ceramica della quotidiana, un po' ammaccata, ma meglio che nulla <resisti ci sono quasi>.
Riuscì ad incastrarsi tra il letto ed una parete, abbandonata la vaschetta a terra poté finalmente usare entrambe le mani per aiutare il cugino.
Quel rollio andò avanti per un tempo indefinito, Costantin smise in breve di svuotare lo stomaco di ciò che restava della cena e della bevuta con Kurt, poi decise di non volersi mai più alzare da quel letto.
<Ricordami… di arrestare tutte le navi… appena arriviamo.>
<Certo cugino. Le ammanettiamo e le portiamo tutte in cella.> Lo schernì lei, con un tono fintamente serio ed un bacio sulla testa.
A mare ormai calmo e con Costantin addormentato soppesò l'idea di un cambio: pantaloni e farsetto avevano conservato ben poco del colore originale, ma prima che potesse spogliarsi un ennesimo bussare la convinse ad andare alla porta.
<Signora. Eccellenza. Va tutto bene?> Di nuovo il capitano.
Questa volta Célie decise di aprire la porta per parlargli, se lo trovò davanti. Qualunque fosse il motivo per cui l'aveva evitata per tutto il tempo sembrava essere riuscito a metterlo da parte per un po', una piccola tregua che le permise di cogliere un aspetto più umano nel giovane.
<Mio cugino ha patito il mare. Ma stiamo bene, si riprenderà in breve.>
Vasco annuì, le mani unite dietro la schiena ben dritta e le gambe appena divaricate in una posa composta, marziale quasi.
<Mando qualcuno a pulire la cabina. La tempesta è passata, siamo riusciti ad evitarla. Ci ha solo sfiorati.>
Il capitano abbassò lo sguardo per poi risollevarlo appena dopo <Io… devo ringraziarvi per aver convinto vostro cugino a parlare così prima. Ha evitato a molti passeggeri di ferirsi. O peggio.>
Célie piegò la testa di lato, cercando di mantenere almeno un minimo quell'aspetto altero che competeva al suo rango. Tuttavia era difficile non subire almeno in parte il fascino del capitano.
<Costantin ha fatto la cosa giusta, ma siete voi che meritate una lode. Le voci su di voi non vi fanno abbastanza giustizia. Siete davvero un ottimo capitano.>
Lui ringraziò, ma sembrò voler riflettere su quell'affermazione. Era pronto a congedarsi ma lei lo trattenne aggiungendo <ho bisogno di chiedervi una cosa.>
La reazione di Vasco fu inaspettata: per quanto la invitasse gentilmente a parlare le rivolse uno sguardo deluso e rassegnato al tempo stesso, ma la domanda di lei lo costrinse a scattare indietro con il capo e sgranare brevemente gli occhi per lo stupore.
<Ho come l'impressione che abbiate voluto evitarmi sino ad ora. È perché ho chiamato barca la vostra nave?>
<Cos…? No. No.> Il nauto scrollò il capo ed abbassò la voce. <È solo che non mi trovo molto a mio agio tra i nobili, tutto qui. Vi chiedo scusa se sono risultato scortese.>
<Vi capisco, buona parte dei nobili sono davvero fastidiosi.>
<In ogni caso, voi mi sembrate diversa. Perdonatemi davvero.> Una breve pausa per prendere fiato, Célie sembrò volergli scavare nell'anima con lo sguardo, aveva fiutato che non era stato del tutto sincero. Non nelle scuse, ma qualcosa in quelle motivazioni risultava fin troppo superficiale rispetto alle reazioni del nauto, che aggiunse <Fortunatamente mancano pochi giorni al termine del viaggio. Riguardatevi signora, e riportate i miei saluti a vostro cugino, di grazia.>
Un cenno al cappello da parte sua, poi si allontanò lasciandola affondare in un certo sconforto: al termine del viaggio li avrebbe scaricati, loro avrebbero iniziato una nuova vita sull'isola, lui sarebbe semplicemente ripartito e sparito tra i flutti.
Non si sarebbero mai più incontrati, e considerato quanto il pensiero sembrava turbarla, era meglio così.
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the-flowerman · 3 years
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Al mondo esistono due tipi di intenditore, il Mercante e l'Antiquario. Entrambi vanno nelle fiere e nei mercati a cercare qualcosa per se stessi. Il mercante e' attirato dalla merce sui banchi e compra senza vedere bene il valore di quell'oggetto, ma solo per un tornaconto personale, mentre l'antiquario passeggia in silenzio, scruta osserva…lui non è come il mercante che fa della merce il suo vanto e trofeo per mostrare la sua grandezza, il mercante è solo un uomo che compra per esibire. L'antiquario ci mette ore per decidere... i lustrini, le luci, i profumi non gli interessano. Lui cerca la rarità, quel qualcosa che è solo suo, che solo lui deve avere. Lui respira annusa e non si perde tra le mercanzie. Lui vuole l'aroma, non il profumo di una pelle. Lui vuole la qualità, non la quantità. Sceglie ciò che è dimenticato da chiunque, deve sentire il sapore, l'unicità. La preziosità che ambisce un uomo antiquario..nessun uomo mercante può permettersela.
L'esclusiva è per pochi.
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corallorosso · 4 years
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L'infermiere attacca Salvini sulla mascherina e il Sindacato rilancia: "Abbiamo combattuto il Covid e poi..." Capitan Nutella facendo il Bolsonaro padan-sovranista potrà ingannare i beoti ma non chi sta in prima linea sul fronte sanitario: il Sindacato degli Infermieri Italiani, in una nota dei suoi vertici nazionali, esprime il pieno appoggio all'infermiere milanese di 48 anni che, con un post, ha attaccato il leader della Lega, Matteo Salvini, sulla questione dell'importanza dell'uso delle mascherine e ribadisce la sua "indignazione per la superficialità di una classe politica che non smette di sorprendere in negativo". "Non è un caso che da un semplice post 'di rabbia' di un infermiere 'figlio' di quella Lombardia che più degli altri ha sofferto il dramma Covid, uno di noi, un soldato che ha combattuto al fronte senza paura, si sia scatenata una reazione a catena 'virale' che da qualche giorno infiamma il web. E non è un nemmeno un caso che tanti dei commenti che arrivano dalla rete non provengono solo dal mondo sanitario, ma in particolare anche dalla società civile. Agli occhi degli infermieri italiani che hanno lottato in prima persona contro il 'mostro" della Pandemia non può passare inosservato l'atteggiamento superficiale dei nostri esponenti politici". "il Signor Matteo Salvini, che tra l'altro nel recente passato aveva mostrato comprensione e solidarietà' per la causa degli operatori sanitari, oggi si permette di 'snobbare' l'importanza della mascherina rifiutandosi di indossarla in Senato: l'ennesima pugnalata alle nostre spalle da parte di una classe dirigente lontana anni luce da quello che dovrebbe essere il modo corretto e sano di fare politica. Noi, oggi, come Sindacato degli Infermieri Italiani, ci sentiamo in dovere di fare nostri in pieno i sentimenti di frustrazione e dolore di chi assiste ad atteggiamenti del genere. Quella classe politica che dovrebbe fare da garante, tutelare i nostri diritti di uomini e lavoratori, contribuire alla cultura della tutela della salute e che invece si mostra cieca e indifferente di fronte al dolore di chi ha lottato e alle legittime richieste di chi non si rassegna a un destino da 'ultimi'". "Non ci piace nemmeno che il post di Paolo Baldini, si chiama cosi' l'infermiere milanese di 48 anni che ha legittimamente attaccato Salvini, sia poi diventato uno strumento politico per la 'finta' solidarietà dei partiti avversi alla Lega: loro che stanno al Governo la solidarietà dovrebbero dimostrarla ascoltando le richieste di valorizzazione che aggiungono da parte degli infermieri, sarebbe uno dei loro doveri principali, eppure fanno orecchie da mercante; certo, alla fine viene meglio limitarsi ad un pizzico di questa presunta solidarietà', alla fine quella non costa nulla e, soprattutto, aiuta pure a combattere il nemico". "Non ci piace nemmeno il recente dietro front del leader del Carroccio, che per salvare la faccia ha esortato i giovani a indossare la mascherina. Non ci stiamo a questo gioco sulla nostra pelle, sulle nostre vite! Noi abbiamo vissuto il Covid voi non sapete nemmeno cosa sia! Noi abbiamo combattuto il Covid, lo abbiamo affrontato da buoni soldati, non sempre uscendo vincitori ma senza mai recedere di un solo passo! Noi che eravamo in trincea senza nemmeno le armi di difesa, noi che dovevamo indossare camici da macellaio quando non avevamo alternative! Al di sopra di questo squallido teatrino, il volto di noi infermieri sofferenti ma combattivi e mai domi non dovreste dimenticarlo mai! Perché è il volto di chi ha sorretto con le proprie mani il peso dell'emergenza! E allora diciamolo con forza: Noi infermieri italiani siamo tutti Paolo Baldini! globalist
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Abilismo: un mix di abusi, ignoranza e pregiudizi
Ho deciso che devo assolutamente scriverci su qualcosa, che devo buttar fuori i pensieri altrimenti finirò risucchiata in questo vortice di emozioni negative senza fine.
Che io sia una rompiscatole, precisina che guarda al pelo nell’uovo, non c’è dubbio oramai; è anche vero però, e bisogna dirlo a chiare lettere, che una buona fetta della popolazione ritiene che il disabile sia una persona angelica, asessuata e soprattutto eternamente fanciulla.
Ah finalmente ora che l’ho messo nero su bianco senza troppi giri di parole - strano ma vero, per i miei standard -, posso sfogarmi senza alcuna vergogna. Perché a vergognarmi non devo essere io, ma la pochezza umana e la superficialità di taluna gente che, nonostante la professione che riveste, non ha alcuna idea di come rapportarsi all’altro cosiddetto “diverso” dalla norma.
Ognuno di noi è diverso, ma alcuni lo sono più di altri per la società in cui viviamo, e bisogna dirlo senza dover essere necessariamente politically correct di sto cavoletto 🙄. Ne ho fin sopra i capelli degli abusi di posizione, dei preconcetti sbagliati, dei pregiudizi che aleggiano nel tessuto sociale e, se appaio drastica, scontrosa e presuntuosa, beh me ne frego.
Ah sì, l’ho detto: me ne sbatto altamente perché la vita è mia e, se rivesti un ruolo qual è il medico, devi rispettarmi in quanto persona e non rapportarti a me fra atteggiamenti prevenuti e pietismo rarefatto come nebbia.
Ieri ho dovuto, passatemi il termine, subire una visita ginecologica con annesso pap test, prescrittomi non solo per l’età (dai 25 anni in su è raccomandabile farlo per la prevenzione del carcinoma del collo dell’utero) ma anche per fare il punto della situazione considerando la mia vescica sempre più strafottente e anarchica; eppure la cosa più sconvolgente di tutte, non è stato l’esame, ma proprio l’atteggiamento della ginecologa in questione. Certo, simili visite non sono mai una passeggiata per nessuna, ma se davanti in quei momenti di panico e imbarazzo, ti ritrovi una professionista con la delicatezza di un elefante narcolettico e dai modi discutibili, beh il tutto si ingigantisce trasformandosi in un vero e proprio incubo ad occhi aperti.
A farla breve, la tipa in questione prima di visitarmi, com’è giusto che sia doveva compilare un’anamnesi dettagliata della mia persona; eppure nonostante io parli e a detta di molti anche con cognizione - dopo 26 anni di camici bianchi direi che ho una certa cultura -, la suddetta imperterrita si rivolgeva a mia madre che muta lasciava parlassi io al suo posto...che poi era il mio ma vabbè. Insomma sembrava di essere in una commedia alla Aldo, Giovanni e Giacomo, ma non tanto spiritosa come avrei desiderato.
Ad un certo punto le ho finanche fatto notare che parlo, ma penso che fra le due la minorata sensoriale e non solo, fosse lei 🤦🏻‍♀️.
Dopo questo assurdo teatrino, e fra vari aggiustamenti del caso su quel lettino infernale - ah l’essere curva mignon non aiuta -, ecco che arriva il momento topico, trasformatosi in un vero e proprio dramma un po’ troppo alla Hitchcock. In parole povere, per una brutta manovra mi ha lesionata fin troppo profondamente, dando però la causa alla “piaghetta” che sta lì indisturbata da sempre, ma vabbè 🙄.
