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Gli inumati di Narde Resti archeologici di una coppia sepolta assieme, preservata al Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo.
The buried of Narde Archeological remains of a couple buried together, preserved at the Museum of The Great Rivers, Rovigo.
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storiearcheostorie · 4 months
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Studi / Tarquinia, scheletri sepolti nel centro abitato anziché nella necropoli: uno studio interdisciplinare "svela" i loro segreti
Studi / Tarquinia, scheletri sepolti nel centro abitato anziché nella necropoli: uno studio interdisciplinare "svela" i loro segreti
Redazione Sono stati trovati sepolti all’interno della città anziché nella necropoli, inumati e non cremati. Il luogo e il tipo di sepoltura in area sacra ha reso il rinvenimento di venti scheletri nella Civita di Tarquinia (Viterbo) di grande interesse culturale e storico per la civiltà etrusca. Tarquinia, ‘complesso monumentale’, scavi in corso dell’Università degli Studi di Milano Un team…
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jacopocioni · 7 months
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Le curiosità dei fiorentini, settima triade
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Ecco la settima triade delle domande dei fiorentini curiosi. Domanda di Elena: Articolo molto interessante, leggendo mi è sorta una curiosità: è noto dove finirono i resti di coloro che erano stati inumati inizialmente in Santa Reparata e disseppelliti per i lavori di manutenzione? In riferimento a questo articolo: Santa Reparata e il suo cimitero Risposta di: Alberto Chiarugi Posso dire una mia opinione. A quel che penso, dovevano rimanere nel sacello familiare, perché se non ricordo male, Ginevra degli Amieri si risveglia accanto a degli scheletri, teschi e ossa, provandone ribrezzo. Quando i guelfi conquistarono definitivamente Firenze, in Santa Reparata, venne aperta la tomba di Manente Farinata degli Uberti, e le ossa a spregio vennero gettate nelle strade. Domanda di Massimo: Buonasera, sono Massimo Fabbri, giornalista fiorentino in pensione (tra l'altro conosco dagli anni '80 il vostro fondatore Franco Ciarleglio, che saluto, in quanto amico di un amico comune, il dott. Gualtiero Monici !) e vorrei sapere come mai io, che abito a Rifredi in via Circondaria, negli anni '70 ricordo benissimo che ero in zona ROSSA, appartenente al quartiere di S.M. Novella e tifavo di conseguenza. Poi, dopo un periodo di pausa per essere stato all'estero, negli anni '90 il quartiere è diventato AZZURRO e mio figlio è tifosissimo azzurro ... cosa è successo...perchè Rifredi non capisco come rientri toponomasticamente con S. Croce. grazie, attendo cortese risposta Massimo Fabbri Risposta di: Franco Ciarleglio
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Un caro saluto a Massimo Fabbri. Confermo che l'attuale zona di Rifredi era amministrata nei territori del Contado Fiorentino (extra moenia) dal Quartiere dei ROSSI di SANTA MARIA NOVELLA. Per la precisazione il territorio dei Rossi si sviluppava fuori le mura a sinistra della via Fiesolana (attuale via degli Artisti), uscendo da Porta a Pinti, sulla base degli Editti quattrocenteschi ritrovati da Luciano Artusi presso l'Archivio di Stato. . . Queste le seste tre domande e risposte giunte in redazione, hanno contribuito: Franco Ciarleglio e Alberto Chiarugi. Chiunque desideri porre una domanda può leggere qui: https://www.florencecity.it/le-curiosita-dei-fiorentini-fate-le-vostre-domande/ Read the full article
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Gaza in ginocchio, ira e disperazione ai funerali
Con una mesta cerimonia nel cimitero di Deir el-Ballah, nel settore centrale di Gaza, sono stati inumati 14 palestinesi morti sabato in un bombardamento israeliano. Avevano lasciato le loro case di Gaza City e avevano raggiunto questa zona su indicazione dell’esercito israeliano, nella speranza di trovare un riparo provvisorio. Invece i membri del clan familiare degli Agrami sono stati coinvolti…
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adrianomaini · 2 years
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La missione del capitano Steve Hall, conclusa tragicamente
Monumento ai Caduti della ‘Brigata Calvi’ – Calalzo di Cadore (BL) […] Le lapidi sulle pareti raccolgono i nominativi dei 37 partigiani, mentre quelle sul basamento identificano la sepoltura dei partigiani che lì sono stati inumati. Infine, sul lato destro, a fianco della lapide maggiore, si trova una piccola targa di marmo in memoria del Capitano Steve Hall, ucciso nel carcere di Bolzano dopo…
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bagnabraghe · 2 years
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La missione del capitano Steve Hall, conclusa tragicamente
Monumento ai Caduti della ‘Brigata Calvi’ – Calalzo di Cadore (BL) […] Le lapidi sulle pareti raccolgono i nominativi dei 37 partigiani, mentre quelle sul basamento identificano la sepoltura dei partigiani che lì sono stati inumati. Infine, sul lato destro, a fianco della lapide maggiore, si trova una piccola targa di marmo in memoria del Capitano Steve Hall, ucciso nel carcere di Bolzano dopo…
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paoloxl · 6 years
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! Que viva Camilo ! Camilo Cienfuegos, la imagen del pueblo Camilo Cienfuegos è forse l'unico eroe più popolare di Ernesto "Che" Guevara a Cuba. Non c'è casa, negozio, ufficio, scuola, laboratorio a Cuba senza il ritratto del héroe sonriente. Camilo Cienfuegos Gorriaràn, meglio conosciuto popolarmente come "Camilo" appare nelle tante fotografie e ritratti sempre sorridente e gioviale con una folta e lunga barba, quasi che sprizzasse simpatia da ogni pelo. L' espatrio negli Usa Camilo era un uomo del popolo, un habanero doc, di umili origini, nato nel quartiere popolare di l'Avana vecchia e lì tra quella gente rimane per antonomasia il più grande ed indimenticato eroe cubano di tutti i tempi (più del Che e dello stesso Josè Martì). Mentre Che Guevara ha avuto un'indiscutibile "internazionalizzazione" della sua figura, del suo pensiero, delle sue idee, Camilo Cienfuegos ha attecchito popolarmente, è rimasto un eroe su scala nazionale: la imagen del pueblo. Ogni guerrigliero latino americano potrebbe facilmente riconoscersi nella sua figura. Alto, bruno, magro perennemente mostratoci con una barba bruna ed un cappello a metà strada tra il cow-boy statunitense ed il guajiro caraibico e con gli occhi protesi ad una genuina risata. La firma di K100 Camilo nella sua prima gioventù fu un serio ed umile lavoratore, si impegnò in mille attività e mestieri. Si distinse soprattutto negli Stati Uniti dove fu costretto ad espatriare per problemi economici e politici nei primi anni 50. Le foto del giovane Camilo nel periodo nordamericano sono diametralmente opposte a quelle stereotipate del Comàndante guerrigliero; infatti appare molto più conformista e curato con la sua faccia smilza, sbarbata con dei piccoli baffetti a rigo, sempre elegante, incravattato ed impegnato a fianco della dissidenza cubana antibatistiana. Fu proprio in quel periodo che Camilo sviluppò un grande senso dell'ironia e dell'autoironia, iniziò a firmare le sue missive ai familiari ed agli amici con un sarcastico "K100", che in spagnolo si pronuncia "Ca Cien". Sorsero negli Usa altri problemi al giovane Camilo, che fu costretto ad espatriare in Messico, dove fu poi scelto come ultimo (o forse penultimo) membro della spedizione del"Granma" da Fidel Castro. Camilo sarà poi tra i pochissimi sopravvissuti all'imboscata batistiana di Alegria del Pio e si distinguerà per le sue notevoli doti di coraggio e abnegazione alla causa della guerriglia sulla Sierra Maestra così da essere nominato Comandante di una delle più importanti colonne della guerriglia che libereranno la regione centrale dell'isola caraibica. Il bimotore scompaso L' eroe sorridente esprimerà il suo più alto capolavoro a Yaguacay, nel versante nord della parte centrale di Cuba, dove al comando di un manipolo di uomini costringerà alla resa lo stratega batistiano Jabon Lee ed i suoi soldati asserragliati nel famoso "cuartel". Questa superlativa azione congiuntamente con la straordinaria impresa di Che Guevara a Santa Clara costringerà Batista alla capitolazione definitiva e determinerà quindi l'ingresso vittorioso dei barbudos ad ovest sino a l'Avana. Dopo una serie di incarichi temporanei politici e militari all'interno della giovane giunta rivoluzionaria, il comandante Cienfuegos scomparirà misteriosamente il 28 ottobre 1959. Infatti dopo aver sedato una rivolta organizzata dal comandante Hubert Matos, lasciò l'aeroporto di Camaguey su di un piccolo bimotore diretto a L'Avana e scomparve