Tumgik
#ma purtroppo il mio mondo interiore è tutto diverso
ross-nekochan · 9 months
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Ultimamente penso che ho solo 2 mie amiche con cui mi sento regolarmente e che sono il mio contatto con l'Italia. Se non fosse per loro due potrei morire qui contenta senza che nessuno che mi conosce(va) soffra troppo.
Non so se considerarle un deterrente o un impiccio.
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itsmyecho · 5 months
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Sono arrivato ad un periodo della mia vita in cui metto tutto in dubbio. La verità è che non ho più certezze. Mi sveglio la mattina e mi sento vuoto; ho sempre parlato di questo e più vado avanti nella vita, più vedo che il sentirsi vuoti può solo andare peggiorando. Ho l'ansia se studio e le volte in cui non sto studiando è perché l'unica forza che riesco a trovare è quella che mi permette di stare coricato con gli occhi aperti a guardare il soffitto, eh sì anche lì mi sale l'ansia per non star facendo niente di produttivo o buono nella vita. Prima mi tagliavo e il mio malessere lo sfogavo in qualche modo, avevo tanti sogni e riuscivo ancora ad aggrapparmici. Adesso ho smesso da 8 anni e ogni tanto ci penso. Penso a quanto fosse facile prima piangere per una ragione, sì una ragione che io stesso procuravo ma almeno era una valida ragione. Vorrei andare da uno psicologo ma il solo pensarci mi fa perdere tempo, ultimamente non riesco a trovare il tempo neanche per lavarmi i capelli o per fare le cose più stupide, anche mangiare è diventato difficile figurati parlare con qualcuno. La verità è che lo so quanto questi non siano i veri problemi della vita e so anche che sicuramente questa sensazione di vuoto sono in molti a provarla o che sicuramente tutto questo è solo svogliatezza e basterebbe solo impegnarsi di più. E allora perché se so queste cose non ci riesco comunque? Perché seppur me le ripeta ogni cazzo di giorno la mia mente si blocca e si risveglia dopo ore. A che scopo continuo a vivere se tutte le cose che mi impunto a fare non vanno mai a termine o finisco per rovinare i rapporti con chi ho intorno? Non devi rispondere per forza, volevo solo dire queste cose a qualcuno che forse può capirmi. Non ho detto tutto ma è quanto basta per sentirmi più leggero. Ho provato a parlarne con alcuni ma o mi bloccavo o non riuscivano a capire il mio sentimento, e lo capisco benissimo. Scusa per lo sfogo
Come posso non rispondere a questo sfogo quando percepisco benissimo quello che stai provando in questo preciso istante? Stai vivendo la tua vita tra la corsa e la pigrizia, dove ti sembra di fare troppo ma non stai facendo tanto. Dove il tempo sembra scorrere troppo veloce per le azioni che compi o che stai per compiere. Purtroppo quando arrivi ad uno stadio di malessere interiore così grande, cadi in questo limbo dove diventi una persona appesa tra la vita e la morte su un filo sottile. Il fatto che non riesci a comunicare perché senti di non essere capito, aggrava la situazione. Hai mai provato ad esprimerti in altri modi? Con dei disegni, delle fotografie, dei dipinti, delle canzoni, dei versi? La scrittura e il dialogo non sono sempre l'unico modo per avere vita salva. Non devi permettere alla società di metterti pressione su ciò che devi o non devi diventare nella vita, ricorda che basta già la tua singola esistenza a contribuire allo sviluppo nel mondo, sia nel bene che nel male. Sei riuscito da solo a dedurre la tua posizione e il tuo status mentale e questo non è da tutti, anzi. Hai già la chiave per guarirti, perché ti riconosci, conosci i tuoi errori e il tuo blocco mentale. Ora manca solo la tua forza di volontà nell'applicare il tuo sapere. Ti posso dare un consiglio per alleviare quella sensazione di vuoto. Vai in un parco dove ci sono dei bambini che giocano, o se riesci.. Sarebbe ancora meglio se ti circondassi per un attimo da loro. Osservali bene, cerca di studiare le loro azioni e prova a capire cosa c'è di diverso tra le tue emozioni e le loro. Scatterà qualcosa dentro di te, ne sono certo!
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sophiaepsiche · 4 years
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La via naturale
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Nella via della conoscenza abbiamo un solo ostacolo, si chiama ignoranza. Ma, anche nella vita comune, usiamo questa parola con due significati; uno indica la mancanza di conoscenza, non pericolosa, se umile. Non so o non ricordo a che ora è il mio treno, controllo, vedo che è alle 10:15 e parto in tempo. Il problema si pone se presumo di sapere. La presunzione è pericolosa. Sono convinto di sapere che il mio treno è alle 11:15, non mi informo, non ricontrollo e lo perdo. Se questo viaggio lo dovevo fare con la mia famiglia, che si fida di me, il danno è ancor maggiore.
Vediamo ora come agiscono questi due tipi di ignoranza nel ‘conosci te stesso’. Se io non ho mai fatto questo lavoro di indagine interiore, dovrò dapprima cercare di conoscere ciò che c’è in me. Se, invece, già presumo di sapere cosa fare a riguardo di ciò che vedo dentro di me, agisco. Ma cosa o chi agisce in tal caso? È l’ignoranza che agisce sull’ignoranza; perché la conoscenza ancora non c’è. (Può esserci una conoscenza indiretta: nozioni, informazioni, ma non conoscenza diretta dovuta all’indagine: consapevolezza)
L’intervento sugli ‘oggetti mentali’, quando siamo ancora nell’ignoranza, è un gioco mentale,  e soprattutto, (questo è un indizio importante) è fatto da altri ‘oggetti mentali’: il desiderio, la giustificazione e la condanna, gli ideali e le illusioni sono solo altri oggetti. La giustificazione si palesa come pensiero, il desiderio è un pensiero, così l’ideale. Stiamo giocando con i pensieri = gli oggetti mentali, che presuppongono di sapere cosa fare (conoscenza indiretta = nozione = pensiero = oggetto) .
