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#nuovi quaderni italiani
garadinervi · 2 years
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Italo Calvino, Il libro, i libri (1984) [Feria del Libro, Buenos Aires; in «Nuovi quaderni italiani», 10, Istituto italiano di cultura, Buenos Aires, 1984, pp. 11-21]; in Mondo scritto e mondo non scritto, Edited by Mario Barenghi, «Opere di Italo Calvino», Oscar Mondadori, Milano, (2002-)2006, pp. 126-141
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fotopadova · 4 years
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Viaggio nella fotografia italiana del novecento: dalle associazioni agli anni sessanta
Viaggio nella fotografia italiana del novecento: dalle associazioni agli anni sessanta
di Silvia Berselli da https://www.collezionedatiffany.com/ 
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Lotto 482 - MARIO GIACOMELLI, Gabbiani,1980 ca. Stampa fotografica vintage alla gelatina sali d'argento. Timbro dell'autore al verso. cm 30,5 x 40,5 Valutazione € 800 - 1.200. Venduto € 2.125. Courtesy: Il Ponte Casa d'Aste.
L’anno 1947 segnò un momento importante per la fotografia italiana del Novecento. In quell’anno due autori con stili molto differenti, ma con la stessa forte personalità, posero le basi per una nuova e divergente stagione fotografica.
Giuseppe Cavalli (1904-1961) pubblicò in quell’anno il suo manifesto ideologico nella pagine della rivista “Ferrania”. Promotore del gruppo “La Bussola” e caposcuola di una visione formalista della fotografia vicina all’estetica idealista di Benedetto Croce, era mosso dal desiderio di “allontanare la fotografia, che avesse pretese di arte, dal binario morto della cronaca documentaria”.
Il Gruppo era composto da Mario Finazzi, Federico Vender, Ferruccio Leiss e Luigi Veronesi che prediligevano fotografie astratte, nature morte o paesaggi dalle atmosfere surreali. Lo scontro fu inevitabile con tutti quei fotografi che vedevano nell’impegno sociale e nella documentazione della realtà la vera natura della fotografia, come gli aderenti al Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia.
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Lotto 26 – PAOLO MONTI, Chimigramma, 1961. Stampa fotografica vintage con interventi chimici. Pezzo unico. Firma dell’autore e data al verso. Opera in cornice. cm 28 x 23 (cm 63 x 58). Valuttazione € 1.400-1.500. Venduto € 1.625. Courtesy: Il Ponte Casa d’Aste
A Venezia Paolo Monti (1908-1982) fondò il Circolo Fotografico “La Gondola”, nell’ottica di «sviluppare l’autonomia della fotografia, accentuandone i limiti, esprimendosi liberamente senza lasciarsi intimidire dalle regole troppo numerose decretate da chi non sa sopportare il rischio di una completa libertà di espressione».
Alla Gondola aderirono negli anni Fulvio Roiter, Gianni Berengo Gardin e Gino Bolognini. Monti, che aveva una visione più ampia della fotografia, riteneva controproducente il fatto di schierarsi con i formalisti o con i documentaristi; volontà apparsa chiara fina dalla scelta del termine circolo rispetto a gruppo per identificare La Gondola.
Inoltre, egli conosceva i grandi maestri americani come Minor White o Aaron Siskind dai quali aveva attinto una personale perizia tecnica nella stampa dell’immagine. 
I gemelli Emanuele e Giuseppe Cavalli
   Giuseppe Cavalli, uomo colto ed accentratore, ritiratosi in un piccolo comune come Senigallia, fu una figura centrale nella fotografia italiana. Il suo stile, personale ed inedito nel panorama internazionale lo portò a lavorare su immagini dai toni delicatissimi o dai bianchi accecanti, nelle quali trovano posto leggere sfumature di grigio, mentre il nero era quasi bandito.
In antitesi al lavoro dei grandi maestri internazionali che consideravano questo il tono attorno al quale costruire l’immagine in un periodo storico in cui il concetto di “colore” era ancora lontano.
La figura di Giuseppe è stata in parte studiata e i suoi lavori sono presenti in importanti collezioni museali, mentre ancora molto poco si conosce del fratello gemello Emanuele Cavalli (1904-1981) pittore vicino alla Scuola romana e figura centrale nella crescita artistica di Giuseppe.