per sempre. Probabilmente l'aereo precipitò a causa di un improvviso maltempo. Sono state avanzate varie ipotesi ed illazioni sulla sua scomparsa. C'è chi attribuisce alla Cia l' organizzazione di un attentato al bimotore, c'è chi parla solo di tragica fatalità, mentre sembrano solo baggianate le voci fatte circolare dai circoli controrivoluzionari secondo le quali Camilo si troverebbe sbarbato ed in incognita negli Usa o addirittura l' aereo in questione sarebbe stato sabotato dagli stessi vertici rivoluzionari. Questa serie di illazioni sono forse sorte dal fatto che il corpo di Cienfuegos e del pilota non furono mai rinvenuti, come i resti dello stesso apparecchio. Nel momento in cui Camilo scompare nasce il suo mito, la sua leggenda il suo eterno ricordo; addirittura Che Guevara chiamerà uno dei suoi figli Camilo. Fiori dal malecon A Yaguacay oggi vi è uno stupendo monumento dedicato all'eroe sorridente, proprio di fronte al mitico "cuartel" e sotto la statua bronzea di Camilo è situato un museo dedicato all'eroe habanero. In questo museo sono contenuti molti reperti e documenti, sicuramente quelli più interessanti sono costituiti dalla corrispondenza tra Che Guevara e Camilo, dove emerge un grande rispetto reciproco e soprattutto l'aspetto ironico ed ottimista di Camilo che unico tra i baburdos poteva permettersi di sfottere il severissimo comandante Guevara firmandosi con degli tu eterno chicharron (chicharron è un termine confidenziale per carinerie intime tra due persone). L'eroe di Yaguacay, scomparso a soli 27 anni viene celebrato ogni 28 ottobre da tutti i cubani, che si recano lungo i "malecon" (i lungo-mare) con stupendi mazzi di fiori e vassoi colmi di petali, che all'unisono vengono lanciati in mare. Quello stesso mare che è oggi beffarda illusione per molti caraibici e che tiene distanti... molto distanti i latino americani dagli statunitensi. Eugenio Lorenzano (Liberazione) William Galvez parla di Camilo Cienfuegos (intervista di Marco Papacci dell'Ass-Italia-Cuba) VEDI tutto il lungo TESTO INTEGRALE DELL'INTERVISTA SUL SITO SEGUENTE: http://web.tiscali.it/ItaliaCuba/galvez.htm D: I giovani italiani conoscono il Che per la sua storia politico-militare, di dirigente e di combattente internazionalista, però non conoscono Camilo Cienfuegos. Puoi raccontarci brevemente chi era EL SENOR DE LA VANGUARDIA? R: Per prima cosa voglio dirti che lui proveniva da una famiglia umile, operaia, di genitori spagnoli. Camilo era il terzo di tre fratelli. Don Ramon e sua moglie Emilia educarono i figli in maniera esemplare. Ossia rispettosi del prossimo, amore per lo studio, per la famiglia e propensi alla solidarietà. Nella casa della famiglia Cienfuegos Gorrarian si respirava un’aria di gente onesta, seria sotto tutti i punti di vista. Gli altri fratelli si chiamavano Humberto, che è scomparso recentemente e Osmany, entrambi hanno lottato per la rivoluzione. La difficile situazione economica della famiglia li portò spesso a cambiare casa. Possiamo dire che il giovane Camilo crebbe con delle difficoltà, ma non arrivò mai all’eccesso di fare l’elemosina né il lustrascarpe, cosa molto corrente tra i giovani cubani dell’epoca pre-rivoluzionaria. Era un giovane con molti interessi, gli piaceva molto praticare lo sport e divertirsi con i suoi amici. Un giovane sano ma con una inquietudine di carattere sociale e politico. Prima del golpe del 1952 partecipa ad una manifestazione contro l’aumento del biglietto per i mezzi di trasporto. Partecipa alla manifestazione dove vengono inumati i resti del leader sindacale assassinato a Santiago de Cuba, Jesus Menendez. Voglio ancora tornare sul periodo giovanile. Quando era studente della scuola primaria, veniva sempre scelto per le attività di carattere patriottico. Quando passò all’ottavo grado, aveva una certa inclinazione per le arti plastiche, voleva essere uno scultore. Si iscrisse ad una scuola vicina alla San Alejandro. Con l’aggravarsi della situazione economica della famiglia inizia a lavorare come commesso in un negozio d’abbigliamento maschile e di conseguenza abbandona gli studi. Questa cosa lo segnerà per tutta la vita. Camilo si conquista subito il posto fisso, per i suoi modi di fare, simpatici e coinvolgenti. Quando si producono gli scontri del 10 di marzo, gli studenti universitari diffondono un appello per difendere l’università, Camilo si schiera immediatamente al lato degli studenti. D: E’ in questo periodo che emigra verso gli Stati Uniti? R: Si. Per aiutare economicamente ancora di più la sua famiglia, decide di emigrare insieme ad un suo amico d’infanzia negli States. Gli concedono un visto turistico per soli 29 giorni. Passati questi, risiede illegalmente come clandestino. Il fatto di essere negli USA non gli fa dimenticare quanto sta succedendo a Cuba. Inizia così a scrivere degli articoli su un giornale sostenuto da un gruppo patriottico. Viene intervistato da una radio locale, partecipa a picchetti di protesta contro le visite dei tiranni sudamericani negli Stati Uniti e manifesta in favore della richiesta di amnistia per i prigionieri politici a Cuba. Il fatto di essere illegale, lo preoccupava. Fortunatamente parlava un discreto inglese e per questo motivo spesso lo scambiavano per un portoricano. Dal 1953 fino al 1955, quando viene arrestato, risiede negli States, successivamente viene espulso. Camilo prende coscienza che bisognava lottare contro la dittatura di Batista, però non ha chiaro il metodo e non conosce bene i fatti del Moncada. Quando torna a Cuba, si rende conto che i fratelli e gli amici più stretti stavano lottando contro la dittatura. Durante la sua permanenza sull’isola, legge LA STORIA MI ASSOLVERA’ e ascolta la denuncia che Fidel fa all’uscita dal carcere. Già in questo momento ha capito quale sarà la sua forma di lotta. Il 7 dicembre del 1955 viene ferito durante una manifestazione studentesca. Il 22 gennaio 1956 partecipa ad un'altra manifestazione per ricordare Josè Martì, viene malmenato e arrestato dalla polizia. A questo punto non gli interessa più risolvere i suoi problemi economici, vuole unirsi alla causa di Fidel Castro. Ritorna negli Stati Uniti per guadagnare un po’ di soldi, per poi trasferirsi in Messico. Il suo dovere adesso è quello di lottare per la liberazione di Cuba, compiere con la lotta, quel cammino educativo che la sua famiglia gli ha dato. D: Cosa succede dopo questa presa di coscienza? R: Dagli Stati Uniti si dirige in Messico e qui prende contatto con un suo amico che aveva preso parte al Moncada, si chiamava Reynaldo Benitez. Non fu facile farsi accettare nel gruppo dei partenti perché lui non militava in nessuna organizzazione antibatistiana. Reynaldo Benitez e altri due amici riescono a farlo accettare. Nel mese di novembre del 1956 si imbarca insieme ad altri 82 uomini nel Granma, come semplice soldato. Dopo lo sbarco è tra quelli che si salvano dopo la battaglia di Alegria de Pio. Nel suo gruppo erano presenti Juan Almeyda, Ramiro Valdez, Pancho Gonzales, il Che e Reynaldo Benitez ed altri che ora non ricordo. Successivamente si riorganizzano e il 24 dicembre insieme ad altri venti combattenti salgono sulla Sierra Maestra. Nel frattempo Mongo Perez e Faustino sono incaricati da Fidel di prendere contatto con Frank Pais per riattivare il M26/7. Quando si produce il primo scontro armato de La Plata, Camilo si distingue come un gran combattente. Mano a mano che l’Esercito Ribelle si organizza, Camilo va sempre all’avanguardia del suo gruppo, in esplorazione. Nonostante non avesse un gran fisico, riesce ad adattarsi bene alla vita di montagna, come fece lo stesso Che nonostante la malattia di cui soffriva. Con l’arrivo dei rinforzi inviati da Frank Pais l’Esercito Ribelle va ingrandendosi e diversi sono gli scontri e le battaglie vinte. Camilo è già il SENOR DE LA VANGUARDIA. Il CHE ricorda CAMILO: VAMOS BIEN " Y la seguridad, expresarles la seguridad de que aquel ¿"voy bien"? de Fidel cuando le preguntara a Camilo, en la Ciudad Militar a los primeros días o el primer día de su llegada a La Habana, no significa la casualidad de una pregunta hecha, a un hombre que de casualidad estuviera a su lado, era la pregunta hecha a un hombre que merecía la total confianza de Fidel, en el cual sentía, como quizás en ninguno de nosotros, una confianza y una fe absoluta". CHE Fonte sito cubano: http://www.tribuna.islagrande.cu/Camilo/camilo1.htm Camilo, un capo alla testa degli invasori Generale di Brigata ritirato William Gálvez Il 10 agosto del 1958 Camilo venne chiamato dal Comandante in Capo che si trovava a Las Mercedes. Eravamo in tre lungo il percorso della bella zona di montagna e si notavano le tracce della guerra. Nel batey c’erano Fidel, Celia, il Che e altri compagni. Stavano discutendo con un colonnello del regime sulla consegna dei prigionieri, anche se l’obiettivo reale di quell’incontro era sondare le disposizioni