In tal modo rimaniamo nell’ignoranza, in Maya.
Se, al contrario, ‘so di non sapere’ sostituire l’ignoranza con la conoscenza è qualcosa di molto semplice. Mi raccomando, quindi, non usate l’umiltà come blocco al sapere, in tal modo non è pratica né utile, ma come presupposto fondamentale per arrivare al sapere. Per far ciò deve essere così intensa da agire pragmaticamente e deve esser lì già dall’inizio.
Per facilitarvi in questo ed evitare i rischi che si celano nell’inevitabile primo cammino nell’ignoranza, i nostri migliori maestri ci hanno indicato la via negativa, la via più sicura al mondo. Scopriamola insieme.
La via negativa può essere teorica o pratica. È sicura perché non introduce nessun elemento che non si possieda già. A noi interessa particolarmente la parte pratica, perché gli insegnamenti teorici pericolosi, da non rivelare o rivelare con grande cautela, o solo a chi ha già una mente umile e arresa, sono davvero pochi. Non tutti gli insegnamenti positivi sono falsi o pericolosi; solo alcuni, anche se veritieri, possono rivelarsi fuorvianti se impartiti senza precauzioni.
 Nella pratica, la via negativa ha un solo ed unico insegnamento: ‘stai fermo’.
Sapendo di non aver ancora sviluppato discernimento, non intervengo sull’oggetto mentale, ma osservo. (vedi schema sopra)
Il che non vuol dire letteralmente non far nulla, ma non agire sull’oggetto mentale. L’osservazione è quindi ‘passiva’ sull’oggetto, ma è di per sé molto energetica ed ‘attiva’. Devo alzare l’attenzione.
Questo aspetto è talmente importante da concentrare in una sola parola l’insegnamento di molti maestri: ‘l’Attenzione’. (Vedi Buddha, Krishnamurti, Ramana Maharshi e altri). Non è diverso dal dire ‘stai fermo,’ ma è necessario per renderlo possibile. Dato che non siamo abituati a star fermi, ma a saltare sugli oggetti mentali, girare con essi e/o giocare, soffrire, controllare e agire su di essi (questa è proprio la causa della nostra identificazione con la mente). Per star fermi, quindi, ci sarà bisogno di alzare l’attenzione. In tal modo saremo saldi nella consapevolezza, nella luce che permette ogni conoscenza, ossia saremo sempre più vicini alla fonte dell’attenzione: il soggetto. 
Nonostante gli oggetti mentali possano muoversi davanti a me, la mancanza di intervento è l’umiltà pratica e utile di cui parlavamo all’inizio. Restando fermo saldo e centrato nell’attenzione sto sviluppando conoscenza e discernimento non solo in modo totalmente sicuro, ma sto ponendo una distanza, sempre più palese tra l’attenzione (il soggetto) e gli oggetti. Isolando il soggetto pian piano si spezza l’identificazione falsa e si stabilisce la vera.
Questo è lo scopo ultimo del ‘conosci te stesso’. Indagare chi siamo. La parte pericolosa è quella iniziale di comprensione dell’ignoranza, capire chi non si è: mente, pensiero. Ma attuandola in via negativa si è sempre al sicuro, perché restiamo saldi nella consapevolezza, anche quando non sappiamo sia il nostro vero sé, ma lo interpretiamo come uno strumento. Uno strumento che però è invisibile, non è un oggetto. Più pratichiamo, più la differenza tra soggetto e oggetti si noterà.
L’attenzione, dunque, non è passiva, ma  ha l’effetto di allontanare gli oggetti mentali in via negativa, ossia invece di ignorarli, li guardiamo ponendo una distanza. Con l’attenzione siamo noi che indietreggiamo. Questo evita partecipazioni mentali nel e col pensiero, rende matematicamente impossibili le repressioni e l’intervento dell’ignoranza. Lo vedrete da voi, l’attenzione oltre a porre distanza coi pensieri può anche farli scomparire se è molto alta. Se ciò non avviene è solo per mancanza d’intensità. L’intensità copiosa verrà prima in picchi che durano poco e poi diverrà anche più elevata e stabile col tempo. Mi raccomando però, a qualsiasi livello, se vi accorgete che siete saltati in mezzo al pensiero e state partecipando mentalmente, dovete comunque alzarla. Altrimenti non state conoscendo voi stessi.
Quando vedrete le cose scomparire nell’attenzione sarà per pura trascendenza. La coscienza è di per sé trascendente. L’azione dell’osservazione consapevole fa tutto da sé. Tu devi solo star fermo.
Più l’energia dell’attenzione è intensa più gli oggetti mentali spariranno. E’ come al cinema, se la luce non c’è o è bassa, vedo il film, quando alzo la luce lo vedo sempre meno, fino a non vederlo affatto a luce piena.
Se ritorna il film è perché hai abbassato l’attenzione. Il che è normale, soprattutto nelle prime fasi. Avere perseveranza è imperativo. All’inizio ti sarà difficile anche solo rimanere dentro di te, non pretendere troppo. Ma rialza l’attenzione appena puoi. I pensieri riprendono il potere per delle tendenze latenti millenarie, se abbassiamo l’acume dell’attenzione ovviamente riparte tutto. Una volta osservate e comprese le tendenze più invalidanti sarà naturale alzare la vigilanza, il discernimento serve proprio a questo, perché sviluppa la maturità di stare sempre più attenti. Ma ci vuole pazienza, quando riparte il film lo osservo senza partecipare.
A tal proposito, però, vorrei specificare e sottolineare che l’insegnamento basilare non è traducibile con: ‘segui il pensiero’. No. È sempre: ‘stai fermo,’ ‘stai attento.’