Il top lo ha raggiunto invece quando, dopo avermi massacrata, con un sorriso attira sberle, mi guardata e mi ha fatto: “Dai però sei stata brava”.
Brava a far che?
A non mandarla a quel paese?
A non mandarla male a lei, alla sua maestria e al suo bagaglio di pregiudizi ingombranti?
Praticamente sto vivendo un secondo ciclo in neppure due settimane. Sono dolorante, stanca, esausta, mi sento come se mi fosse passata addosso un’intera mandria di bufali imbizzarriti e incazzata nera nel constatare che al giorno d’oggi esista ancora gente affetta da una simile ignoranza.
Perché sì, questo è un vero e proprio episodio di ignoranza pura, di discriminazione in quanto, tale professionista - e sono buona - ha deliberatamente ignorato le mie capacità comunicative e espressive in nome di un pregiudizio verso le persone con disabilità.
Ecco cos’è l’abilismo, e purtroppo nel 2020 ancora aleggia indisturbato nella società che continua a fare orecchie da mercante.
Io ho deciso però di non chinare più il capo, ma di denunciare certi episodi parlandone a più non posso, con chiunque viva o meno sulla propria pelle tali realtà. Solo così si può lottare contro i pregiudizi, smascherandoli a manetta, sempre e comunque senza alcuna vergogna.
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pangeanews · 4 years
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“Non hai idea della mia totale infelicità dal giorno in cui mi sono separato da te”. Byron a Venezia: le avventure del poeta seduttore tra Marianna (“un’antilope”), Margherita “la tigre” e la contessa Teresa, sedicenne
Poeta di Childe Harold e dei celebri “racconti turchi” che diffondono per l’Europa la ‘moda’ dell’eroe byroniano in una quasi contaminazione estetica, Byron è anche straordinario personaggio, tra i primi a capire meccanismi e risvolti del fenomeno mediatico (per dirla in termini contemporanei). Provocatore e in lotta con l’establishment di cui pure fa parte – “I was born for opposition” dichiara in Don Juan –, crea la propria leggenda di uomo-dio, dalla vita pericolosa e affascinante.
Innamorato dell’Italia e di Venezia in particolare, in Italia Byron vive un periodo straordinario: con Childe Harold passa dalla stanza spenseriana all’ottava rima, legge Tasso, Boiardo e Pulci, oltre naturalmente al “gran padre Dante”, e fa propria l’ottava al punto da trasformarla, tout court, nella ‘stanza byroniana’. A Venezia conosce poi il suo ultimo amore.
Ci arriva il 10 novembre 1816, provenendo da Milano e prima dalla Svizzera, dove ha conosciuto ed è stato a lungo con gli Shelley sul lago di Ginevra. Dall’Inghilterra si è voluto allontanare in “esilio volontario” – lo dirà nelle lettere agli amici e all’editore – per la serie di scandali addensatisi con clangore di tempesta sul suo matrimonio con la rigida e devota Isabella Millbank, “la principessa dei parallelogrammi”, matrimonio finito dopo solo un anno e la nascita della piccola Ada, nonché altre ‘complicazioni’ private, la breve relazione catastrofica con la chiassosa Caroline Lamb e il legame felice ma impossibile con la sorellastra Augusta.
Il suo proposito è restare in Italia l’inverno e la primavera del 1816, quindi rientrare nell’isola. Echi della madrepatria lo raggiungeranno con le visite degli amici – Shelley, John Cam Hobhouse e altri –, ma non rivedrà più l’Inghilterra, né la figlia. Con lui resterà fino alla fine solo il fidato factotum John Fletcher.
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A Venezia intreccia velocemente amicizie e relazioni amorose. La città gli si confà: Byron l’ama ancora prima di trovarvi asilo grazie alle letture, esperienze letterarie e libri di viaggio molto richiesti dai cosiddetti armchair travellers, i “viaggiatori in poltrona”. Venezia per lui è ancora Serenissima: l’atmosfera di libertà totale cittadina favorisce tutte le sue fantasie, dalle donne al Carnevale, dalle gite in barca alle feste e i teatri, alle bizzarrie estreme delle sfide a nuoto nel Canal Grande.
Ma a Venezia il mitico Lord anche scrive, e moltissimo: Manfred, il “poema metafisico” come lo chiama, The Lament of Tasso, il Canto IV di Childe Harold dedicato all’Italia, Beppo, A Venetian Story e l’Ode to Venice, The Prophecy of Dante, Mazzeppa e il caustico Don Juan.
È tra l’altro un puntuale, copioso, divertente autore di lettere: racconta la sua vita veneziana agli amici rimasti in Inghilterra in un furor scribendi sorprendente per il numero di epistole giornaliere (i 17 volumi dell’edizione Murray diventano 12 nell’edizione Marchand, che firma anche l’eccellente biografia in tre volumi). Una prosa torrentizia e non sorvegliata, avvincente, piena di spontaneità e senso dell’umorismo – talvolta più appunti che vere e proprie lettere – riferisce il tourbillon di amanti, feste e incontri, il ritorno a casa in piena notte con una fiaccola retta in bocca per non farsi travolgere dalle gondole, la vita grandiosa nei palazzi.
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Alcune contengono struggenti descrizioni di Venezia, come in questa velata dallo schermo shakesperiano: “Venezia è sempre stata (accanto all’Oriente) l’isola più verde della mia immaginazione. Non mi ha deluso, malgrado la sua evidente decadenza. Ma io sono troppo abituato alle rovine per non amare la desolazione. Inoltre mi sono innamorato, il che, dopo il cadere in un canale, è la cosa migliore o forse peggiore che potessi fare. Ho trovato appartamenti molto belli nella casa di un ‘Mercante di Venezia,’ assai occupato dai suoi affari, e con una moglie di 22 anni. Marianna (così si chiama) somiglia a un’antilope. Ha occhi grandi, neri, orientali (…) pelle chiara (…) capelli ricci castano lucido…” (Byron’s Letters and Journals, BLJ 5, a Thomas Moore, 17 novembre 1816).
Marianna Segati è la prima delle sue frequentazioni femminili veneziane. All’amico Moore scrive di lei e altre amanti, del palco che ha preso alla Fenice, del Carnevale, le feste e le dame conosciute, non ultima la Contessa Albrizzi, nella cui casa ammira l’Elena di Canova. E intanto, “ogni mattina vado con la mia gondola a parlottare armeno con i frati del convento di S. Lazzaro” (24 dicembre 1816), perché vuol imparare l’armeno ma anche il veneziano, attratto dalla musicalità delle sue sonorità aperte comuni alla nostra lingua, che parla piuttosto bene:
Amo la lingua, quel dolce Latino bastardo, Che si fonde come baci sulla bocca di una donna, E risuona come fosse scritto sul raso, Con sillabe che respirano del dolce sud (Don Juan xviv)
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Al suo editore, John Murray, Byron mostra invece una Venezia spazio letterario, prisma della sua fantasia di lettore: “è un luogo poetico; e classico, per noi, da Shakespeare ad Otway” (5 dicembre 1816). La sua visione della città è nell’ossimoro “cupa allegria” e silenzio di canali, calli e campielli: “Venezia mi piace quanto mi aspettavo, e mi aspettavo molto. È uno dei luoghi che conosco ancora prima di averli visti, e che mi ha sempre affascinato (…). Amo la cupa allegria delle sue gondole, e il silenzio dei suoi canali. Né disdegno l’evidente declino della città, rimpiango la particolarità dei loro costumi passati, sebbene molti sopravvivano”. Ma poi, comunque, “Carnevale sta per iniziare” (25 novembre 1816) e lui uscirà ogni sera, “in my cloak & Gondola, in tabarrato e gondola” (ad Augusta, 19 dicembre 1816).
Questa corrispondenza spesso si declina in vorticose girandole di arguzie: “e poi c’è piazza San Marco – e le conversazioni – e varie buffonerie…” (ad Augusta, 19 dicembre 1816); “ieri sera ero in casa del conte governatore che, naturalmente, comprende la migliore società, molto simile a raduni simili in ogni paese – e nel nostro – tranne che, invece del Vescovo di Winchester, trovi il Patriarca Venezia…”; dopo la pièce sul sacrificio di Isacco “han chiamato fuori l’autore – secondo il costume continentale – e lui si è presentato, un nobile veneziano, Mali – o Malapiero, di nome. Mala era il nome, e pessima [in italiano] la rappresentazione” (a Moore, 24 dicembre 1816). Questo al teatro Benedetto, ma “il teatro La Fenice (è) il più bello ch’io abbia mai visto …” (a Murray, 27 dicembre 1816
Solo con Augusta il canovaccio del perfetto e cinico viveur, amante imperterrito dalla sfrenata vita veneziana, si strappa a volte in sincerità: “Sciocchina mia cara – (…) non hai idea della mia totale infelicità dal giorno in cui mi sono separato da te…” (18 dicembre 1816).
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Nel Canto IV di Childe Harold inserisce il suo inno appassionato a Venezia. L’annuncia all’editore Murray da Mira, nella campagna dell’entroterra veneziano dove trascorre il periodo più caldo dell’estate. Là, con la compagnia di amici “siamo esattamente una commedia di Goldoni” (14 luglio 1817). Al buonumore si avvicenda la serietà – “Considero Childe Harold la mia opera migliore” (15 settembre 1817) –, e la minuziosità delle note che accompagnano il Canto testimonia la sua passione per storia, costumi e carattere dei veneziani.
In versi molto noti racconta una Venezia incantata, nata dall’acqua per virtù d’incantesimo:
I stood in Venice, on the Bridge of Sighs… Stavo a Venezia, sul Ponte dei Sospiri, Da un lato un palazzo, dall’altro una prigione: Vedevo sorgere dalle onde i suoi edifici, Come al colpo d’una bacchetta magica. Mille anni mi stendono intorno le ali di nebbia … (IV 1)
E qui Byron fissa d’ora in poi l’“atteggiamento letterario” del viaggiatore contemporaneo verso Venezia: chiunque intraprenda il Gran Tour e abbia letto questo Canto arriva a Venezia con una copia del Childe Harold sotto il braccio – scriverà Ruskin – indicando anche nel Ponte dei sospiri il centro ideale della Venezia byroniana.
E tuttavia non parla della Venezia che vede tutti i giorni, ma una città già consegnata al passato, diventata già leggenda:
A Venezia ora non sono più gli echi di Tasso; E silenzioso il gondoliere voga senza più cantare, I suoi palazzi si dissolvono in mare E la musica non accarezza l’orecchio; Quei giorni sono passati per sempre, ma la Bellezza rimane. (IV 3)
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È la stessa operazione di Beppo, A Venetian Story: mentre ricrea una Venezia priva di abitanti vivi e reali – “Per noi lei conserverà il suo incanto più a lungo / Del suo nome nella storia…” – la popola di “ombre possenti”, i dogi del passato splendido e le figure letterarie associate a Venezia, Shakespeare e Otway, “Shylock, Otello, il Moro” (iv 4):
Gli esseri creati dalla mente non sono di polvere: Nella loro essenza immortali, (…) muovono l’esistenza che più amiamo (IV 5)
Sono “rifugio”, “sentimento” e“terra d’incanti”, alla pari solo con le costellazioni dell’“universo impetuoso” della Musa (iv 6). Immagini che commuovono e legano: “Le ho viste o sognate”: “arrivate come vere – sono scomparse come sogni” (iv 7).
Chiudendo sulla nota della nostalgia il Canto si ripiega in sé, come tornasse al punto di partenza:
Ho sempre amato Venezia, fin da fanciullo: mi Sembrava una città incantata del cuore, Fatta di mura e colonne d’acqua che salgono dal mare, (…) dei momenti più felici Che tramano il tessuto della mia esistenza, Alcuni sono tinti dei tuoi colori, o Venezia! (IV 18)
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Da sempre amante del mare, a Venezia Byron ‘scopre’ il Lido. Ne è tra i primi, entusiasti estimatori e tra le molte mode da lui “lanciate” c’è anche questa del Lido, “in tutta la gloria di un azzurro cielo italiano” (a Murray, 14 aprile 1817).