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Lotto 195 – EMANUELE CAVALLI, Stampa fotografica vintage alla gelatina sali d’argento, Firenze 1950-51. Timbro Eredi Cavalli al verso. cm 17 x 23. Bibliografia/Literature Valeriana Rizzuti, “Emanuele Cavalli fotografo”, Quaderni di AFT, Prato, 2008, pag. 54. Venduto € 3.750. Courtesy: Il Ponte Casa d’Aste
Le fotografie di Emanuele, decisamente più graffianti, presentano una carica grottesca e ironica estranea ai lavori più formali del fratello. La rivalità che lega i due e la complessità degli scatti di questi autori, a volte attribuiti all’uno a volte all’altro, restano un’affascinante pagina della fotografia italiana ancora tutta da studiare.
“La Bussola” era un piccolo feudo di pochi eletti su cui regnava incontrastato Giuseppe Cavalli che nel 1953, auspicando un ricambio generazionale,  decise di creare l’Associazione Fotografica Misa.
Tra i nuovi soci c’erano giovani fotografi come Mario Giacomelli, Piergiorgio Branzi e Alfredo Camisa che, insieme a Pietro Donzelli, rinnovarono la fotografia alla fine degli anni Cinquanta con stile e raffinatezza ponendo fine alla disputa tra forma e contenuto che aveva contrapposto tanti autori del dopoguerra.
Mario Giacomelli il poeta
   Mario Giacomelli (1925-2000) è un ‘gigante’ della fotografia italiana e non solo. Nato in provincia, di umili origini e con una modesta educazione, ha saputo rivoluzionare dal basso il modo di fare fotografia. Legato alla terra, al mondo rurale e ai suoi abitanti, il suo sguardo è molto lontano da quello dei neorealisti. Egli piega, plasma e modella il mezzo fotografico per dare voce al suo sentire.
Il mondo per Giacomelli non è da documentare, la sua è un’operazione di stravolgimento, nulla è meno verosimile di un suo scatto. La realtà diventa il tassello – aggiunto, sovrapposto o annerito – che gli permette di dar forma al suo mondo interiore fatto di sogni e incubi, di luci e ombre “ogni immagine è il ritratto mio, come se avessi fotografato me stesso”.
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Lotto 101 – MARIO GIACOMELLI, Paesaggio,  1980 ca. Stampa fotografica vintage alla gelatina sali d’argento. Valutazione € 2.000 – 2.500. Venduto € 3.500. Courtesy: Il Ponte Casa d’Aste
La fotografia diventa un materiale malleabile nelle mani di Giacomelli, da incidere in camera oscura. I paesaggi marchigiani si trasformano in un’inchiostrata calligrafia fatta di segni; gli anziani dell’ospizio diventano fantasmi evanescenti, fragili e poetici; i pretini sono dervisci danzanti senza tempo.
«Prima di ogni scatto c’è uno scambio silenzioso tra oggetto e anima, c’è un accordo perché la realtà non esca come da una fotocopiatrice, ma venga bloccata in un tempo senza tempo per sviluppare all’infinito la poesia dello sguardo che è per me forma e segno dell’inconscio».
Gli anni Sessanta e la decostruzione del mezzo fotografico
   L’intero paese, il mondo dell’arte in particolare, ebbe in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta una spinta innovativa straordinaria. Oggi, infatti, artisti italiani di allora sono tra i più ammirati nei musei di tutto il mondo e i loro nomi risultano ai primi posti nelle classifiche di vendita.
Autori come Ugo Mulas, Paolo Gioli, Franco Vaccari, Mario Cresci restano ai più sconosciuti tanto che le loro opere si possono acquistare con poche centinaia di euro. Come si è già verificato in altri contesti, sono i migliori studiosi stranieri a ricordarci il valore artistico dei nostri autori.
Quentin Bajac, già direttore del dipartimento di Fotografia del MOMA, sottolinea come i fotografi italiani abbiano un primato: «La grande decostruzione del mezzo fotografico attuata negli anni Sessanta e di cui il contesto italiano è stato in Europa l’attore principale con i lavori di Pistoletto, Paolini, Jodice, Mulas, Di Sarro o Gioli. In nessun’altra scena artistica europea è stata condotta – con la stessa costanza, e nello stesso periodo – un’azione simile di indagine del mezzo fotografico».
Le riflessioni sui linguaggi, che serpeggiavano nel mondo dell’arte concettuale, trovarono risposta nei lavori fotografici con forme e contenuti innovativi.
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Lotto n° 455 – UGO MULAS, Alberto Burri, 1960 ca. Stampa fotografica vintage alla gelatina sali d’argento. Timbro dell’autore al verso. Opera accompagnata dall’autentica dell’archivio Ugo Mulas. Opera in cornice cm 32 x 42 (cm 26 x 37). Venduto € 3.500. Courtesy: Casa d’Aste Il Ponte
Ugo Mulas (1928-1973), già noto per il memorabile reportage sugli artisti di New York, pubblica poco prima della sua giovane dipartita le Verifiche “nel 1970 ho cominciato a fare delle foto che hanno per tema la fotografia stessa, una specie di analisi dell’operazione fotografica per individuarne gli elementi costitutivi e il loro valore in sé”.