Purtroppo al livello più basso, quando l’energia è minima e gli oggetti mentali sono miriadi, nell’osservare (da fermi) ciò che si palesa (nel movimento del pensiero) può sembrare di seguirlo. Non è così. Lo si sta comunque allontanando e indebolendo per via negativa. La soluzione pratica non cambia a nessun livello, è sempre la stessa, è solo diversa nell’intensità e nella costanza e, conseguentemente, anche nei risultati. All’inizio ha soprattutto una valenza psicologica perché si risolvono le previe rimozioni inconsce, molti irrisolti e nevrosi cadono.
Appena si comincia a comprendere di più, a stabilizzare l’introspezione, lo ‘star fermi’ farà uscire in gran fretta e con grandi bonus dalle crisi della vita. Queste torneranno finché non avremo compreso la pericolosità delle tendenze basilari della mente che appaiono innocue. Più aumenta la conoscenza, più saremo inclini ad alzare l’attenzione. La sua intensità è dovuta proprio alla percezione che siano pericolosi (dolore, ansia, pensieri negativi, ecc.). Per gli stimoli che ancora ci appaiono piacevoli, perché ne ignoriamo la pericolosità, non c’è un incremento spontaneo di vigilanza, ci rilassiamo e la macchina riparte.
Una volta individuati i come e i perché, non solo abbiamo superato l’ignoranza, ma entra in azione una grande sensibilità che fa innalzare l’attenzione sempre di più. La consapevolezza ora alza la veglia con più fervore su tutti gli oggetti mentali, in quanto sono percepiti tutti come pericolosi. Quando la sensibilità sarà maturata al massimo vi assicuro che il pensiero diventerà per voi un inferno. L’attenzione sarà elargita copiosamente. E gli oggetti saranno sempre meno presenti.
Il cammino diviene, ora, davvero spirituale, siamo approdati alla saggezza. Qui l’intento di non riformare i pensieri non è affatto pericoloso. Manterremo la luce accesa il più possibile. E dato che non siamo più nell’ignoranza, non c’è più pericolo nell’applicare un po’ di sana disciplina o austerità o qualche pratica per stabilizzarci, inclusi insegnamenti positivi. Se ho capito che il principale ed unico insegnamento è ‘star fermo,’ tutto andrà al suo posto, da sé o con l’ausilio di qualche pratica parallela.
Arrivati qui l’osservazione degli oggetti mentali non serve proprio più, se crediamo l’intento sia questo, li stiamo addirittura invitando. Mentre, se è forte la stasi, non si ripresenteranno.
Osserva solo se c’è qualcosa da osservare.
E non sempre ci sarà, incapperete sempre di più in prolungate omissioni di pensiero spontanee e senza alcuno sforzo.
Questi spazi sono sempre presenti, non sono creati o inventati, li conosciamo poco quando il pensiero è incessante, li notiamo poco perché durano poco. Conoscendo noi stessi li vediamo e divengono naturalmente più duraturi. Possono accadere a qualsiasi livello di questo cammino, perché sono una conseguenza dei picchi d’attenzione o dell’attenzione prolungata dentro di noi. In questi silenzi stiamo conoscendo la nostra vera natura: il semplice essere. Se vi capita, restate lì, siete indietreggiati talmente tanto da sedervi comodamente sul soggetto. La coscienza è di per sé vuota e silenziosa. È solo essere. Più questo avverrà più saremo vicini alla stabilizzazione finale.
Il cammino dall’ignoranza alla conoscenza di sé non è stato inventato da nessuno. Non è pertanto un vero e proprio ‘metodo’. Quando Krishnamurti diceva ‘non c’è metodo’, non voleva fare il misterioso, stava semplicemente dicendo la verità. Perché questa è la via naturale di maturazione interiore. Chi l’ha sperimentata e ve la espone non l’ha inventata, l’ha solo osservata agire. Non dà scorciatoie, né trucchi, ma nel farlo consciamente, costantemente e coi dovuti suggerimenti è decisamente più veloce.
Il fatto che sia naturale ha varie implicazioni. La prima è che gli strumenti li avete già tutti. Non dovete cercare cose che non ci sono, e questo non solo per attenervi alla via negativa, ma perché non servono proprio. La via negativa funziona dall’inizio alla fine. La resa finale della mente e la stabilizzazione nel vero soggetto. Ma il fatto che sia valida autonomamente, non vuol dire che debba essere l’unica via. Può anche essere affiancata a un ‘metodo’, se avete una pratica nessuno vi dice di lasciarla, ma se aumentate la consapevolezza interiore maturerete il discernimento: se ci sono pericoli, li vedrete e la scarterete, mentre se è valida la praticherete al meglio. Far agire la consapevolezza è una salvaguardia e porta ad un incremento qualitativo di qualsiasi altra cosa facciate e di qualsiasi stile di vita abbiate. Quindi il mio scopo non è di demolire le altre pratiche genuine o le altre conoscenze, ma di rendervi sicuri nel riconoscerle e molto efficaci nel praticarle e comprenderle. La via naturale è un modo di vivere consapevolmente ed intelligentemente, basta già da sé, ma può essere coadiuvata da tutto ciò che volete. Ci sono infatti dei metodi messi a punto da grandissimi saggi che hanno lo scopo di fare da catalizzatori, pur rimanendo al sicuro, prima tra tutti l’atma vichara di Ramana Maharshi. Se non la conoscete ve la descriverò in un prossimo articolo, la giudico miracolosa e vedrete che può tranquillamente integrarsi a questa.
L’ultima considerazione è che essendo la via naturale è un processo evolutivo. Il che vuol dire che è lo scopo della vita. Non lavorarci consciamente lo rende di una lentezza mostruosa, a svantaggio vostro e del mondo. Se volete maturare con umiltà non presupponete limiti od ostacoli. L’umiltà vera agisce da subito nella pratica, non blocca la pratica, né pone limiti perché sa di non sapere se ci sono e quali siano.