Vicino all’antico fortino di S. Nicolò tiene alcuni purosangue arabi: quasi ogni giorno e da solo, va a galoppare in riva al mare fino a Malamocco. La spiaggia è – anche oggi – oro, erbe lunghe che crescono spontanee sulle dune, ardere di tramonti viola in mare aperto.
Nel 1818 è suo ospite Shelley, che ricorderà le passeggiate a cavallo e la loro amicizia nel poemetto Julian e Maddalo. Julian è Shelley, Maddalo è Byron, e così doveva essere il Lido, agli inizi dell’800:
Cavalcavo una sera con il Conte Maddalo Sulla striscia di terra che rompe il flutto Dell’Adriatico verso Venezia. È una brulla spiaggia Di dune, modellate dalla sabbia sempre in movimento, Cosparsa di cardi ed erbe acquatiche, Che la melma salata fa nascere dall’abbraccio con la terra; Un luogo di mare disabitato, Che persino il pescatore solitario, asciugate le reti, Abbandona…
Il Lido è all’epoca una distesa brada, spezzata solo da rari arbusti, qualche legno sbiancato dal mare. Accanto, la marea crea lingue di terra piatta, “Dove ci piaceva cavalcare al crepuscolo”:
Nell’aria assolata le folate di vento Alzavano la viva spuma marina Fino al viso; vuoto era il cielo azzurro, Striato in lontananza dal nord che saliva …
I cavalli con le zampe immerse nell’acqua, spruzzi tra gli zoccoli, gocce sollevate nel sole: “Quel giro a cavallo era la mia gioia”. I due vanno vicini e parlano, “e veloce il pensiero, / Intrecciato alle risate (…) volava da una mente all’altra”, come l’amore per ogni luogo “spaziato e solitario”, dove il cuore prova
La gioia di credere che quel che vediamo È sconfinato, come vorremmo le nostre anime …
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Nella primavera dello stesso 1818 Byron si è nel frattempo trasferito a Palazzo Mocenigo: ha bisogno di più spazio per il suo complicato e fantasioso ménage che include adesso il gondoliere Tita (Giovanni Battista Falcieri), un omone vigoroso affiancato al prezioso Fletcher, dei domestici e di lì a poco anche Allegra, la bambina nata dalla relazione-lampo con Claire Clairmont, sorellastra di Mary Shelley. Fanno inoltre parte della ‘famiglia’ molti cani, svariati uccelli, due “affascinanti scimmie”, una volpe, un lupo e “la tigre”.
Con il trasferimento a Palazzo Mocenigo termina la relazione con Marianna e inizia per lui una vita agitata in cui frequenta ancora molte donne, la più importanti delle quali è Margherita Cogni, detta “la Fornarina” o, appunto, “la tigre”.
Margherita, che frequenta il palazzo nel ruolo di “donna di governo”, è una seducente virago di 22 anni, “molto scura di carnagione – alta – viso veneziano – occhi neri molto belli – e certe altre qualità che non serve menzionare. – (…) una vera veneziana nel suo dialetto – la sua mentalità – il contegno – in ogni cosa – con tutta la loro ingenuità e l’umorismo buffonesco – e inoltre non sa né leggere né scrivere – e non può affliggermi di lettere”.
Alla giovane non mancano certo spirito o dialettica: “Quando l’ho conosciuta avevo una “relazione” [in italiano] con la Signora Segati – che una sera a Dolo è stata così sciocca (…) da minacciarla – perché i pettegoli della Villeggiatura [in italiano] – avevano già scoperto (…) che “cavalcavo spesso a notte fonda” per incontrare la Fornarina. – Margherita (…) le ha risposto in veneziano molto esplicito – “Tu non sei sua moglie; io non sono sua moglie – tu sei la sua donna – e anch’io sono la sua donna – tuo marito è un cornuto – e il mio fa il paio; – perciò che diritto hai di rimproverarmi?”.
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Purtroppo però è anche “selvaggia”, spia le sue lettere in un crescendo di possessività, cerca più volte di stabilirsi a palazzo Mocenigo: Byron si sforza di far ragionare “la dolce tigre”, il marito viene a cercarla, la polizia interviene e lei deve “tornare da quel “becco Ettico” [in italiano], ossia il “povero uomo malato di tisi”. A lei si devono alcuni episodi formidabili, come il racconto del violento temporale che sorprende Milord in barca, verso il Lido:
“Un giorno d’autunno stavo andando al Lido con i miei gondolieri – ci sorprese una burrasca che mise in pericolo la Gondola – via volarono i cappelli – l’imbarcazione piena d’acqua – perduti i remi – mare in tumulto – pioggia a torrenti – notte imminente – & vento che cresceva ogni minuto. – Al ritorno – dopo una fiera lotta, la trovai sui gradini di Palazzo Mocenigo prospicienti il Canal Grande – i grandi occhi neri fiammeggiavano tra le lacrime e i lunghi capelli scuri le ruscellavano gonfi d’acqua sul viso & sul petto; – era completamente esposta alla tempesta – il vento che gonfiava i capelli e il vestito avvolto all’alta figura – e i lampi che le sfolgoravano vicino e le onde che le rullavano ai piedi la facevano somigliare a Medea o alla Sibilla della tempesta che le ruggiva attorno – il solo essere vivente nel canale, a parte noi. – Vedendomi salvo non aspettò di salutarmi come credevo, ma mi gridò contro: “Ah! Can della Madonna xe esto il tempo per andar al Lido? [in italiano]”, si precipitò in casa e prese a divertirsi rimproverando i barcaioli perché non avevano presagito il “temporale”. – I domestici mi hanno detto di essere riusciti a impedirle di venire a cercarmi in barca – grazie al rifiuto di tutti i gondolieri del Canal Grande di uscire in un tempo simile e allora si è seduta sui gradini nella furia della tempesta– e nessuno è riuscito a smuoverla o calmarla. – La sua gioia nel rivedermi – così mista a ferocia – m’ha dato l’idea di una tigre che stesse riacquistando i suoi cuccioli”.
L’attaccamento veemente non basta ad ogni modo a tenerla a palazzo: Margherita “è diventata ingovernabile”, constata Byron. L’ennesima lite, in cui lei impugna un coltello, porta la storia all’epilogo – con una coda inaspettata: “Se intendesse usarlo contro di me o contro di sé non so – probabilmente contro nessuno dei due – ma Fletcher l’ha afferrata per le braccia – e disarmata. – Poi ho chiamato i miei barcaioli – perché approntassero la barca per ricondurla a casa sua – assicurandosi che non combinasse altri guai nel frattempo. – Sembrava molto tranquilla e scese le scale. – io ripresi la mia cena. – abbiamo sentito un gran rumore – (…) si era gettata nel Canal Grande…”. (BLJ 6, a Murray, 1agosto 1819)
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Agli inizi di aprile 1819, nel salotto di Isabella Teotochi Albrizzi il poeta conosce Teresa Gamba, solo sedicenne, il giorno del suo matrimonio con il Conte Guiccioli: “Mi sono innamorato di una contessa Romagnuola [in italiano] di Ravenna (…) – e ho speranze Signore – speranze – ma lei vuole che vada a Ravenna – & poi a Bologna – ora questo andrebbe benissimo se avessi certezze – ma per semplici speranze – se mi dovesse piantare – e io dovessi far “fiasco” [in italiano] – non potrei mai più mostrar la faccia in Piazza” (Byron qui scrive “if She should plant me and I should make a “fiasco”, traduzione letterale, sebbene scorretta del gergale “piantare”, “mollare”). La lettera prosegue: “il Conte è tremendamente ricco – (…) – ma ha cinquant’anni ed è bizzarro – ha due altre mogli e figli prima di questa terza – una bella ragazza bionda uscita l’anno scorso dal convento – che sta facendo il suo secondo giro di Conversazioni [in italiano] a Venezia – (…) È bella – ma non ha tatto – risponde a voce alta – quando dovrebbe sussurrare (…) – e proprio questa sera ha fatto inorridire una composta compagnia in casa della Benzoni chiamandomi con un urlo “Mio Byron”, ben udibile in una pausa di assoluto silenzio (…) – Tra i suoi presupposti è che non dovrò mai lasciare l’Italia; – non desidero lasciarla – ma non vorrei nemmeno esser spiattellato in comune Cicisbeo. – cosa farò! Sono innamorato – e stanco del concubinaggio promiscuo…” (a John Hobhouse, 6 aprile 1819).
Così lo descrive invece lei, Teresa, nelle sue Memorie, scritte in francese molti anni dopo: “Il suo contegno nobile e squisitamente attraente, il tono della sua voce, le sue maniere (…) lo rendevano così diverso e superiore a chiunque altro avessi incontrato prima, che era impossibile non lasciasse in me una profondissima impressione. Da quella sera, durante il mio intero soggiorno a Venezia, c’incontrammo ogni giorno”.
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In effetti la contessa “chiara come l’alba – e calda come mezzogiorno” (a Douglas Kinnaird, 24 aprile 1819) non lo “pianterà”: già il 22 aprile Byron le scriverà – in italiano – chiamandola “Carissimo il mio Bene”, che il 25 diventa “Amor Mio”, e “Anima Mia” il 3 maggio.
In giugno va a trovarla a Ravenna, a settembre lei viene a Venezia e insieme trascorreranno molto tempo nella villa di Mira, nella campagna veneziana.
In novembre Byron fa l’ultima cavalcata al Lido. Pensa di tornare in Inghilterra, poi cambia idea per un malore della piccola Allegra, che ha sistemato nel collegio di Bagnacavallo. A dicembre parte per Ravenna: vuol seguire Teresa. Fino alla partenza per la Grecia, sarà per lei “quel che qui chiamano in modi diversi – talvolta un “Amoroso” [in italiano] (…) tal altra un Cavalier servente [in italiano]” (ad Augusta, 19 dicembre 1816).
A Venezia farà sporadici ritorni, ma la sua esperienza veneziana è finita.
Paola Tonussi
*In copertina: Lord Byron nel ritratto di Richard Westall
L'articolo “Non hai idea della mia totale infelicità dal giorno in cui mi sono separato da te”. Byron a Venezia: le avventure del poeta seduttore tra Marianna (“un’antilope”), Margherita “la tigre” e la contessa Teresa, sedicenne proviene da Pangea.
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Detesta la gente. Anzi no. La odia. Odia tutto quell'ammassarsi di corpi, quei suoni assordanti di clacson e telefoni, le voci alte perché temono, chissà, che forse dall'altra parte non sono abbastanza attenti.
Rigorosamente in macchina, perché volare o  correre a modo loro erano pratiche vietate in mezzo agli umani, Marco, Rosa e Gabriele si dirigono verso la villa del vampiro.
"Toglimi una curiosità, Marco, indossi delle lenti a contatto colorate?"
"Direi di sì."
"Sapevo che facevano male."
"Beh, a meno che non vuoi essere circondato da fanatici che si credono vampiri, bigotti che pensano basti un paletto di legno per ucciderti, ragazze tutt'altro che vergini che vogliono farsi mordere il collo o che ti domandano se davvero esistono i Volturi, direi che indossare le lenti a contatto è decisamente il male minore."
Gabriele si mette a guardare fuori dal finestrino, leggendo le varie insegne, quando gli viene spontaneo chiedergli ancora, "Da quanto tempo hai problemi coi licantropi?"
Il biondo fa un secondo mente locale, "Un mesetto circa. Ho provato a parlarci, ma hanno fatto orecchie da mercante, cominciando ad attaccarmi. Sarebbe meraviglioso farli fuori, almeno non devo più sentire il loro cazzo di fetore, ma poi la polizia inizierebbe ad indagare, io dovrei continuare con la strage, per poi fuggire immediatamente e ricominciare da capo altrove. Sono trecento anni che scappo, vorrei finalmente avere una dimora fissa."
"Detto da un mostro che ha problemi con l'invecchiamento, direi che la fuga è l'unica soluzione per non destare sospetti, senza contare tutta la documentazione che gli umani si sono messi in testa di voler possedere."
"Il Consiglio, per queste cose, aiuta parecchio, qualche ipnosi, quel bauco di Sandro, hai presente, no? Quell'alieno che indossa gli occhiali e sempre qualcosa di verde, altrimenti la gravità nostra lo schiaccerebbe al suolo... Insomma, per quello lì i nostri computer sono dei semplici giochi infantili, non ci mette nulla a fare qualche manovra a nostro favore. Mi sta sul cazzo, però almeno si rivela utile ogni tanto. Mi piace il posto che mi son scelto, e lasciarlo per colpa di alcuni figli di una cagna in calore mi fa letteralmente incazzare."
