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cinquecolonnemagazine · 3 months
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Dopo il voto, al via la corsa ai vertici delle istituzioni europee
Inizia la corsa a Bruxelles per i principali incarichi delle Istituzioni europee dopo il voto degli elettori. Una corsa che si avvia con tensioni - non nuove - tra il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, candidata del PPE per un secondo mandato. Secondo fonti di Bruxelles, Michel non la vorrebbe alla cena informale di lunedì prossimo (17 giugno) a Bruxelles per discutere del dossier altamente politico. Dopo il voto, la corsa ai vertici delle istituzioni europee Essendo lei in carica, Michel, il cui mandato scade a fine novembre e anche il suo ruolo è in discussione, preferirebbe che i capi di Stato e di Governo ne discutano in sua assenza per avere un clima più aperto. Von der Leyen non è d'accordo. La sua portavoce, dalla sala stampa del Berlaymont, ha dichiarato che "essendo lei membro del Consiglio europeo ci si aspetta che partecipi". Insomma, vuole un posto al tavolo. Anche chi voleva anticipare i negoziati a margine del Summit del G7 in Puglia è stato frenato. Al Summit saranno presenti i big dei Ventisette: Italia, Francia e Germania, oltre a Michel e von der Leyen. Alla ricerca di una maggioranza "Gli accordi presi in passato nei G7 o G20 hanno creato più tensioni che soluzioni perché la rappresentanza è limitata. Il momento per discutere dei top jobs è la cena di lunedì dove saranno presenti tutti i leader", ha precisato un alto funzionario dell'Unione europea che lavora alla preparazione della cena dei leader. Intanto i partiti continuano a fare i conti. Negli ultimi dati pubblicati dal Parlamento europeo sulla nuova composizione dell'emiciclo, la maggioranza Ursula si ferma a 400 seggi (su 720 membri): 186 PPE; 135 S&D e 79 Renew. Nella legislatura uscente era 417 (su 705 membri): 176 PPE; 139 S&D e 102 Renew. Per quanto riguarda gli altri gruppi: ECR diventa quarto gruppo con 73 seggi (da 69); ID 58 da 49; Verdi 53 da 71; La Sinistra 36 (da 37); i non-iscritti sono 45 e dai nuovi partiti 55. Dai nuovi partiti e dai non iscritti sono attesi altri seggi a favore della maggioranza, ma per dormire sonni tranquilli Ursula von der Leyen ha bisogno comunque di allargare la maggioranza ai Verdi oppure all'ECR (la maggioranza assoluta è 361 seggi). Dal PPE, il segretario generale del partito, Thanasis Bakolas, ha già chiarito che "non ci saranno accordi formali o istituzionalizzati con Giorgia Meloni". Per i Verdi, invece, la porta sembra aprirsi. Ma questo si vedrà nei prossimi giorni. La corsa per i commissari Dalla convocazione della prima plenaria all'elezione del presidente della commissione, ci sono vari passaggi che i nuovi eurodeputati dovranno affrontare per riprendere l'attività legislativa. In parallelo parte la corsa per i commissari. Il primo Paese a farsi avanti è la Lettonia, che ha riconfermato per un terzo mandato Valdis Dombrovskis, attuale vice presidente esecutivo con delega all'Economia. I liberali vorrebbero ottenere il ruolo di Alto rappresentante per la Politica estera, con il primo tra i papabili il premier belga dimissionario, Alexander De Croo. I socialisti, invece, rivendicherebbero la presidenza del Consiglio europeo per l'ex premier portoghese, Antonio Costa. Foto di NoName_13 da Pixabay Read the full article
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lamilanomagazine · 10 months
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Campobasso: il centro educativo per famiglie e minori diventa realtà
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Campobasso: il centro educativo per famiglie e minori diventa realtà. Taglio del nastro questa mattina, 20 novembre 2023, in via Fortunato a Campobasso dove si è tenuta la cerimonia d’inaugurazione del Centro Educativo per Famiglie e Minori. Nato grazie ad Educommunity, un progetto sperimentale di innovazione sociale del Comune di Campobasso, di cui la Cooperativa Sociale Sirio è ente attuatore, e finanziato dal Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri (a valere sul Fondo di innovazione sociale, istituito dalla Legge di Bilancio 2018 – G.U. Serie Generale n. 32 del 7 febbraio 2019). Un’iniziativa concreta, che consente alla città di poter finalmente avvalersi di un Centro che offre una serie di servizi di supporto alle famiglie. Si tratta di servizi per combattere il disagio giovanile, rivolti ai minori che vivono situazioni difficili e alle loro famiglie. Una struttura che, funzionando come centro nevralgico di una nuova comunità educante, è in grado di perseguire obiettivi di integrazione di fragilità e solidità educativa, facendo anche cooperare, in virtù della prevenzione, famiglie con disagio e famiglie di sostegno. Per il Comune di Campobasso, a prendere parte al taglio del nastro, Luca Pritano, assessore alle Politiche Sociali, la sindaca Paola Felice, unitamente al dirigente Vincenzo De Marco. Al loro fianco il presidente della Cooperativa Sirio, Lino Iamele e il coordinatore del progetto, Alberto Cesari, dell’associazione Isnet per lo sviluppo dell'economia sociale che ha affiancato la Sirio nell'ideazione e sviluppo del progetto. All’importante cerimonia sono, inoltre, intervenuti il Prefetto di Campobasso, Michela Lattarula e Raffaella Petti, in rappresentanza dell’Ufficio Scolastico Regionale. La struttura che da oggi diventa operativa a tutti gli effetti e in cui opererà una nutrita équipe di professionisti tra psicologi, psicoterapeuti, assistenti sociali, animatori socio educativi e operatori ausiliari, può accogliere, in due stanze da tre persone ognuna, sei minori istituzionalizzati in regime residenziale e 14 minori in regime di semi residenzialità, cioè garantendo a quest’ultimi di poter trascorre in questo luogo parte della giornata, come ad esempio il momento del pranzo e il pomeriggio. “Questa struttura – ha spiegato l’assessore Luca Pritano – vuole essere un vero e proprio punto di riferimento del settore, perché non solo si rivolge alle fasce in difficoltà e, quindi, ai i ragazzi a rischio devianza, ma anche alle loro famiglie operando interventi strutturati per situazioni che sono all’attenzione delle Politiche sociali. Un progetto – ha spiegato - che però ha una valenza fondamentale soprattutto in ambito preventivo, attraverso non solo il regime di residenzialità, ma attraverso tutte le attività che il Centro offre che, unitamente alla professionalità degli operatoti, saranno fondamentali per prevenire in città il disagio educativo”. Dello stesso parere anche la sindaca Paola Felice che ha voluto ricordare come un luogo come questo possa far sentire al sicuro i minori che vivono situazioni difficili, ma che, nel suo intervento, ha poi voluto fare il punto proprio sull’importanza della prevenzione. “L’invito da parte di tutti – ha infatti commentato la sindaca Paola Felice – è quello che ognuno possa sempre sentirsi responsabile della nostra comunità”. Il dirigente delle Politiche sociali del Comune di Campobasso, Vincenzo De Marco, ha evidenziato che si tratta di un progetto innovativo, sperimentale e, non in ultimo, “particolarmente ambizioso, con la cogestione tra pubblico e privato, che mira a prevenire e ridurre il disagio dei minori, che sempre più spesso sfocia nel ricovero presso strutture”. “Educommunity è un progetto che ha coinvolto diverse professionalità, in stretta sinergia col Comune di Campobasso. E, oggi, grazie a un intenso lavoro la nostra città può avere un Centro Educativo per Famiglie e Minori in uno dei quartieri più popolosi della città”, ha ricordato il presidente Sirio, Lino Iamele, che, insieme al progettista Alberto Cesari, ha evidenziato “l’espetto innovativo di una co-progettazione che non solo ha visto e che vedrà ancora un ente e un privato continuare a operare in sinergia per i medesimi scopi, così come per la gestione del Centro, ma ha visto portare avanti un’iniziativa che intende coinvolgere e mettere a rete famiglie, enti, privati e associazioni della città al fine di creare un tessuto sociale che sappia rendere reali prospettive positive per i giovani in difficoltà”.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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#ardea #finito #business #casefamiglia #pd #istituzionalizzati #milioni di #minori quando #mamma e #papà #esistevano #affidocondiviso era la #legge 54/2006 #corrotta e #collusa che ha #permesso #milioni di #rapimenti #casefamiglia #figliomio #beppesala #simonepillon #matteosalvini @salvininews (presso Ardea, Italy) https://www.instagram.com/p/BxWw2XRhsDV/?igshid=1pubaok32bcfo
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diceriadelluntore · 2 years
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Conquiste
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John Julius Norwich, visconte di Norwich, è stato uno storico britannico famoso e mirabile divulgatore per la radio e la TV. Durante un viaggio in Sicilia, a metà degli anni ‘60, affascinato dalla magia dei luoghi, decise di scrivere un libro su una delle epopee più incredibili del Medioevo, che ancora oggi ha preziosi e unici ricordi in quell’isola come in tutta l’Italia meridionale: la dominazione Normanna.
I Normanni furono un popolo di origine scandinava che nel X secolo si stabilì nel nord della Francia, giurando fedeltà a Carlo III detto il Semplice, in quella zona che da loro prende il nome di Normandia. Il loro nome, Normanni, è probabilmente la latinizzazione del norreno Norðmaðr, e appare per la prima volta nel Codice Sangermanense (un codice che prende il nome da un’altra curiosa latinizzazione, dal monastero di Saint-Germain-des-Prés in cui fu trovato) con il significato di uomini del Nord.
