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#israelian art
septembergold · 1 year
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שיר השירים 16
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israelian1 · 11 months
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Hratch Israelian 2023, acrylic on paper 107”x 52.5”
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thesarahfiles · 9 months
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On December 16, 2015, Sarah joined in the announcement of the Stephen Hawking Medal for Science Communication, in London, England. The medal will recognize the work of those helping to promote public awareness of science through music, arts, and cinema. The new award was announced at the Royal Society in London, by a panel including Prof. Hawking, the Starmus founding director Prof. Garik Israelian, Dr. Brian May, Prof. Richard Dawkins, Alexei Leonov, and Nobel Laureate Sir Harold Kroto. 
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mytale0 · 11 months
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Hi everyone,
So I have this scarf my grandma bought in Israel, but I think it's still Palestinian art I am wrong ? I don't think israelian art exist anyway
But tell me if it's israelian art so that I never wear it again 🥰
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carmenvicinanza · 5 months
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Rachel Corrie
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Sono in Palestina da due settimane e un’ora e non ho ancora parole per descrivere ciò che vedo. È difficilissimo per me pensare a cosa sta succedendo qui quando mi siedo per scrivere alle persone care negli Stati Uniti. È come aprire una porta virtuale verso il lusso. Non so se molti bambini qui abbiano mai vissuto senza i buchi dei proiettili dei carri armati sui muri delle case e le torri di un esercito che occupa la città che li sorveglia costantemente da vicino. […] Nessuno nella mia famiglia è stato colpito, mentre andava in macchina, da un missile sparato da una torre alla fine di una delle strade principali della mia città. Io ho una casa. Posso andare a vedere l’oceano. Quando vado a scuola o al lavoro posso essere relativamente certa che non ci sarà un soldato, pesantemente armato, che aspetta a metà strada tra Mud Bay e il centro di Olympia a un checkpoint, con il potere di decidere se posso andarmene per i fatti miei e se posso tornare a casa quando ho finito.
Rachel Corrie è stata una attivista statunitense schiacciata e uccisa da un bulldozer mentre compiva un’azione di resistenza pacifica opponendosi alla distruzione di abitazioni palestinesi da parte del governo israeliano.
Nata a Olympia, nello Stato di Washington, il 10 aprile 1979, studiava arte e relazioni internazionali all’Evergreen State College e lavorava attivamente per il Movimento per la Pace e la Giustizia della sua città.
Durante l’ultimo anno di università, si era recata a Rafah, nella striscia di Gaza, per partecipare attivamente, con l’International Solidarity Movement, alla resistenza nei confronti dell’esercito israeliano, durante l’Intifada di Al Aqsa.
Arrivata in Palestina nel gennaio 2003, aveva frequentato un corso di addestramento in filosofia e tecniche di resistenza non-violenta, prima di partecipare ad azioni dirette e dimostrative.
Da osservatrice dei diritti umani, ha documentato la distruzione delle serre e dei campi da cui migliaia di famiglie traevano sostentamento, la chiusura della strada per Gaza City che lasciava la città nel totale isolamento, la distruzione dei pozzi d’acqua necessari ai contadini e la sparatoria contro gli operai che cercavano di ricostruirli.
Spesso ospitata da famiglie palestinesi che condividevano con lei e i suoi compagni quel poco che restava loro, ha incontrato da vicino la miseria e visto con i suoi occhi cosa significa vivere quotidianamente sotto occupazione e avere negato l’accesso ai beni di prima necessità e alla libertà di spostarsi per qualsiasi scopo.
Oltre agli spari e ai bombardamenti, spesso le rappresaglie israeliane consistevano nel demolire le abitazioni dei presunti “terroristi” e delle loro famiglie.
Il 16 marzo 2003, Rachel Corrie, insieme ad altri sei attivisti dell’ISM, ha cercato di impedire le operazioni di due bulldozer corazzati che stavano demolendo delle case lungo la strada tra Gaza e l’Egitto, zona tenuta particolarmente sotto controllo da Israele, per evitare che gli stati arabi confinanti possano aiutare la resistenza palestinese o anche solo permettere agli abitanti della striscia di aggirare l’assedio.
Indossava un giubbotto rosso catarifrangente e impugnava un megafono: difficile passare inosservata dall’uomo alla guida del bulldozer che le avanzava contro. Stava provando a difendere dalla demolizione la casa di un medico palestinese. Erano già varie ore che le due parti si stavano fronteggiando, una armata e l’altra no.
Una tecnica usata spesso dai membri dell’ISM in casi simili consiste dell’arrampicarsi in piedi sulla montagna di detriti raccolti dal bulldozer fino a costringere l’autista a fermarsi o a cambiare traiettoria.
In un primo momento, la giovane attivista, si è seduta a terra davanti alla casa del dottore di Rafah, poi è salita sul cumulo di macerie spinto dal veicolo distruttore, entrando nella visuale dell’uomo alla guida che non si è fermato e ha proseguito. È caduta e il bulldozer l’ha schiacciata e coperta di terra, poi, non pago, ha fatto marcia indietro passandole sopra una seconda volta. Non si è fermato nonostante le urla e proteste dei suoi compagni per fermare il mezzo.