Alla memoria del caro, serio, appassionato ricercatore Roberto Cupioli, che rese possibile con le sue profonde domande la nascita di questo articolo. Grazie Roberto.
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albertasirani · 4 years
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Giudizio e opinione: Le differenze.
"La gente addita ciò che non capisce " questa è la frase che ieri un mio amico mi ha scritto mentre discutevamo. Tutto è nato da una dibattito che avevo seguito su internet come lettrice, in cui diverse persone si scontravano per sostenere la propria tesi, partendo in modo prevenuto nei confronti degli altri interlocutori e insultandosi tra loro. Nel corso degli anni, quasi tutti abbiamo dovuto affrontare l’inesorabile giudizio degli altri. “Sei  ignorante e non capisci niente!” “Le cose che ti piacciono sono stupide!” Molta gente purtroppo non si rendono conto che ogni volta che esprimiamo un giudizio, lo facciamo in base a delle congetture personali, apprese durante il nostro vissuto. “Poiché vale per me, questo vale anche per gli altri” questo è il pensiero di base che di solito indica un modo di fare arrogante e supponente, di una persona con un ragionamento preconcettuale che difficilmente riesce a mettersi in discussione. Il problema non sta tanto nel dare una propria opinione su qualcuno o qualcosa, ma sta quando ci convinciamo che le nostre interpretazioni siano verità assoluta. Di solito una persona sagace, cerca di comprendere ciò che è lontano dal suo modo di pensare e ha rispetto per le idee altrui, anche se si discostano dalle sue. Ampliare la propria prospettiva verso qualcosa che non si comprende o che addirittura non piace, può aiutare a maturare una visione mentale più riflessiva e acuta. La conoscenza, l'accettazione del diverso, ci rende persone più consapevoli e comprensive verso il prossimo. Stare confinati nelle proprie convinzioni, senza pesare le parole o addirittura utilizzarle in modo sbagliato per esprimere un parere, non ci rende persone più intelligenti o mature, ma al contrario ci rende incapaci di crescere come individui.
Cosa diversifica il giudizio da un'opinione? L'opinione è la valutazione obiettiva di una situazione, a cui manca la presunzione o il senso di superiorità o la voglia di prevalere sull’altro. Chi esprime un'opinione è consapevole del fatto che possa anche sbagliarsi.
Il giudizio, al contrario, non valuta l'errore, ma mette in conto solo ciò di cui si è convinti, non considerando il mondo interiore degli altri. Impedendo un confronto costruttivo e allo stesso tempo dimostrando una capacità di sostenere un qualsiasi tipo dialogo che si discosta dalla propria visione della realtà.
Credo sia importante al giorno d'oggi, avere una capacità di confronto che non vada a ledere la sensibilità del prossimo, e inoltre bisogna possedere l'abilità di saper gestire con calma anche quelle discussioni più problematiche e difficoltose, che spesso richiedono una buona dose di autocontrollo.
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abatelunare · 7 years
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«Non si possono porre limiti ai sogni»
Galaxy Express 999 (o meglio, Ginga Tetsudo 999) è l’ennesima serie di Leiji Matsumoto. Gli episodi sono 113. La Rai, tanto per cambiare, non li ha trasmessi tutti: si è fermata a quota 51. Neanche metà, insomma. Alcuni anni dopo, Italia 7 ha completato l’anime, aggiungendo gli episodi inediti, forniti di un nuovo doppiaggio. La voce di un narratore fuori campo tratteggia in poche parole il contesto narrativo: «Anno 2021. Il sistema dei trasporti spaziali ha ormai raggiuno uno sviluppo notevole. La rete ferroviaria interstellare si estende fino all’estremità della galassia. I treni spaziali fanno servizio tra la Terra e gli altri pianeti tutti i giorni». Comincia tutto nella città di Megalopolis. Chi ha abbastanza soldi può comprarsi un corpo meccanico, che permette di vivere in eterno. Quando si guasta qualcosa, infatti, basta procurarsi i pezzi di ricambio. L’unico problema è la testa: se parte quella, addio sogni di gloria e d’immortalità. Tra i poveri, che vivono nei sobborghi, comincia a circolare una voce molto allettante: nella nebulosa di Andromeda c’è un pianeta sul quale si può scambiare il proprio corpo con uno meccanico senza spendere una ghinea. Solo che per arrivarci bisogna salire sul treno spaziale Galaxy Express 999. E il biglietto è più salato dell’acqua di mare. Il protagonista, un ragazzino bruttarello di nome Masai, e sua madre (il padre ha già levato il disturbo), vanno verso la città per vedere di trovarne uno. Purtroppo la donna viene uccisa da un Duca Meccanico. Il figlio si salva grazie all’intervento di Maisha, una biondina pallida e longilinea, che indossa un vestito nero da russa. Sembra sapere molte cose, di lui. Compreso il suo desiderio di raggiungere Andromeda. Con mossa a sorpresa, gli regala un biglietto per il Galaxy – gratuito e valido per tutta la vita – e pone come unica condizione quella di portarla con sé. Figurarsi se il moccioso rifiuta. Prima di prendere il treno, però, si vendica: rintraccia il Duca che gli ha fatto fuori la mamma, e smantella lui e il relativo maniero. Fatto questo, torna a Megalopolis in tempo per la partenza. Il Galaxy non ha un aspetto moderno e ipertecnologico, come gli altri treni. Sembra uno di quei convogli che si vedono nei film western. È gestito da un cervello elettronico. A bordo c’è una creatura che tutti chiamano Controllore (o Conduttore). Non si capisce di che sia fatto. Di lui si vedono solo gli occhi, bianchi. Il suo corpo sembra nero. O forse è invisibile. Chi lo sa. Due parole sul