Nell’XI secolo furono protagonisti di due imprese epocali: l’invasione e la conquista della Gran Bretagna nel 1066 con Guglielmo il Conquistatore e la creazione nell’Italia meridionale di uno dei regni più ricchi, colti e cosmopoliti che siano mai stati istituzionalizzati in Europa persino nei secoli a venire.
In uno stile meraviglioso che più che il saggio storico ricorda quello di un avventuroso romanzo, con sottigliezze e humor di puro stampo britannico, Norwich racconta come, in poco più di 100 anni, i Normanni arrivati in Italia come guardie del corpo speciali dei pellegrini che si recavano o tornavano dal santuario di San Michele Arcangelo a Monte Sant'Angelo nel Gargano, passando per mercenari guerrieri temuti per la loro forza nel combattimento e per la terribile forza di cavalleria, diventarono potentissimi baroni, con il fenomenale Roberto Guiscardo (da viscart, la volpe, per la sua sagacia e furbizia) che, nel 1077, riunì sotto il suo dominio i territori di Puglia, Calabria e Campania, i regni che una volta erano longobardi e bizantini con l’incoronazione a Salerno, nuova capitale del Regno. Negli stessi anni, suo fratello Ruggero I avanza in Sicilia e sconfigge gli emiri che la governavano da 200 anni (la parola ammiraglio tra l’altro deriva dall’arabo amīr «comandante» nome con il quale veniva chiamato il signore della città araba, poi diffusosi nelle corti normanne come comandante navale). Ma fece ancora di più suo figlio, e nipote del Guiscardo, Ruggero II, che nel giorno di Natale del 1130, in una Palermo meravigliosa di ricchezze dove persino i servitori erano vestiti di seta, unifica i regni di Sicilia e delle Puglie, facendo dell’isola e del Meridione il regno più ricco, potente e culturalmente avanzato del Mediterraneo, un miscuglio unico di tradizioni greco-bizantine, latine e musulmane che influenzerà l’arte e l’architettura, la scienza, l’arte navale, il diritto. I Normanni furono quelli che stabilirono per primi l’abolizione dall’alto del diritto di feudo, sancendo di fatto la nuova legge feudale che dipendeva dal volere del Sovrano, a cui i vassalli giuravano fedeltà (sancita dallo storico Patto della Pletora di Melfi nel 1129).
Il loro dominio fu breve, per la mancanza di eredi maschi dell’ultimo re normanno Guglielmo II (1166 – 1189) alla cui morte si scatenò una guerra di successione vinta dagli Svevi di Enrico VI, che sposò la figlia di Ruggero II, Costanza, che a loro volta ebbero il grande Federico II.
I Normanni ci hanno lasciato delle meraviglie chiarissime ancora oggi: dai lineamenti nordici di donne e uomini del Sud, alle spettacolari architetture normanne del Meridione come il duomo di Salerno, l’Abbazia di Sant'Angelo in Formis, le meravigliose fortificazioni in Basilicata, come il castello di Melfi, o in Puglia (Canosa, Troia, parti del centro storico di Bari), Squillace e Gerace in Calabria ancora oggi mantengono il centro storico Normanno, per non parlare del favoloso percorso arabo-normanno di Palermo-Monreale-Cefalù, patrimonio Unesco.
Personalmente credo che il più bello di tutti i castelli normanni sia questo sotto
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il Castello di Roseto Capo Spulico, in provincia di Cosenza, conosciuto anche come "Petrae Roseti", dato che tradizione vuole sia stata fondato come monastero da San Vitale da Castronuovo. Ricostruito sui ruderi del luogo sacro dai Normanni, il castello segnava il confine tra i possedimenti di Roberto il Guiscardo ed il fratello Ruggero I.
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grossogattoteatro · 3 years
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ATTACCA IL PADRONE DOVE VUOLE L'ASINO
Con la ferma volontà di essere contro le istituzionalizzazioni, anche a costo di una costante impopolarità, iniziamo puntigliando sui termini: il teatro è teatro, non è politica. Più in generale l'arte è arte, l'intrattenimento è intrattenimento, la politica è politica. Una precisazione lapalissiana, che a mio parere rasenterebbe il ridicolo, se non si vivesse in un periodo storico in cui il pensiero logico perde mordente e lascia spazio al sogno irrazionale. Non serve spiegare che politica non è sinonimo di teatro, né viceversa, per quanto la realtà sembrerebbe suggerire l'opposto nel secondo caso. Dagli Academy Awards a molti concorsi nazionali e locali di teatro e di scrittura teatrale, i requisiti politici, tuttavia, sembrano sopravanzare quelli artistici. Il rischio a breve termine è il disinteresse del pubblico, il rischio a lungo termine è quello di combattere una guerra armati di una sogliola scongelata.
Fermiamoci a questo, per ora: se i requisiti politici sono istituzionalizzati, sono regola, in che misura possiamo considerare affidabili e sinceri gli artisti che, nella comprensibile fame di fama o almeno di un premiuccio economico o pseudoeconomico (l'offerta di una o due repliche retribuite o a sbigliettamento) metteranno insieme uno spettacolo finalizzato ad aderire ai principi stabiliti dalla corte dei miracoli del momento?
Inoltre la rapidità con cui gli argomenti di tendenza cambiano è disarmante (così come la nomenclatura considerata non offensiva), determinando la caduta rapida di validità in favore di altre esclusività, includendo nell'esclusione ciò che solo poco tempo prima era escluso dall'inclusione (non me ne vogliano gli amanti di K. Valentin per la citazione; il riferimento è al femminismo e ai suoi contrasti con nuovi temi non sempre in armonia, incampo artistico ma, ahinoi, anche accademico). La spinta a dare luce solo a specifici temi porta ineluttabilmente ad un radicalismo di idee, e i radicalismi alla limitazione della libertà di parola e di pensiero.
A scanso di scandali e di equivoci vari, preciso che chi scrive qui ha fondato dieci anni fa una compagnia che alla propria base ha stabilito principi etici, in primis legati all'ecologia (lotta agli sprechi, utilizzo di materiali riciclati, riusati e recuperati per attrezzistica, costumi e scenografie), poi alla fruibilità su larga scala dei propri prodotti artistici, non destinati esclusivamente alle elite intellettuali ed economiche (sia nel linguaggio che nel prezzo dei biglietti) e con intenti sociali e culturali avulsi da qualsiasi quadro politico o partitico.
Ciò detto, uno sguardo al macrofenomeno Academy, gli “Oscar”: applausi al miglior film, miglior regia (femmina e asiatica, urrà) per un film che parla di senzatetto. Lacrime, sguardi commossi e commessi alla causa, un film fatto per convinzione e non per gli incassi, così parrebbe dall'impegnato sguardo severo dei diretti interessati. Intanto, nella realtà, una polemica sotterrranea ha sporcato l'immagine propagandata negli intenti: un folto numero di senzatetto abitualmente stanziati nelle adiacenze della sontuosa sede sono stati forzatamente spostati “ad altre destinazioni”, come accenna un articolo del Rolling Stones, per non recare disturbo ai nobili umanisti ospiti del premio. Come dire, la teoria e la pratica debbono essere fortemente separate.
Il dubbio che l'istituzionalizzazione della sensibilità umanitaria pone riguarda la spontaneità e la sincerità dei pasionari che di questa propaganda (come altro chiamare un fenomeno diffuso e spinto dalle istituzioni, governi e sovragoverni?) si fanno ardenti profeti. C'è un tornaconto economico e pubblicitario che fa da motore a questa vibrante protesta, c'è un contesto di elevata borghesia che sostiene determinate istanze considerate di moda. C'è un defiléè di dame in abiti che saranno indossati una sola volta, uno sfarzo sfacciato che le Versailles dell'arte e dell'intrattenimento continuano a considerare irrinunciabili, auto lussuose ad alto consumo di carburante, che pur essendo comprensibilmente funzionali allo scopo economico di quella che è e non può non essere un'industria, cozzano in uno stonato contrasto con le presunte lotte da loro stessi pubblicizzate. La stampa, per lo più, non le vede per ottusa miopia, o finge di non vederle per smaccata piaggeria.
Parlare dell'Academy è ora un pretesto sull'attualità più evidente, ma lo stesso vale per fenomeni di minore impatto e risonanza. Dalla televisione ai grandi teatri che anche nela nostra Europa e in 'Italia nello specifico hanno abbracciato la stessa politica.
Il che ci porta all'altro dubbio. Può mai essere accettabile che la politica detti agli artisti l'elenco delle tematiche da trattare? Così è, ci pare. Eppure, gli esempi del passato dovrebbero portarci ad un “NO!” gridato e inorridito, ad una rivolta totale contro chi pretende che i propri artisti di corte si inchinino alla moda politica, a dare il proprio piaggio sostegno al vincitore del momento. Se nelle tristi storie dittatoriali di tutto il mondo abbiamo imparato qualcosa, noi giullari di strada, noi satireggianti liberi artisti, è che se il governo ci dice che una forma d'arte è degenerata, immorale, sbagliata, noi dobbiamo alzarci e lottare per la nostra libertà di espressione. La fama, la fame, fanno sì che questa nobile utopia, l'anarchia creativa dell'artista debba cedere e concedere al regnante vincitore il proprio tributo, scavare nei meandri della propria capacità sofistica per artefare il concetto richiesto, rigettare ogni altra istanza e attaccare l'asino dove vuole il padrone. Ma allora non siamo più artisti, siamo pubblicitari, creativi al servizio di un diktat commerciale ispirato non già a nobili muse, ma al vitello d'oro.