L’autista della ruspa è stato subito scagionato col pretesto che non l’aveva più vista dopo che era scivolata fuori della sua visuale e il suo omicidio derubricato come un incidente non intenzionale dovuto all’incauto comportamento dei manifestanti. È stato perfino negato qualunque rimborso alla famiglia della vittima.
Secondo fonti ufficiali dell’esercito, le operazioni di quel giorno dovevano servire a bonificare l’area da ordigni esplosivi nascosti “che i terroristi erano intenzionati a usare contro soldati e civili israeliani”. Inutile dire che di questi ordigni esplosivi non ne è stata ritrovata alcuna traccia.
E a nulla sono servite le fotografie scattate dai compagni della giovane attivista che smentivano la ricostruzione dei fatti da parte del governo israeliano.
Secondo l’ONU e l’UNRWA, nel 2003, quando Rachel Corrie era a Rafah, gli israeliani distruggevano in media 12 case a settimana; nel 2004 le demolizioni sono arrivate a 100 al mese.
Poco dopo la sua morte, alcune delle e-mail che aveva spedito a familiari e amici per raccontare la situazione in seguito lo scoppio della seconda intifada, sono state pubblicate dal quotidiano britannico The Guardian. Partendo da lì, il regista e attore inglese Alan Rickman e la giornalista Katherine Viner hanno raccolto, grazie alla famiglia, i suoi scritti dall’età di 12 anni fino al giorno della morte e ne hanno ricavato un monologo teatrale, Mi chiamo Rachel Corrie, che in Italia è uscito in libreria nel 2008.
La grande umanità e impegno di Rachel Corrie che, a soli 23 anni, ha perso la vita per sostenere la causa palestinese, non devono mai essere dimenticati.
È un nostro dovere morale ricordare il sacrificio di questa giovane donna che avrebbe potuto restare a casa sua e voltarsi, semplicemente, dall’altra parte, ma non l’ha fatto e ne ha pagato terribili conseguenze.
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26, 27/04: Crossing Borders, Interplay Collective e Tamara Jokic allo Spazio Teatro No'hma - Milano
Un viaggio emotivo tra le sonorità del mondo, un ensemble internazionale con elementi di ogni età, background e provenienza: Crossing Borders è il concerto-evento del collettivo musicale Interplay, in cartellone allo Spazio Teatro No'hma in due imperdibili date, mercoledì 26 aprile e giovedì 27 aprile, entrambe alle ore 21.
La fusione culturale come motore primo di ricerca e creazione musicale è il principio che ispira l'attività del collettivo musicale Interplay, nato al Politecnico di Milano nell'ambito della Laurea Magistrale in "Music and Acoustic Engineering" fondata dal professor Augusto Sarti, prima in Italia e al mondo a fornire una formazione ingegneristica in ambito musicale. Il progetto coinvolge artisti, scienziati e studenti da dodici diversi paesi, che insieme fondono culture e preferenze musicali diverse in un "sound" originale e immersivo. 
Crossing Borders supera ogni confine, spaziando fra influenze macedoni, mediterranee, israeliane, peruviane e mediorientali, rilette in chiave "world fusion". Guest star del concerto a No'hma è Tamara Jokic (New York, nella foto), che con la sua voce straordinaria combina le sonorità "world music" con le atmosfere di Interplay per un effetto di grande impatto e coinvolgimento.
Il collettivo proporrà sia brani tradizionali sia brani inediti (alcuni in prima assoluta), attraversando confini geografici, culturali (fra scienza e arte) e generi musicali diversi. Con Crossing Borders la sinergia della diversità trova la sua naturale espressione nella musica, e in un Teatro cosmopolita e inclusivo come quello diretto da Livia Pomodoro, una sede più che opportuna. Negli ultimi anni, inoltre, No'hma ha saputo costruire una rete sinergica e solida di rapporti con gli atenei milanesi, che si è tradotta in uno scambio su più livelli, a partire naturalmente dalle convenzioni culturali. La collaborazione con Interplay è proprio frutto di tale operazione e del coinvolgimento attivo di talenti e di un pubblico più giovane, rendendo sempre più lo Spazio di Via Orcagna una fucina di idee e innovazione e un luogo aperto a tutti.
Spettacoli mercoledì 26 e giovedì 27 aprile, ore 21.
L'ingresso sarà come sempre gratuito previa prenotazione obbligatoria, effettuabile sul sito Eventbrite oppure mandando una mail a [email protected] o ancora contattando il numero 0245485085. Lo spettacolo verrà trasmesso in streaming sui canali del Teatro.