del capo dei ribelli sull’accettazione di un golpe militare per sostituire Batista. Il Comandante in Capo - che si opponeva in maniera categorica a questa possibilità ideata nelle più alte sfere dell’esercito - esigeva categoricamente che il governo passasse alla guida dei dirigenti rivoluzionari. Una diCamilo Nel luogo delle riunione ci sono una cassa di bibite e una scatola di sigari che hanno sull’anello la propaganda di Rivero Agüero, un candidato alla tirannia della Repubblica. Con il suo forte senso dell’umorismo Camilo prende alcuni sigari e dopo averli ripartiti esclama sorridendo: “ Bene adesso mandiamo in fumo Riverito...” Fidel lo informa sul piano di invasione dell’occidente e Camilo chiede che la colonna porti il nome di Osvaldo Herrera, per ricordare un eroico rivoluzionario morto in combattimento. Fidel gli spiega però che è già stato scelto il nome di Antonio Maceo e Camilo comprende che ricordare le pagine più gloriose della guerra del ‘95 è più adeguato, poichè Maceo era il più geniale tattico e stratega mambi. Il comandante Guevara aveva la missione di condurre una seconda colonna di invasori sino a Las Villa. L’offensiva ribelle Una volta sconfitta l’offensiva nemica, il Comandante in Capo, convinto dalla necessità di intensificare la guerra al di là dell’oriente, come nella guerra di indipendenza, sino a raggiungere le province occidentali considera che è giunto il momento. Il recente successo militare offre l’opportunità unica per realizzare l’offensiva dei ribelli. Le colonne ribelli avanzeranno in tutte le direzioni nel resto del territorio senza che nulla o nessuno le possa fermare, annuncia Fidel nella sua relazione sull’offensiva. In oriente le basi delle operazioni delle forze ribelli sono ferme e invulnerabili. Oltre alla Sierra Maestra, centro e avanguardia eroica del Primo Fronte José Martí, c’erano anche il Secondo e il Terzo Fronte. Non sono pochi coloro che conoscendo l’importanza del nuovo impegno pensano che le truppe selezionate possono condurre la guerra sino all’estremo occidentale dell’Isola, ma perseguitate dalle forze superiori del nemico, verranno distrutte e annichilite. Il grande ottimismo di Fidel davanti alle situazioni cosi difficili gli ha permesso di vincere e anche stavolta non ci saranno eccezioni. La guerra nel suo impetuoso sviluppo offre la possibilità a molti compagni di rendere manifeste le loro capacità eccezionali per il comando e per la guerra. Camilo è uno dei primi ed è a lui che Fidel assegna la missione storica di dirigere l’invasione sino a Pinar del Río. L’ordine del massimo leader della Rivoluzione non è impossibile da compiere, ma è molto rigoroso e difficile per il ungo percorso da compiere da parte delle truppe degli invasori, in un terreno praticamente sconosciuto e piano nella sua maggior parte della sua estensione. Non si devono ignorare le potenti risorse che il nemico concentrerà contro le colonne in marcia verso occidente, quando scoprirà la loro presenza. È a El Salto che inizia la selezione di coloro che faranno parte della colonna degli invasori. Il 17 Camilo, il nostro capo marcia va a ricevere le ultime istruzioni per l’invasione e il 18 ritorna all’accampamento e ci fa vedere la storica credenziale: “ Si affida al Comandante Camilo Cienfuegos la missione di condurre una colonna ribelle dalla Sierra Maestra sino alla provincia di Pinar del Río per compiere il piano strategico dell’esercito ribelle. La colonna Antonio Maceo, poichè si chiamerà così la forza degli invasori in omaggio al glorioso guerriero dell’indipendenza partirà da El Salto il prossimo mercoledì 20 agosto del 1958. Al Comandante della colonna degli invasori si concedono tutte le facoltà di organizzazione di unità di combattimento ribelle nel territorio nazionale sino a che i comandanti di ogni provincia arriveranno con le loro colonne alle loro rispettive giurisdizioni, egli potrà applicare il codice penale e le leggi agrarie dell’esercito ribelle nei territori conquistati, ricevere i contributi stabiliti con le disposizioni militari, combinare operazioni con tutte le forze rivoluzionarie che incontrerà e in settori determinati, stabilire un fronte permanente nella provincia di Pinar del Río, che sarà la base delle operazioni definitive della colonna degli invasori e designare per tutti questi fini ufficiali dell’esercito ribelle, sino al grado di comandante di colonna. La colonna degli invasori ha l’obiettivo primordiale di combattere una guerra di liberazione sino all’occidente dell’Isola e a questo si dovrà posporre ogni questione tattica e ci si batterà contro il nemico in tutte le occasioni che si presenteranno durante il percorso. Le armi che si prenderanno al nemico verranno destinate alle organizzazioni delle unità locali. Per premiare, segnalate e stimolare gli atti di eroismo nei soldati e negli ufficiali della Colonna degli Invasori No.º 2 Antonio Maceo si crea la medaglia al valore Osvaldo Herrera, capitano di questa colonna, che perse la vita nelle prigioni di Bayamo dopo una coraggiosa ed eroica resistenza, subendo le torture degli sbirri della tirannia. Firmato Fidel Castro Ruz, Comandante in Capo. Le piogge torrenziali, che provocarono la crescita del fiume Yara impedendo il passaggio, permisero l’inizio della storica invasione solo il 21 agosto. A 26 anni il giovane guerrigliero Camilo Cienfuegos Gorriarán è uno dei più importanti capi dell’esercito ribelle ed ha la responabilità di una delle più importanti e rischiose missioni di tutta la guerra di liberazione cubana: L’INVASIONE
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t-annhauser · 7 years
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Il teschio di Cartesio
Arsenico e vecchi occipitali
Cartesio era un uomo molto prudente, non voleva fare la fine di Galileo, era anche disposto ad abiurare per vivere la sua vita in santa pace, e le sue stesse regole della morale provvisoria erano tutte improntate alla cautela e all’understatement, eppure, proprio sul finire degli anni, commise un’imprudenza addirittura fatale, un’imprudenza che gli costò la vita: accettò di fare il precettore della regina Cristina di Svezia, sua discepola e ammiratrice. Narra la leggenda che la Regina lo costringeva ad uscire di casa prestissimo la mattina per impartire le sue lezioni, addirittura alle cinque, e verso quell’ora, a quei tempi, doveva davvero fare un freddo micidiale da quelle parti, cosicché il povero Cartesio, già deboluccio di suo, si buscò la polmonite e il suo progettino di vivere in santa pace sotto l’aluccia protettrice della sovrana di Svezia si concluse tosto con la morte.
A questo punto cominciò la lunga avventura dei suoi resti mortali, che restarono in Svezia a congelare per circa sei anni, dopodiché dovettero affrontare il viaggio di ritorno in patria, fra buche, strappi, scossoni e mal di mare, per venire inumati nella chiesa parigina di Sainte Geneviève-du-Mont.
Finita qui? Macché, troppo bello. Nel 1819 si decise di trasferirne i resti nella chiesa di Saint-Germain-des-Prés: «alla presenza dei rappresentanti dell'Accademia delle scienze, la salma fu ancora riesumata. Aprendo la bara, i presenti si resero conto che qualcosa non andava, in quanto allo scheletro del filosofo mancava misteriosamente il cranio.»
Mancava la testa! Dov’era finita la testa? Si scoprì che era rimasta in Svezia, a far da fermacarte a una sequela di illustri notabili svedesi, i quali vi avevano apposto sopra le loro firme come a un souvenir (pare che all’epoca avere per fermacarte il cranio di un illustre personaggio fosse un lusso fra i più ricercati, a mo’ di memento mori). 
Alla fine il cranio, recuperato ad un asta, venne restituito ai francesi, i quali, invece che ricomporlo assieme al resto del corpo, preferirono esporlo come reliquia presso il Musée de l'Homme, dove pare si trovi tutt’ora, impreziosito da  una targhetta con scritto sopra “A.B. Normal” (scherzo, c’è scritto “teschio di René Descartes”).
(Il tutto condito poi da un giallo alla Dan Brown, qualcuno infatti credette di ritrovare nel teschio tracce di avvelenamento da arsenico ma per non indugiare oltre ci fermiamo qui: riposa in pace Cartesio!).
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Tradizioni ed edilizia funerarie a Spongano
di Giuseppe Corvaglia
  Nel 1600, come in tutti i paesi di Terra d’Otranto, a Spongano non c’erano cimiteri e i defunti venivano seppelliti nelle chiese. La Chiesa Madre aveva le tombe della comunità che, successivamente, saranno differenziate in: quelle per i sacerdoti, poste vicino all’altare maggiore, quelle per i nobili (sepulchra nobilium) anch’esse poste in prossimità dell’altare o vicino agli altari della famiglia, quelle delle vergini (tumbae virginum), quelle dei bambini (parvulorum sepulchrum) e quelle degli altri abitanti. La prima a essere sepolta in Chiesa Madre, nel 1604, fu una certa Domenica Gallona.