Prostitute della meno nobile specie, verrebbe da dire, perché un'onesta puttana vende ciò che ha chiamando le cose col proprio nome, l'artista servo è un'ipocrita che finge di non vedere i contrasti, o un utile imbecille che non ne comprende le sfumature.
I grandi nomi noti per non mordere la mano che li nutre e i numerosi artisti meno conosciuti per diventare né più né meno come quelli grandi, il teatro un tempo si divideva in istituzionale e alternativo, l'avanguardia ribelle che oggi è prona quanto quella di corte per timore di essere una (nobilissima) voce di uno che grida nel deserto. Salvo poi, entrambi, lagnare la mancata risposta del pubblico, ritenuto presto da costoro un bue che continua a pascere il prato anziché godere del fieno di plastica gentilmente offerto da chi pensa di domarlo. Abbiamo dimenticato che il nostro vero committente è il pubblico? Abbiamo dimenticato che è con adulti senzienti che parliamo, e non con bambini dell'asilo da indottrinare? L'autocompiacimento intellettuale spinge molti, troppi, a credere in una narcisistica superiorità morale e culturale, a disprezzare chiunque non si accodi al gregge addomesticato, a censurare con una cancellazione mediatica tutto ciò che non sostenga e incoraggi la dettata pratica creativa.
Abbiamo nostalgia del teatro e del cinema, noi. Ne abbiamo già da prima della pandemia. Di quelli veri, sentiti, provati, vicini a noi.
Perché quando con un atto legislativo, un bando che imbrigli le idee, un concorso che apra con particolare riferimento ad alcuni ritenuti esclusi, si finisce per escludere altri. Non sarebbe più giusto che l'arte fosse giudicata in contesto artistico e senza discriminazione politica? Non sarebbe naturale valutare le idee anziché la capacità di ognuno di aderirvi?
Passerà anche questa moda e purtroppo molti di questi artisti funamboli delle lotte in favore dei poteri pubblici o privati saranno dimenticati. Peccato, perché i posteri non potranno sentenziare.
Nota: l'articolo del Rolling Stone a cui si fa riferimento è firmato da K. Austin Collins, nell'edizione USA, con data 26 aprile 2021
si rimanda anche a tutte le voci che si sono levate per la libertà di espressione, non ultimo il comico Andrew Doyle, e infine alla decisione presa dal Russel Group teso a garantire la libertà di parola a tutti nelle università britanniche.
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love-nessuno · 4 years
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Benvenuti nel nostro tempo. Non bastano le sceneggiate del giornalismo nostrano, a martoriarci in periodo di pandemia c'è anche il circo barnum dei "vip": olimpionici annoiati, influencer, fessi generici del Grande Fratello. Istituzionalizzati come nuovi mitografi dei mentecatti.
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pangeanews · 6 years
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“Per lei la natura è una casa popolata di spettri”: Silvio Raffo racconta “La bella di Amherst”, l’opera teatrale di William Luce sulla vita di Emily Dickinson
Nel paese dei libri tradotti è inevitabile che certe figure come autore e traduttore finiscano quasi per coincidere. Emily Dickinson e Silvio Raffo, per esempio, sembrano ormai un’entità unica. Non fosse altro perché Raffo ha dedicato una vita alla nota poetessa americana e ne ha segnato la ricezione in Italia. La Dickinson che possiamo leggere nel ‘Meridiano’ Mondadori, per intenderci, è in massima parte frutto della sua interpretazione e trasposizione.
Ma, tra le varie cose, Raffo non si è dedicato unicamente ai testi poetici dell’autrice. Ha anche scritto una biografia sul suo conto e si è inoltre impegnato di recente nel riportare in lingua italiana un testo teatrale di William Luce, La bella di Amherst (La Vita Felice, 2018), avente come soggetto proprio la vita della poetessa. Noi di Pangea l’abbiamo raggiunto per farci raccontare quella che oramai è la decima opera da lui curata sulla sua amata Emily. Cogliendo l’occasione, abbiamo approfittato anche per paragonare la pièce teatrale con il film del 2016, A Quiet Passion, vertente anch’esso sulla vita di uno dei più singolari fenomeni della poesia mondiale.
Sulla vita della Dickinson è stato scritto e prodotto tanto: il film, le biografie. Ora lei ha tradotto anche quest’opera teatrale, La bella di Amherst di William Luce. A suo avviso perché la vita della poetessa più famosa d’America interessa tanto il pubblico, pur essendo stata la sua un’esistenza da reclusa.
La reclusione è chiaramente l’aspetto che fa maggiormente colpo. È la prima cosa che si dice della Dickinson: visse rinchiusa e sempre vestita di bianco, dal 1862 fino alla morte. La cosa colpisce perché non è certo usuale che una donna rimanga chiusa in casa per trent’anni, indossando capi di un unico colore. Dal mio punto di vista, sarebbe ancor più interessante scoprire se si sia rinchiusa di sua spontanea volontà o meno. Pare da recenti studi che soffrisse di una malattia nervosa, simile all’epilessia. Nella sua famiglia c’erano già stati tre casi di questo male. Naturalmente non lo sappiamo con certezza. Ci si potrebbe domandare a tal proposito perché andassero a prendere le medicine per Emily a Boston, malgrado l’emporio di Amherst fosse assolutamente ben fornito. Ciò è quantomeno singolare. Alla luce di quanto detto, viene anche da pensare a tutte quelle sue poesie che parlano di nervi, di piccole morti, a quando dice “perduta al punto di essere salva, ero morta”, parlando di sé come se la morte fosse già venuta a trovarla diverse volte. Tutti questi fattori potrebbero conciliarsi con la tesi di un leggero disturbo nervoso che avrebbe indotto i genitori a preservarla sotto una campana di vetro. Inoltre, perché le faccende di casa le faceva tutte la sorella e lei no? Aveva forse qualcosa di particolare, inerente alla salute? Non potendo avere risposte definitive, l’interrogativo sulla sua reclusione resta un mistero.
Io ritengo vi sia inoltre un altro aspetto molto interessante nella vita della Dickinson e che questo abbia avuto non poco peso nella fascinazione suscitata presso il pubblico. Parlo della coesistenza di un piano estremamente ordinario e quotidiano unito a questa sua costante tendenza e aspirazione verso il trascendente. Condivide?
Assolutamente. A esso va aggiunto il fatto di essere una donna che basta a sé stessa, cosa che ha indotto alcune a vedervi una pioniera, non dico del femminismo, però dell’autosufficienza femminile. Questo è senz’altro un elemento che la rende molto moderna. Lei sembrava apparentemente un’ancella della famiglia, ma non lo era. In realtà, era totalmente piena di sé. Si dedicava alle piccole cose, come cucinare la blackcake per suo padre, ma raramente. E poi calava dalla finestra dei dolci per i bambini di Amherst, tra i quali si era guadagnata la fama di una fatina, di una bizzarra signorina.
Anche il recente film sulla Dickinson, A Quiet Passion, insiste molto sull’idea di una donna che basta a sé stessa. Trascura però, o banalizza, la questione del trascendente, del divino, che la poetessa vede in connessione all’elemento naturale. Non trova anche lei che si sorvoli con troppa leggerezza su questo punto, per mettere in luce altri aspetti che la potrebbero avvicinare maggiormente al femminismo?