Lotto n° 123 – FRANCO VACCARI, 700 Km di esposizione Modena Graz, 1972. Opera composta da venti stampe vintage a colori procedimento cromogeno applicate su cartone con testi manoscritti ad inchiostro. Testo, firma dell’autore, data e 46/60 al recto. Opera in cornice. cm 99 x 69 (cm 103 x 73). Venduto € 5.625. Courtesy: Il Ponte Casa d’Aste
Franco Vaccari (1936) utilizza il mezzo fotografico in relazione alle sue riflessioni connesse allo spazio e al tempo, organizzando delle performance che chiamerà Esposizioni in tempo reale. Nel 1972 partecipa alla Biennale di Venezia e scrive: “ho esposto una cabina Photomatic (una di quelle che si trovano nelle grandi città per realizzare le fototessere) ed una scritta in quattro lingue che incitava il visitatore a lasciare una traccia fotografica del proprio passaggio. Io mi sono limitato ad innescare il processo facendo la prima photostrip, il giorno dell’inaugurazione; poi non sono più intervenuto. Alla fine dell’esposizione le strip accumulate erano oltre 6000”.
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Lotto n° 130 – PAOLO GIOLI, Film finish – ritmo figura, 1979. Stampa fotografica vintage alla gelatina sali d’argento. Firma dell’autore, titolo e data la verso. cm 24 x 17,5 Bibliografia/Literature Roberta Valtorta, “Paolo Gioli”, Art&, Udine, 1996, pag.19 (variante). Venduto € 1.875 Courtesy: Il Ponte Casa d’Aste
Paolo Gioli (1942) si dedica allo studio dell’immagine e della visione nel cinema e nella fotografia, affascinato dai principi dell’ottica. Azzera il fare fotografia ripartendo dalle origini, il foro stenoeco ma anche la spiracolografia: un omaggio a Leonardo dove l’immagine è ottenuta utilizzando il pugno della mano come macchina fotografica. Gioli esplora le diverse tecniche fotografiche manipolando e ricostruendo le immagini come nelle polaroid trasferite in omaggio ai proto-fotografi.
Mario Cresci (1942) usa la fotografia ad ampio raggio mischiando generi e linguaggi: installazioni, grafica, urbanistica e antropologia. Nel 1968 crea uno striscione antimilitarista, composto da immagini note e “trouvè” che srotola dalla finestra di un palazzo romano; nel 1969 crea un’installazione di mille scatole trasparenti con all’interno uno spezzone di pellicola con riproduzione di oggetti di consumo. L’interesse sociale di Cresci lo spinge a Tricarico e Matera dove lavora utilizzando in chiave concettuale gli studi di antropologia.
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Lotto n° 146 – MICHELE ZAZA, Mimesi, 1975. Opera composta da dodici stampe fotografiche vintage alla gelatina sali d’argento. Firma dell’autore sul cartoncino di montaggio delle singole fotografie. Opera in cornice. Opera accompagnata da autentica. (cm 18 x24 cad.). Venduto € 15.000. Courtesy: Il Ponte Casa d’Aste
Il Sud, la terra, le origini sono temi che si ritrovano in questa nuova lettura delle relazioni famigliari nei lavori di Michele Zaza (1948). Il padre, la madre e il pane sono gli elementi di una “primordialità” ricorrente che si misura con l’espressione del corpo e del tempo. Essere stato un artista-fotografo e non un artista-artista ha certamente penalizzato il lavoro di Zaza malgrado avesse, come altri colleghi, esposto a New York da Leo Castelli e partecipato alla Biennale di Venezia.
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Silvia Berselli
Laureata in Storia dell’Arte, si occupa da molti anni di conservazione, restauro e valorizzazione della fotografia. La sua formazione è avvenuta presso l’International Museum of Photography di Rochester New York e l’Atelier de Restauration des Photographies del Comune di Parigi. Accanto alla docenza universitaria presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e l’Università di Udine ha diretto i dipartimenti di Fotografia per le case d’aste Bloomsbury, Minerva e Bolaffi: attualmente ricopre questo incarico per la Casa d’Aste Il Ponte. E’ perito per il settore fotografico di Axa Assicurazioni, ha collaborato con numerose istituzioni del Ministero dei Beni Culturali.