Ancora oggi si può osservare il pavimento della sacrestia, in parte ristrutturato, ma in parte ancora irregolare, deformato dalla pressione dei gas, formati dai processi di decomposizione dei corpi.
I nobili, come detto, avevano urne vicino agli altari, di cui avevano jus patronato, o una tomba vicino all’altare maggiore, ma alcuni di essi potevano essere sepolti nelle cappelle patrizie di proprietà.
Accadeva per gli Scarciglia e i Riccio, ad essi imparentati, che tumulavano i propri defunti nella Cappella di San Teodoro, fatta erigere da Don Pomponio Scarciglia, e per i Bacile che costruirono la propria cappella, prospiciente il Palazzo e dedicata alla Madonna dei sette dolori, grazie all’opera di Don Giuseppe Bacile, Arcidiacono della Cattedrale di Castro. In essa il primo ad esservi tumulato fu Giovanni Antonio, fratello del prelato.
Ricordiamo pure che nella piccola comunità era attiva una Confraternita della Buona morte che garantiva un funerale ai poveri che non potevano permetterselo e pregava in suffragio delle anime, avendo patronato su un altare della chiesa che, in seguito, verrà dedicato a Santa Vittoria.
Quando le fosse della chiesa si riempivano e quando la chiesa fu chiusa, per i lavori di restauro nel XVIII secolo, i defunti furono tumulati nella Chiesa della Madonna delle Grazie che oggi conosciamo come Congrega.
Se il numero dei morti diventava elevato, come accadeva in occasione di epidemie, quali: il colera nel 1836, il vaiolo nel 1880, la difterite nel 1886, la scarlattina, il morbillo nel 1888… si ricorreva al cimitero epidemico (Agro Sancto Epidemico) che si trovava sulla via per Surano, in Contrada Taranzano. La rivoluzione francese aveva affrontato il problema delle sepoltura con l’uso delle tombe comuni poste a distanza dai centri abitati.
A Spongano, come in tutto il Regno delle Due Sicilie, si comincia a parlare di Cimitero solo nel 1817, quando una legge, “per garantire la salute pubblica, ispirare il rispetto dei morti, e conservare la memoria degli uomini illustri”, dispose che i defunti venissero inumati o tumulati in luoghi appositi, chiusi da mura e da un cancello, distanti almeno un quarto di miglio dal centro abitato. A Spongano e nei comuni associati, Surano e Ortelle, si cercarono i siti per la costruzione del cimitero locale. Per Spongano si individuò un luogo detto “Vignamorello”, posto fra l’attuale piazza Diaz e la ferrovia, dove c’era una grotta, usata come neviera in disuso, che avrebbe consentito di inumare le salme più agevolmente.
L’iter fu travagliato e furono proposti, negli anni, altri luoghi, ma senza mai decidersi a realizzarlo, nonostante un altro dispositivo, il Real Rescritto dell’11 gennaio 1840, reso esecutivo in Terra d’Otranto il 25 gennaio 1840.
A questo contribuì l’opposizione, più o meno palese, del Clero, che traeva benefici economici dal tumulare i morti nelle chiese, la credenza dei fedeli che la tumulazione in Chiesa, vicino alle reliquie dei santi e luogo di preghiera, fosse migliore e, soprattutto, la necessità delle varie amministrazioni di stornare i fondi destinati ai cimiteri per spese più necessarie e urgenti, differendo la soluzione del problema.
Nel 1880 la Regia Amministrazione Sabauda ritorna alla carica con leggi apposite e stimola decisamente i Comuni a dotarsi di un Cimitero. In questa temperie, i Decurioni, nel 1883, decidono di costruire il nuovo cimitero acquistando all’uopo un fondo denominato “Campo San Vito” sulla via per Ortelle. Il progetto fu fatto dall’Ingegner Pasanisi e fu approvato dal Genio Civile nel 1885.
Il Camposanto fu inaugurato l’11 maggio 1885 e già il giorno dopo vi fu sepolto il primo sponganese, Ruggero Alamanno. Da allora non furono più seppelliti morti in chiesa (l’ultima salma fu tumulata in Chiesa il 1° maggio 1885).
Ingresso del cimitero di Spongano
  Architettonicamente possiamo dire che, nel complesso, la parte più antica risente di quel gusto architettonico, molto in voga nell‘800 fino agli inizi del ‘900, chiamato Eclettismo, qui particolarmente evidente, che utilizza in libertà tutti gli stilemi architettonici del passato, come modelli di riferimento, per progettare edifici esteticamente belli che colpiscono il gusto del fruitore ancora oggi.
La facciata, austera, si ispira a un’architettura classicheggiante; in alto al centro è scolpito il chrismon con ai lati l’alfa e l’omega, all’apice una croce (caduta e non più ripristinata) con due fregi ai lati.
Statua di Cristo risorto di A. Marrocco
  Sempre all’ingresso sono situate due epigrafi in latino che ammoniscono gli umani.
Una riporta “La mia carne riposa nella speranza” (CARO MEA REQUIESCET IN SPE) e l’altra dice “Il corpo corruttibile e mortale dell’uomo conduce all’immortalità”  (MORTALE INDUET IMMORTALITATEM).
    Alcuni anni fa è stata posta, nel piazzale antistante, una bella statua bronzea dell’artista contemporaneo Armando Marrocco che rappresenta Gesù risorto.
Anche la tomba comune, dove trovavano sepoltura tutti i cittadini che non avessero una tomba propria, si ispirava a un sobrio classicismo. L’ingresso, sormontato da un timpano con un bordo modanato in pietra leccese, aveva due nicchie laterali e una porta centrale che conduceva a un semi-ipogeo, che ricordava le catacombe, dove vi erano i loculi che accoglievano le salme e una fossa comune (a carnara). In fondo, al centro, vi era un altare dedicato alla Madonna del Carmine, oggi restaurato. Negli scorsi anni è stata restaurata la tomba comune ricavando al piano terreno dei colombari nuovi e un ampio ambiente coperto; la nuova facciata riecheggia la forma della vecchia struttura.
Più o meno coeve sono diverse cappelle gentilizie, costruite con stili diversi, anch’essi liberamente ispirati all’Eclettismo.
Anche a Spongano, come in quasi tutti i comuni del Salento, le famiglie nobili, borghesi o benestanti, sentivano la necessità di costruire la propria cappella funeraria per custodire le spoglie dei propri cari, ricordarne la memoria, ma anche per ostentare il proprio stato.
La materia usata, prevalentemente, è la pietra leccese che, come dice Gabriella Buffo nel suo articolo su Fondazione di Terra d’Otranto, “Edilizia funeraria a Nardò e nel Salento”, “diventa il morbido tessuto su cui ricamare tutta la simbologia della morte”.
Entrando si può ammirare, sulla sinistra, la tomba della famiglia Rizzelli che sfoggia uno stile classico arricchito, da ghirlande di fiori, scolpite nella pietra leccese. La facciata è abbellita da due colonne sovrastate da un timpano semicircolare che si ripete sui quattro lati. Lo stesso stile classico si può osservare nella più discreta tomba dei Rini.
Cappella della famiglia Rizzelli
      Particolare della cappella Rizzelli (lato nord)
   Di fronte vi è la cappella della famiglia Coluccia che richiama uno stile neoromanico, come la cappella della famiglia Scarciglia che si trova più avanti. In quest’ultima, oltre al raffinato portale, che richiama le decorazioni di Santa Caterina in Galatina e di San Nicolò e Cataldo a Lecce, si nota un bel rosone con al centro una testa di leone.
Cappella Scarciglia
  particolare con il rosone della cappella Scarciglia
  Di stile neorinascimentale è la cappella dei Bacile, progettata da Filippo Bacile, architetto e umanista pregevole, sempre seguendo il gusto dell’eclettismo in voga. Il portale è protetto da un elegante loggiato, sormontato da una sorta di baldacchino, con un timpano, sorretto da due colonne, adorne di capitelli corinzi, che reca lo stemma di famiglia e un bordo con gli spioventi decorati a scacchiera, dove si alternano cubetti cavi a cubetti pieni. L’interno della cappella è semplice e le sepolture sono allocante in una parte semi-ipogea.
Cappella della famiglia Bacile
  Cappella funeraria della famiglia Rini
  Cappella funeraria della famiglia Coluccia
  Nel corso degli anni il cimitero è stato ampliato e oggi si possono vedere tombe più moderne, alcune dallo stile essenziale, altre di pregevole fattura come quella che accoglie il Caporal maggiore Antonio Tarantino, caduto a Nassirya durante una missione di pace. La cappella, progettata dall’architetto Virgilio Galati, presenta sulla facciata uno squarcio che rompe due strati: quello del corpo (pietra leccese) e quello dell’anima (cemento). Un altro squarcio spacca la parete posteriore che, con la sua struttura a lamelle sovrapposte, sembra la corazza di un guerriero e quello squarcio diventa un finestrone irregolare che, orientato a est, accoglie la luce del sole che nasce. All’interno, sulla tomba del giovane milite, si ergono due possenti, ma al tempo stesso elegantissime, ali di angelo in marmo greco. La pavimentazione e la volta riproducono cerchi come pianeti di una costellazione. Il tutto esprime la tensione a volare in cielo, ma, allo stesso tempo, la crudele e dirompente realtà della fine di una giovane vita.