Il Fenrir si mette a ridere, interrompendo Marco dall'esecuzione del proprio soliloquio, "Cosa trovi di divertente in quello che ho detto?"
"Il modo. Non sei l'unico della tua specie, ma sicuramente sei l'unico che usa questo linguaggio scurrile, da scaricatore di porto, al contrario dei tuoi simili, che pensano di essere angeli maledetti, e collezionano tutte cose frivole, con pizzi, merletti e porcellana, roba inutile e di cattivo gusto."
Il vampiro alza lo sguardo verso lo specchietto retrovisore per studiare la creatura vestita di nero, su cui spicca quella cravatta bordeaux un po' consumata, ma ancora in grado di fare il proprio dovere.
"Ho smesso di frequentare quei coglioni della mia specie," si decide a rispondere, nonostante creda che al suo interlocutore poco importa dei propri rapporti col resto dei vampiri, "Avevano cominciato a diventare strani, volevano tornare a cacciare gli umani senza preoccuparsi d'essere perseguitati, volevano convincere anche me ad entrare in quella setta, la haburu, háború, bidibi bodibi bu-qualcosa... Ma dico io, ci sta la strafottuta possibilità di bere il sangue umano senza cacciare, basta che affermi d'essere uno di quelli che hanno bisogno delle donazioni di sangue e il gioco è fatto, senza sporcarti i vestiti, disseminare cadaveri in giro, che fa vomitare, è tutto di guadagnato! Ma no! Facciamo i nostalgici! Coloriamo i fiumi di sangue perché un giorno ci siamo svegliati col piede sbagliato, facciamola pagare a quegli sporchi umani."
"Il piacere di cacciare manca un po' anche a me, in realtà." Una terza voce s'intromette prima di stiracchiarsi sul sedile del passeggero.
"Alla buon'ora, la prossima volta guidi tu ed io mi riposo."
"Tu puoi restare sveglio anche mille anni senza batter ciglio, caro, a differenza mia," la kitsune si volta dietro per guardare Gabriele, "spero che non ti abbia bombardato la testa con i suoi infiniti monologhi. Sai, è rimasto un tipo teatrale, una prima donna, è quasi impossibile togliergli questo suo vizio."
"... Ricordami perché ti ospito."
Rosa torna a fissare Marco e gli pizzica scherzosamente la guancia, mentre il Fenrir ha smesso di seguire questo atto... Quanto manca per arrivare a destinazione?!
* * * * *
"Oltre al teatro, hai la passione delle piante?"
È passato da poco il tramonto, ma si possono notare ancora tutti gli alberi e le piante che circondano la villa ottocentesca... Il problema è che, quando Marco e Rosa l'avevano lasciata per l'incontro con il Consiglio, c'erano solo pianticelle appena posizionate e ancora fragili al posto dei tronchi secolari.
"Ditemi che non è lui."
"Chi?"
"Se ci tieni tanto, no, decisamente non è lui."
"Di che state parlando?"
"Lo ammazzo!"
"Prima o dopo le coccole?"
"La smetti di fare la sarcastica, o devo aggiungere anche te alla lista nera?!"
"MARCO~"
Prima che possa reagire in qualche maniera, il vampiro si ritrova due braccia al collo e la bocca premuta su un paio di labbra che attendevano solo ed esclusivamente il suo ritorno; agli occhi di Gabriele, quell'essere è senza dubbio un elfo, decisamente, altrimenti non si spiegherebbe le orecchie a punta, i capelli ricci e neri perfettamente sistemati, l'aria eterea che lo circonda e due occhi verdi che farebbero invidia anche al giardino dell'Eden.
"Ti presento Lorenzo," gli dice Rosa con un sorrisetto che le spunta alla vista di come il biondo faccia il sostenuto e il puritano, come se lei non avesse orecchie per sentire quello che i due fanno nei momenti di privacy, "ti mostro la zona dove questi licantropi appaiono il più delle volte, vieni?"
Gabriele indica i due, domandando silenziosamente se aspettarli o meno.
"Non si staccheranno per la prossima mezz'ora, se va bene, quindi possiamo incamminarci, a meno che tu non voglia starli a vedere."
Lo scatto verso la sua direzione la fa scoppiare a ridere e insieme si dirigono verso il bosco; l'aria fresca accarezza la loro pelle senza recare alcun fastidio, entrambi sono abituati a cose ben peggiori. Gabriele si guarda attorno con circospezione, annusando e spostando le orecchie in ogni direzione per cogliere il minimo dettaglio.
"Di solito, dopo mezzanotte si fanno vedere, ironico vero?"
"Hanno preso spunto dai film dell'orrore?"
"Potrebbe essere, anche se non dimostrano molta fantasia."
"Gli umani non li hanno mai avvistati?"
Con un balzo disumano, Rosa supera un tronco abbattuto mentre Gabriele ci passa attraverso incurante, ripetendo a mente i vantaggi di avere come padre il Dio delle illusioni.
"Non vengono spesso qui, credo che anche tu sappia come pensano, meglio qualcosa di confortevole e lussuoso piuttosto che avere a che fare con insetti, animali e tutto ciò che riguarda la natura."
"Direi che non ti dispiace," insinua, guardandola di sottecchi, rilassando appena le spalle.
"Per cacciare sì, mi manca il sapore della carne umana, e chiedere al macellaio se vende fegato d'uomo non è normale, però almeno posso riposare senza avere scocciature di alcun genere."
Le risate che scaturiscono al pensiero della macelleria vengono smorzate da un rumore sospetto che li mette in allerta, Rosa fa un passo indietro, pronta a traformarsi in volpe per mettersi in salvo, Gabriele sta facendo svanire l'illusione per riprendere il suo vero aspetto, voglioso d'incutere timore a quei cuccioli troppo cresciuti, quando da un cespuglio esce fuori un coniglio grigio con tre piccoli a seguire, facendo tirar un sospiro di sollievo e uno di frustrazione ai due.
"Se non avessi cuore, li ucciderei solo per avermi fatto prendere uno spavento."
"Beh, accomodati."
"No, preferisco vederli crescere e poi ucciderli, sono ancora troppo piccoli, non mi basterebbero a saziarmi."
Si voltano per dirigersi da un'altra parte, quando un lupo uccide il coniglio senza lasciarsi sfuggire i cuccioli, e allo stesso tempo altri quattro lupi circondano i due, "Non dovrebbero essere qui," ripete la kitsune, mentre d'istinto fa apparire le sue tre code e cinque globi incandescenti iniziano a vorticare intorno a lei.
"Non avevamo detto che questo sarebbe diventato nostro territorio, piccola volpe?"
"Scusate ragazzi, ma non ho visto alcun cartello con su scritto Territorio occupato."
"Vorrà dire che, quando torneremo umani, sarà la prima cosa che faremo, una volta aver fatto fuori te e il tuo amico succhiasangue."
"Vedo che hai portato compagnia, che c'è, quel finocchio imbalsamato ha troppa paura ad affrontarci?"
"Ha assoldato un cane da guardia?"
"In quale canile t'hanno riesumato?"
"Oppure è qualche pover'anima che ti scoperai prima di man--"
Un pugno fa guaire il lupo mannaro, incutendo negli animi degli altri un timore ancestrale, quell'essere non era come loro, ancor meno umano, il suo aspetto da uomo trasandato sulla trentina comincia a svanire, lasciando posto ad un lupo ancora più grande del normale licantropo, il suono metallico di una catena rimbomba per il bosco, facendo scappare gli animali più piccoli e i volatili.
"Non so come vi abbiano abituato, ma dalle mie parti non si fanno certe affermazioni su una femmina," il Fenrir comincia a parlare, dirigendosi verso il lupo ancora a terra, famelico, pronto ad aprire le fauci per porre fine a quella miserabile vita, un lupo mannaro in meno era la normalità, un umano in meno una benedizione; posa una zampa nera sulla gola dell'altro mostro, bloccandogli il respiro e godendo di quei versi strozzati, mentre gli altri hanno paura ad intervenire, nonostante si trattasse del loro amico e capobranco.
"Adesso, spero di essere il più chiaro. Possibile. Non ho alcuna voglia di venire a sapere che un branco di lupi mannari disturba gli altri esseri soprannaturali solo per il piacere di farlo. Neanche se questi sono i vostri nemici naturali. D'accordo?"
Con le forze completamente svanite, e il corpo che si contorce alla disperata ricerca d'ossigeno, il licantropo emette uno strozzato sì, ricevendo poco dopo la grazia di tornare a respirare; questo, ritornato momentaneamente umano, si porta la mano alla gola ed inizia a tossire, mentre tutti i suoi compagni gli vanno incontro per controllare le sue condizioni e il Fenrir raggiunge Rosa. Ad un tratto, però, il lupo attaccato pensa bene di restituirgli il favore, attaccandolo di sorpresa; Gabriele si volta in tempo per vedere il licantropo a mezz'aria pronto a mordergli il collo, quando una palla di fuoco lo attacca direttamente sull'occhio, scaraventandolo contro un albero.
"È solo un avvertimento, lupo, la prossima volta non ci andrò leggera," Rosa lo minaccia, ringhiando e coi bei denti in mostra.
Il branco prende il capo e decide d'andare via, minacciando i due di chiedere aiuto al capo di una qualche congrega troppo difficile da mettere a mente.
Allo sguardo stupito del Fenrir, il quale ha ripreso l'illusione di essere umano, Rosa si stira distrattamente la manica, ritornando completamente umana.
"Mi sembrava il minimo, tu gli hai dato un pugno per quello che aveva detto nei miei confronti."
"Un semplice grazie bastava."
"Tu ancora non l'hai detto."
"Semplicemente perché non ritengo fosse necessario il tuo intervento."
"O perché è stata una femmina a salvarti? Per giunta di volpe."
"Hey, io non faccio distinzioni di specie, né di sesso. Ho sempre lavorato da solo, quindi sono abituato a guardarmi le spalle. Torniamo a casa, adesso, andiamo a dare la bella notizia a Marco che sono scappati."
Rosa s'affianca a Gabriele, saltellando di tanto in tanto, anche se il tarlo di un possibile ritorno dei licantropi non la fa stare completamente serena.
* * * * *
"E quindi sai di Emanuele?"
"Il Doppelgänger? Come se la cosa me ne potesse fregare. Sono riusciti a trovare l'altro?"
"Non parlavo di quello," Lorenzo, con la schiena appoggiata al petto di Marco, gli lancia un'occhiata di rimprovero, prima di riprendere a giocare con la mano sinistra del vampiro, "piuttosto ha ufficializzato la sua relazione con il centauro."
"Oh beh, buon per loro. Devo mandare a Salvatore un biglietto di congratulazioni e qualche bottiglia di vino pregiato."
"Quindi," l'elfo inizia a baciargli il palmo, focalizzandosi sull'anulare, "se ricordo bene, anche un'altra coppia deve ufficializzare."
"La nekomata è tremendamente plausibile che sia innamorata di quel rompicoglioni di Flavio."
Gli occhi verdi incontrano quelli rossi quando le parole vengono marcate con troppa enfasi da Lorenzo, "Non parlavo di Francesca e Flavio, ma di un'altra coppia."
L'espressione persa di Marco fa perdere completamente le speranze all'elfo, che diamine, come può un mostro centenario, con una vasta conoscenza, intelligente, brillante, essere talmente stupido quando questi argomenti vengono trattati? Per dispetto, il moro inizia a fare cose ben poco caste a quelle dita, chissà, magari con un piccolo incentivo Marco inizia a comprendere dove vuole andare a parare.
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weirdesplinder · 4 years
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Sei di corvi, Leigh Bardugo
Dopo avervi presentato la trilogia Shadow and Bone di Leigh Bardugo in un post precedente (link: https://weirdesplinder.tumblr.com/post/190202413413/tenebre-e-ghiaccio )   ecco ora il post dedicato a una duologia (ma che potrebbe diventare trilogia in futuro) spin off della serie di cui sopra.