Sono d’accordo. Bisognerebbe in tal senso dare maggior risalto per esempio all’influenza che ebbe, in gioventù, la lettura di Emerson e quindi l’incontro con il trascendentalismo. Da questa lettura rimase particolarmente colpita, anche se non bisogna dimenticare che più di tutto faceva parte della sua natura vedere il mistero ovunque. Per lei, la natura è una casa popolata di spettri. L’elemento del trascendente, a ogni modo, c’è anche nella cultura che in parte si respirava in casa sua, in cui si pregava molto spesso. La Dickinson però non fu mai un’ortodossa. Anche nel collegio che frequentò vi furono non pochi momenti di imbarazzo, perché lei non si voleva proclamare una vera cristiana. Con quella strega della direttrice, Miss Lion del Mount Hall College, ci furono grandi attriti, ma Emily non volle mai fingere o essere ipocrita. Il suo spirito ribelle la portava a vivere la religione in maniera mistica, senza obblighi di partecipazione a riti istituzionalizzati. “C’è chi osserva la festa andando al tempio, io la osservo restando a casa…”: questi versi chiariscono bene il punto, ci raccontano della sua insofferenza verso qualsiasi Vangelo, dogma o canone. Non scordiamoci che la nostra poetessa è un’individualista, con un ego enorme: “il mio io è una colonna”. Ed è questo suo fortissimo io a sentire il mistero. La realtà pertanto le interessa relativamente, unicamente nella misura in cui le permette di andare oltre. La sua attenzione è rivolta verso gli spettri che abitano la natura, più che verso la natura in sé nei suoi meccanismi concreti. Potremmo dire addirittura che da questa ha sempre un po’ rifuggito, a cominciare dall’aspetto sessuale. Restava piuttosto in ascolto di questi richiami, delle presenze. Non si tratta, a ogni modo, di allucinazioni di una zitella pazza. La sua è una solitudine estrema intervallata da colloqui anche molto rilassati, potremmo dire quasi banali, con la sorella e dalla lettura di romanzetti rosa. Ma essendo più profonda di quello che fa e dice è sempre visitata da questi ospiti. Nelle sue parole, non può essere sola, tra “compagni inafferrabili che eludono la chiave”. Come dobbiamo interpretare questi versi? Intuitivamente, io che le assomiglio non poco, penso che queste siano delle proiezioni della sua psiche che le fanno compagnia, quelli che i greci chiamavano daimones. La natura effettivamente è misteriosa, se la guardiamo non con l’occhio dello scienziato, ma con quello del poeta. Ci presenta innumerevoli spunti, interrogativi, e misteri. Emily coglieva tutto ciò e, pertanto, quel che è umano e contingente le sembra insufficiente. Per una persona con le sue esigenze, tutto quello che rientra nell’ordinario è certo abbastanza deludente. Chi potrebbe accontentarla? Nulla e nessuno. Eppure, è molto attaccata alle sue cose, alla casa, ai familiari che però risultano tutti un po’ sotto rispetto a lei, che sembra sempre trovarsi ad altezze vertiginose. Anche quando parla dei suoi parenti, lo fa con un occhio molto critico. Ha timore del padre, però le sembra un po’ ridicolo con quella mania della puntualità, con questi suoi riti e l’osservanza dei dogmi. Lei è altrove. Così occupata a inseguire il mistero dell’essere che l’esistere passa in secondo piano. La natura la affascina, ma come stanza di un misterioso altrove che la abita, in un continuo trasumanare. Tanto più il corpo è solo, quanto più il pensiero trova compensazione a questa solitudine nelle fantasticherie. Questi fantasmi sono anche nelle cose. In fondo, nella Dickinson ci sono anche in una certa misura il tao, lo zen. Se lei guarda un oggetto, un tavolo, una tazza, una porta, le vede tutte come misteriose forme di concretizzazione di ciò che è il mistero della vita, della natura – ecco spiegato perché le indica sempre con la lettera maiuscola. L’essenza del suo pensiero è che ognuno di noi è, plotinianamente, una scintilla del divino e questa lo rende unico, simile a Dio stesso. Il resto è menzogna: la realtà, la storia, la miseria.
Nell’opera teatrale lei pensa sia ben rappresentata questa dimensione del mistero?
Sicuramente più che nel film. La pièce teatrale predilige, comunque, la leggerezza e questa mi pare la scelta migliore da parte dell’autore. In ultimo, questa specie di colosso che è la Dickinson, è anche molto scanzonato. Le piace sminuire il peso enorme di questa “bomba”, come la chiama in una sua poesia, che sente dentro di sé, scherzando, facendo la scioccherella. Nel film viene accentuato l’aspetto tragico della sua solitudine. È vero che lei ne soffriva, ma secondo me è più forte il piacere che le deriva dal suo immaginare.
A suo avviso il punto di forza della trasposizione teatrale sta quindi nell’essere riuscita a rendere questo aspetto della leggerezza…
Sì, esattamente. Trovo che nel porre l’accento su quest’aspetto sia maggiormente realistica – non per niente l’autore ha attinto alle lettere. La Dickinson ne scriveva tantissime e raccontava le sue cose alle amiche, ma sempre con questo tono scherzoso, molto ironico. Tutti fanno la figura di persone limitate nella sua trasposizione sbarazzina e indisciplinata. La sua intelligenza mostruosa riesce sempre a scorgere i lati deboli di tutti. Nei rapporti è comunque molto educata, gentile, buona. Rifugge sempre dagli inutili scontri della commedia umana, che considera una farsa, e vive del suo pensiero che la solleva verso le vette più eccelse.
Ma, quindi, fra la trasposizione filmica e l’opera teatrale scegliamo la seconda perché più efficace e veritiera nella resa dell’esistenza dickinsoniana?
Sì, perché dà più l’impressione di un approfondimento graduale di conoscenza. Il film, invece, che è pure un’opera di notevole valore, non è riuscito a coglierne la vera essenza. L’ha vista più come una persona visitata dall’ombra e dallo strazio di quanto non fosse in realtà. La Dickinson aveva un io troppo solido per sentirsi sconfitta. Il filo che la legava all’invisibile, al trascendente, era troppo forte perché anche la cosa più terribile inerente all’umano e alla fisicità risultasse altrettanto importante. Nel film c’è poco del suo rapporto con la natura e con il divino. Dà troppa importanza alle questioni umane. Mette molto in primo piano questi aspetti quasi da gossip, colorando molti passaggi anche con vere e proprie invenzioni. La pièce al contrario non inventa nulla, non aggiunge una parola a quelle che Emily scrisse nelle lettere ed è fedelissima alla realtà, alla sua natura così spiritosa. E poi è stata portata a livelli altissimi da Julie Harris, la migliore interprete di Emily Dickinson. Tutte queste sfumature il film non le rende, invece la commedia sì. E lo fa nella maniera giusta, in quella miracolosa miscela di forza, potenza e leggerezza. È magistrale quando alla fine, dopo aver recitato invasata la poesia sulla morte, dice “Ah, quella ricetta del pan di zenzero, la prossima volta che ci vediamo, ve la do”. Il divino dono della leggerezza, nel film non si vede, nella commedia sì.
Dal suo punto di vista, si può dare una poesia quale quella della Dickinson senza una esistenza così stravagante?
No, non si può. La sua esistenza è perfettamente congruente. Se fosse stata diversa, la poesia non sarebbe stata la stessa. Non ci sono stonature. E credo che la scelta della reclusione, magari indotta, a lei sia andata assolutamente a genio. La casa dei genitori è un simbolo della casa metafisica e infatti la amò tantissimo. In ogni caso, anche se non fu una scelta, la caricò ancora di più nella sua tensione verso l’assoluto.
Matteo Fais
L'articolo “Per lei la natura è una casa popolata di spettri”: Silvio Raffo racconta “La bella di Amherst”, l’opera teatrale di William Luce sulla vita di Emily Dickinson proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2SlMsyK
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deliciousangelbird · 2 years
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PER UN'EUROPA SOVRANA Il governo tedesco è alle prese con un problema di politica-economica, deve far fronte alla modernizzazione del settore industriale ed alla completa digitalizzazione della società, c.d. patto Scholz. Nel suo scopo, di conciliare esigenze di bilancio con quelle di crescita economica, evidenzia la vetustità e l'eccessiva rigidità del patto di stabilità e e la sua necessità di eserere riformato alla luce della nuova realtà economica.
Fondamentale è l'appoggo di Francia e Italia, che al momento sembra non mancare.
Dunque, si ipotizza una riforma a livello istituzionale dell'Unione Europea. A tal proposito si parla di un'europa più forte e sovrana, che sia in grado di porre in essere manovre di macroeconomia politica per muovere i mercati in senso favorevole, in grado di alterare le regole della concorrenza.
Certamente una correzione delle forze economiche di mercato è necessaria, ma non è dato sapere in che modo ciò avverrà. Ci si augura che la conseguenza non sia ulteriore austerità e disoccupazione.
Un sistema di governo che si ispiri alla giustizia sociale deve garantire un elevato grado di accessibiltà al mercato del lavoro. Fondamentali in tal senso sono gli incentivi economici, ma in particolare l'assistenza e la formazione dell'individuo. E' inoltre necessario sensibilizzare il prossimo e combattere quella coltre di diffidenza verso assistenza e solidarietà per i più bisognosi, valori che devono essere sentiti ed istituzionalizzati in un processo di europeizzazione del vecchio continente.
Progresso e civiltà vogliono un sistema aperto a tali questioni.
Al giorno d'oggi non è più accettabile un divario così forte tra ricchi e poveri, tra deboli e potenti.
La natura primordiale, l'istinto di sopravvivenza ci indicano la legge del più forte. Il capitalimo ci spinge verso l'egoismo, ma è importante dare a tutti la possibilità di creare la propria esistenza e viverla in maniere serena.
Nel riformare, dunque, è fondamentale porre l'attenzione sulla crescita e lo sviluppo economico, ma non dimenticare che più gli individui sono realizzati e maggiore e la grandezza di una nazione, di una cultura, di una società o di un'economia.
Egoismo e avidità, povertà e arretratezza devono cedere il passo a principi di benessere universale.
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pleaseminddgap · 3 years
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Affamati di luce e di cambiamenti
Parigi è una città affamata di luce: perché è una capitale nord-europea, nordica e quindi baciata dal sole meno frequentemente rispetto a noi. Per questo la luce se la va a cercare: nelle case le finestre si ingrandiscono a dismisura per catturare più particelle solari possibili, fuori di casa la gente erra, avida di sole, preferendo sedersi all'exterieur, che sia in un bistrot o a un parco. Forse è per questo che alla fine, anche metaforicamente, la "luce" la trovano più di noi.
Noi siamo fortunati e non lo sappiamo: il sole ci benedice con abbondante vitamina D e noi non dobbiamo andare a cercare un bel niente. Anche questo, fra le altre cose, ci ha resi pigri, meno curiosi. Le nostre case sono generalmente più grandi e ci hanno circondati, abbiamo voglia di qualcos'altro ma difficilmente ce lo andiamo a cercare: il buon cibo, il buon clima, la "bella vita" sono tutte lì dove ci troviamo. Il lavoro, forse no: nel dubbio spesso ci adattiamo a lavori mediocri e perdiamo di vista le nostre intime aspirazioni, adattandoci a ciò che troviamo.