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petalididonna · 6 years
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La storia si ricorderà di voi. Siete i nuovi nazisti e queste sono solo le prove generali per i vostri crimini.
Ma noi, noi italiani con la pancia piena e il culo al caldo - sì, compreso me - eravamo troppo impegnati a fare battute su Lino Banfi, a preoccuparci dei nostri interessi, per occuparci di questo. Varsavia, Roma, la storia non insegna, e si ripete, lentamente, crescendo.
Comunque è lungo, sappiatelo prima di iniziare a leggerlo.
Fa freddo stamattina, fa freddo e piove.
Io dormo ancora, coperto da queste vecchie coperte che sono il regalo di qualcuno a cui non servivano più. Fa freddo e sento la pioggia che batte sul tetto, ma non mi fa paura questa pioggia, non mi spaventa questo freddo.
Ho conosciuto altre paure, altri dolori, e questo letto scomodo, queste vecchie coperte, sono il conforto che temevo di non riuscire più a vivere, dopo il mare e il vento gelido, dopo le onde che scuotevano la barca, dopo gli spari e le frustate, le urla. E’ quasi mattina, è quasi l’alba e io farò colazione, preparerò il mio zaino – anche quello è vecchio, anche quello è il regalo di un bambino a cui non serviva più – ci metterò dentro i quaderni in cui ho fatto i compiti, i libri su cui ho studiato ieri sera, mi vestirò e mamma mi accompagnerà fino al cancello, dove il pulmino ci aspetta, a noi bambini del villaggio, per portarci fino alla scuola.
Ma stamattina non sarà così. Perchè quando iniziano a suonare i fischietti l’alba non è ancora arrivata. C’è ancora il buio, il freddo, la pioggia.
Sono arrivati uomini, sono tanti, indossano divise militari e scarponi pesanti. Passamontagna che gli coprono il mento. Urlano e fischiano e sbattono dei bastoni sui muri, sulle porte.
Urlano e strillano e fanno paura. Questa è la paura che non conoscevo ancora.
Mamma piange. Io l’ho già vista piangere tante volte, troppe. Ma era tanto tempo fa, credevo non avrebbe più pianto.
Papà trema, vedo le mani, le dita, che tremano come se avesse i brividi, mentre cerca di capire e mostra a uno di quegli uomini un foglio di carta. Uno di quei fogli che tiene conservati nelle buste di plastica, gelosamente, li protegge come se fossero altri figli, oltre me e mia sorella Amina. Amina la piccola, che non parla ancora e non capisce, che sta al collo di mamma e guarda le lacrime che scendono, le sfiora come volesse sentire cosa sono, carezza la mamma che non si consola.
Il signore guarda il foglio distratto. Non dice nulla, muove solo la testa in giù e su, come a dire “lo so, ma non mi interessa”. Poi spinge via mio papà, dopo avergli indicato con la mano una direzione.
Nei corridoi passano le persone che ci aiutano, da quando siamo qui. Qualcuno di loro piange, non li ho mai visto piangere prima.
Ma stamattina sono in tanti a piangere. Come la mamma, come Elvira e Flavia e Mauro. Mauro si ferma accanto a papà e gli dice qualcosa, papà non capisce e scuote la testa. Prova chiedere ancora, ma adesso è Mauro a scrollare la testa. Poi appoggia una mano sulla spalla di papà, gli indica una direzione e lo abbraccia. Papà non riesce neanche a ricambiare, rimane lì, fermo e rigido.
Poi viene verso di noi, allarga le braccia. E’ come se si fosse arreso. Dice qualcosa alla mamma, sottovoce per non farmi sentire. Mamma si asciuga gli occhi, quando smetti perfino di piangere, è allora che sei sconfitto.
Mi dice di preparare lo zaino.
<Allora vado a scuola?>
<No, oggi no.>
Metto tutto dentro, ho fame, ma ho capito che stamattina non ci sarà nessuna colazione.
Intanto mamma riempie delle borse, delle buste. Non abbiamo molte cose, ma non riesce comunque a prenderle tutte.
Gli uomini in uniforme continuano a strillare. Adesso anche qualcuno di noi, degli altri come noi, strilla. I colpi sui muri si fanno più forti, allora. I fischietti suonano ancora, acuti, forti, fanno male alle orecchie.
Lentamente ci avviamo lungo il corridoio, verso l’uscita. Sul piazzale prima del cancello, ci sono già dei gruppi che stanno fermi, immobili sotto la pioggia che continua a cadere, mentre il nero della notte ha lasciato posto all’aria grigia di un giorno che non vuole vivere.