Crossing Borders
Interplay Collective e Tamara Jokic
concerto a cura di:
Augusto Sarti
arrangiamenti e composizioni:
Augusto Sarti (tastiere, sax)
Marco Falcon Medrano (batteria, percussioni)
Simone Bollini (piano)
Mark d'Inverno (tastiere)
Francois Pachet (chitarra elettrica, oud)
musicisti:
Giulio Gavardi (chitarra classica)
Margherita Carbonell (contrabbasso)
Timur Shved (sax tenore)
Rana Shieh (kamancheh)
Fausto Savatteri (chitarra manouche) 
Roberto Diazzi (basso elettrico)
Maurizio Indiano (chitarra elettrica)
Kevin Matthew Sarti (vibrafono, percussioni)
Sarper Öztürk (violino)
Gioele Greco (sax alto)
Silvia Montorfano (flauto)
Tracie Mac Kenzie (oboe)
Juan Sebastian Mendez (clarinetto)
voci:
Andriana Takic
Martina Miglio
Natasa Popovic
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tarditardi · 1 year
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26, 27/04: Crossing Borders, Interplay Collective e Tamara Jokic allo Spazio Teatro No'hma - Milano
Un viaggio emotivo tra le sonorità del mondo, un ensemble internazionale con elementi di ogni età, background e provenienza: Crossing Borders è il concerto-evento del collettivo musicale Interplay, in cartellone allo Spazio Teatro No'hma in due imperdibili date, mercoledì 26 aprile e giovedì 27 aprile, entrambe alle ore 21.
La fusione culturale come motore primo di ricerca e creazione musicale è il principio che ispira l'attività del collettivo musicale Interplay, nato al Politecnico di Milano nell'ambito della Laurea Magistrale in "Music and Acoustic Engineering" fondata dal professor Augusto Sarti, prima in Italia e al mondo a fornire una formazione ingegneristica in ambito musicale. Il progetto coinvolge artisti, scienziati e studenti da dodici diversi paesi, che insieme fondono culture e preferenze musicali diverse in un "sound" originale e immersivo. 
Crossing Borders supera ogni confine, spaziando fra influenze macedoni, mediterranee, israeliane, peruviane e mediorientali, rilette in chiave "world fusion". Guest star del concerto a No'hma è Tamara Jokic (New York, nella foto), che con la sua voce straordinaria combina le sonorità "world music" con le atmosfere di Interplay per un effetto di grande impatto e coinvolgimento.
Il collettivo proporrà sia brani tradizionali sia brani inediti (alcuni in prima assoluta), attraversando confini geografici, culturali (fra scienza e arte) e generi musicali diversi. Con Crossing Borders la sinergia della diversità trova la sua naturale espressione nella musica, e in un Teatro cosmopolita e inclusivo come quello diretto da Livia Pomodoro, una sede più che opportuna. Negli ultimi anni, inoltre, No'hma ha saputo costruire una rete sinergica e solida di rapporti con gli atenei milanesi, che si è tradotta in uno scambio su più livelli, a partire naturalmente dalle convenzioni culturali. La collaborazione con Interplay è proprio frutto di tale operazione e del coinvolgimento attivo di talenti e di un pubblico più giovane, rendendo sempre più lo Spazio di Via Orcagna una fucina di idee e innovazione e un luogo aperto a tutti.
Spettacoli mercoledì 26 e giovedì 27 aprile, ore 21.
L'ingresso sarà come sempre gratuito previa prenotazione obbligatoria, effettuabile sul sito Eventbrite oppure mandando una mail a [email protected] o ancora contattando il numero 0245485085. Lo spettacolo verrà trasmesso in streaming sui canali del Teatro.
Crossing Borders
Interplay Collective e Tamara Jokic
concerto a cura di:
Augusto Sarti
arrangiamenti e composizioni:
Augusto Sarti (tastiere, sax)
Marco Falcon Medrano (batteria, percussioni)
Simone Bollini (piano)
Mark d'Inverno (tastiere)
Francois Pachet (chitarra elettrica, oud)
musicisti:
Giulio Gavardi (chitarra classica)
Margherita Carbonell (contrabbasso)
Timur Shved (sax tenore)
Rana Shieh (kamancheh)
Fausto Savatteri (chitarra manouche) 
Roberto Diazzi (basso elettrico)
Maurizio Indiano (chitarra elettrica)
Kevin Matthew Sarti (vibrafono, percussioni)
Sarper Öztürk (violino)
Gioele Greco (sax alto)
Silvia Montorfano (flauto)
Tracie Mac Kenzie (oboe)
Juan Sebastian Mendez (clarinetto)
voci:
Andriana Takic
Martina Miglio
Natasa Popovic
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kundst · 5 years
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Guy Yanai (Isr. 1977)
House in America (2019)
Oil on canvas (84 x 64 cm)
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collezionedicose · 4 years
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Yael Bartana, Trembling Times, 2017
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cheshirelives · 4 years
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Rook Family
hey guys so this is the information about the Rook siblings from my story here https://archiveofourown.org/series/1783963 please go read!