Il nostro spirito di adattamento è, allo stesso tempo, una qualità preziosa e una terribile trappola. I francesi, quando si indignano davvero, manifestano e ottengono cambiamenti; noi ci lamentiamo sui social network, bofonchiamo invettive sugli autobus, non sappiamo (né forse abbiamo mai saputo) indignarci davvero. Le vere rivoluzioni non appartengono a noi, ma ai nostri cugini al di là delle Alpi. Mentre i nostri timidi tentativi di ribellione vengono subito infettati dagli estremismi, istituzionalizzati, vanificati, raccontati in modo banale dai media.
Quindi mi segno un ulteriore promemoria per il 2022: agire più come i francesi che come gli italiani. Cercare avidamente la luce e mettere in atto il cambiamento.
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laciviltacattolica · 3 years
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L’UNICA PERSONA NERA NELLA STANZA | Mauro Bossi S.I.
Un errore comune circa il razzismo consiste nel considerarlo come un atteggiamento eticamente problematico sul piano individuale, concludendo quindi che esistono persone razziste e non razziste. Questo non rende ragione di un fenomeno molto più complesso. Il razzismo, infatti, è una struttura culturale storicamente stratificata attraverso prassi di dominazione, alcune delle quali sono scomparse, mentre altre sopravvivono. Il razzismo non è quindi un pregiudizio, ma un fatto sociale che coinvolge tutti, indipendentemente dalle convinzioni personali. Ma un particolare bias cognitivo prodotto dalla cultura razzista consiste nel fatto che i processi discriminatori non vengono individuati da quanti fanno parte delle maggioranze e delle etnie dominanti: ecco perché parlare di razzismo come cultura suscita spesso reazioni da parte di quanti personalmente, e per lo più in buona fede, non si considerano razzisti. Come fare allora per individuare i meccanismi sociali e culturali che perpetuano le discriminazioni etniche? Occorre mettersi in ascolto delle narrative di minoranza, che portano l’esperienza e lo sguardo delle etnie storicamente dominate. È questo il merito del libro L'unica persona nera nella stanza, di Nadeesha Uyangoda, milanese originaria dello Sri Lanka, che porta il lettore a osservare la società italiana di oggi dal punto di vista della minoranza nera. Il razzismo raccontato da Uyangoda intreccia diversi livelli: dai comportamenti esplicitamente aggressivi, sperimentati nel quotidiano, alla retorica politica del «prima gli italiani» che avalla scelte gravide di conseguenze sociali gravi, come il fallimento della legislazione sullo ius soli che ha lasciato una generazione nel limbo della non-cittadinanza. Il libro è di fatto una guida, forse pensata proprio per un pubblico di lettori bianchi e italiani, per individuare e decostruire le prassi razziste, riconoscendone il portato in ognuno di noi. «Mi chiedo cosa le persone pensino che sia il razzismo nel 2020. Non è più volare nel Terzo Mondo, caricare qualche centinaio di neri e metterli in vendita al mercato di quartiere; non è mettere fuori dai negozi cartelli con scritto solo per bianchi; non è approvare delle leggi che rinforzino una segregazione razziale (anche se qui devo dire che qualcuno in Italia ci ha provato). Il razzismo di oggi è l’eredità di tutte queste pratiche, più altre. Il razzismo è un accumulo di comportamenti, storicamente istituzionalizzati o abituali, che portano beneficio ai bianchi ai danni delle persone di colore. Ecco, direi che questa è una definizione che comprende tutti i tipi di razzismo che mi vengono in mente» (p. 139).
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cristianadellanna · 4 years
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Cristiana Dell’Anna: «A noi donne vorrei rivolgere un rimprovero» [ESCLUSIVA]
8 marzo: la lettera dell'attrice è un augurio pungente a tutte le donne
A noi donne, fragili e spinose, capaci quanto timide, vorrei rivolgere in occasione della festa che ci celebra, un rimprovero. Si, un rimprovero. Forse più di uno. Ma mi perdonerete, spero, perché è mosso dall’intento di fare il nostro bene. Vado dritta al dunque: siamo troppo individualiste. Troppo in gara le une con le altre, in base ad un criterio inculcatoci, secondo cui il successo di una è imprescindibile dal fallimento di un’altra, o tutte le atre. E la metà maschile della società - che questo stupido modello di competizione lo ha creato apposta per tenerci impegnate mentre non ci accorgiamo che gareggiamo sempre per il secondo posto, dato che sul primo si erge generalmente un uomo - marcia sicura di sé su questa nostra debolezza, approfittando del nostro sgomitare animalesco, per conservare la sua posizione di potere e comando. Le cause immagino vadano ricercate innanzitutto nell’obbedienza ad un sistema che di fatto ancora non siamo riuscite a sovvertire e che ci vede in gara per quelle poche, pochissime posizioni di prestigio che ci sono concesse. Un’apertura nei nostri confronti si, da parte di una società in cui ancora ci rispecchiamo male, ma solo quel poco che basta per fare leva su di uno sfrenato liberalismo individuale che pervade ognuna di noi.
Certo, in prima persona potrei sentirmi colpevole, considerando le mie ambizioni artistiche che di fatto tolgono tempo alle battaglie sociali, ma d’altro canto si può facilmente constatare, e con questo non intendo giustificare e corroborare, ma solo provare ad analizzare la situazione, che una tale forma di “egoismo”, per così dire, sia stata ereditata da secoli e secoli di oppressione, consumata tra le mura familiari che prima ancora di annientare il gruppo, annienta l’individuo. O forse dovrei dire l’ “individua”, concedetemi questo finto neologismo, e forzato. Naturalmente la prima necessità sarebbe quella dell’affermazione personale, che di per sé è un grande ostacolo, dal momento che ogni cosa attorno a noi da quando siamo nate, ci nega quella validazione necessaria alla nostra piena esistenza. Abbiamo bisogno di piacerci, di accettarci, così come siamo. Ed è normale perciò vedere l’infinita sfilza di donne controcorrente, che si mostrano audaci più per un bisogno personale e per tendenza, piuttosto che la necessità di cambiare effettivamente le cose. Ed in effetti, non bastano i modelli di ispirazione in politica o tra le professioni fino a poco tempo fa riservate solo agli uomini, per educare metà della popolazione mondiale, se fin da quando siamo in fasce siamo destinate prima esclusivamente al colore rosa e poi a giocare con le bambole, per finire ad esempi scolastici, sempre gli stessi, che ci limitano comunque ad un numero ristretto di possibili carriere rispetto ai nostri colleghi maschi. D’altra parte le mamme restano mamme, ed i papà sono impegnati con le loro carriere. Non siamo, di fatti, rappresentate da quelle donne fortunate che siedono in politica ad esempio, se non si pensa ad apportare modifiche sostanziali al condizionamento culturale, all’educazione di tutti i giorni, oltre che alle opportunità lavorative e la parità di stipendio, per dirne un paio. Non basta. Serve a noi l’occasione di creare gruppo per poterci non solo identificare le une con le atre - oltre che badare solo all’immagine riflessa nello specchio spesso così difficile da accettare - ma per poterci in più rendere conto che ahimè, stiamo lottando ancora per la forma esteriore della nostra posizione in società piuttosto che sul peso che le nostre azioni possono avere. Siamo ancora, in altre parole, in lotta con noi stesse. Quante pagine di social network di noi donne, se messe a confronto con la media corrispettiva di uomini, ci descrivono mentre proponiamo noi stesse o altre come modelli di corpi perfetti o non perfetti, da accettare per piacere agli altri o a noi stesse, senza capire che semplicemente non dobbiamo considerarci come l’oggetto di quel piacere, e quanti effettivamente discutono di sport, di politica, di cambiamento sociale? Dunque, anche se è necessario guardarci dentro e farci forza, ancora non abbiamo però compiuto quel passaggio dello sguardo da noi all’infuori di noi, che cerca nell’altra donna un’alleata. Siamo in fondo ancora convinte di dover competere tra di noi per quelle poche opportunità di successo, che in verità ci hanno lasciato come briciole, i colleghi uomini.
Mi piacerebbe creare un parallelismo tra quello che spiegava Umberto Galimberti a proposito dell’autostima dei giovani e le lacune dell’educazione da parte di genitori ed insegnati: piuttosto che limitare le possibilità di sviluppo delle proprie virtù qualora spazio non ce ne fosse stato, nel senso di contemplato dalla società, gli educatori, che fossero tra le mura di una scuola o quelle familiari, si dovrebbero impegnare a inventare spazi nuovi, allargare gli orizzonti, dunque creare plasticità per la realizzazione personale e conseguentemente, ne dedurrei io, una società più felice e chissà persino più coesa nella propria identità. (https://www.youtube.com/watch?v=kZc_uar1kJc)
Ecco, se le donne facessero proprio il concetto di “creare spazio” per costituire la propria identità, per rafforzarla oltre gli stereotipi istituzionalizzati, e se ci si inculca a vicenda l’idea che dal tuo successo può derivare il mio, oltre l’invidia, perché se si crea spazio per te, può crearsene anche per me, impattando così numeri e statistiche, allora forse le quote rosa o iniziative simili non saranno solo movimenti di facciata. Noi donne, in ultima analisi, abbiamo forse intuito il nostro valore e spetta si, agli uomini adesso adeguarsi. Ma oltre quel valore, che talvolta ancora fatichiamo a concederci, quello che forse ci blocca più di ogni altra cosa nel prendere posizioni di comando o a prescindere da quest’ultimo, nella piena realizzazione di noi stesse, è la paura di assumersi le responsabilità che dall’autonomia derivano. Scegliere vuol dire affrontarne le conseguenze, ma rimaniamo troppo timide di fronte a tale compito, perché sminuite dalla reputazione affibbiataci non solo dagli uomini, ma dalle donne stesse. Da sole non ce la possiamo fare. La forza della singola deve riflettersi nella forza di tutte. Sostenerci a vicenda, validarci per ciò che scegliamo, per i ruoli di responsabilità che assumiamo, capire che se lo faccio io lo puoi fare anche tu, unirci insomma. Questo è, se non la formula, un elemento chiave per l’abbattimento del gender gap. Non più rimanere sole nella ricerca della nostra personale voce, ma porre quest’ultima all’unisono con tutte le altre, aprendoci la strada vicendevolmente e insieme.