Cappella del caporal maggiore Antonio Tarantino, caduto a Nassirya
                       particolare della cappella funeraria Tarantino
  Interessante la cappella di un altro soldato, morto tragicamente mentre era in servizio, Claudio Casarano, figura eclettica di artista prestato all’esercito; in essa è possibile ammirare la riproduzione in marmo di Carrara di una sua scultura in legno d’ulivo, molto suggestiva che esprime il rinchiudersi in se stessi per non vedere la crudeltà del mondo. Interessante anche sulla facciata un sofferente crocifisso in ferro battuto, fatto dal milite nella sua attività artistica.
Particolare della cappella Casarano
  Pure di interesse è la tomba Polimeno per gli infissi in ferro battuto di Simone Fersino, che si rifanno al mosaico di Pantaleone della Cattedrale di Otranto (l’albero della vita che poggia su due elefanti e Alessandro Magno sui grifoni), e un bellissimo angelo sull’altare, affrescato da Roberta Mismetti in foggia bizantina.
Altra tomba particolare è la tomba Corvaglia, progettata dall’Architetto Sigfrido Lanzilao, posta dietro la tomba Rini. Segno caratteristico è un piccolo arco a tutto sesto che richiama l’arco romano e poggia su due colonne a sezione quadrangolare (o a pilastro) e che, con armonia ed eleganza, sovrasta le tombe e accoglie un crocifisso in legno, ottenuto da un artista ligure con rami rimaneggiati dal mare. Le tombe ai lati sembrano due ali disposte come un abbraccio che accoglie; all’interno ci sono due fioriere una a forma di ciotola votiva e una che richiama un antico mortaio con i simboli della forza e del coraggio (zampa di leone), dell’estro e dell’allegria (uva), del genio e della tecnica (squadra) e della vita ottenuta dalla morte (spiga di grano) opera, come l’arco, di Bruno Polito.
Fino a qualche anno fa c’era un piccolo cenotafio, un vaso commemorativo, in pietra leccese, scolpito e decorato da un genitore affettuoso e valente artigiano, Oronzo Rizzello, per la piccola figlia Graziella, portata via da una malattia e sepolta in una tomba comune. Il vaso (su cui era scritto A GRAZIA RIZZELLO I GENITORI e poco sotto a soli tre anni ti perdemmo, chi ne consolerà) è stato rubato da mani sacrileghe, durante dei lavori di riposizionamento.
Ma il Cimitero non è solo l’insieme di note storiche, stilemi architettonici, lapidi e sculture: il Cimitero è, soprattutto, un crogiuolo di ricordi, talvolta intimi, evocati dai foto-ritratti o dagli epitaffi e di storie, talvolta, solo immaginate.
Tipico esempio di questa evocazione è il giro che si fa il giorno dei morti, quando si vaga senza uno scopo preciso, oltre le solite visite, per cercare un parente più lontano che ci ha lasciato o un amico che non c’è più e, talvolta, ci si perde a immaginare la vita della persona raffigurata in un ritratto antico.
Di quei giorni e di tante domeniche mi vengono in mente le discese veloci dalla copertura della scala della tomba comune, un piano inclinato, pavimentato di chianche, su cui ci si arrampicava e si scendeva d’un fiato. Il pensiero oggi mi fa rabbrividire per il rischio che correvamo, ma all’epoca chi ci pensava?
Anche un luogo così mesto poteva diventare divertente, come le coccole dei cipressi che diventavano biglie … o pallottole.
Io, poi, ogni volta che varco il portale dell’ingresso e vedo la porta sulla sinistra, non posso fare a meno di ricordare il mio bisnonno, Donato, che, come capomastro, partecipò alla costruzione di quel camposanto e, una volta ultimati i lavori, ebbe anche l’incarico di custode notturno che svolgevano a turno i figli i quali, per farlo, dormivano in una cameretta al primo piano sopra la camera mortuaria a cui si accedeva, appunto, da quella porticina.
Quando c’era un morto, gli si legava alle mani una cordicella che saliva fin nella cameretta e si collegava a una campanella che avrebbe suonato in caso di risveglio del trapassato, come accade nei casi di morte apparente (nell’architrave dell’ufficio del custode che una volta era camera mortuaria, è possibile vedere ancora la carrucola e il foro che portava alla cameretta del custode).
Donato Corvaglia capomastro muratore
  Mi ricordo pure di un altro Donato Corvaglia, un caro amico. Era una persona speciale che, come impiegato comunale, svolse diversi ruoli: netturbino, archivista, messo comunale e alla fine custode del cimitero e “precamorti”. Di lui ricordo la bontà e la bonomia, la cura nell’insegnarci il catechismo, la semplicità e la sensibilità delle sue poesie che amava comporre in quella pace, ma anche la delicatezza e la discrezione nei momenti della sepoltura, quando il distacco fra il defunto e i familiari diventava lacerante. Lui mostrava sempre umana pietà, sensibilità, solidarietà e la giusta fermezza, tutte viatico per l’addio. Ha lasciato in eredità ai suoi colleghi un attrezzo da lui inventato che loro chiamano, affettuosamente, Mangone (era il soprannome patronimico) che serve a scardinare la lastra di pietra murata nelle dissepolture.
E poi, ai più attempati verrà in mente un altro Precamorti mitico: u Paulu.
“Paulu” viveva, praticamente, nel cimitero anche se aveva una sua casa in paese. Vestiva abiti dimessi, era solo e, spesso, accettava la carità di un pasto, offerto per “l’anima dei morti”, o anche solo un bicchiere di vino, due, tre….*
Lui accettava volentieri, ma veniva considerato uno sventurato e, spesso, i ragazzi lo prendevano in giro. Allora lui, quando si arrabbiava, urlava minaccioso: « A cquai ve spettu tutti!!!» ( Vi aspetto tutti qui!!! intendendo al Camposanto).
Aveva preso parte in una sacra rappresentazione della Passione di Cristo, rimasta memorabile, (quella, per intenderci, in cui Mesciu Carmelu Carluccio, cantore, era Gesù) interpretando un efficace e credibilissimo Cireneo che, su quelle spalle malferme, sbilenche, si caricava il segno della redenzione del mondo senza essere il Messia.
Altri aneddoti si raccontano su di lui. In particolare si racconta di una giovane vedova, innamoratissima del marito, morto prematuramente, la quale, ogni giorno, portava sulla sua tomba delle pietanze, come se fosse vivo. Paolo se le mangiava e lei ogni giorno non mancava di rinnovare il suo gesto affettuoso nei riguardi del marito. Un giorno di estate, nel caldo della canicola, era scesa nel colombario sotterraneo e non poteva immaginare che Paolo precamorti si fosse infilato in un loculo per sfuggire alla morsa di quel caldo soffocante. Quando lo vide uscire, per poco non rimase stecchita. Era una donna forte, molto cara, che non morì per lo spavento, ma concluse la sua vita in tarda età con la compagnia di due cani affettuosi per poi ricongiungersi al suo amato Salvatore.
    *Piccola nota di costume.
Nel Salento si usa offrire delle cose da mangiare, specie a chi è più sfortunato, per ottenere delle preghiere in suffragio delle anime defunte. È quasi come offrirle al caro che non c’è più e, spesso, il cibo o il frutto offerto è quel cibo o quel frutto che piaceva particolarmente al caro estinto.
Talvolta si sogna un caro che manifesta il desiderio di un cibo e si cerca di soddisfarlo, dando quel cibo a qualcun altro che quel cibo può mangiarlo fisicamente. C’è chi racconta di aver regalato dei cibi a qualcuno e che il caro estinto sia andato poi in sogno, esprimendo soddisfazione per quel pasto.
In particolare una conoscente, riferiva di aver preparato e donato delle sagne col sugo da portare a una famiglia benestante che, però, non apprezzava particolarmente quel dono. La domestica, incaricata del servizio, un giorno aveva fame, si sedette e se le mangiò. Dopo aver mangiato si sentì ristorata e soddisfatta e, come si usava, pregò il riposo eterno ai defunti della donatrice. Nei giorni successivi, chi aveva donato il cibo sognò il defunto che mangiava le sagne, seduto su alcuni gradini. Quando la donna rivide la domestica, per ripetere il dono, le chiese se le sagne erano arrivate a destinazione. Di fronte alle domande insistenti, la donna raccontò la verità e il posto dove le aveva mangiate era lo stesso dove, nel sogno, il caro defunto si era seduto a mangiare. Da allora le sagne, quando preparate, furono destinate alla domestica.
Un’altra volta, un’altra massaia aveva mandato del pesce fritto da portare in dono e chi lo portava, inciampando, ne fece cadere, accidentalmente, alcuni. Non poteva rimetterli nel piatto, ma non voleva buttare quel ben di Dio. Così li pulì dalla polvere e se li mangiò con gusto pregando un Recumaterna alli morti sentito.
Giorni dopo la massaia sognò il defunto che raccoglieva del pesce da terra e se lo mangiava. Indagò e scoprì l’accaduto.