Lets start with Grandma Rook- a woman who has lived it all. a Former CIA agent who in her retirement forested four children. 
the oldest is Runihuar(means destroyer), the Egyptian with white eyes and as of right now, blue hair. his family come over to America to start anew. unfortunately his father fell into drugs and his mother ran away. he was sent to live with grandma rook who discovered the boy was a crack shout. she taught him all about guns and where the best place to hit to get the bull eyes.
the next was Nathinal(Closest I could come is gift of god), a young man of Israelian heritage came after his father was found to be dirty. the old man had gotten greedy and made a sloppy call. Grandma had found that the young man knew about guns, and could spot a tail within a few seconds. he didn't have the patience to handle the sniper, so she signed him up with wrestling and boxing.
then there was young Nastasia(she who will rise again), from a Russian family who were killed in a drive by. the young woman was angry at the world, so grandma put her in different martial arts to control it. she grew strong, and with a drive to protect people.
the last was Akesh(lord of the sky), a young boy who family just came over form India. his father was a pimp and his mother one of his prostitute. he stayed at the library for most of the time when his mother went to “work” it wasn't until she didn't come home that he was sent to Grandma Rook. since the boy was felt safe with computers she made sure he was up to date with all the new technology, while also making sure the boy knew how to protect himself. 
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septembergold · 2 months
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One Thousand and One Nights
Elena Kotliarker
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blaze8403 · 4 years
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Israeli Jewellery Co.
Be it is Real and as real as it comes our Jewellery is Real our Diamond's are real our Diamond's or natural or synthetic as in those that are formed as in man created not formed naturally by nature but of beauty and sophistication as any other be it we want to be the best of the best in Jewellery Quality and with expert's in sales and our Diamond's come direct from the exchange gems and stones from which we craft the finest Israelian Jewellery of modern and elder tradition A new modern twist from Head dresses to rings watch all jewellery and all types pieces of exquisite Jewellery the Israeli style though we asure you will find A bit of all fashion though we specialize in Israeli crafted Jewellery some yes are from my Personal Royal Israelian Imperial Jeweller and my Royal Imperial Head Jeweller be it for other's such A person is expensive and his skills are why be it yes my Kingdom is wide and all my Jewellers have specialty as they all specialize in cultural history and of Jewellery other's will be noted not RIHJ non RJ Collection Jewellery Signature pieces but yes we specialize in Jewellery Appraisal Jewellery design & art creating or the creation of beautiful Israelian Jewellery on planet Earth in Heart of the Craft of Art Arts and Craft inside found the soul of all things and crafted crafting A as Craft the most beautiful of Jewellery and that of the Craftsmanship that goes into every piece of Crafted Jewellery and I like to say coming soon International store fronts and locations in every country The Hawkins Umbrella Corporation and Israeli Jewellery Co Mission statement titled Israeli Jewellery Co. Mission statement Terry Lee Kauffman Hawkins Terry Lee Hawkins (Jr) Prefix or Suffix and Royal title or Military rank present or none present (Yes pope confession in literature Be it for myself or what I made do for A wife be it marriag and what husband what do for his wife)
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paoloxl · 6 years
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Ramzy Baroud. Al Jazeera. Da Zeitun.info. Lamia, Reem, Shaima e Dwlat sono donne palestinesi forti proprio come Ahed, ma le loro storie sono state ignorate.
Ahed Tamimi, la diciassettenne militante palestinese del villaggio di Nabi Saleh in Cisgiordania, è un’icona di una giovane generazione ribelle di palestinesi che ha dimostrato di non tollerare le continue violazioni israeliane dei loro diritti e della loro libertà. Dopo aver passato otto mesi in prigione per aver affrontato i soldati dell’occupazione israeliana nel cortile di casa sua, Ahed è uscita ancor più forte e più determinata a trasmettere al mondo le sofferenze e le lotte del suo popolo.
“Il potere è del popolo ed il popolo saprà decidere il proprio destino e il proprio futuro e lo può fare”, ha detto, rivolgendosi alla folla di sostenitori e giornalisti dopo il suo rilascio.
La storia di Ahed ha ricevuto una sproporzionata attenzione da parte delle agenzie di comunicazione internazionali, che invece hanno spesso ignorato il coraggio e la sofferenza di tante ragazze e donne palestinesi che da molti anni vivono sotto l’occupazione e l’assedio militare di Israele.
Cosciente di questo, la madre di Ahed, Nariman, ha detto: “Sinceramente, è stato probabilmente l’aspetto di Ahed che ha provocato questa solidarietà internazionale, e questo è un fatto razzista, perché molti minori palestinesi sono nella situazione di Ahed, ma non sono stati trattati allo stesso modo.”
C’è molto di vero in questa affermazione. Quando le donne palestinesi non sono invisibili nell’informazione dei media occidentali, vengono dipinte come sventurate vittime di circostanze al di là del loro controllo – l’occupazione militare della loro terra e l’“arretratezza” della loro stessa società patriarcale. Difficilmente vengono viste come promotrici di cambiamento; al massimo, sono presentate come intrappolate in un “conflitto” in cui non giocano alcun ruolo attivo.