Vi parlo infatti della duologia Sei di corvi, che è ambientata nello stesso universo di Shadow and bone e che è formata da due libri pubblicati in Italia da Mondadori e disponibili in tutte le librerie:
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1.Sei di corvi
Trama: A Ketterdam, vivace centro di scambi commerciali internazionali, non c'è niente che non possa essere comprato e nessuno lo sa meglio di Kaz Brekker, cresciuto nei vicoli bui e dannati del Barile, la zona più malfamata della città, un ricettacolo di sporcizia, vizi e violenza. Kaz, detto anche Manisporche, è un ladro spietato, bugiardo e senza un grammo di coscienza che si muove con disinvoltura tra bische clandestine, traffici illeciti e bordelli, con indosso gli immancabili guanti di pelle nera e un bastone decorato con una testa di corvo. Uno che, nonostante la giovane età, tutti hanno imparato a temere e rispettare. Un giorno Brekker viene avvicinato da uno dei più ricchi e potenti mercanti della città e gli viene offerta una ricompensa esorbitante a patto che riesca a liberare lo scienziato Bo Yul-Bayur dalla leggendaria Corte di Ghiaccio, una fortezza considerata da tutti inespugnabile. Una missione impossibile che Kaz non è in grado di affrontare da solo. Assoldati i cinque compagni di avventura – un detenuto con sete di vendetta, un tiratore scelto col vizio del gioco, uno scappato di casa con un passato da privilegiato, una spia che tutti chiamano lo "Spettro", una ragazza dotata di poteri magici –, ladri e delinquenti con capacità fuori dal comune e così disperati da non tirarsi indietro nemmeno davanti alla possibilità concreta di non fare più ritorno a casa, Kaz è pronto a tentare l'ambizioso quanto azzardato colpo. Per riuscirci, però, lui e i suoi compagni dovranno imparare a lavorare in squadra e a fidarsi l'uno dell'altro, perché il loro potenziale può sì condurli a compiere grandi cose, ma anche provocare grossi danni... Finalmente arriva in Italia il primo romanzo della duologia che ha consacrato Leigh Bardugo come una delle voci più talentuose e autorevoli della narrativa fantasy. Una serie ambientata in un mondo articolato e straordinario, il GrishaVerse, dove si muovono personaggi sapientemente costruiti e sfaccettati. Una storia avventurosa ricca di colpi di scena che vi mancherà nell'istante stesso in cui avrete letto l'ultima pagina.
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2. Il regno corrotto
Trama: Kaz Brekker e la sua banda di disperati hanno appena portato a termine una missione dalla quale sembrava impossibile tornare sani e salvi. Ne avevano dubitato persino loro, a dirla proprio tutta. Ma rientrati a Ketterdam, non hanno il tempo di annoiarsi nemmeno un istante perché sono costretti a rimettere di nuovo tutto in discussione, e a giocarsi ogni cosa, vita compresa. Questa volta, però, traditi e indeboliti, dovranno prendere parte a una vera e propria guerra per le buie e tortuose strade della città contro un nemico potente, insidioso e dalle tante facce. A Ketterdam, infatti, si sono radunate vecchie e nuove conoscenze di Kaz e dei suoi, pronte a sfidare l'abilità di Manisporche e la lealtà dei compagni. Ma se i sei fuorilegge hanno una certezza è questa: dopo tutte le fughe rocambolesche, gli scampati pericoli, le sofferenze e le inevitabili batoste che hanno dovuto affrontare insieme, troveranno comunque il modo di rimanere in piedi. E forse di vincerla, in qualche modo, questa guerra, grazie alle rivoltelle di Jesper, al cervellone di Kaz, alla verve di Nina, all'abilità di Inej, al genio di Wylan e alla forza di Matthias. Una guerra che per loro significa una possibilità di vendetta e redenzione e che sarà decisiva per il destino del mondo Grisha.   
La mia opinione           
Prima di tutto è importante dire che questi due libri sono young adult: a differenza degli altri libri della Bardugo che ho letto in precedenza qui i protagonisti non sono ventenni, ma solo diciassettenni, tranne due che sono di poco più grandi.
Seconda cosa da dire: I punti di vista attraverso cui è raccontata la storia sono molteplici, sei per l’esattezza, come i protagonisti che seguiguiamo personalmente nelle loro avventure.
Ora se seguite il mio blog sapete già che io non ho un grande amore nè per gli young adult, nè per i POV molteplici, di solito sopporto al massimo 2 punti di vista, ma incredibilmente questi due libri mi sono piaciuti più della trilogia Shadow and bone (e un po’ meno di Ninth house)
Probabilmente i POV non mi hanno disturbato perchè la narrazione è strutturata in modo molto semplice e consequenziale.
Inoltre leggere questo romanzo mi ha anche fatto capire meglio una cosa che non mi aveva conquistato della trilogia Shadows and bone, la sua grandezza. Mi spiego meglio. Shadow and bone e Six of crows (titolo originale di Sei di corvi) sono ambientati nello stesso universo, Six dopo 5 anni se non sbaglio dai fatti di Shadow, ma sono estremamenti diversi per ambientazione.
Shadow and bone è una trilogia di ampio respiro territorialmente parlando. Alina salva una nazione, agisce per una nazione e per intero popolo sparso in diverse nazioni e cambia l'intero modo, ok. Quindi i libri a lei dedicati guardano a grandi fatti, a grandi gesta e a come impattano migliaia di persone. Sì noi conosciamo anche la sua vita privata tante piccole cose, ma la storia del libro non riguarda solo Alina o i suoi amici è molto più grande di loro.
Invece Six of crows fa il contrario. E' ambientato nel mondo praticamente creato da Alina (frutto delle sue gesta) ma non guarda ad esso o non se ne preoccupa, segue 6 ragazzi e i loro problemi che a confronto con quelli di Alina possono sembrare piccoli, ma non lo sono di certo. Anche loro per motivi personali faranno grandi gesta, ma non così enormi, i libri dedicati a loro si soffermano di più sulle persone e meno sui loro ruoli guardano il piccolo e non il grande e questo li rende più empatici per il lettore. Tipo come guardando o leggendo Il Signore degli anelli proviamo più simpatia spesso per Sam che non per Frodo. Frodo salva il mondo, ma Sam è quello che ci vive...Non se la metafora calza a pennello, ma più o meno credo di sì.
Six of crows ci fa vedere in particolare il mondo dopo Alina concentrandosi su una sola città, un solo quartiere malfamato e sei ragazzi. Ed è qui la sua forza. Nelle piccole cose. Che poi tanto piccole non sono, ma comunque rende il tutto più approcciabile. La trama di Six e del suo seguito è piuttosto semplice: 6 ragazzi di varie provenienze sotto la guida di uno di loro abile ladro e truffatore tenteranno un'impresa quasi impossibile far evadere in cambio di molto denaro un ostaggio da una prigione impenetrabile in un paese straniero e molto pericoloso. Questa trama è estremamente riduttiva poichè è nel particolare che sta la sua grandezza e nel chi sono i 6 ragazzi: un ex cacciatore di streghe che si è innamorato di una di esse per poi essere tradito e salvato da lei, una ragazza dotata di poteri che si è innamorata di un uomo che le dava la caccia e che teme che questo la renda meno pronta a battersi per il suo paese e la sua gente, un orfano che crede di non avere più un cuore dalla mente machavellica e in grado di aprire ogni serratura, un ex schiava di una casa di piacere rubata alla sua famiglia di acrobati che per sdebitarsi con chi ha comprato la sua libeta è diventata un'abile spia, il figlio di un ricco mercante che è sempre stato mal visto dal padre come difttoso ma che in realtà è un genio incompreso, un ragazzo dotato di poteri che rifiuta di usare col vizio del gioco e assuefatto all'adrenalina. Una delle cose che mi ha fatto piacere Six of crows è poi il fatto che Nina e Matthias mi hanno ricordato un pochino Phaedre e Josceline del Dardo e La rosa...sono diversi, non voglio illudervi, ma in qualche piccolo tratto ho rivisto nella mente il viaggio di Phaedre e Josceline prigionieri delle tribù del nord...bei ricordi. Ora basta o vi svelo troppo, mentre questo libro merita di essere letto.
Tirando le sommevi consiglio caldamente questa duologia  visto che è disponibile in italiano, ma vi avverto, letto il primo libro dovrete per forza leggere il secondo poichè Sei di corvi non ha un finale non ha un finale, resta tutto in sospeso. E vi avverto anche che Il regno distrutto mi ha lsciato triste e con l’amaro in bocca, ma non voglio fare spoiler.
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Prompt: che ne dici di un seguito della tua fanfic sull'helix? Tipo che Niccolò alla fine "va a piagne" da Marti perché gli fa male e Martino, da bravo e amorevole fidanzato, prima lo prende in giro e poi lo consola? (no, non sono per niente ossessionata da questa cosa dei matching piercings :D)
Non è davvero niente di che, eh, ma c’ho provato :) !
*************************
Non capita spesso che Niccolò riesca ad avvicinarsi, senza che lui se ne accorga.
A ben pensarci, l’unica volta che è successo è stato quel venerdì che ancora preferisce far finta non sia mai esistito.
Ma ci sta lavorando, per rammentarne solo gli aspetti migliori. Il tuffo al cuore quando ha sentito le mani di Nico sugli occhi, l’adrenalina a mille nel prendere quel treno verso Milano. Un gesto sconsiderato, senz’ombra di dubbio, ma proprio per questo alquanto eccitante.
E di eccitante c’era stato anche ben altro, sotto le luci rosse di quell’appartamento… o anche nella doccia, malgrado tutte le gomitate che si son dati prima di capire come starci in due… La spensieratezza di poter camminare mano nella mano col suo ragazzo, in una città dove nessuno lo conosce o lo giudica.
La felicità nel vedere gli occhi di Niccolò illuminarsi non appena entrano al Bar Luce. Sono ricordi preziosi, che non meritano di venir cancellati da ciò che è successo qualche ora più tardi.
Non sempre ci riesce, a non farsi sopraffare dall’angoscia quando ci ripensa. Succede sempre meno spesso, però. Chissà, forse un giorno potrà anche tornare in Piazza Gae Aulenti senza sentirsi svenire.È lì che vanno i suoi pensieri, quando due palmi ben conosciuti gli bloccano la visuale.
Sussulta, ha un brivido, e non riesce a rispondere al suo “Chi sono?” Rimane un po’ intontito dal “Sorpresa!” di Niccolò, che non sta più nella pelle e lo invita a voltarsi, afferrandogli il polso.
“Noti niente di diverso? Te devo dà n’indizio? Perché me sento magnanimo, oggi, e te lo darei quindi non ‘sta a fà orecchie da mercante.” Non è tanto quel poco velato riferimento, quanto il continuo istinto di Niccolò di andarsi a toccare l’orecchio destro – la lingua batte dove il dente duole, c’è poco da fare, è più forte di lui – a fargli capire che sta riferendo al piercing. La pelle è arrossata, irritata dal contatto continuo con le dita di Nico.
“Fa male, eh?”  Chiede, cercando di distrarlo. Gli prende la mano, accompagnandolo verso l’entrata. Potrebbe baciarlo, ma poi finirebbe per distarsi pure lui e farsi segnare assente alla prima ora. No, non è il caso.
“’na cifra. Ma come vedi, non sto a piagne.”  Risponde, inarcando le sopracciglia e piegando la testa da un lato. “Ancora non m’hai detto che ne pensi, però.” Si fermano giusto davanti alla IVB, fingendo di non notare Giovanni ed Elia che si sbracciano per salutarli.
Che ne pensa? Che gli sta da Dio. Che non credeva che lui e Nico avrebbero mai fatto questo genere di cose, per sentirsi più vicini e complementari, ma che non gliene frega un cazzo. Che li prendano pure per il culo. Problemi loro se non c’hanno de meglio da fà.
“Lo adoro.” Gli sussurra, accarezzandogli una guancia. Okay, magari un bacio ce potrebbe anche stà adesso…
“Ao’, ma ce la fate? Pare che state a partì per la guerra!”  Li interrompe Elia, urlandogli dietro.
Magari anche no.