severo regolamento. A ogni passeggero viene fornito un sacchetto pieno di monete d’oro. Il Galaxy sosta su ciascun pianeta per un giorno intero, la cui durata dipende dal periodo di rotazione (su Titano, tanto per fare un esempio, corrisponde a 16 giorni terrestri). Chi perde il biglietto, deve scendere alla prima fermata disponibile. Come sentenzia Maisha, infatti, «chi possiede materialmente il biglietto è un passeggero in piena regola». Chi, invece, ha la sfiga di perdere il treno, ci lascia le penne. Però non spiegano come, né perché. Non è altrettanto rigoroso il rispetto delle leggi fisiche. Il treno viaggia su rotaie invisibili, e questo possiamo anche concederglielo. Ma non capiamo come mai non bruci per l’attrito ogni volta che entra a contatto con l’atmosfera dei mondi su cui effettua la fermata (tutti abitabili, anche se inospitali). Senza contare che in più di un’occasione Masai tiene il braccio fuori del finestrino. Eppure non mi risulta che nello spazio vi sia aria. Serialità vuole che in ciascun episodio Masai e Maisha scendano su un diverso pianeta. Il che significa nuovi incontri e nuove avventure, nelle quali il protagonista finisce sempre per essere coinvolto. Le storie raccontate sono strazianti, tragiche e malinconiche. Il lieto fine è merce assai rara. Conosciamo uomini e donne che nella maggior parte dei casi muoiono senza essere riusciti a realizzare i propri sogni. Non mancano gli innamorati la cui relazione finisce nel peggiore dei modi. E molti cercano di rubare il biglietto a Masai. Per loro il 999 costituisce l’ultima (e unica) possibilità di lasciarsi alle spalle una vita che non li soddisfa più. Sono disposti a tutto, pur di andarsene. Terminata la sosta – che può durare anche due e perfino tre episodi – i due ripartono, mentre la voce narrante riassume la filosofica “morale della favola”. Segnaliamo due guest star d’eccezione: Esmeralda (qui chiamata con il nome originario, Emeralda), il pirata donna amata da Toshiro, il migliore amico di Capitan Harlock (episodio 24), e Capitan Harlock stesso (episodi 79-81). Molti personaggi cercano di convincere Masai (che veste proprio come Toshiro) a non procurarsi un corpo meccanico: in fondo non è poi quella gran cosa che sembra. La stessa Maisha afferma: «Avere un corpo meccanico significa prolungare l’agonia e la disperazione». A lui qualche dubbio viene anche. Vorrebbe vivere in eterno e aiutare coloro che soffrono, ma si chiede: «Mi domando se possedere un corpo meccanico sia davvero meraviglioso come tutti credono». Le sue perplessità derivano da una semplice constatazione: sulla Terra gli uomini meccanici disprezzano gli esseri umani. Li perseguitano e li trattano come creature inferiori. Durante il viaggio c’è un mistero da risolvere. Riguarda Maisha. In lei c’è molto più di quel che sembra. Intanto, non è per nulla indifesa: possiede una pistola, una frusta e un anello lanciaraggi. Un personaggio molto potente, inoltre, butta lì una frase enigmatica ma non troppo: «Chiunque tenti di avere un dominio nello spazio, non può non conoscere il tuo nome, Maisha…». La ragazza conosce tutti – ma proprio tutti – i pianeti sui quali ferma il Galaxy. Di se stessa dice con amarezza: «Viaggio solo nella direzione del mio destino. E non posso nemmeno morire…». Giusto per ingarbugliare un po’ la situazione, ogni tanto discute con una voce maschile, da lei chiamata “padre”, che proviene dalla sua valigia e le ricorda la sua missione: portare Masai a destinazione. Ma è davvero così? Perché contribuisce lei stessa ad alimentare le incertezze del ragazzino, prima chiedendogli se è davvero sicuro di quel che sta facendo, e poi addirittura di rinunciare a tutto e fermarsi per sempre con lei su uno dei mondi visitati. Più che affetto, sembra una proposta da pedofila. I due si sono sicuramente affezionati l’uno all’altra, ma il loro rapporto mantiene pur sempre un’aura d’ambiguità. Gli ultimi due episodi sono gremiti di rivelazioni con la erre maiuscola. Masai arriva finalmente su Promemume, capolinea del Galaxy, il mondo dove si dice regalino i corpi meccanici. Nelle sue vicinanze c’è un buco nero. (In realtà questo pianeta ha per nome Lamethal, ed è al centro dell’anime intitolato La Regina dei Mille Anni). Oltre ad avere un corpo meccanico (il che si può intuire fin dal secondo episodio), Maisha è la figlia della crudele regina Promesium. Costei è stata una madre dolce e affettuosa, finché non le è saltato il ticchio di creare l’Impero degli Uomini Meccanici allo scopo di conquistare l’universo intero. E il marito? Be’, lui è la voce che proveniva dalla valigia della ragazza. Ha trasferito la sua anima, o quel che sia, in un ciondolo, e intende mandare all’aria i piani della consorte. Masai deve decidere se lo vuole, ‘sto corpo meccanico. Perché in caso contrario, Maisha deve cercare un altro e portarlo su Promemume. Per creare il suo impero, infatti, alla Regina servono cervelli appartenenti a giovani coraggiosi. Quando il protagonista rifiuta perché vivere in eterno sarebbe una vera palla, la donna va su tutte le furie. Ordina di uccidere figlia e ragazzino, ma il marito si sacrifica per impedirlo e lei stessa muore in un’esplosione. Dopo di che, Promemume finisce diritto nel buco nero. L’ultimo episodio è malinconico, perfettamente in linea con l’atmosfera generale della serie. Masai agisce come una sorta di catalizzatore: è da lui che Maisha trae la forza per opporsi alla madre. Gli confessa che veste di nero per ricordare la sua infanzia, uccisa proprio da Promesium, vittima della sua sfrenata ambizione. Le strade dei due si dividono. Lui torna sulla Terra, e vede la sua ex compagna di viaggio su un altro