L’invisibilità delle donne arabe e musulmane nei media occidentali ha radici in una lunga storia di colonialismo, pieno di errate convinzioni e rappresentazioni razziste. Nel caso palestinese, queste errate rappresentazioni pregiudicano l’urgenza politica ed umanitaria della drammatica condizione delle donne palestinesi e del popolo palestinese nel suo complesso.
In realtà le donne palestinesi sono difficilmente mere spettatrici nella persecuzione e nella resistenza dei palestinesi e, a prescindere dal loro orientamento politico, dalla loro religione o residenza, meritano di essere rese visibili e comprese nel più ampio contesto dell’occupazione israeliana della Palestina.
Ciò che segue sono le brevi storie di quattro forti donne di Gaza che, nonostante la loro lotta ed il loro coraggio, rimangono invisibili nei media. Allevano bambini, insegnano musica, partecipano alle proteste alla barriera tra Gaza e Israele, subiscono la perdita dei loro cari e ferite e resistono di fronte ad una dura vita sotto l’assedio.
‘Tornerò ad unirmi alla Grande Marcia del Ritorno’ – Lamia Ahmed Hussein, 37 anni, Khan Younis.
Quando il marito di Lamia, Ghazi Abu Mustafa, il 27 luglio è stato ucciso da un cecchino israeliano alla barriera di separazione tra Gaza e Israele, lei stava lavorando sul campo come volontaria paramedica.
Lamia è la maggiore di nove sorelle e fratelli. La sua famiglia, che ora risiede nella città di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, è originaria della cittadina di B’ir Al-Saba’a nella Palestina storica e, come milioni di palestinesi a Gaza e altrove, è ora in esilio permanente.
La fede di Lamia nel suo diritto a tornare nella casa della sua famiglia in Palestina è ciò che l’ha motivata ad unirsi alla ‘Grande Marcia del Ritorno’ il 30 marzo, in cui ricorreva anche “il Giorno della Terra”.
La sua decisione è stata appoggiata con forza da suo marito Ghazi, di 43 anni, che si è unito alla Marcia proprio il primo giorno. Lamia si è offerta come volontaria paramedica, aiutando centinaia di feriti palestinesi ogni venerdì. Conosceva molto bene quanto importante potesse essere il suo ruolo per quei coraggiosi dimostranti e per le loro famiglie. In passato, suo marito è stato ferito diverse volte negli scontri coi soldati israeliani.
Il suo primo ferimento, che gli tolse la vista all’occhio sinistro, avvenne durante la mobilitazione ampiamente non-violenta contro l’occupazione israeliana (1987-1993), nota come la prima Intifada. Nella Marcia del Ritorno è stato colpito più volte e, con Lamia al suo fianco, è ritornato alla barriera zoppicando, per essere accanto al suo popolo.
Lamia e Ghazi hanno affrontato insieme le loro sfide, hanno cresciuto una famiglia nella impoverita Gaza e hanno protestato uno accanto all’altra quando la marcia di Gaza ha coinvolto l’intera comunità, sia uomini che donne, come non era mai avvenuto prima.
A luglio Ghazi è stato colpito a morte. È morto mentre Lamia stava salvando la vita di un altro dimostrante gravemente ferito, Nahid Qadeh.
Lamia era distrutta, ma non spezzata. Una vita di difficoltà e sofferenze le ha insegnato la forza e la resilienza. “Una barca impegnata ad aiutare gli altri non affonderà mai”, le ha detto Ghazi un giorno mentre si univano ad una grande folla di manifestanti alla barriera.
Madre di sei figli, rimasta vedova, ha tutte le intenzioni di riprendere il suo lavoro alla barriera.
“Niente farà vacillare la mia fede nel mio diritto al ritorno”, dice, una lezione che insegna continuamente ai suoi figli.
Benché il futuro di Gaza rimanga fosco, la determinazione di Lamia ad ottenere giustizia – per la sua famiglia, per il suo popolo e per sé stessa – rimane indistruttibile.
‘Non smetterò di cantare’ – Reem Anbar, 28 anni, Gaza City.
Reem ha trovato la sua vocazione durante la guerra di Israele contro Gaza nell’estate del 2014. Avrebbe portato il suo ‘oud’ [il liuto arabo, ndtr.] ogni giorno dalla sua casa al Centro culturale Sa’id Al-Mashal, dove avrebbe trascorso ore a suonare per gli impauriti bambini e le loro famiglie, che vi avevano trovato rifugio dagli incessanti bombardamenti.
Per anni Reem ha tentato di lasciare Gaza in cerca di un posto dove sviluppare la sua passione per la musica presso un autorevole istituto artistico. Ma la sua richiesta di uscire è stata ripetutamente respinta da Israele. Ci sono migliaia di studenti come Reem che non hanno potuto usufruire di opportunità educative al di fuori di Gaza per la stessa ragione.