Come diceva il Commedantore del Don Giovanni Mozartiano: “Non si pasce di cibo terreno chi si pasce di cibo celeste…” e per noi uomini moderni è difficile credere che ci possano essere dei legami reali e sostanziali diversi da quella che può essere solo una suggestione.
Anche una richiesta, oggi domandata per favore, un tempo veniva perorata chiedendola “per l’anima de li morti toi”. Magari, se la richiesta era particolarmente importante, per meglio ottenerla, si chiedeva il favore per l’anima di un defunto particolarmente caro (Pe l’anima de lu Tata tou, o pe l’anima de la Mamma tua).
Inoltre ogni volta che si voleva ringraziare qualcuno si usava dire “Recumaterna alli morti toi” (in segno di ringraziamento, prego il riposo eterno per i tuoi cari defunti) o anche Ddhrifriscu de i morti, che vuol dire la stessa cosa oppure Ddhrifriscu de Diu che voleva dire che il Signore Iddio misericordioso conceda il riposo eterno ai tuoi defunti. Anche questo andava a consolare le anime che, secondo gli insegnamenti cristiani, potevano stare in Purgatorio in attesa della beatitudine.
Per contro, se si voleva offendere qualcuno in modo estremo, ci si rivolgeva a lui imprecando contro i suoi defunti.
  Si ringraziano per le foto Mirella Corvaglia e Antonio Corvaglia
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maec-cortona-blog · 5 years
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come indossare l'armilla ⭕ Generalmente per armille si intendono quei bracciali che venivano portati sopra il gomito: risulta difficile distinguerle dai bracciali che si portavano al polso, a meno che le une o gli altri non si rinvengano ancora indosso a defunti inumati. 👉🏻 Gli esemplari di Trestina esposti al MAEC rientrano nel tipo più semplice, essendo costituiti da una verghetta chiusa in bronzo fuso, di forma e sezione circolare. ⚔ Come attributo maschile è verosimile che l’armilla avesse un valore di distinzione sociale, connotando la figura del guerriero. 💎 Nel mondo etrusco erano più frequenti bracciali in lamina bronzea, o anche in materiali preziosi come l’oro, avvolti a spirale e riccamente decorati. 📷 Spillone di fibula (X secolo a.C.) e armilla (inizio VI secolo a.C.), bronzo fuso (fusione piena), provenienti da Trestina - località Tarragoni. #MAECcortona #MAEC #MAECmuseo #Cortona #archaeology #apropositodelMAEC #trestina #piceni #archeologia #cortonagram #archeologicalmuseum #archeology #MAECcollection #armilla #spillone #fibula @comunediCortona (presso Maec Cortona) https://www.instagram.com/p/B2G9DWNiulW/?igshid=18gsgeezblf7o
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RADIOCARBONIO E TAC SU RESTI UMANI RIVELANO TRADIZIONI DELL'ETA' DEL BRONZO
RADIOCARBONIO E TAC SU RESTI UMANI RIVELANO TRADIZIONI DELL’ETA’ DEL BRONZO
Utilizzando la datazione al radiocarbonio e la tomografia computerizzata o TAC per studiare le ossa antiche, alcuni ricercatori hanno scoperto la tradizione dell’Età del Bronzo inglese di conservare e curare i resti umani inumati come reliquie per diverse generazioni.
Gli studi, guidati dall’Università di Bristol e pubblicati sulla rivista Antiquity, sebbene possano sembrare inquietanti o…
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jacopocioni · 9 months
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Oratorio dei Rucellai
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Ogni mattina, andando al lavoro, mi trovo a passare davanti ad un edificio che da sempre mi costringe a pormi la stessa, ripetitiva, retorica domanda: “possibile che debba essere lasciato in stato di completo abbandono?”. La risposta, evidentemente, è sì, visto che sono perlomeno dieci anni che ci passo davanti e che niente cambia, se non in peggio.
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L’edificio in questione è la Cappella Rucellai al Lippi. A molti sarà pressoché sconosciuta, immagino, per cui brevemente ve ne traccio una piccola descrizione. Si tratta di un Oratorio, posto all’incrocio tra Via Perfetti Ricasoli e Via Pietro Fanfani. Faceva parte del complesso di edifici che comprendeva la Villa Lippi-Macia, demolita nel dopoguerra dal Nuovo Pignone, per costruire al suo posto la mensa della fabbrica.
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Oltre alla Villa, c’era un tabernacolo, di grandi dimensioni, che si trovava proprio in mezzo all’incrocio, che nel 2002 è stato restaurato e spostato all’interno dei Giardini del Lippi, per evitare che venisse distrutto da qualche auto (già era accaduto un incidente, con un mezzo che vi era andato a sbattere sopra). Si tratta di un tabernacolo molto antico, risalente ai primi anni del Quattrocento, che una volta aveva sulla sua sommità un gigantesco vaso di terracotta attribuito ai Della Robbia, nel quale crescevano giaggioli.
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All’interno del Tabernacolo era presente un affresco della Madonna del Latte, attribuito ad un giovane Paolo Uccello (lo attesta un’antica epigrafe) che, in concomitanza con i restauri, è stato staccato e custodito nella vicina chiesa di Santa Maria Mater Dei. Torniamo all’Oratorio. E’ più recente rispetto al Tabernacolo, è una struttura risalente al Settecento; venne adibito dai Rucellai a sepolcreto di famiglia, vi vennero infatti inumati cinque membri della famiglia, oltre ad un sacerdote e ad un’altra persona. E’, o almeno era, affrescato da Dinotti dei Lippi, e pare che fossero affreschi di un certo interesse artistico, tanto che l’Oratorio rientra tra i beni storici ed artistici soggetti a tutela. 
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Demolizione villa Nel 1942 il Comune di Firenze espropria la Cappella alla famiglia Rucellai; tuttavia, al suo interno, le funzioni continuano ad essere officiate fino al 1958. Da quel momento inizia la storia del degrado della Cappella. Nel 1962 viene previsto il suo abbattimento per allargare la strada di comunicazione tra Firenze e Sesto Fiorentino. Fortunatamente, un impiegato del Nuovo Pignone, insieme ad altri dipendenti ed alcuni consiglieri di quartiere costituisce un comitato per la salvaguardia della Cappella; presentarono ricorso contro l’abbattimento, ed ottennero facile vittoria, trattandosi di bene vincolato.  Il primo passo era fatto: a questo punto il comitato si attivò per il restauro, ma qui le cose cominciarono a farsi complicate. Per il restauro della Cappella era necessaria una modifica al piano regolatore, ed i tempi si fanno biblici. Riporto il testo di un articolo de “La Nazione” del 31 agosto 1982, a firma di Rodolfo Gattai: SALVIAMO L’ORATORIO DEI RUCELLAI Quale sorte subirà l’antico oratorio Lippi-Rucellai costruito attorno al 1700 (con annessi locali) in quella che è diventata la zona industriale di Firenze? L’oratorio, affrescato da Dinotto dei Lippi, si trova alla periferia della città, in Via Perfetti Ricasoli all’angolo con Via Pietro Fanfani, vicino alla “Nuovo Pignone”. E’ trascurato e fatiscente. Sempre più fatiscente. Pericolanti le strutture dell’intero edificio, il tetto sfondato sopra l’altare, una breccia in una delle pareti esterne. Ma il recupero sembra di là da venire, vicenda emblematica di come vanno certe cose. C’è anche un dato positivo. Per l’intervento di un comitato messo in piedi da Giorgio Bubbi, un impiegato della “Nuovo Pignone” cultore di cose e memorie fiorentine, l’oratorio intanto è stato salvato dal piccone e dal maglio, sorte atroce decretata dal piano regolatore generale del 1962. Inoltre è stata riaffermata la validità del vincolo di tutela in base alla legge del 1939. Gli elaboratori del PRG condannavano a morte il piccolo oratorio. Il nuovo piano confermava infatti nella sostanza quanto contenuto nella precedente disciplina urbanistica per la città. Variavano solo le motivazioni, diventate più ambiziose: prima del ’62 si voleva semplicemente ampliare la Via Perfetti Ricasoli, mentre con il Prg del ’62 si stabiliva che l’edificio (di proprietà comunale dopo l’esproprio del 1942) doveva sparire per far posto alla grande viabilità di collegamento sulla direttrice Sesto-Prato. Senza tener conto del fatto che l’edificio-oratorio è un bene culturale e come tale vincolato fino dal 1939. In effetti non è un’opera d’arte di primo piano, ma le sue caratteristiche storiche, artistiche ed architettoniche ne impongono la conservazione. Anche se invade la sede stradale. Forse si pensava di fare il bis della villa di disegno quattro-cinquecentesco esistente vicino alla cappella e venduta dal comune alla Pignone nel primo dopoguerra. Tale villa, per la verità rimaneggiata a fondo, non esiste più: al suo posto sorge la mensa aziendale della “Nuovo Pignone”. In antico in questa zona c’era un piccolo agglomerato: la Villa Lippi e Macia (quella demolita), la cappella Lippi-Rucellai e l’attiguo tabernacolo, in origine quattrocentesco, del Lippi (pure sulla sede stradale), oggi occhiaia vuota in quanto l’immagine sacra che vi era affrescata, staccata, è ora conservata nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Mater Dei. I Rucellai, ai quali la cappella giunse in eredità dopo il 1750, l’adibirono a sepolcreto.  