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paoloxl · 7 years
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La procura di Firenze ha aperto un fascicolo su Barbara Balzerani rea di lesa maestà delle vittime. Uno stormo di avvoltoi in questi giorni si è divertito a gareggiare in indignazione. 40 anni fa Barbara Balzerani ha partecipato, insieme ad altri nove brigatisti, al sequestro di Aldo Moro, negli anni in cui in Italia, secondo i dati ministeriali, operavano 269 sigle armate alla fine del 1979, 36.000 cittadini furono inquisiti per banda armata di cui 6.000 condannati a decenni di carcere, e si registrarono 7.866 attentati alle cose e 4.290 alle persone. Arrestata e condannata, ha interamente scontato la propria pena, come tantissimi altri che presero parte a quel fenomeno insurrezionale. Negli anni successivi ha pubblicato sei libri, alcuni dei quali tradotti in Francia e Spagna, e le presentazioni degli stessi sono state le sue uniche apparizioni “pubbliche”, avendo sempre evitato di rilasciare interviste sul proprio passato da brigatista, eccezion fatta per un documentario di tanti anni fa curato da Loredana Bianconi su alcune donne che ai tempi presero parte alla lotta armata. In coerenza di ciò ha evitato, come altri, e nonostante le fosse stato ovviamente richiesto da più parti, di rilasciare interviste o quant’altro destinato a riempire i maggiori palinsesti mediatici nell’approssimarsi dell’anniversario dei 40 anni della strage di Via Fani e del sequestro Moro. Un post pubblicato il 9 gennaio sulla propria bacheca del social FB, e che sostanzialmente ribadiva la volontà di non partecipare ai vari special che sarebbero stati dedicati a un evento che, secondo costume italico, viene ricordato esclusivamente in occasione delle ricorrenze (per poi puntualmente ricadere nel più assoluto oblio), ha tuttavia improvvisamente riportato su di lei la dimenticata attenzione dei media, interessati da una lettera molto polemica inviata a un noto giornale da un ex brigatista che le augurava di ritrovarsi insieme all’inferno. Il post incriminato recitava la seguente frase “Chi mi ospita oltre confine per i fasti del quarantennale ?”. Da quel momento Barbara Balzerani è diventata di colpo per tutti i principali commentatori della più diversa provenienza l’emblema della feroce assassina che si fa beffe delle vittime dei suoi crimini, chiedendo di “andare ai caraibi” (sic !) mentre i parenti delle vittime piangono i loro morti. Anche se il significato di quel post era ben diverso, come avrebbe dovuto risultare evidente a chiunque, ha prevalso la voglia di ricreare a distanza di 40 anni il “mostro” e la Balzerani ha evitato ulteriori commenti, riprendendo a girare per l’Italia per presentare il suo ultimo romanzo, che peraltro, a differenza di altri, tratta una tematica che non ha nulla a che vedere con la passata esperienza brigatista. All’approssimarsi del 16 marzo si scatena la celebrazione mediatica del quarantennale cui lei, come altri, si guarda bene di partecipare o di dire la sua. Domenica 11 marzo il giornalista Purgatori batte tutti sul tempo mandando in onda su La 7 uno speciale in due puntate che in realtà riproduce integralmente le interviste rilasciate parecchi anni fa per un documentario francese da quattro ex brigatisti che presero parte al sequestro di Moro, uno dei quali, peraltro, morto da 5 anni. Il programma scatena l’indignazione generale di alcuni parenti delle vittime, ma non solo, per i brigatisti che vanno in TV proprio in occasione del quarantennale, anche se a nessuno di quei quattro era stato chiesto il permesso di utilizzare quelle loro vecchie interviste rilasciate per ben altra occasione. Anzi uno di loro, espressamente invitato a rilasciarne una nuova da altro importante giornalista rifiutò cortesemente l’invito, proprio per evitare di scatenare le prevedibili e solite polemiche. Contemporaneamente e da più parti gli ex brigatisti venivano tuttavia rimproverati, non senza una certa dose di apparente incoerenza argomentativa, di essere reticenti e persino omertosi in senso mafioso. Nuovamente la Balzerani, come altri, evita di esprimere alcun pubblico pensiero sul punto, ma quando il CPA di Firenze la invita a presentare, peraltro come tutti gli anni accadeva, il suo libro il 16 marzo, data evidentemente non scelta da lei, si scatena una ridda di polemiche per il solo fatto che venga invitata seppure a presentare un libro che parla di tutt’altro. I media si appostano con microfoni e telecamere nascoste confidando nello scoop e al termine della presentazione del libro qualcuno le chiede di esprimersi sulla polemica in corso da parte delle vittime sul diritto di parola anche agli ex brigatisti. A domanda risponde che fermo restando il diritto delle vittime di esprimere il proprio pensiero, la narrazione di una storia collettiva non può essere monopolio neppure di loro, e per esprimere un concetto, sul merito del quale direi che nessuno potrebbe obiettare alcunché, usa un espressione che scatena ancor di più l’indignazione collettiva nei di lei confronti. «C’è una figura, la vittima, che è diventato un mestiere, questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola. Io non dico che non abbiano il diritto a dire la loro, figuriamoci, ma non ce l’hai solo te il diritto, non è che la storia la puoi fare solo te». Da quel momento si legge contro di lei di tutto e di più, cui peraltro l’interessata non replica in alcun modo, le vengono dedicate intere pagine sul Corriere e puntate di Matrix ed è di queste ore la notizia che la Procura di Firenze avrebbe “aperto un fascicolo” nei di lei confronti anche se, specificano, in assenza di reato, che il Comune di Firenze ha deciso lo sgombero del centro sociale che l’ha ospitata e che il figlio dell’ex sindaco Conti ha preannunciato una querela per diffamazione contro di lei. Questi sono i fatti, i giudizi come sempre ognuno potrà farseli secondo i propri diversi intendimenti. Davide Steccanella da facebook ********************** Sui fasti e sul potere vittimario “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subíto, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto”. (Daniele Giglioli, Critica della vittima) Carnefici assoluti e vittime assolute orchestrati da un sistema mediatico cui è stata delegata la direzione della retorica della memoria condivisa, collaudata ormai da almeno un decennio attraverso la “televisione del dolore”, come l’ha ben definita De Luna, e nel contesto di un diffuso senso comune dominato dal populismo penale che attraversa la società toccando destra e sinistra ormai indistintamente. Si commemora in questo contesto, secondo i meccanismi del paradigma vittimario, e del complottismo, suo parente stretto, il quarantennale della morte di Moro e della sua scorta, con ricadute non indifferenti nel campo storiografico, ma soprattutto nella costruzione della memoria pubblica, e cioè dell’uso del passato nella costruzione del presente. Fasti – celebrazioni – che certo non aiutano a comprendere il passato, che sostituiscono la memoria alla Storia e che in fondo paiono anche molto poco rispettosi degli stessi che le istituzioni vorrebbero celebrare. La Storia letta sempre più in un´ottica giudiziaria – dove gli attori incarnano i ruoli di carnefici e vittime – e complottista – dove pochi burattinai tengono in mano i destini del mondo tramando contro ignare ed innocenti masse – non sono un fenomeno solo italiano. L’ascesa del paradigma vittimario corrisponde all’affermarsi ed al consolidarsi del neoliberismo e della post-modernità, ne costituisce la sua base ideologica, espungendo progressivamente dall’orizzonte politico contemporaneo e dalla Storia, il concetto di conflittualità, depoliticizzandola e passivizzandola. Pur non trattandosi di un fenomeno solo italiano, l’Italia ne ha, in certo modo, precorso i tempi e le tappe, mettendolo a punto proprio con quei due decenni di passato che vanno dalla metà degli anni 60 alla metà degli anni 80, che non si riesce a storicizzare, ed in particolare con la lotta armata, il vero oggetto delle permanenti esorcizzazioni. A narrare, una memoria, dominante su tutte le altre. Una memoria trasformata impropriamente ma non a caso in sinonimo di Storia e sostituita ad essa. Fino ad annullarla, a dissolverla nel dolore privato, nella dimensione intimista e familiare, che occupa la scena ed egemonizza lo spazio pubblico, occultando i grandi processi politici e sociali, e con essi le conflittualità che li muovono, che sono la parte costitutiva della Storia. Vittima e familiare della vittima, sacralizzati nel rito ufficiale della giornata della memoria, istituzionalizzati dal discorso pubblico, spettacolarizzati mediaticamente, sono arrivati ad incarnare una superiore moralità. La loro parola, indipendentemente dal fatto di essere corretta rispetto ai fatti o alle persone di cui parla, e la loro posizione che esprime sofferenza assoluta, diventa inattaccabile, la critica diventa ingiuria. Basta molto meno della critica, basta il solo porre un discorso altro che si sottragga alla retorica del dolore perché scatti la censura e la riprovazione pubblica mediaticamente indotta, che prenda avvio il processo di mostrificazione dei cinici carnefici. La loro parola diventa valore assoluto, e assoluto il potere di veto sulle altre voci. È