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mercantedipelle · 1 month
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Il Mercante di Pelle
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levysoft · 5 years
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Philippe Daverio, 69 anni, alsaziano di nascita e milanese di adozione, ha vissuto tante vite in una. Gli manca solo di andare nello spazio. Critico d'arte, saggista, autore-conduttore tv, animatore culturale, politico e instancabile viaggiatore. «Quello che mi piace di più? - fa eco alla domanda il professore seduto nel suo affascinante studio tra quadri, oggetti carichi di memoria, computer - quello che sto facendo ora, scrivere un libro a favore dell'Europa».
Roba da niente, insomma. Sempre avventure di un certo peso; chissà che cosa si immaginava della sua vita quand'era giovane. «Inizialmente, quando ero francese, volevo fare il funzionario pubblico. Diventato italiano ho pensato che era corretto campare. Credo alla Provvidenza e che se uno dà retta al piano di sopra la strada gli viene indicata».
Nato in Francia, si considera un immigrato?
«No, eravamo degli europei di base. In casa si parlavano tre lingue e due dialetti; mio nonno fece il servizio militare a Berlino e il mio prozio a Parigi, mio nonno era italiano, insomma una famiglia Ue. Siamo venuti qui per una grossa operazione immobiliare a Varese fatta da mio padre».
Che ricordi ha della sua educazione giovanile?
«Ho avuto una educazione ottocentesca in un collegio episcopale (mostra la foto, ndr). Ricordo ancora una severità assoluta. Alzarsi alle 5 del mattino, ritmo di vita durissimo, ogni giorno l'obbligo di giocare per mezz'ora a football. Penso ancora a quel pallone scuro e gelido, di cuoio, che quando ti colpiva portava via un pezzo di pelle. Ma quella scuola mi ha lasciato una formazione di base con la quale ho vissuto di rendita a lungo, una bella formazione per la crapa (testa in milanese, ndr). Nella provincia francese la borghesia veniva tutta formata lì, in quel luogo».
Può dipingere un ritratto di famiglia?
«Mio padre era piccolo e napoleonico come il suo nome, Napoleone appunto, molto grintoso e totalmente lumbard; parlava in alsaziano. Un suo prozio fece le Cinque Giornate di Milano. Come carattere ho preso da papà, ma forse di più dalla mamma, Aurelia, un colonnello molto umano e con una inclinazione a difendere il gusto».
Uno come lei non può non avere un po' di sangue nobile, o no?
«C'è l'elenco dei milanesi doc del XII secolo e il nome Daverio è già lì. Perciò non ho fatto altro che andare alla radice, come un salmone che ritorna alla fonte. Sento di appartenere a Milano, e me lo dice la memoria dei cromosomi. Che mi suggerisce pure che appartengo al posto di mio nonno, Berlino».
Sembrerebbe che alle origini ci tiene proprio...
«Per evitare che questo discorso sull'appartenenza fosse una pazzia letteraria, ho chiesto a mio fratello, il meno letterato, Paul, che è uno dei più noti chirurghi plastici svizzeri. Gli ho domandato ma quando sei a Berlino come ti senti? e lui mi ha risposto: A casa. Insomma lo sa pure mio fratello che non ha letto la letteratura guglielmina».
Non solo la provenienza, nella vita contano pure scelte e bivi, ne vuole rivelare almeno uno?
«Beh, quando ho deciso di mollare gli studi. Non mi sono laureato all'università Bocconi. Mi ero rotto, non avevo più voglia di stare lì. Ero sessantottino, come me diversi miei amici anche loro sessantottini non si sono laureati. Ho dato l'ultimo esame, non la tesi. Ho deciso di fare altro nella vita».
Qual è stato il suo primo lavoro?
«Lasciata l'università mi sono messo subito a fare il mercante d'arte. Prima l'ho fatto stando a casa, subito dopo ho aperto una bottega vera e propria nel centro di Milano. Allora fare questo era una cosa facilissima».
Milano è stata almeno un po' buona con Daverio?
«Una mattina sono uscito di casa e mi sono detto voglio trovare una bottega. Avevo 27 anni, ne ho parlato con mia moglie. Quel negozio l'abbiamo cercato in Montenapo, l'ho trovato subito, ce n'era uno in affitto. La città a quei tempi offriva tante opportunità ai ragazzi, occasioni che nessuno ora si può immaginare. Adesso Milano offre decisamente meno».
Ci fa un bilancio delle sue avventure lavorative?
«Per quanto riguarda l'editoria, decine di libri scritti nel campo dell'arte. Scrivere è il modo più personale e libero per guadagnare denaro. Una persona sta in casa, apre il computer, digita i tasti e via. La sopravvivenza si fa con le dita. È un lavoro artigianale fantastico».
E quali sono gli argomenti che l'appassionano di più?
«Sostanzialmente quelli di cui mi occupo. La storia dell'arte, un po' la politica. E la musica, naturalmente. Dove lavoro e abito ci sono più pianoforti. Ho studiato e mi piace moltissimo suonare Mozart. La musica serve per calmare i nervi ed è inoltre propedeutica all'estetica, tutti i concetti di armonia sono legati alla musica».
In tutto questo che spazio hanno gli affetti?
«Sono fondamentali, senza questi una persona non carbura. Credo che la famiglia non sia una roba del tutto sbagliata. Il pregio numero uno è che rappresenta la prima struttura di solidità alla quale uno appartiene. Vengo da una famiglia enorme ma vivo in una piccolina: io, mia moglie, il figlio, la sua ragazza e poi abbiamo allargato con cinque cani».
Vissi d'arte e di famiglia, e le amicizie dove le mettiamo?
«Importantissime, quelle vere, quelle che legano al destino. Io devo gran parte della mia fortuna milanese al fatto di avere avuto tre o quattro persone, di una generazione anteriore alla mia, che mi hanno dato una mano a fare quello che ho fatto».
E se (ri)pensa alla politica...
«Come assessore leghista mi sono trovato benissimo, perché c'era un sindaco come Marco Formentini. Lui parlava francese e inglese come l'italiano. Era di ottima famiglia, suo zio aveva seguito gli scavi archeologici della Lunigiana, c'è un museo. Io sono arrivato a lui perché era molto amico dell'editore Mario Spagnol e io pure. Ai tempi amavo la forza di rottura rivoluzionaria che aveva la Lega, che ora però è diventata rurale».
I suoi amici quella scelta non l'hanno presa benissimo...
«C'è una persona alla quale ero molto legato, amico pure di mia moglie, il giornalista Giorgio Bocca. Lui mi sostenne contro tutta la buona borghesia. Perché quando feci la scelta di Formentini, la mia buona borghesia di Montenapo mi guardò male. Ma io forse per genesi francese, sono un po' giacobino».
Di cosa va fiero di quell'esperienza?
«Quando ero assessore ho lavorato anche all'idea della cosiddetta Città metropolitana, la sua genesi; un'idea che ancora oggi credo sia importante. Ho spinto tanto in questa direzione ma la cosa non è ancora sbocciata, sono convinto che nei prossimi anni succederà, ce lo chiederà l'Europa».
Cambiamo canale: dalla pubblica amministrazione alla tv...
«Ho fatto Passepartout sui canali Rai, trasmissione nata per caso e nata con uno spirito anti-televisivo che si occupava di storia dell'arte. Abbiamo dimostrato che esiste una fascia di italiani interessati all'argomento, avevamo un 5% di audience, circa tre milioni di persone. Poi, purtroppo, la televisione non si interessa a noi, le nicchie in Italia sono proibite».
Televisione o no, come speaker si trova a suo agio?
«Io faccio molte conferenze pubbliche ed lì che trovo il rapporto fisico con il lettore. In questo senso devo la mia fortuna ai quattro anni di politica che ho fatto. Prima avevo paura a parlare in pubblico. È stato come imparare a nuotare cadendo in un canale».
E nei panni del critico (o giudice)?
«Una faticaccia davvero anche se molto bella. Sono presente sia nello Strega sia nel Campiello e devo occupami di centinaia di libri ogni anno. Lo faccio ricorrendo pure a un meccanismo di annusatura dell'opera. È come negli esami all'università, si capisce subito se uno studente c'è oppure proprio non c'è».
A questo punto della sua vita, ha altri progetti?
«Assolutamente sì. Da pochi giorni sono entrato nel settantesimo anno di vita, è stato uno choc psichico ma il primo progetto che ho è quello di non rimbambire. Adesso ci sono tempi e progetti molto più brevi. Ho degli amici novantenni che sono molto svegli, per me sono un modello da seguire».
Come vede il futuro, c'è qualcosa che le fa paura o terrorizza?
«Una cosa che mi fa paura, vivendo in Italia, è la povertà. Sono molto riconoscente alla nostra sanità per le cure che ho ricevuto in passato, ma qui se si diventa poveri è una catastrofe, non ti risollevi più. So che fino a quando posso lavorare vado bene, nel caso contrario diciamo che mi potrei sentire un po' imbarazzato».
C'è qualcosa a cui non vorrebbe mai rinunciare?
«Vorrei ancora avere una possibilità di partecipare alla politica. Penso che questo sia molto importante per ogni persona. Potrei accettare una proposta in questo senso in un'unica direzione, in una sorta di europeismo riformato. Io sono fautore non dell'Europa di oggi, ma assolutamente dell'Europa sì, e la vorrei composta di cinquanta regioni, che è l'unica soluzione vera che possiamo avere».
Ma di tempo libero per sé ne ha?
«In generale no, poi c'è da dire che il tempo applicato alle cose è più bello. Se c'è da cucinare un piatto mi piace molto farlo, mia moglie mi frena perché sporco troppo le pentole. Ero legato alla cucina delle mie origini, amo gli arrosti, amo il puree, amo certe zuppe francesi. Però amo molto anche l'italianità. Senza spaghetti non si può vivere, il risotto è fondamentale».
Qualche giorno per le vacanze lo scova da qualche parte?
«I viaggi hanno un senso quando non sono solo turistici, quando dietro c'è un progetto. Una volta con sei amici abbiamo preso in affitto un rompighiaccio alle Isole Svalbard per andare al Polo Nord. Oppure apprezzo gli spostamenti che nascono per motivi di lavoro. Per esempio in Cina a fare un video, all'Avana per un trasmissione. Ancora ricordo la trasferta per la Biennale di Dakar».
Per i viaggi intellettuali e artistici lo spazio lo trova...
«Beh noi siamo sempre stati legati alla musica. Quindi in questo senso viaggi tanto. Mi piace l'opera lirica, perché è una delle identità dell'italianità. L'Italia non è un Paese fondato sul lavoro ma sul melodramma; la Germania sulla tragedia e la Gran Bretagna sull'arrivo dall'estero di forze musicali. Senza Haendel non ci sarebbero stati i Beatles. La Francia, infine, ama la musica pomposa».
Con l'opera ha mai avuto «incontri ravvicinati» di qualche tipo?
«Nel 2008 sono stato chiamato dal regista Pier Luigi Pizzi a interpretare il narratore Njegus nell'operetta La vedova allegra di Franz Lehár, in scena al Teatro alla Scala. È stata un'emozione formidabile perché sono rimasto in scena per tutta la durata dello spettacolo».
Che rapporti ha con il Teatro alla Scala?
«Attualmente sono nel consiglio di amministrazione. In verità i miei ruoli gestionali si sono svolti tutti qui, a Milano: prima a Palazzo Marino, poi mi sono occupato del Duomo e del suo museo, e ora il Piermarini, tutti luoghi che raggiungo a piedi».
Con tutte queste esperienze che cosa ha capito dell'Italia?
«A proposito ho scritto un libro. L'Italia è un Paese diverso da tutti gli altri Paesi europei, con parametri aggregativi differenti. Tutta l'Europa è monarchica, noi siamo comunali, una sommatoria di comuni. L'Italia è unita con la forchetta e con il bicchiere».
Gioco della torre: un quadro, un brano, un libro, un film che non butterebbe giù, che salverebbe...
«Per l'arte La colazione sull'erba di Monet perché riassume il passato e anticipa il futuro. Per la musica L'arte della fuga di Bach, è una costruzione colossale. Riguardo ai libri la Crocifissione rosea di Henry Miller, c'è tutta la complessità del nostro mondo moderno. Infine il film, penso a Senso di Luchino Visconti, è il più bel riassunto epico del nostro Paese».
Ultima domanda su Dio.
«Sono religioso ma non baciapile. Il rapporto col piano di sopra è fondamentale e faccio di tutto per mantenere un dialogo costante».