Dal 1799 al 1862 vi furono inumati cinque Rucellai, un sacerdote ed una settima persona. Con l’ampliarsi della Firenze costruita, il divieto di seppellire in città fu esteso al Lippi e la cappella non fu più utilizzata a tale fine. Espropriata dal comune, è rimasta aperta al culto fino al 1958. Da allora, l’abbandono. La grande viabilità prevista dal Prg è sempre allo stato di progetto e l’edificio è rimasto in piedi ma aggredito dal degrado. Ed è curioso che proprio dagli ambienti della “Nuovo Pignone” (che aveva demolito la villa in cambio di un proprio finanziamento al restauro della Badia a Settimo), sia venuta la difesa a oltranza della cappella e del tabernacolo. Testimoni dal loro posto di lavoro della progressiva rovina del complesso, Giorgio Bubbi e altri dipendenti della fabbrica si sono dati un gran daffare. Per iniziativa di Bubbi, l’anno scorso è nato il numeroso comitato di difesa con un direttivo di cui lo stesso Bubbi è segretario generale e il conte Nicolò Rucellai presidente. Ne fanno parte fra gli altri due consiglieri del quartiere 7, una funzionaria della Soprintendenza ai beni artistici e un ingegnere della “Nuovo Pignone”. Obiettivo: salvare la cappella inducendo il comune a compiere il restauro. I sopralluoghi dell’assessore Abboni, il puntellamento e la recinzione dell’edificio costituiscono i primi risultati della lotta. A Palazzo Vecchio è stata varata altresì una delibera per il recupero e la previsione di spesa è stata inserita nel bilancio-programma della giunta. Ma da mesi tutto si è bloccato. Esiste una grossa difficoltà procedurale: occorre una variante al Prg. E va altresì stabilita la destinazione dell’edificio altrimenti non si può redigere il progetto. Il vero nodo è il discorso sulla variante anche se a Palazzo Vecchio si dice che la stessa delibera di intenti per il recupero della cappella potrebbe avere validità di variante. Nel tentativo di accelerare la pratica, Giorgio Bubbi ha preso penna e carta bollata e ha chiesto ufficialmente la revisione del piano regolatore per quanto riguarda il monumento fatiscente. Una situazione, come si vede, abbastanza confusa. Tra l’altro per l’approvazione delle varianti di piano sono previsti tempi molto lunghi. Intanto si aspetta, il restauro costerà sempre di più, il degrado avanza inesorabilmente compromettendo ulteriormente un complesso monumentale che gli stessi funzionari comunali delle belle arti giudicano un importante “elemento di lettura della storia del territorio.”
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Dopo questo articolo, passano vent’anni di assoluta inerzia, con la cappella sempre più in rovina. Nel 2003 ci fu un crollo improvviso di una parte del tetto, che riportò l’attenzione sul povero oratorio in rovina, che venne prontamente ingabbiato per mettere in sicurezza da eventuali crolli le vie attorno. In un altro articolo dell’epoca, si legge addirittura che “il Comune è in cerca degli eredi della famiglia Rucellai, proprietari della cappella, per il suo restauro”, ignorando quindi totalmente di essere il comune stesso proprietario dopo l’esproprio. Se non fosse drammatico, sarebbe pure divertente! Fatto sta che, comunque, dal 2003 ad oggi, ovvero altri vent’anni, niente è stato fatto per arginare lo stato di degrado della costruzione. Ancora oggi è ingabbiata dietro quei classici teloni verdi che avvolgono le strutture pericolanti, e dubito che verrà mai fatto niente per migliorarne la condizione, temo piuttosto che si stia solo aspettando che il tempo faccia il suo sporco lavoro e che un giorno, come per “magia”, il tutto crolli su sé stesso liberando il comune dal vincolo e lasciando campo libero a quel famoso allargamento della sede stradale. Ogni giorno, passando di lì, scruto la struttura, sperando di non vedere altri segni di degrado, vedo quel tetto sfondato, immagino il suo interno, ho una terribile visione di piccioni ovunque e di guano che ricopre e devasta tutto. Mi piacerebbe avere un drone, poterlo calare, attraverso quello squarcio nel tetto, all’interno della cappella per vedere cosa si nasconde nel suo intimo che i nostri occhi non possono vedere… ma forse, è meglio non sapere ciò che purtroppo si immagina… L'unica cosa che posso concretamente fare è questa: portare a conoscenza di tutti la storia di questo piccolo oratorio abbandonato al suo triste destino. 
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Gabriella Bazzani Read the full article
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jacopocioni · 2 years
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Santa Reparata e il suo cimitero
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Curiosità La Cattedrale di Santa Reparata situata dove oggi si trova il duomo di Firenze o Santa Maria del Fiore, faceva parte dell’antico “asse sacro”, comprendente oltre alla chiesa paleocristiana il Palazzo Vescovile, il Battistero, un ospedale, una canonica, un cimitero, e altre due chiese; San Salvatore al Vescovo e San Michele Visdomini. Esisteva come detto un cimitero, rimasto un uso fino al 1748 quando venne chiuso dal Granduca Pietro Leopoldo. Era famoso per le sepolture dei cittadini e dei Magnati. Le sepolture iniziavano dalla gradinata centrale e andava verso il lato meridionale per giungere alla Tribuna.
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Oggi a ricordo di quelle sepolture sugli scalini d’ingresso a Santa Maria del Fiore, si vedono e si leggono i nomi di coloro che vennero inumati in quella antica chiesa. Sono gli stessi tolti nel diciottesimo secolo per lavori di manutenzione del Duomo. Accanto a queste iscrizioni si notano le armi gentilizie corrispondenti alle sepolture familiari. Vi sono scritti nomi illustri che hanno contribuito alla gloria di Firenze; gli Adimari (la famiglia proprietaria della torre chiamata del “guarda morto” costruita proprio di fronte al cimitero), i Rustichelli, i Figiovanni, i Cavalcanti, gli Abati, i Tornaquinci, i Medici. Mentre a ponente si trovano i nomi dei; Benizi, Bonajuti, Baldesi, Guidi, Ridolfi, Bischeri, i da Diacceto, Gherardi, e di tanti altri si vedono le tombe dei loro avi nel lato meridionale del Tempio.
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Tra questi antichi nomi ci sono anche quelli delle famiglie degli Agolanti, e dei Ricci. Si trovano andando verso il lato meridionale del Tempio di fronte al campanile c’è una porta. Nei due pilastri della porta si trovano due sepolture; quella situata alla sinistra di chi guarda, c’è una lapide consumata dal tempo, ci sono incise le lettere G.A. È la sepoltura della famiglia Agolanti. Nel suo sepolcro venne calata creduta morta, la bellissima Ginevra, la cui storia d’amore è arrivata fino ad oggi. Dalla parte opposta, sempre accanto al pilastro, si trova una lapide con una scritta; “sepolcro destinato ad accogliere le spoglie dei Seminaristi defunti”. Nel sedicesimo secolo apparteneva alla famiglia dei Ricci, confermato da una scritta in latino “Domus De Riccis”. Qui dopo alcuni giorni dalla caduta della Repubblica Fiorentina fu inumata e riposa la sfortunata Marietta de’ Ricci, moglie di Niccolò Benintendi cagione del duello fra quattro gentiluomini fiorentini avvenuto al tempo dell’assedio di Firenze del 1530.