comprensibile, umano soprattutto, da parte di chi abbia subito lutti o sofferenze personali, una reazione di indignazione e di protesta di fronte al responsabile della morte di un suo familiare. L’espressione di odio, vendetta, rancore si comprendono ed hanno la loro ragion d’essere in quanto manifestazioni personali e private del dolore di ciascuno. Di diversa natura e di diverso significato, invece, l’operazione, sotto i nostri occhi in questi giorni, che sul piano istituzionale e mediatico ha reso centrale il ruolo di una tipologia di vittima in particolare, quella della lotta armata degli anni 70-80, posta come figura centrale per l’interpretazione del conflitto sociale e politico di quel periodo, finendo per incarnarne il senso e divenirne la sua principale chiave di narrazione e di lettura, costruendo e cristallizzando attorno alla sua identità la memoria di stato, riempiendo con il dolore privato il vuoto della politica istituzionale – di classi dirigenti ingessate ed immobili, ieri come oggi – ponendola al centro dello spazio pubblico, assegnandole il monopolio della parola sulla Storia. Non tutte le vittime sono uguali, ed è dai rapporti di forza politici, dai ruoli sociali, da chi ha vinto e da chi ha perso, che dipende la differenziazione tra vittime deboli e vittime forti, e di conseguenza tra memorie deboli e memorie forti. Dalla prospettiva che si assume può risultare difficile dimenticare, nello specifico del discorso che qui ci interessa, per esempio, i tanti eccidi proletari che costellano la storia repubblicana (gli oltre due chili di bossoli sparati in pochi minuti, il 2 dicembre 1968, contro i braccianti di Avola che chiedevano un aumento salariale e che fecero due morti, solo per fare un esempio, chi li ricorda? E i 17 morti e 88 feriti di Piazza Fontana appena un anno dopo, ad inaugurare lo stragismo contro un movimento di classe in ascesa? Come dimenticare che lo Stato ha fatto pagare ai familiari di quelle vittime le spese processuali senza fornirgli nemmeno una verità giudiziaria?) Il peso, la visibilità e il rispetto dovuto alle vittime cadute in uno scontro sociale durato circa due decenni dipende dalla posizione che esse hanno occupato in quello scontro, dal peso e dall’interpretazione che si attribuisce alla storia complessiva di quegli anni. Dall’altro lato le vittime forti, che occupano posizioni di rilievo nel mondo politico e giornalistico, che dispongono di associazioni, che hanno svolto e svolgono un ruolo preponderante nella costruzione della narrazione degli “anni di piombo”, proprio in virtù della loro identità di vittime. In questi anni quasi quotidianamente sono apparse interviste, dichiarazioni, prese di posizione dalle pagine dei maggiori quotidiani contro gli ex militanti della lotta armata, ogni qualvolta si presentassero libri, film, per protestare contro la loro presenza in convegni di studio o altre iniziative pubbliche, e contro chi semplicemente proponesse chiavi di lettura diverse rispetto all’unico discorso autorizzato sul tema. Curiosamente si parla dai principali mezzi di informazione, e al tempo stesso si reitera la formula rituale “parlano solo i terroristi, per noi il silenzio”. Quanto sia presente e forte il condizionamento delle vittime “forti” e quanto necessaria la cultura del pubblico pentimento rispetto al proprio passato per poter vedere riconosciuto e legittimato il diritto di parola nel presente, lo mostra in modo nitido la pubblica abiura richiesta, ed immediatamente ottenuta, da una buona parte della numerosa schiera degli allora firmatari del manifesto contro il commissario Calabresi del 13 giugno 1971, divenuti nel frattempo membri integranti dell’establishment e dell’intellighenzia. Un buon esempio del funzionamento del paradigma vittimario e dei suoi effetti sulla scrittura della storia e sulla costruzione della memoria pubblica. In questi giorni si sono riproposti, in maniera del tutto paradossale, gli argomenti usati da decenni sul diritto o meno di parola degli ex-militanti delle BR. L’obbligo al silenzio dei “carnefici” è stato veicolato dai media a mo’ di mantra: i terroristi non pentiti e non dissociati devono tacere. Il paradosso sta nell’aver creato una polemica su un fatto non avvenuto, e cioè sulla presenza in Tv degli ex brigatisti non pentiti e non dissociati. Chiamati da tutti i mezzi di informazione, nessuno di loro ha rilasciato interviste né accettato di partecipare ai numerosissimi programmi televisivi, tanto che si è fatto ricorso a materiale documentario già edito da tempo e non italiano per esibire la loro presenza. Eppure si grida contro il loro protagonismo. Si cercano per farli parlare e per poi gridare per il fatto che parlano. Tra l’altro, chi si scaglia contro i non pentiti e non dissociati, omette di dire che si riferisce a chi ha scontato più anni di carcere (e qualcuno, una ventina circa di persone, ancora sta scontando). Coloro che vorrebbero mettere a tacere i terroristi non pentiti né dissociati, infatti, sanno sicuramente che queste due categorie, al di là della carica religioso-morale che i termini evocano per il senso comune, sono prima di tutto categorie giuridiche, da cui, sempre giuridicamente ne discende una terza, quella degli irriducibili – che raccoglie, al di là delle diverse posizioni assunte poi dai singoli, tutti quelli che non rientrano nelle prime due – con le quali lo Stato italiano attraverso la legislazione d’eccezione ha risolto, sul piano giudiziario, il conflitto sociale degli anni 70 distribuendo condanne, elargendo sconti e assoluzioni secondo il grado di collaborazione. I non pentiti e non dissociati sono dunque coloro che non hanno usufruito dei benefici previsti dalle leggi su pentimento e dissociazione. Quelli cioè che hanno pagato senza sconto! Dovrebbero saperlo i giustizialisti oltranzisti che vorrebbero l’applicazione di una sorta di ergastolo politico e sociale, la permanente esclusione dagli spazi pubblici. In ogni caso, le vittime delle BR non possono dire di non aver avuto giustizia. Non si può dire lo stesso per le altre vittime di quella stagione, prime fra tutte quelle dello stragismo, fenomeno per natura ed origine non assimilabile alla lotta armata ma che viene associato indistintamente ad essa come si trattasse della stessa cosa, che ha mietuto indiscriminatamente centinaia di morti rimasti senza responsabili. Basterebbe, visto il tempo ormai intercorso, se non una verità giudiziaria, almeno un po’ di verità storica, ma pare non premere alle istituzioni indignate contro gli ex-BR. Rimane da chiedersi, se i conti con la giustizia sono stati regolati, e le vittime, in questo caso i vincitori, hanno avuto ragione, perché il rancore istituzionalizzato? Da dove nasce e qual è la funzione del rancore dei vincitori che si presentano, o sono presentati, in veste di vittime? Il paradigma vittimario e la memoria condivisa che con esso si vorrebbe far passare, rappresentano la più recente formula per liberarsi dal peso ingombrante di una storia che non è mai stata digerita, che si cerca di liquidare come follia omicida e ideologica, esaltando l’innocenza assoluta da una parte ed il male assoluto dall’altra, in una sorta di infantilizzazione della Storia, e che ha bisogno del complottismo perché si mantenga cronaca. Come scrisse Agamben ormai 20 anni fa, il mancato riconoscimento del carattere genuinamente politico del conflitto di quegli anni da parte delle classi dirigenti di allora e delle attuali, lascia quel periodo come un problema aperto, che non può farsi passato. Questo è il vero nocciolo della questione. I parenti delle vittime, di alcune vittime, non detengono il monopolio della Storia, non possono agire, come ha efficacemente sintetizzato Giglioli, come “corte di cassazione della Storia”. Non possono zittire chi ha fatto parte della storia, imponendogli una pena aggiuntiva oltre a quella scontata. Perché insieme a loro zittiscono anche chi quella storia cerca di comprenderla e di darne letture diverse da quella posta dalla memoria condivisa, avendo tutto il diritto di farlo. Silvia De Bernardinis
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#tribunaleminorile #sottrazione #sottrazionediminori #sottrazionifacili #casefamiglia #stop #figlinegati #stop #figli #istituzionalizzati Quando i minori hanno una casa, #genitori #senza #compromettere #genitorialità (presso Italy) https://www.instagram.com/p/BxPJ7mdnMHi/?igshid=18la4snh6mhhl
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renudo79 · 4 years
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Odi et amo