treno con un altro ragazzo. L’addio è delegato a una lettera: «Adesso sto cominciando un nuovo viaggio in compagnia di un altro ragazzo che ha bisogno di me quanto ne avevi tu tanto tempo fa. Noi non ci vederemo mai più, però io conserverò sempre un ricordo splendido di te». Galaxy Express 999 è privo di spensieratezza. Gronda sofferenza da ogni episodio. È vero che per i giapponesi essa non rappresenta per forza un elemento negativo. Tutt’altro: fortifica il carattere e permette di affrontare con la dovuta preparazione le avversità della vita, che non sono poche. Però un minimo di senso della misura ci vorrebbe. Il viaggio a bordo del Galaxy non è fisico, bensì interiore. Rappresenta la transizione dalla giovinezza all’età adulta. Ogni mondo visitato rappresenta – o meglio, simboleggia – una particolare condizione umana, come, ad esempio, il Pianeta della Rabbia Violenta. Viaggiando, Masai può accumulare esperienza: più cose vede, più conoscenza acquisisce. Soltanto così è in grado di capire cosa desidera realmente. Sostituire il proprio corpo con un involucro meccanico significa accettare un’immortalità statica. Lui si giocherebbe la possibilità di crescere: non potrebbe cambiare, né evolversi. Alla fine non realizza il proprio sogno, ma torna sulla Terra più saggio, più maturo. Grazie anche al suo Virgilio personale, Maisha. Anche lei ha la sua brava ragion d’essere: «Nel grande meccanismo dell’universo, ognuno di noi ha un compito ben preciso che deve svolgere con amore e attenzione, anche se quel compito è semplice e modesto». Siamo tutti parte del Tutto, insomma. Nella visione buddhista delle cose non si butta via niente. Un po’ come con il maiale. Oddio, non è proprio così, ma era giusto per rendere l’idea. La verità è che il Galaxy non arriva realmente su Promemume. Ha ragione Leiji Matsumoto (indicato nei titoli di testa come Reiji Matsumoto) quando dice: «Il treno non raggiunge la destinazione perché non si possono porre limiti ai sogni». Se lo facessimo, non si chiamerebbero più sogni.
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Sto cadendo in un abisso, nel vuoto più assoluto. Non riesco più a respirare o a fare qualsiasi cosa io debba fare. Non riesco più a stare in mezzo alla gente, mi opprime continuamente un forte disagio interiore ogni volta che mi ritrovo in una situazione sociale, in mezzo alla gente non ci so più stare, il problema è che non so più nemmeno stare da sola, mi soffoco nei miei pensieri, nella mia mente, in ogni cosa. È straziante continuare a vivere e continuare ad andare avanti, vorrei che ne valesse almeno la pena, vorrei avere almeno una scusa valida per stare al mondo. È iniziata l'estate ormai, ma la verità è che me lo sento che farà tutto schifo, sempre di più, per quanto tempo ancora non lo so, ma andrà sicuramente avanti così per molto. È difficile spiegare a parole come mi sento, l'unica definizione che io possa dare è depressione, ma anche questa parola non viene capita, le persone pensano davvero che essere depressi significhi essere semplicemente tristi, ma purtroppo non è così. Sto male, continuo a stare male, e non so più da chi andare, penso di non essermi mai sentita così sola al mondo, sono depressa da anni e nonostante io mi sia sempre sentita sola, questa volta è diverso, mi sento come se ci fossimo solo io, la mia testa e il ciglio della morte al mio fianco, nessun altro. Sto annegando dentro me stessa e non riesco ad uscirne, e vorrei urlare come mi sento e so che tanto non cambierebbe niente, e mi chiudo a riccio perché tanto la vita non fa per me e le persone sono cattive e sempliciotte, ma soprattutto normali, delle copie spiaccicate e totalmente prive di carattere, ed io sono stufa di tutte queste convenzioni sociali e di questi stereotipi. Vorrei poter sentirmi bene con me stessa e con gli altri, ma soprattutto riuscire a comunicare con il mondo. Mi riesce difficile ormai pure uscire di casa, sto morendo dentro e non so più cosa fare, mi viene quasi da vomitare.
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tuchemisaicolmare · 6 years
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oggi. 19.11.18
Oggi, come tanti altri giorni, ero sulla metro per andare al metro.
E, per sbaglio, ho sporso la testa più del previsto davanti a quella del mio amico e sono riuscita a vedere metà del mio riflesso sul finestrino.
Inutile dire che era uno scempio.
Per una volta, vorrei capire come ci si sente ad essere e ad essere considerati attraenti, belli.
Non sopporto le persone che: “guarda che la bellezza non è tutto nella vita eh, coltiva la tua parte interiore che è la cosa più importante”. Frase più ipocrita di questa non esiste, mi dispiace. Questa è la solita frase che viene detta da un* oggettivamente brutt* o riferita ad un* oggettivamente brutt*.
Non nego che oltre alla bellezza ci sia altro, per carità, ma oggi come oggi se sei un cesso nessuno ti caga. NESSUNO. Sei solo come un cane e ci resti. Ci resti e questa è la parte peggiore.
Ma oltre al fatto di essere soli come un cane, un* non ha il coraggio di guardarsi allo specchio.
Ovvio, se nasci in un certo modo completamente diverso da quello che ti eri preposto, questo è 100% comprensibile.
Non capisco neanche le persone che si accettano.
Non le capisco, ditemi come fate. Come.
Come fai ad accettarti sapendo che ci sono al mondo 290203938 persone migliori di te? Come?!
Come fai ad accettarti sapendo che qualcuno ti può “superare” in tutto e per tutto?
Mi dispiace, ma io non riesco. Non penso ce la farò mai, sinceramente.
Forse ce la farò, quando finalmente appariró come voglio io e basta.
Chissà cosa si prova ad essere belli, ma belli davvero.