Reem suona l’‘oud’ da quando era piccola. Era il suo compagno, soprattutto nelle lunghe notti dei bombardamenti israeliani. Ogni volta che le bombe cominciavano a cadere, Reem prendeva il suo strumento ed entrava in un magico mondo in cui le note ed i ritmi avrebbero sconfitto il caos assoluto fuori dalla sua finestra.
Quando Israele ha scatenato l’attacco del 2014 contro Gaza, Reem ha invitato altre persone nel suo mondo musicale. Ha suonato per i bambini traumatizzati nel centro culturale, che cantavano mentre le bombe israeliane cadevano sulle loro case. Quando la guerra è finita Reem ha continuato il suo lavoro, aiutando i bambini feriti e resi disabili durante la guerra, nel centro stesso ed altrove. Insieme ad altri giovani artisti ha composto pezzi musicali per loro e ha allestito spettacoli per aiutare questi bambini a superare il trauma e favorire la loro integrazione nella società.
Alla fine del 2017 Reem è finalmente riuscita a lasciare Gaza per intraprendere l’istruzione superiore in Europa. Il 9 agosto 2018 ha appreso col cuore a pezzi che Israele aveva bombardato il Centro Culturale Sa’id Al-Mashal, che è andato completamente distrutto.
Reem intende tornare a Gaza quando avrà completato il suo percorso educativo. Vuole ottenere una laurea magistrale in terapia della musica, per poter contribuire a risanare una generazione di bambini segnata dalla guerra e dall’assedio.
“Vogliono farci smettere di cantare”, dice. “Ma accadrà il contrario. La Palestina sarà sempre un luogo di arte, storia e ‘sumud’ – tenacia. Lo giuro, terremo i nostri concerti nelle strade, se necessario”.
‘Sconfiggerò il cancro’ – Shaima Tayseer Ibrahim al-Shamali, 19 anni, Rafah.
Shaima può a stento parlare. Il suo tumore al cervello ha colpito la sua mobilità e la sua capacità di esprimersi. Eppure è decisa a conseguire la laurea in Educazione di base all’università aperta Al-Quds di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.
La sofferenza che affronta questa diciannovenne è straordinaria, anche per gli standard della povera e isolata Gaza. È la maggiore di cinque figli in una famiglia che è caduta in povertà in seguito all’assedio israeliano. Suo padre è pensionato e la famiglia ha dovuto lottare, ma ciononostante Shaima è determinata a poter studiare.
Doveva sposarsi dopo la laurea all’università. La speranza ha ancora modo di insediarsi nei cuori dei palestinesi di Gaza e Shaima sperava in un futuro migliore per sé e per la sua famiglia.
Ma il 12 marzo è cambiato tutto.
Quel giorno a Shaima è stato diagnosticato un tumore aggressivo al cervello. Appena prima della sua prima operazione all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme il 4 aprile, il suo ragazzo ha rotto il fidanzamento.
L’operazione ha lasciato a Shaima una paralisi parziale. Parla e si muove con grande difficoltà. Ma vi erano notizie peggiori; ulteriori analisi in un ospedale di Gaza hanno rilevato che il tumore non era stato del tutto rimosso e doveva essere asportato velocemente, prima che si espandesse di più.
A peggiorare la situazione, il 12 agosto il ministero della Sanità di Gaza ha annunciato che non sarebbe più stato in grado di curare i malati di cancro nell’enclave assediata da Israele.
Shaima sta ora lottando per la sua vita mentre aspetta il permesso israeliano di passare il checkpoint di Beit Hanoun (chiamato da Israele valico di Erez) verso la Cisgiordania, attraverso Israele, per un’operazione urgente.
Molti abitanti di Gaza sono morti in quel modo, nell’attesa di un pezzo di carta, un permesso, che non è mai arrivato. Shaima comunque continua a sperare, mentre tutta la sua famiglia prega costantemente che la loro figlia maggiore vinca la sua battaglia contro il cancro e riprenda i suoi studi universitari.
‘Difenderò la mia famiglia e il mio popolo’ – Dwlat Fawzi Younis, 33 anni, Beit Hanoun.
Dwlat si occupa di una famiglia di 11 persone, compresi i suoi nipoti e suo padre gravemente malato. Ha dovuto diventare capofamiglia quando suo padre, a 55 anni, è stato colpito da insufficienza renale ed è stato impossibilitato a lavorare.
Deve provvedere a tutta la famiglia con il denaro che guadagna come parrucchiera. I suoi fratelli e sorelle sono tutti disoccupati. Aiuta anche loro, tutte le volte che può.
Dwlat è una combattente; è sempre stata così. Forse è stata la sua esperienza del 3 novembre del 2006 a rafforzare la sua determinazione. Un soldato israeliano le ha sparato mentre stava manifestando con un gruppo di donne contro l’attacco israeliano e la distruzione della storica moschea Umm Al-Nasr a Beit Hanoun. Quel giorno sono state uccise due donne. Dwlat è stata colpita da una pallottola al bacino, ma è sopravvissuta.