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shipisnotaboat · 3 years
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4. Célie De Sardet. La noia e il mare.
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“È una nave, non una barca…”
Quella frase continuò a ronzarle nella testa, per ore, corredata dall’espressione di biasimo sul volto del capitano.
Quella frase, era stata un colpo al cuore, il simbolo del primo fallimento come Legato, e probabilmente anche la miccia dei suoi istinti omicidi nei confronti del nauto.
Che razza di differenza faceva? Galleggiava e portava le persone da un posto ad un altro.
E quella faccia poi, al di là del suo ruolo restava una nobile, ed una donna, e mai nella vita si sarebbe aspettata un’espressione tanto impunita sul volto di un semplice nauto, un capitano certo, ma nulla a che vedere con il suo sangue nobile.
Il piccolo incidente si era chiuso sullo stesso molo su cui era nato, dissimulato sotto un’espressione neutrale e delle scuse formali, forse addirittura superficiali da parte sua, ma che il capitano sembrava avere accettato.
Da parte sua quell’episodio continuava a rimbalzarle nella mente, complice la noia per l’assenza di attività a bordo a cui lei potesse partecipare, in un loop continuo e frustrante, tale da assumere a volte sfumature che rasentavano l’assurdo. In una di queste, ad esempio, cedeva ad un latente orgoglio capriccioso e rispondeva a tono al nauto, ricordandogli la differenza sociale tra loro.
In verità, almeno così aveva deciso per rimettere in pace la sua sanità mentale, era semplicemente stata colta di sorpresa. Nei giorni precedenti all’imbarco aveva sentito nominare più volte il capitano Vasco. La sua famiglia non avrebbe mai affidato i due “pulcini reali” nelle mani di un capitano di primo pelo. E di questo in particolare si erano sentite ogni genere di lodi, dalla sua grande esperienza al pregio di non aver mai perso un uomo in mare, un tizio sorprendente, capace, a modo, e di cui nessuno dei suoi precedenti passeggeri si era mai lamentato.
In pratica Célie si aspettava di incontrare un vecchio tricheco: uno di quei lupi di mare con la puzza di pesce nelle ossa, il tricorno ormai calcificato in testa e la barba ispida di salsedine. Aveva persino ironizzato con Kurt mentre dalla sua abitazione si spostava verso il porto, per incontrare il capitano, e quando se lo era trovato davanti aveva frenato in tempo la lingua prima di appellarsi a lui come "marinaio" e chiedergli di poter parlare con l’ufficiale; una gaffe che probabilmente le sarebbe valso un giro o due di chiglia.
“Si” concluse infine, seguendo la scia dei suoi pensieri “sono semplicemente stata colta di sorpresa, vittima della mia stessa inesperienza. Non si ripeterà più”. Una promessa a sè stessa che sancì con uno sguardo che fece scivolare verso la pistola posata sullo sgabello alla sua destra, pronta all’uso se fosse stato necessario.
Raccolse la spugna dal fondo della vasca di legno, l’acqua del bagno ancora tiepida le suggerì la possibilità di spendere ancora qualche minuto in ammollo. Di diverso avviso erano le rughette che le si erano formate sui polpastrelli, sorrise, quella vista le riportò alla mente una giornata trascorsa al fiume, con Costantin e Kurt.
Trovò curioso il fatto che la sua memoria avesse riportato a galla con tanta semplicità quell’evento, che non possedeva nulla di speciale, accaduto diversi anni prima. Erano poco più che bambini, un sorrisetto divertito le illuminò gli occhi verdi nel riportare a galla l’immagine di un Costantin appena ragazzo, con i suoi riccioli biondi e le gambette secche, battere ad una gara di nuoto un giovane Kurt, decisamente più ben piazzato di lui.
A lei era toccato il ruolo di giudice, un arduo ruolo: determinare se il mercenario avesse volutamente lasciato vincere o meno il principino fu un bel grattacapo. Ogni argomentazione fu però accantonata in fretta e furia quando il cugino si trovò un paio di sanguisughe di troppo nei mutandoni ed il mercenario un altro paio sulla schiena, tra schizzi d’acqua ed urla concitate.
L’immagine trasformò il sorrisetto compiaciuto in una risata delicata, un idillio che fu interrotto da un tornado biondo che spalancò la porta e si introdusse nella cabina di gran lena.
<Cugina! Vieni presto, il capitano ha appena battuto Kurt ai dadi! Devi vedere la sua faccia, presto!>
Célie sussultò e si chiuse e riccio dentro la vasca, riparandosi come possibile, premendo le gambe piegate contro al busto, con le guance paonazze e gli occhi sgranati. E se una mano cercò di coprire pudicamente parte del “tesoro D’Orsay”, con la destra afferrò la pistola, che rivolse all’ingresso della cabina, pronta a difendersi in prima persona.
Quando individuò la figura del cugino, sembrò volerlo fulminare sul posto.
<COSTANTIN!> Cèlie gli sibilò contro, ma avrebbe voluto urlare. Il rossore prese piede dal suo volto, andando a contaminare anche la pelle del corpo, normalmente di qualche tono più chiaro.
Il biondino era talmente concitato che non perse tempo a preoccuparsi per la canna della pistola, che non solo lo stava puntando, ma che continuò a seguire i suoi passi per qualche istante, mantenendolo in mira, del resto era certo che mai nella vita sua cugina gli avrebbe fatto del male. Indicò l’esterno con entrambe le mani.
<Il capitano… ha stracciato Kurt! Questa non puoi perdertela cugina!> solo quando Cèlie uscì dalla vasca con uno sbuffo rassegnato il principino perse mordente <...ma… sei nuda?> un passo a destra e chiuse la porta, prendendosi giusto il tempo per far scivolare lo sguardo all’esterno ed annotare mentalmente gli eventuali volti da spedire in qualche missione senza ritorno.
De Sardet intanto si era procurata un telo in cui avvolgersi e con un tono quasi annoiato rimbeccò il cugino <Visto dove ci troviamo avevo pensato di fare il bagno vestito, ma poi ho deciso che sarebbe stato poco utile.>
Incassando la stoccata con stile, Costantin si avvicinò per aiutarla, sistemando i separè e passandole i primi capi che trovò a portata, con naturale disinvoltura. Tutto sommato era abituato a vedere la cugina come una sorella, se avesse mostrato una qualunque forma di attrazione li avrebbero già separati da tempo e dato che temeva troppo a lei per perderla, aveva imparato dedicare alla forme della cugina, nessuna attenzione in più di quanto avrebbe rivolto a Kurt, anche se la differenza era evidente.
<Il capitano dice che dobbiamo ancora raggiungere l’oceano aperto, Kurt vuole organizzare alcuni allenamenti per alleggerire la traversata e sir De Courcillon…>
Cèlie gli arrivò davanti appoggiandogli con delicatezza una mano sulle labbra per arrestare quel fiume di parole <credi che manterrà quella faccia abbastanza a lungo da rendermi presentabile o devo correre fuori in sottana?>
<Ah cugina che splendida idea! Potrei farlo con mio padre, se mai verrà a cercare qualcosa per cui ribadirmi la mia inettitudine, spacciandola per una visita di cortesia.>
Cèlie modificò la sua espressione in una versione meno convinta mentre Costantin tirava fuori attitudini da pessimo venditore tentando di convincerla della genialità dell’improvvisato piano. Intanto allungò le mani per sistemarle la camiciola ed il gilet.
<Immagina la sua faccia, quando gli correrò incontro vestito solo dell’asciugamano, magari neanche di quello!>
Erano rare le occasioni in cui Costantin sorrideva pensando al Principe D’Orsay, ma l’immagine nella sua testa lo spinse a farlo
<Ma lascia gli scandali a me, sono io la pecora nera di famiglia.>
Si prese pure la confidenza di lasciarle un bacio dolce su una tempia, un bacio che Cèlie apprezzò socchiudendo gli occhi.
<Vado a punzecchiare Kurt, così sarà ancora di pessimo umore quando avrai finito di pettinarti.>
<Kurt di pessimo umore è la regola, io voglio vedere quella faccia.> gli fece eco lei, puntigliosa.
<Posso provare a bloccarlo come fai tu, se mi presti il tuo anello.>
Célie gli mostrò la mano destra, la base dell’indice era cinta da una sottile banda metallica brunita, dalla lavorazione grezza. L’anello del novizio, di certo non ne se sarebbe separata, nè lo avrebbe lasciato in giro.
Costantin sollevò le mani e mostrò alla cugina entrambi i palmi in un cenno di resa <D’accordo, hai vinto, appena arrivi gli ricordo quanto ha perso.> Si soffermò sull’uscio osservando l’esterno <sempre ammesso che non si sia buttato in mare per lo sconforto.>
<Costantin, se non esci da qui ti sparo davvero.> Una minaccia benevola, ma che sotto sotto nascondeva comunque una certa preoccupazione per il capitano del conio.
Una minaccia che il principino colse fin troppo bene, perchè si affrettò a portare davvero fuori dalla cabina la sua pregiata figura.
De Sardet decise di non sprecare troppo tempo, raccolse i capelli corvini con un nastro, dopo averli tamponati e sbrogliati, indossò gli stivali, la giacca da mercante, il cappello ed infine i guanti e si apprestò a mettere nuovamente piede sul ponte.
Ad accoglierla in prima istanza fu il bagliore del sole, quasi accecante, colpa anche del riflesso del mare aperto. Benchè non fossero che a poche miglia dalla riva, sembrava di essere sospesi sopra al più profondo degli oceani, un luogo insidioso a detta del capitano, poichè in queste acque basse tendevano a nascondersi scogli che potevano bucare la chiglia della nave o secche improvvise in cui arenarsi.
Tutti racconti già sentiti, a cui sembrava impossibile credere data la sensazione di pace che quel cielo terso ispirava, un cielo che a Sérène non si vedeva da tempo.
Senza alcun motivo apparente, la mente, che macchina strana, la indusse ad avvicinarsi al parapetto di dritta. Appoggiò le mani e si sporse cautamente con il capo per cercare di spingere lo sguardo verso poppa, oltre l'abbondante struttura del cassero, in cerca di una terra non più visibile. In silenzio scivolò nella nostalgia e nel senso di colpa per aver lasciato sua madre laggiù, malata. “Morente a dire il vero”, così le aveva chiarito senza accusa, ma con sincerità.
<Eccellenza> una voce la richiamò con i piedi sul legno, era Jonas, il giovane mozzo recuperato dai magazzini della famiglia Fontaine, i suoi genitori. Il ragazzo dalla pelle scura la guardava dal basso con gli occhi verdi, ereditati dalla madre e la schiena curva su uno spazzolone che spingeva avanti ed indietro a forza di gomito, cercando di ripulire il pavimento da brezza e salsedine, ma le sorrideva con gratitudine.
<Eccellenza,va tutto bene?>
<Avete visto mio cugino o il capitano Kurt?> Rispose con la solita espressione altera sul volto, aveva simpatia per il mozzo, ma non gli doveva alcuna spiegazione.
Il ragazzo indicò verso prua, dove si poteva distinguere chiaramente la vivace sagoma del cugino, intento a parlare con in imbronciatissimo mercenario. Poteva quasi sentirlo ringhiare a distanza, Costantin stava facendo un ottimo lavoro. Ringraziò il mozzo con un sorriso appena più gongolante del dovuto, con le labbra affilate compostamente serrate, e si avviò di buon passo, lasciandosi alle spalle quel breve momento di nostalgia.