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Alberto Chiarugi Read the full article
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adrianomaini · 8 years
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Napoleone I, l'Editto di Sainte Cloude, Foscolo, Biamonti, Briano e le pregresse considerazioni italiane = è lungo e lugubre ma è una precisazione chiestami da alcuni lettori è lunga lo so ma per certi versi necessaria: dal generale si passa poi al particolare del cimitero di Vallecrosia e delle inumazioni anche per protestanti. Sulla linea del clericalismo tradizionalista ma, in direzione artistica, anche della poesia dell' "corrispondenza d'amorosi sensi" del Foscolo oltre che della lirica delle macerie e del passato di Giuseppe Luigi Biamonti di S. Biagio della Cima (IM) ed ancora di una poesia cimiteriale più legata a temi civili e patriottici come Un'Ora al Cimitero del Briano vari provvedimenti anticlericali ma non solo di Napoleone Bonaparte vennero intesi blasfemi o quantomeno riprovevoli sia dal clero [vedi qui l' esempio di Padre Vitaliano Maccario da S. Biagio della Cima(IM)] che dalla popolazione fortemente cattolica (tra questi si possono citare il tentativo dell'introduzione dell'Istituto del Divorzio in Italia quanto la prigionia francese (1805) di Papa Pio VII che -liberato nel contesto della crisi napoleonica- che non a caso attraversò la Liguria tra una folla immensa e festante di cui qui si parla entro il basilare Manoscritto Borea qui digitalizzato) fu avversato per molteplici ragioni e, prescindendo dalle tassazioni, per la revisione dei regolamenti di inumazione dei cadaveri nei cimiteri [nei collegamenti precedenti dettagliatamente esposti nel latino ecclesiastico ma, per intenderne iridescenza e severità, meglio comprensibili leggendone l'interpretazione nel qui digitalizzato -con indici moderni- volume seicentesco "sulle sepolture" redatto in italiano di Floriano Dolfi] passato alla storia come Editto di "Sant-Cloude" del 5-IX-1806 (essendo la normativa già stata regolata in Francia dell'Editto del 12-VI-1804). In effetti la condizione dei Cimiteri e delle Inumazioni nelle Chiese era un problema di cui la scienza si era già resa conto e di cui come si legge nel qui digitalizzato "Manoscritto Wenzel" ed in particolare, ma non soltanto, laddove a riguardo dei problemi di igiene ma anche di illeciti commerci e paurose superstizioni usuali nei Vecchi Cimiteri, si riscontra in questa "Relazione" del Medico Giuseppe Gautieri Delegato del Dipartimento dell'Agogna [Il Dipartimento dell'Agogna (che prende il nome dall'omonimo corso d'acqua) fu uno dei dipartimenti della Repubblica Italiana (1802-1805) e del Regno d'Italia Napoleonico. Il dipartimento comprendeva il territorio delle attuali province di Novara, Verbano-Cusio-Ossola e in parte quello delle province di Pavia e Vercelli, con la Valsesia a sinistra del fiume]: e, analizzando il suo studio, per quanto Gautieri fosse personaggio gradito al Governo Francese pare indubbio che le sue considerazioni dal lato scientifico risultano inoppugnabili e per nulla condizionate ma anche oltremodo utili anche per evitare il secolare terrore delle morti apparenti e dell'inumazioni di individui destinati ad uno spaventoso risveglio senza dimenticare il caso della dispersione delle ceneri degli arsi sul rogo come eretici e supposte streghe e delle sepolture scomposte, per rei di sacrilegio non esclusi i suicidi inumati in terra non cosacrata con "testa volta all'ingiù". http://ift.tt/2mNlMef http://ift.tt/2lTtpM8
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adrianomaini · 8 years
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Napoleone I, l'Editto di Sainte Cloude, Foscolo, Biamonti, Briano e le pregresse considerazioni italiane = è lungo e lugubre ma è una precisazione chiestami da alcuni lettori è lunga lo so ma per certi versi necessaria: dal generale si passa poi al particolare del cimitero di Vallecrosia e delle inumazioni anche per protestanti. Sulla linea del clericalismo tradizionalista ma, in direzione artistica, anche della poesia dell' "corrispondenza d'amorosi sensi" del Foscolo oltre che della lirica delle macerie e del passato di Giuseppe Luigi Biamonti di S. Biagio della Cima (IM) ed ancora di una poesia cimiteriale più legata a temi civili e patriottici come Un'Ora al Cimitero del Briano vari provvedimenti anticlericali ma non solo di Napoleone Bonaparte vennero intesi blasfemi o quantomeno riprovevoli sia dal clero [vedi qui l' esempio di Padre Vitaliano Maccario da S. Biagio della Cima(IM)] che dalla popolazione fortemente cattolica (tra questi si possono citare il tentativo dell'introduzione dell'Istituto del Divorzio in Italia quanto la prigionia francese (1805) di Papa Pio VII che -liberato nel contesto della crisi napoleonica- che non a caso attraversò la Liguria tra una folla immensa e festante di cui qui si parla entro il basilare Manoscritto Borea qui digitalizzato) fu avversato per molteplici ragioni e, prescindendo dalle tassazioni, per la revisione dei regolamenti di inumazione dei cadaveri nei cimiteri [nei collegamenti precedenti dettagliatamente esposti nel latino ecclesiastico ma, per intenderne iridescenza e severità, meglio comprensibili leggendone l'interpretazione nel qui digitalizzato -con indici moderni- volume seicentesco "sulle sepolture" redatto in italiano di Floriano Dolfi] passato alla storia come Editto di "Sant-Cloude" del 5-IX-1806 (essendo la normativa già stata regolata in Francia dell'Editto del 12-VI-1804). In effetti la condizione dei Cimiteri e delle Inumazioni nelle Chiese era un problema di cui la scienza si era già resa conto e di cui come si legge nel qui digitalizzato "Manoscritto Wenzel" ed in particolare, ma non soltanto, laddove a riguardo dei problemi di igiene ma anche di illeciti commerci e paurose superstizioni usuali nei Vecchi Cimiteri, si riscontra in questa "Relazione" del Medico Giuseppe Gautieri Delegato del Dipartimento dell'Agogna [Il Dipartimento dell'Agogna (che prende il nome dall'omonimo corso d'acqua) fu uno dei dipartimenti della Repubblica Italiana (1802-1805) e del Regno d'Italia Napoleonico. Il dipartimento comprendeva il territorio delle attuali province di Novara, Verbano-Cusio-Ossola e in parte quello delle province di Pavia e Vercelli, con la Valsesia a sinistra del fiume]: e, analizzando il suo studio, per quanto Gautieri fosse personaggio gradito al Governo Francese pare indubbio che le sue considerazioni dal lato scientifico risultano inoppugnabili e per nulla condizionate ma anche oltremodo utili anche per evitare il secolare terrore delle morti apparenti e dell'inumazioni di individui destinati ad uno spaventoso risveglio senza dimenticare il caso della dispersione delle ceneri degli arsi sul rogo come eretici e supposte streghe e delle sepolture scomposte, per rei di sacrilegio non esclusi i suicidi inumati in terra non cosacrata con "testa volta all'ingiù". http://ift.tt/2mNlMef http://ift.tt/2mNm98y
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adrianomaini · 8 years
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Napoleone I, l'Editto di Sainte Cloude, Foscolo, Biamonti, Briano e le pregresse considerazioni italiane = è lungo e lugubre ma è una precisazione chiestami da alcuni lettori è lunga lo so ma per certi versi necessaria: dal generale si passa poi al particolare del cimitero di Vallecrosia e delle inumazioni anche per protestanti. Sulla linea del clericalismo tradizionalista ma, in direzione artistica, anche della poesia dell' "corrispondenza d'amorosi sensi" del Foscolo oltre che della lirica delle macerie e del passato di Giuseppe Luigi Biamonti di S. Biagio della Cima (IM) ed ancora di una poesia cimiteriale più legata a temi civili e patriottici come Un'Ora al Cimitero del Briano vari provvedimenti anticlericali ma non solo di Napoleone Bonaparte vennero intesi blasfemi o quantomeno riprovevoli sia dal clero [vedi qui l' esempio di Padre Vitaliano Maccario da S. Biagio della Cima(IM)] che dalla popolazione fortemente cattolica (tra questi si possono citare il tentativo dell'introduzione dell'Istituto del Divorzio in Italia quanto la prigionia francese (1805) di Papa Pio VII che -liberato nel contesto della crisi napoleonica- che non a caso attraversò la Liguria tra una folla immensa e festante di cui qui si parla entro il basilare Manoscritto Borea qui digitalizzato) fu avversato per molteplici ragioni e, prescindendo dalle tassazioni, per la revisione dei regolamenti di inumazione dei cadaveri nei cimiteri [nei collegamenti precedenti dettagliatamente esposti nel latino ecclesiastico ma, per intenderne iridescenza e severità, meglio comprensibili leggendone l'interpretazione nel qui digitalizzato -con indici moderni- volume seicentesco "sulle sepolture" redatto in italiano di Floriano Dolfi] passato alla storia come Editto di "Sant-Cloude" del 5-IX-1806 (essendo la normativa già stata regolata in Francia dell'Editto del 12-VI-1804). In effetti la condizione dei Cimiteri e delle Inumazioni nelle Chiese era un problema di cui la scienza si era già resa conto e di cui come si legge nel qui digitalizzato "Manoscritto Wenzel" ed in particolare, ma non soltanto, laddove a riguardo dei problemi di igiene ma anche di illeciti commerci e paurose superstizioni usuali nei Vecchi Cimiteri, si riscontra in questa "Relazione" del Medico Giuseppe Gautieri Delegato del Dipartimento dell'Agogna [Il Dipartimento dell'Agogna (che prende il nome dall'omonimo corso d'acqua) fu uno dei dipartimenti della Repubblica Italiana (1802-1805) e del Regno d'Italia Napoleonico. Il dipartimento comprendeva il territorio delle attuali province di Novara, Verbano-Cusio-Ossola e in parte quello delle province di Pavia e Vercelli, con la Valsesia a sinistra del fiume]: e, analizzando il suo studio, per quanto Gautieri fosse personaggio gradito al Governo Francese pare indubbio che le sue considerazioni dal lato scientifico risultano inoppugnabili e per nulla condizionate ma anche oltremodo utili anche per evitare il secolare terrore delle morti apparenti e dell'inumazioni di individui destinati ad uno spaventoso risveglio senza dimenticare il caso della dispersione delle ceneri degli arsi sul rogo come eretici e supposte streghe e delle sepolture scomposte, per rei di sacrilegio non esclusi i suicidi inumati in terra non cosacrata con "testa volta all'ingiù". http://ift.tt/2mNlMef http://ift.tt/2lTFIYP
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