Dopo mesi di cure è guarita ed ha ripreso la sua lotta quotidiana. Inoltre non ha mai perso occasione per alzare la voce in solidarietà con il suo popolo durante le proteste.
Il 14 maggio 2018, quando gli Stati Uniti hanno ufficialmente trasferito la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, 60 dimostranti palestinesi sono stati uccisi e circa 3000 feriti presso la barriera tra Israele e Gaza. Dwlat è stata colpita alla coscia destra, il proiettile ha trapassato l’osso ed ha tagliato un’arteria.
Da allora la sua salute è peggiorata velocemente ed ora non è in grado di lavorare. Ma Israele non ha ancora approvato la sua richiesta di essere trasferita all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme per esservi curata.
Eppure Dwlat sostiene che continuerà ad essere un membro attivo ed efficiente della comunità di Gaza – per amore della sua famiglia e del suo popolo, anche se questo significa andare alle proteste alla barriera di Gaza con le stampelle.
In realtà, Ahed, Lamia, Reem, Shaima e Dwlat incarnano lo straordinario spirito e coraggio di ogni donna palestinese che vive sotto l’occupazione e l’assedio di Israele in Cisgiordania e a Gaza. Resistono e persistono, nonostante l’enorme prezzo che pagano, e continuano la lotta delle generazioni di coraggiose donne palestinesi che le hanno precedute.
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.
Ramzy Baroud è un giornalista accreditato internazionalmente, consulente in materia di mezzi di comunicazione e scrittore.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)
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hanatsuki89 · 6 years
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tagged by @solaris-interitus Thank you ^w^
nicknames: Elena, Hana, any abbreviations or alterations of my name (usually ‘Ele’)
gender/pronouns: Nb, they/them
height: 5'4′’
time: 5.40am
birthday: June 25th
favorite bands: Imagine dragons, Daughtry, Florence and the Machine
favorite solo artist: Sia, P!nk, Annie Lennox, Lady Gaga
song stuck in your head:  The Israelian song at the Eurovision of this year. Too catchy
last movie you watched: Some Japanese movie at my subtitling course. It was called Midsummer Equation
last show: I’m watching The Handmaid’s Tale
why did you create your blog: Ultimately, because Deviantart wasn’t that great for me and I wanted a better platform to share my art back in...2013?
other blogs: I have a twitter and nothing else. Handle’s the same as here.
do you get asks: Not very often. I used to get a lot when I had the anon option off but there were so many rude people that I decided to shut it down, even though now I don’’t get the shy anons either. The price to pay.
how did you get the idea for your url:  I’ve studied Japanese at university and I’ve always liked the kanji and sound of the words ‘hana’ (flower) and ‘tsuki’ (moon). 89 is my year of birth.
i follow: 436 blogs
followers: 11434...woah
average hours of sleep: 3/4 if I’m lucky. I suffer from the bad kind of insomnia and I rarely get a good kind of sleep, often waking up because of nightmares. Somedays, when I don’t have work or anything else, I just spend the day napping to recharge a bit.
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dream job: Anything related to art would be great. Or something that’d allow me to travel.
dream trip: I could finally see Vancouver this year, but I def want to go back and visit the whoooole Canada. Norway, Moscow, going back to Japan.
significant other: None for years, I’ve come to terms with my sexuality and identity and I struggle to find anyone in my country (which is still in middle age and full of bigots). I’m also not too big on the sex part in relationships, which is something that works against me. I’m the sappiest person on earth and big on cuddles tho, lol (is it an ad to find someone or a simple reply, Elena?) I also tend to get crushes for people who live too far away *punches self*
last book i read: Not reading anything atm because I’m looking for a good one (if you have recs... *opens arms*)
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armeniaitn · 4 years
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STARMUS Returns: The world-renowned festival supported by Stephen Hawking, Brian May and ...
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STARMUS Returns: The world-renowned festival supported by Stephen Hawking, Brian May and ...
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Armenia will showcase the world’s great scientific minds and Rockstar talent in celebration of Mars exploration YEREVAN, Armenia, July 22, 2020 /PRNewswire/ — STARMUS, one of the world-scale science and art festivals will take place in September 2021 in Yerevan, Armenia, to celebrate science communication with world-class scientists, artists and astronauts.
STARMUS VI will be dedicated to Mars, from the very first Soviet MARS 3 and American MARINER 9 to the spectacular NASA missions and ambitious manned landing plans of Space X. It has been 50 years since MARS 3 performed the first soft landing on the Red Planet and sent back to the Earth the first data from its surface. The same year, in 1971, NASA´s MARINER 9 became the first Orbiter around Mars. These milestones were followed by dozens of successful missions by NASA providing us with more accurate images and information from our neighbor in the Solar System. In the summer of 2020, three space agencies around the world plan to launch pioneering missions to arrive at Mars in 2021.
Following the established tradition, the Festival will address pressing issues and screen films about the exploration of Mars. Previous film screenings included the documentary Apollo 11 and The Spacewalker, a film about the legendary Russian astronaut and Starmus Board Member Alexei Leonov.