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Presa diretta
Alcuni uomini bisogna parodiarli, altri sono già la parodia di se stessi. Io sono la puttana di Dio e contemporaneamente la parodia di me stesso. Ma la cosa non mi sorprende: gli schizofrenici hanno uno sdoppiamento di personalità? Noi siamo in dieci qui dentro, da un gruppo così numeroso che qualcuno faccia qualche cazzata c'è da aspettarselo. Io sono il caprone, l'agnello senza Dio da sacrificare ancora vivo, sono l'Untore, eterno foriero di disgrazie. È giunto il momento, mio caro amico, di condividere il viaggio, affinché i fatti non muoiano, ma restino sulla carta. Io sarò per te l'acqua dimenticata in un sottovaso, i paesaggi che visitasti nell' infanzia. Io sono come il mare per i marinai, placido e calmo, conduco i loro affari e le loro vite senza che loro abbiano timore di sorta, obbedisco alla legge di mutare due volte al giorno, e mi gonfio e mi placo, ma quando decido di stravolgere la mia vita chi conduce la sua nave sulle mie acque viene inghiottito dalla tempesta, e molti sono i morti di mille naufragi. Quei corpi che cadono sul fondo del mare sono i miei amici, che si decompongono e perdono i pezzi nel corso del tempo, e io li guardo mutare, come una madre che giochi ancora col suo bambino morto. Nessuno conosce tutta la mia storia, e me ne vanto perché sono uno stronzo raro, io. Alla gente provoco pietà, ma io non ho pietà per la gente che non sa cosa si prova a vivere una vita di emozioni autentiche. Ma molto tempo l'ho perso, altro me l'ha rubato gente come lui: questo ragazzo che sta studiando come me in biblioteca, è psicologicamente inconsapevole del fatto che è proprio deficiente, ma dal punto di vista di scrivente è apprezzabile. Ha in mano un volume di poesie seicentesche suo, perché non ci sono fascette da biblioteca, avrà circa trentacinque anni e oggi è venerdì, forse è giorno di pausa. Sta lì e studia, con impegno, traduce e copia i versi. Lo fa in mezzo a gente che studia quello che vuole, leggermente pressata dal peso dei parziali a cadenza settimanale. Un odio di classe di concentra come una cappa su di lui. Gli altri non sanno che scrivo, almeno per ora non lo sanno. Non ho paura di scrivere versi, di prendere in prestito per far parlare la mia anima. Non mi spaventa la giovane età, voglio scrivere da uomo libero.Quando sei così povero da avere solo un'idea, farai di tutto per non perderla. Poi l'ho persa per colpa della figa. Con il foglio di prima mi ci sono pulito le ascelle, puzzavano dopo che mi sono lavato con il detersivo per i piatti mixato a detersivo per i panni delicati. Non mi bastano i soldi per tornare a casa e nemmeno per comprare un bagnoschiuma. Sono rassegnato ad una vita di stenti. In un modo di forma, la mia è pura realtà, un animo scarno. Un piatto di patate bollite e bucce di patata fritte nell'olio. Buonissime. Mi sono lavato con lo sgrassatore, dopo i capelli erano come bruciati, (non puzzavo più ma la pelle si era privata di qualsiasi grasso, guarda un po' direte voi, se si chiama sgrassatore un motivo ci sarà, no?). Era strano vedere i miei capelli come se avessero la messa in piega. Quella sera ho venduto due libri su cui avevo dato due esami l'anno prima, così ho avuto i soldi per tornare a casa. Quando sono tornato a casa mi sono chiuso in camera, ho aperto il contenitore del bagnoschiuma, ho infilato la lingua dentro e ho iniziato a limonarci per la felicità. Poi l'ho richiuso e sono andato a lavarmi.
-7 dicembre 2014 – da 22 ore in piedi.9 Dicembre 2014 – da 24 ore in piedi.
Non dormo da un mese baby, come sta il tuo uccellino? ( tratto da un film ispirato alla vita di Bob Dylan)
Facebook non mi obbliga a mostrare la pipa rotta, i mozziconi di sigaro, il computer sporco d' olio che schizza dalla pasta, il portafoglio di pelle vuoto, quello di plastica con la muffa, i vestiti strappati. Su facebook sono una lucina verde come tutte le altre lucine di merda e posso dire la mia e farmi valere senza che qualcuno mi giudichi dal mio aspetto. Facebook è il punto da cui voglio ripartire da quando lei non c'è più nella mia vita ed ha lasciato un vuoto enorme, fatto di due anni in cui ho ammesso e fatto cose che mai e poi mai avrei voluto fare. Quando sei così povero da avere solo un'idea, farai di tutto per non perderla. Poi l'ho persa per colpa della figa. Una ragazza è la mia follia! Aveva detto di aver scritto con me, durante una cena liquida, ossia ad esclusiva base di alcool, dei versi che poi sono finiti su Proemio, l'unica cosa buona che credo di aver scritto. L'altra sera l'ho invitata ad uscire dicendo “ Vieni a cena. Portandola”. Era uno scherzo, perché questo un verso di Proemio che reinterpreta Catullo. Si è presentata con un pacchetto di sigarette vuoto e l'ho riempito, aveva fame e si è sfamata e finita la cena e gli argomenti di conversazione, ha allontanato la sedia dal tavolo, ha preso su il cappotto, mi ha fatto un cenno con la mano ed è andata via. E io non son da meno. Lucille, io odio il mercante che m'invita alla sua tavola, ancora agitato per gli scambi della mattina, che pasteggia camminando avanti e indietro, citando Orazio, e pensa sempre e solo al foro e agli scambi del pomeriggio. Se vive per quelli, può anche andare nel foro ora e crepare nella piazza assolata aspettando le ore più fresche del pomeriggio sotto il portico di Traiano, lasciandomi mangiare alla sua mensa, servito dai suoi servi, in pace. E da questa continua mancanza di virtù che faccio e vedo fa nascere in me, a volte, la necessità di un amore per far sopravvivere l'anima. Quando i polmoni sono gonfi di dolore e respiri tra i muscoli tesi della tensione, l'unico modo per sopravvivere è amare. Ma in quei momenti non ho bisogno di un corpo, di una persona, di uno spirito, un'immagine, qualcosa di alto che possa elevarmi con lei. Da piccolo mi ero innamorato della protagonista elfa di Eragon, di Cristopher Paolini, l'amavo di un amore puro e semplice, inventando storie ogni giorno per compensare la mancanza di quelle reali. A volte quel bisogno ritorna, quel bisogno di un'amore perfetto, senza sbavature, senza corpi ormoni o altro, è l'invocazione di uno spirito così alto e potente da tirarti fuori da qualsiasi situazione, nel corpo e nello spirito. Scriverlo? E chi capirebbe. Già qui mi si potrebbe additare di amore platonico, che implica un amore basato sulla distanza. E chi la vuole la distanza? Io voglio provare l'amore dentro di me, verso qualcosa che percepisco di spirituale che è me quando io mi elevo, per cui di distanza ce n'è poca. Questo per me è una specie di rito che sento il bisogno di fare dalla nascita.
Ok ecco la storia....ero sveglio da 22 ore e vagavo sul web in cerca di una consolazione esistenziale al mio essere insonne. Becco un post su Facebook e rispondo, controbattono e io rispondo. Solo dopo qualche minuto mi rendo conto che la cosa contro la quale sto parlando è una lei ed è anche molto graziosa. Lei è anche coordinatrice del dipartimento di Forlì, una specie di rappresentante d'istituto, per cui se ci provo ho chiuso con qualunque essere umano di sesso maschile o femminile, perché ovviamente la rappresentante d' Istituto è un essere inarrivabile per tutti, per cui se, come diciamo noi “cappello” , mi ritrovo che nessuno mi passa più una pagina d'appunto fino alla laurea. Le scrivo in privato per comunicarle che data l'ora non ero in pieno possesso delle mie facoltà. Lei inizia a fare meravigliosi discorsi fraseologici, di quelli che non t'invia riga per riga, ma scrive in blocco, in maniera compatta. Finisco la conversazione scusandomi per il mio comportamento. Guardo il profilo, lei è molto graziosa, ha la carnagione chiara, un leggero trucco, si vede che la Francia e gli ambienti intellettuali di sinistra le piacciono molto.
Scrivo qualche riga per lei, il pallido chiarore della sua pelle mi fa pensare ad una stella lontana :
“La radiazione cosmica di fondo (CMBR) è la radiazione residua prodotta dal Big Bang. Questa è la prova non solo che dietro agli abissi siderali pur qualcosa resta, ma che lo spazio, il mondo come fenomeno, rifiuta in se stesso l'annullamento, tant'è che nulla si distrugge, tutto si trasforma. Di fronte a tutto questo chi sono io per decidere di morire, di non assumermi fatica e problemi, gioie e felicità, chi sono io per cancellare i ricordi, ignorare la memoria. Tutto ciò che accade lascia traccia di se, se non la si trova più, vuol dire che abbiamo ignorato troppe cose, troppo a lungo.”
Ecco si, forse durante il rito questa è la parte più maschile che tra uomo ed anima, infatti poi è venuta fuori l'altra. “Perché continui a vagare, in questo spazio vuoto, candida luce della notte? Perché ti ostini a perseverare un rigore, una linea che possa condurti ad isole felici o lontano dai guai? Che fai, non capisci? In questa eterna ricerca morirai e nascerai di nuovo mille volte come l'araba fenice, e ad ogni vita sarai una luce meno viva e più lontana come quella di una stella. grande immensa, rossa, fino alla morte, poi una nana bianca. Infine di te non resterà nulla e il sole prenderà il vuoto che hai lasciato cadere nella notte.”Immaginavo che quel piccolo puntino verde dell'online sbiadisse negli occhi velati di sonno, diventasse di color bianco, come la luce di una stella alta nel cielo, che poi in realtà la stella è rosso fuoco, è come il sole, poi bruciare idrogeno, diventare più grande, ed infine una nana bianca, una nana nera, un punto nero che si confonde con l'universo. Era svanita, non ne era rimasto più niente, ma per tre, quattro giorni mi ero sentito bene, di nuovo amato, o almeno non dovevo pensare che ero un tipo ridotto a lavarsi con lo sgrassatore.
@lovehopedreambyeffe questo, quello che ti dicevo ieri...
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carmenvicinanza · 2 years
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Fatima Al-Fihriyya ha fondato la più antica università del mondo
https://www.unadonnalgiorno.it/fatima-al-fihriyya/
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La più antica Università del mondo, Al-Qarawiyyin, si trova a Fès in Marocco e fu fondata da una donna, Fatima Al-Fihriyya.
Conosciuta anche come oum al-banine (la madre di tutti i figli) nacque intorno all’anno 800 d.c. a al-Qayrawan, nell’odierna Tunisia.
Figlia di un ricco mercante di origini arabe, all’inizio del secolo IX, si trasferì con la famiglia a Fès.
Avendo avuto la fortuna di poter studiare il Fiqh, la giurisprudenza islamica e gli Hadith, i documenti e gli scritti del profeta Maometto, alla morte del padre decise, con sua sorella Maryam di investire il patrimonio ereditato per migliorare la città, la cultura e la vita delle persone.
Il suo progetto più ambizioso fu quello di costruire una moschea con una madrassa (scuola) annessa che avrebbe fornito un’istruzione di altissimo livello diventando un grande centro di studio e conoscenza. Fu così che, nell’859 d.C., iniziarono i lavori di quella che sarebbe diventata la prima Università al mondo, Al Qarawiyyin che prendeva il nome dalla città da cui provenivano i suoi antenati.
Questo luogo di sapere divenne in breve tempo uno dei principali centri spirituali e educativi del mondo musulmano e un riferimento per l’intera area mediterranea.
Col passare del tempo, la moschea di Al Qarawiyyin divenne la più grande dell’Africa, capace di contenere 22.000 persone. L’Università annessa si guadagnò la reputazione di Atene dell’Islam.
Leggenda narra che Fatima Al-Fihriyya, digiunò per diciotto anni come voto per realizzare il suo sogno.
In quella che viene considerata la più antica istituzione educativa esistente al mondo, oltre al Corano e alla Fiqh, si studiavano molte altre materie come grammatica, retorica, logica, medicina, matematica, astronomia, chimica, storia, geografia e musica.
La madrassa, diventata col tempo un rinomato luogo di istruzione religiosa e dibattito politico, svolse un ruolo importante nelle relazioni culturali e accademiche tra il mondo islamico e l’Europa nel medioevo.
Nel 1963 è diventata università.
Annessa alla scuola fece costruire anche la biblioteca Al-Fihri, che oggi vanta una collezione di oltre 4000 libri, tra cui  manoscritti che risalgono anche al XII secolo a. C.. Tra i più preziosi vi sono la Al-Muwatta di Malik Ibn Anas, scritta su una pergamena di gazzella, una copia antichissima del Corano, scritta su pelle di cammello nell’antica grafia cufica.
Vi è esposto anche il diploma originale di Fatima Al Fihri, scritto su una tavoletta di legno.
Questa visionaria letterata è morta a ottant’anni, lasciando al mondo islamico un grande potenziale, la conoscenza.
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