Purtroppo, è una sensazione che non proverò mai né in questa vita né in altre mila.
Mi scuso con le persone che, guardandomi, hanno provato ribrezzo.
Mi scuso veramente e mi dispiace.
Non volevo nascere così neanche io.
Anzi, se non nascevo proprio era anche meglio, a dirla tutta.
Purtroppo, questa completa stima di sé stessi è una sensazione che non proverò mai mai mai.
E mi dispiace.
E la cosa più brutta è che dispiace maggiormente a me che agli altri.
Non volevo nascere così, scusate.
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pangeanews · 6 years
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“Il mio è un Caino fasciato dalla nostalgia”: Alessandro Rivali pubblica una porzione del poema a cui lavora da anni, tra Pound e la “via della spoliazione”
Si può dire. Lo dico. L’ho letto da sempre. Da quel momento – lo riscrivo, ancora – nella nebbia milanese fecondata dai cingoli del tram. Apro la smilza antologia. Quattro poeti. Quindici anni fa. Esattamente. E fui stordito da quel poeta dai distici come coltelli, che mesce Tacito a Philip K. Dick, che con nitore ausculta le fughe di Erodoto, la visione dell’Apocalisse, l’urlo barbarico e orientale di Ezra Pound. Da quindici anni quando ci vediamo – sempre raramente – dopo una stagione di gioia passata a far pasti al Museo di Scienze Naturali di Milano, a un ciglio dai teschi dei dinosauri e dalle sciabolate della tigre arcaica – attraversiamo la città manzoniana a piedi e anche le vie stanno in silenzio e i palazzi diventano meravigliosi padiglioni auricolari ad ascoltare due che pensano di risolvere l’uomo in un sudoku di versi, di capire perfino le altezze impilando citazioni, poemi ipotetici, capolavori in divenire, ossidando nient’altro che l’amicizia. Alessandro Rivali viene da Genova, ama la storia militare, con lui parli della figura del ‘Servo’ in Isaia, del delirio veneziano nei gangli di Bisanzio, era il 1204, e di quel 1453 in cui, catastroficamente, cambiò tutto, con la falce ottomana che indirizzò l’Occidente verso il tramonto. Riconosciuto tra i massimi poeti italiani di oggi, l’opera di Rivali si salda in due tappe, La riviera del sangue (2005; 2007) e La caduta di Bisanzio (2010). Da anni Rivali lavora a un’opera, La terra di Caino, di cui ora, viva, leggiamo una manciata di testi, nove, nella placca edita da Mme. Webb Editore come Il sogno di Caino (info: [email protected]). Reminescenze di vite australi, precedute, di un Caino rotto nel contemporaneo, tracciato dal senso del benessere che fu e dalla colpa che è – e che culmina nel possesso del perdono.
Cominciamo da Caino. Il tuo lavoro poematico si intitola “La terra di Caino”. Chi è il tuo Caino? Perché Caino?
È un Caino un po’ anomalo rispetto all’immaginario consueto. Certo, è l’assassino del fratello, ma è anche l’uomo tormentato, continuamente scavato all’interno da quel delitto. Vorrebbe una seconda possibilità, e sentire vicina, nonostante il sangue versato, la carezza del Padre. Inoltre, è un Caino fasciato dalla nostalgia: del bene possibile, della felicità originaria, di un Eden perduto e irrimediabile. Nelle sequenze di questo poema per frammenti, a cui ormai lavoro da tanti anni, immagino un Caino errante per deserti e solitudini, magari a meditare di fronte al fuoco, la sera, sui racconti, ormai lontani, di Adamo. Sulla gioia incontenibile per la prima donna che camminava a pieni nudi sulla rugiada del Giardino, che poteva confortare in pienezza il cuore di Adamo…  Il mio Caino è anche un viator, assillato dal tarlo della memoria. Visita terre segnate dal male (le città annichilite dalle radiazioni, c’è una sezione su Hiroshima), come i grandi cimiteri d’Europa (uno straordinario campionario di narrazioni, su tutti il “mio” Staglieno, a Genova). Caino ritorna ossessivamente sui frammenti di paradiso intravisti. Insegue sempre la bellezza e conosce la sua precarietà. Caino è emblema del nostro tempo, così fragile, così violento.
Come sempre, mi pare, raffini il procedimento di un poema immerso nella Storia e nel mito. Da cui estrai versi cristallizzati. Chi sono i tuoi ‘padri’, i tuoi riferimenti?
La storia mi ha affascinato fin da bambino. E, in fondo, la mia formazione è più storica che letteraria. Se tagliassimo in due il mondo poetico, tra danteschi e petrarcheschi, sicuramente mi metterei alla sequela dei primi. Mi hanno colpito sempre i poeti che hanno fatto i conti con la Storia. Ci sono stati però alcune opere decisive e che mi hanno portato a pensare a un “libro” di poesia, a un progetto unitario, a una sorta di narrazione che procede per stazioni o metope di un tempio greco. Penso al Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini: per me, il libro più bello di Mario Luzi. Meraviglioso viaggio alla ricerca delle cose ultime. Un’interrogazione sul senso dell’arte e della bellezza. E poi agli ultimi libri di Caproni, una partita a scacchi con Dio, sotto la grande metafora della caccia. Come riferimenti affettivi, da ligure, c’è poi Camillo Sbarbaro, ingiustamente sempre confinato tra i minori, come purtroppo succede anche con Dino Campana (anche se, per fortuna, si sta riprendendo tutto lo spazio che si merita). Preferisco poi Ungaretti a Montale, e più quello del Dolore a quello dell’Allegria. Per la cristallizzazione del verso: chissà, forse è così, e il processo è dovuto alla frequentazione con Giampiero Neri. Amo la precisione fiamminga delle sue atmosfere. Sono andato per anni alla sua “bottega artigiana”. Ricordo le domeniche mattina in piazzale Libia a Milano (nella sala affollata di quadri, il tavolo sempre ingombro di fogli, le biro dalla punta finissima). Quella è stata la mia università. Lì ho imparato ad amare Villon, Campana e, soprattutto, Beppe Fenoglio, che è il Melville del nostro Novecento.