The festival will be held under the high patronage of the President of Armenia, Dr. Armen Sarkissian. The President has invited Starmus to Armenia during his invited speech in 2019 at the opening ceremony of Starmus V ‘A Giant Leap’ in Zurich.
The Ministry of Education, Science, Culture and Sport of the Republic of Armenia (MoESCS) on behalf of the RA Government will support, and working in close partnership with the Ministry of High-Tech Industry of the Republic of Armenia make the festival an outstanding event thus playing an important role in different educational, scientific and artistic activities of the festival.
As in the previous years, the sixth Starmus Festival will welcome to the stage world-class scientists, artists and astronauts to share breakthrough discoveries, reflect upon pressing questions and inspire new generations of scientists and explorers.
The Starmus Advisory board will announce a further line-up of speakers from art and music later this year. Nobel Laureate scientists Edvard Moser and Michel Mayor, Apollo 16 Moonwalker Charlie Duke, co-inventor of CRISPR gene-editing technology Emmanuelle Charpentier and ‘the father of ipod’ and NEST founder Tony Fadell are among confirmed speakers. For more information visit www.starmus.com.
Photos available to download from: here About Starmus Since the very first Homo Sapiens looked up at a star-filled sky we have been awestruck by the vastness of the cosmos. Even today we remain humbled by the sheer immensity of space, especially as through our progress in physics and astronomy, we are now aware of the tremendous distances involved – even to our closest neighbouring stars.
Created by Dr. Garik Israelian, astrophysicist at the Institute of Astrophysics of the Canary Islands (IAC) and Dr. Brian May, astrophysicist and the lead guitarist of the iconic rock band Queen, the Starmus Festival is a combination of science, art and music that has featured presentations from Astronauts, Cosmonauts, Nobel Prize Winners and prominent figures from science, culture, the arts and music.
Stephen Hawking and Alexei Leonov, together with the rock star and astrophysicist Dr. Brian May, worked to create the Stephen Hawking Medal for Science Communication, awarded to individuals and teams who have made significant contributions to science communication. Previous Stephen Hawking Medal winners include Elon Musk, Jean-Michel Jarre, Neil deGrasse Tyson, Brian Eno, Hans Zimmer and The Particle Fever documentary.
The Starmus Festivals join Nobel laureates, eminent researchers, astronauts, thinkers, men and women of science, culture, arts and music to share their knowledge and experiences in the common search for answers to the great questions of today. PWR PWR
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goodbearblind · 7 years
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Aveva ragione Tiziano, non Oriana. "...perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali." Tiziano Terzani, scrittore, giornalista, vegetariano. 7 OTTOBRE 2001. LETTERA DA FIRENZE Il Sultano e San Francesco. Non possiamo rinunciare alla speranza. Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina dell’ immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo. Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la compassione. Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanità, un’ opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualità. Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L’ orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere. "Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me", scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l’uomo non si metterà di sua volontà all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza». E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, "Libertà duratura". O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmeno​ questa. Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari "intelligente", di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche - Stati Uniti in testa - d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per sé un’ arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L’ arte di non essere governati: l’ etica politica da Socrate a Mozart). L’ autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine. Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle "Tigri Tamil", votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di "Hamas" che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell’innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali. Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’ è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’ attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’atto di "una guerra di religione" degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale", come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. "Gli assassini suicidi dell’ 11 settembre non hanno attaccato l'America: hanno attaccato la politica estera americana", scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri - l’ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti ndr) ha del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo "contraccolpo" al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo. Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Il "contraccolpo" dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana "a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico". Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi "amici", qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L’ occasione per uscirne è ora. Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi "contraccolpi" che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’ Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri. A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. È per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica - combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l’America così particolare. Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo "codardi", usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L’aver diviso il mondo in maniera - mi pare - "talebana", fra "quelli che stanno con noi e quelli contro di noi", crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro. Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle "cicale" ed agli intellettuali "del dubbio" va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo "ufficiale" della politica e dell’establishment mediatico, c’è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l’America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam? Per i politici - me ne rendo conto - è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici. Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto "a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia", come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che già studiano l’inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una frase di Toynbee: "Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme". Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per gli altri", per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati ("vide il male ed il peccato"), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn - era il 1219 - perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati. Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’ accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: "La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo più umano?". A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere "No". Ma non possiamo rinunciare alla speranza. "Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?", chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. "È possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?" Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: "Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto". Per difendersi, Oriana, non c’ è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’è bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M’è sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, "vede" che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri. Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden? "Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate", scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì. L’ immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del "nemico" da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il "terrorista" possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare. I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. "Dateci qualcosa di più carino del capitalismo", diceva il cartello di un dimostrante in Germania. "Un mondo giusto non è mai NATO", c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo "più giusto" è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po’ più di moralità. La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i "lavoretti sporchi" di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera. Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s’è "globalizzata", perché non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino a ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato. Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo più. Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’ erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte.
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