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A tagliare il buio c'è solo la luce del monitor e il lumicino accanto a me, sulla scrivania. Non so neanche se sono a letto mentre finalmente arriva il sonno a pensarmi qui o se magari sono qui a scrivere davvero. Non so neanche se sono ancora io o la definizione che do di me stesso. Il mio riflesso su un cursore che lampeggia su un foglio digitale bianco e vuoto. Il silenzio è tale da riuscire a sentire il mio respiro pesante e il battito ritmico del mio cuore. Se si fermassero entrambi continuerei ad esistere? Resterebbe di me un'immagine di profilo e qualche cazzata scritta qua e là. Il ticchettio delle dita sui tasti è reale o è frutto del mio cervello in fase rem? Esisto solo nei miei ricordi. Buio. Paura. Solitudine. Fiato spezzato. Sudore. Occhi bruciano. Respiro ancora più pesante. Bocca asciutta. Fame d'aria. Tachicardia. Odio. Puro, forte, cieco. Perché sto così? Per il virus. Per la quarantena. Per il confino. Non sono così. Non sto male. Non sono così. Non ero. Ero. E ora? Tutta colpa del virus. Della pandemia. Della morte fuori dalla porta di casa. Finirà. Prima o poi finirà. Questa follia finirà. E torneremo alle nostre vite. O a quello che ne rimane. E ricominceremo. Tornerà tutto come prima. Anzi no. Meglio. Saremo migliori. Tutto questo ci sarà servito a migliorarci come esseri umani, come comunità, come genere umano. Già sento il profumo del socialismo. Già vi vedo che fate la fila come si deve, che non litigate più per una mancata precedenza, anzi non esisteranno più le mancate precedenze. Già vi vedo che addirittura avrete imparato pure ad usare le rotonde. Già sento i "Per piacere", i "Grazie", i "Grazie a lei", i "Mi scusi" e i "Prego". Presto torneremo per strada e sarà bellissimo riscoprirci migliori di prima. Niente più truffe, furti, violenza. Niente lamentele inutili e polemiche per ogni cosa. Niente più esperti della domenica pomeriggio di ogni sfaccettatura dello scibile umano. Il mondo sarà bellissimo. L'Italia sarà meravigliosa. La mia città, un paradiso in terra. Il genere umano supererà tutti suoi limiti, tutto il suo egoismo e diventerà finalmente una grande famiglia unita. Niente più fascismo, razzismo, sessismo. Uno per tutti e tutti per uno. Meraviglioso. Già lo vedo. E invece no. Manco per il cazzo. Se c'è qualcosa che ci ha insegnato il virus è che possiamo fare ancora più schifo. Delatori di ogni nuovo possibile untore, di ogni nuovo possibile capro espiatore, di ogni persona che fa qualcosa che noi non facciamo perché il problema non è poter fare o non fare il problema è che se non lo faccio io non devono farlo neanche gli altri. Complottisti, negazionisti, untori veri che seminano dubbi in una situazione che di sicuro non ha nulla. Esterofili del come hanno fatto negli altri Paesi perché noi no, osservatori acritici di bicchieri vuoti che ne fanno paragone per silos pieni. Rivoluzionari per sentito dire, piromani pronti a passare l'accendino a qualcun'altro, difensori delle libertà fino a quando coincidono con le proprie. Idrofobi muti che vorrebbero vedere puniti tutti dal fantomatico karma che sembrerebbe esistere solo per gli altri. Sorridenti avvelenatori di pozzi dal bisbiglio uggioso che per non lamentarsi della loro situazione, l'unica a cui sono interessati, si fanno paladini di quelle di altri speranzosi di sentirsi una pacca sulla spalla. Egocentrici dispensatori di buonismo che se non possono essere come Gesù che almeno li vedano come profeti del fai come dico non come faccio. Grandi statisti che avrebbero fatto sempre in maniera diversa da come hanno fatto i governanti, polemisti delle virgole, analisti dei se, non ingombrano neanche le tombe. Odiatori seriali che seguono i delatori, cani rabbiosi che fanno il lavoro dietro alla tastiera che pure la polizia dei film anni '70 era più umana. Sballottati in un mare di ostile disprezzo tra un'onda di risentimento per la libertà degli altri e una spiaggia fatta di rancore per il senno del poi, trincerati in un castello fatto di sabbia e statistiche fino a quando una nuova onda ci ributterà nello stesso mare, più feroce, più incontrollabile. Paura. Buio. Grida strozzate in gola dal terrore. E tutto questo e altro ancora sta covando, crescendo a dismisura come la pasta della pizza sotto al pleid. Tutto questo si nutre della paura, della solitudine, della depressione. E diventa un mostro più nero del virus, del distanziamento sociale, più buio della crisi economica. Sarà questo che uscirà nelle strade non la famiglia del mulino bianco. Saremo più stanchi, più arrabbiati, più impauriti. Più merde. Saremo giustificati perché siamo stati due mesi chiusi in casa. Milioni di osservatori dei vizi altrui. Milioni di ostentatori di virtù e buone prassi. Milioni di empatici serial killer della solidarietà. Psicopatici insicuri. Odiatori giustificati. Egoisti istituzionalizzati. Andrà tutto bene. Una società basata su ignoranza e paura come avrebbe dovuto salvarsi da se stessa? È ancora buio. Il sonno non arriva. Sudore. Mal di testa. Il respiro torna al suo ritmo normale. Anche il cuore. Chiudo gli occhi un attimo. È tutto passato. È stato un attimo. Andrà tutto bene. Magari ora dormo e al mio risveglio mi sono sognato tutto. Il virus, la pandemia, la quarantena, i morti, la paura. Magari. Sta andando tutto bene. O domani sarà l'ennesimo giorno uguale ai precedenti. È andato tutto bene.
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tucamingo-blog · 7 years
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Perché oggi, in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, è bene ricordare che la violenza da noi subita non è solo di tipo fisico. Le donne non sono solo vittime di percosse da parte dei membri della loro famiglia e dei loro compagni; non sono solo vittime di femminicidi e di gesti estremi compiuti dai loro ex; le donne sono vittime di tanti altri tipi di violenza: istituzionalizzati, insegnati, tramandati e appresi dalle donne stesse fino a diventare quasi invisibili ai loro occhi e, proprio per questo, terribilmente pericolosi. Le donne lottano quotidianamente contro il glass ceiling che fa crescere tante ragazzine con la mancanza quasi totale di esempi di eccellenza femminile, in molti casi finendo per tappare loro la via verso il successo. Le donne lottano ogni giorno per il diritto di amare il proprio corpo, aldilà degli standard di bellezza puntualmente imposti. Le donne devono difendersi dallo slut shaming: meccanismo malato di una società ipocrita che prima rende le donne sesso e poi le biasima quando sono loro a decidere quanto e come farlo. Lottano contro i dress code a loro imposti a scuola e applicati in modo umiliante per assicurarsi che gli studenti maschi non "si distraggano" durante le lezioni, perché insegnare ai ragazzi a non sessualizzare un paio di ginocchia è, a quanto pare, un'impresa impensabile. Lottano contro le assillanti aspettative di una società che le vuole madri presenti, ma anche business women di successo; che le vuole snelle e sode, ma senza che badino troppo al loro aspetto fisico; che le vuole ipersessualizzate quando sono ancora minorenni e senza una ruga quando raggiungono gli "anta". La pressione psicologica subita dalle donne, per tutti i motivi citati e, purtroppo, per tanti altri ancora, non può, a parer mio, non ricadere sotto la definizione di violenza. Oggi cerchiamo di aprire gli occhi e di riconoscere i nostri carnefici. Tutti i nostri carnefici. •Il Capybara Femminista 💜 💜 #stopviolenceagainstwomen #orangetheworld #smashthepatriarchy #stopsexism #eliminateviolenceagainstwomen #girl #tweegram #beautiful #pink #drawing #feminism #feminist #femminismo #nonunadimeno #femminista
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Lutto per l'architettura. Addio a Cristiano Toraldo di Francia (Firenze, 18 settembre 1941 – Filottrano, 30 luglio 2019), il noto architetto italiano (fiorentino) e da tempo Professore presso l'ateneo di Architettura dell'Università di Camerino: si è spento il 30 luglio a 77 anni. Sito www.cristianotoraldodifrancia.it Cristiano Toraldo di Francia si laurea in Architettura nel 1964, mentre nel dicembre del 1966 è co-fondatore del gruppo "Superstudio", con il collega Adolfo Natalini e partecipa alla prima mostra di Superarchitettura, pioniere di Architettura Radicale, insieme ai membri del gruppo di architetti figli della scuola fiorentina, quali Adolfo Natalini, Gian Piero Frassinelli, Alessandro Magris, Roberto Magris, e Alessandro Poli, fino al 1973 ... il "Superstudio", un collettivo di Architettura che ha fatto Storia senza Costruzioni, una Vita sognata, ma senza Oggetti, attraverso un linguaggio architettonico e un design che vennero rielaborati sulla base di metodi innovativi multidisciplinari, non accademici e non istituzionalizzati, attraverso nuovi strumenti e tecniche delle Comunicazioni di Massa. "Il Monumento Continuo" e "Le Dodici Città Ideali" sono due dei loro famosi esempi di risultati ottenuti con procedimenti multimediali come immagini, fotomontaggi, sceneggiature per video e scritti di critica, che ormai sono contenuti in numerosi progetti, libri, cataloghi, archivi, collezioni e pubblicazioni firmate collettivamente dal Superstudio, fautori del cambiamento, dell'avanguardia attraverso disegni di architettura visionaria. R.I.P. Testo di Roberto Giordano @archrobertogiordano - Italian architect, design consultant, interior adviser, lecturer with many years experience in Italy and abroad. phone: +393283056929 | e-mail: [email protected] #robertogiordano #italian #architect #italianarchitect #freelance #architecture #architecturalintervention #interiordecoration #interior #interiordesign #interiordesigner #designer #designconsultant #design #consultant #interioradviser #interiorrenovation #survey #surveyor #planning #development #management #residential #commercial #social #professional #lecturer #archrobertogiordano #italy #abroad (at Firenze, Tuscany, Italy) https://www.instagram.com/p/B0lUp7sBH9y/?igshid=16tilrwo709fq
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