…ancora sui ‘padri’. Uno di questi è senza dubbio Ezra Pound. Su cui stai lavorando, insieme alla figlia Mary. Quali aspetti della sua biografia ti sembrano più affascinanti per il tuo lavoro, per la tua sensibilità?
Di Pound mi ha sempre colpito l’immane fucina dei Cantos. In qualche modo, il tentativo di voler continuare la Commedia dantesca, ma inserendo la storia della Cina e degli Stati Uniti, e molte altre tradizioni. E anche l’ampiezza della sua ricerca, che spazia dai cammei perfetti delle poesie di Catai fino alla critica ustionante all’usura, vera dominante dei Cantos. Dal punto di vista biografico, direi che mi hanno sempre colpito due momenti. Il poeta chiuso nella gabbia del campo di detenzione statunitense nel 1945 che continua a scrivere (e forse dà la sua prova più alta con i Pisan Cantos). E l’“ultimo Pound (tra l’altro, andrebbe ristampato proprio L’ultimo Pound di Massimo Bacigalupo). Il poeta in frantumi che rientra in Italia dopo i lunghi anni di detenzione al manicomio del St. Elizabeths di Washington. Quel poeta che non riconosce più il mondo di ieri e che vuole terminare di scrivere il Paradiso del suo poema, ovviamente la sezione più difficile. Nella mia personalissima classifica dei versi poundiani, ci sono i lampi degli ultimissimi Drafts & Fragments. “Non ti muovere/ Lascia che parli il vento/ Questo è il paradiso”. Il poeta è ormai sull’orlo della vita, è stanco, è nel vortice del suo tempus tacendi, eppure continua ad avere nostalgia della bellezza. Quella bellezza così difficile che ha cercato tutta la vita, dagli arabeschi su marmo di Venezia, sino ai manoscritti dei giovani autori che non ha mai smesso di incoraggiare e supportare.
C’è come, in questo ultimo lavoro, la trepidazione della pietà, una misericordia continua. È così? Che valore ha questa misericordia tangibile?
È un tema che mi appassiona e su cui è difficile confrontarsi. Non si impara mai abbastanza sul perdono. C’è sempre da ricominciare. Siamo contaminati da un tempo troppo rapido interessato solo alla logica della prestazione. Per fare un po’ di ordine interiore, mi aiuta sempre ritornare su un passo del vangelo di Luca: quello del buon ladrone. Quella risposta inaspettata, quel gran colpo di scena, “tu stasera sarai con me in paradiso”, è di una tenerezza spiazzante. Un grande conforto. E forse insegna a perdonare.
Spiegami che cosa intendi per ‘via della spoliazione’? Tu, come poeta, anche formalmente, mi pare, intrattiene uno sposalizio con ciò che è spoglio.
Quando si scrive bisogna andare al cuore delle questioni, mettendo da parte le maschere e i giochi. Avvicino il tema della spoliazione a quello del silenzio. Un atteggiamento sempre più difficile da trovare. Sto mettendo da parte uno scaffale della mia libreria sugli autori che amano il silenzio, da Erling Kagge all’inquieto Henry Nouwen, che volle vivere per alcuni mesi insieme ai trappisti per imparare a rileggere il mondo (anche interiore) sotto una luce più intensa. Il tema della spoliazione mi colpì la prima volta visitando la Certosa di Pavia. Mi affascinò (e allo stesso tempo mi spaventò) apprendere che i certosini dovevano rinunciare anche al proprio nome sulla tomba… Un distacco totale…
Ultima. Lavori nell’editoria. In che stato vive la letteratura e la poesia italiana, oggi? Non accetto risposte tiepide.
L’editoria in Italia continua ad annaspare e, sinceramente, non vedo segnali incoraggianti su vasta scala. Naturalmente, il paesaggio è multiforme. Mi fa piacere, per esempio, che la Lettura, l’inserto domenicale del Corriere della sera, continui a essere molto seguita. Sto osservando con interesse la casa editrice NN che ha fatto un esordio sorprendente felice pubblicando Kent Haruf e che propone scelte molto oculate. Resto sempre sorpreso dalla qualità degli autori nordici di Iperborea. Per la poesia, ha meno visibilità, ha sempre meno visibilità, ma forse si trova con più frequenza qualità duratura rispetto ai narratori. Resto sempre ammirato dalla voglia di combattere dei piccoli editori. Qualche esempio di ottimi libri incontrati negli ultimissimi tempi. I Chicago poems di Sandburg usciti per Sedizioni, le Prove dal diluvio di Stefano Simoncelli (Italic Pequod), la Notte di Isabella Serra (Raffaelli), l’auto antologia di Maria Luisa Vezzali per Puntoacapo, la nuova edizione di Fuoco unanime di Daniele Gigli (Joker), la Folla delle vene di Paolo Fabrizio Iacuzzi (Corsiero). Mi piacerebbe che un giorno venissero ripubblicati tutti i volumetti della collana Parsifal, curata da Marco Merlin per le edizioni Atelier. Per me furono tutti indispensabili, ognuno a titolo diverso.
*
Caino sognava una vita nuova: il senso splendeva sul confine.
Attraversò ustioni e deserti, poi scelse il respiro dei boschi.
La via della spoliazione, la voce di Dio sulle acque.
L’eredità era il silenzio, anticipare i desideri degli altri.
Amare le grammatiche del vento.
*
Un paradiso in frammenti.
Caino ricordava Adamo sulla pietra di Abele.
Disegnava atlanti e ritornava alla quiete dei mandorli in fiore.
Ricomponeva il mosaico se padri dialogavano con i figli.
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