I soldati si sono spostati qui e si sono messi in fila, a separarci tra noi che stiamo andando via. Qualcuno continua a urlare, qualcuno ci fissa, lo sguardo duro. Qualcun altro invece tiene gli occhi bassi, come se si vergognasse per quello che ci sta facendo. Fuori, sulla strada, ci sono camion e pullman, davanti al cancello ci sono persone che un po’ alla volta ci fanno andare in una direzione o nell’altra, salire su uno di quei pullman, piuttosto che in un altro.
Incrocio lo sguardo di Ahmed, viene a scuola insieme a me e stiamo nella stessa classe. Sta piangendo, io no. Cerco di salutarlo, ma lui non mi vede. Adesso mi chiedo se rivedrò mai più lui, le maestre Erminia e Clara. Se rivedrò mai più il mio amico Giuseppe, che mi aiutava con la matematica.
Ci mandano verso uno dei pullman. Mamma non piange più, ha gli occhi secchi. Papà tiene le spalle curve, ma forse è solo per tutte le borse che sta cercando di portare. Amina si è riaddormentata, almeno lei non capirà, forse non ricorderà.
Sono seduto, vicino al finestrino. Il vetro è appannato, strofino con la mano, per guardare fuori. Vedo nei gruppi che sono rimasti sul piazzale tante persone che conosco, amici di papà. Papà come farà stasera ad andare a lavorare in pizzeria? Come farà a guadagnare quei soldi che ci servono per quelle poche cose in più?
Mi volto verso mia madre.
<Mamma, ma dove andiamo?>
<Non lo so.>
La pioggia continua a cadere. Io finalmente piango.
Castelnuovo di Porto, 22 gennaio 2019.
Italia
#raccontamiquellochesuccede#ieri
M.P.M.fonte web
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pangeanews · 6 years
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Aiuto! Dobbiamo rifondare i programmi scolastici: basta Ariosto, meglio Emily Dickinson, Antonin Artaud e Houellebecq
A cosa serve la letteratura? Secondo il sistema scolastico statalista, vigente, vincente, la letteratura serve a forgiare dei buoni cittadini. La letteratura è ‘utile’ per riconoscere la nostra appartenenza allo Stato, quello italiano, e finché annuncia una specie di morale comune – ad esempio: il mito della Resistenza, il mito degli ‘italiani brava gente’, il mito dell’antimafia, il mito dell’inconscio, del matrimonio etc.
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La letteratura, al contrario, nasce per rompere con i miti attuali (eventualmente ne crea di nuovi) – per evocare l’avversione all’ovvio. La letteratura non è utile, non produce un utile, è al di là delle ragioni del mercato: la letteratura è quel luogo dove l’uomo incontra se stesso. E spesso lotta con l’angelo e con il mostro.
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La letteratura fa paura perché è il modo più rapido per farsi delle domande, per inaugurare delle rivolte – per questo lo Stato decide il ‘programma scolastico’, finanzia le scuole, edifica un tacito ‘canone’. Ogni voce fuori dalla cagnara e dal can can deve essere silenziata.
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Un nuovo Governo non dovrebbe fare altro che occuparsi di scuola, ma questi si occupano di tutto fuorché di scuola: come mai?
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La scuola, oggi, è una specie di riformatorio, andrebbe rifondata, radicalmente – d’altronde, si fanno studiare ai ragazzi Guicciardini e Torquato Tasso al solo scopo di allontanarli per sempre dalla pagina scritta, servi dell’idiozia digitale.
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Proprio così: la scuola – pur salvaguardata da prof eccellenti, se non si fingono intellettuali frustrati – ha il compito di far vegetare i cittadini di domani nell’idiozia. Se li perdi tra i 14 e i 19 anni, sei salvo, non saranno mai più intelligenti, mai più degli elettori rompipalle. Lo schema è diabolico, perpetuato da decenni: gli effetti sono visibili, virili.
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La letteratura è l’unico modo per liberare i nostri figli dal servaggio scolastico statalista. Come si fa? Abolire i ‘programmi scolastici’ di italiano, che programmano il nostro futuro abulico. Riprendo qui un discorso abbozzato altrove: nella migliore delle istituzioni occorre importare Dante dalle scuole elementari (imparandolo a memoria), poco importa che si ‘capisca’, la poesia è il gioco del linguaggio, è il genio del vero. I bambini sanno, ad esempio, che il male esiste, è ovunque, anche in loro: perché negarlo? Perché non frequentare insieme a loro gli inferi dell’uomo? Perché trattarli da cretini insipienti, facendogli le moine, manco fossero dei cani?
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Ma… alcuni libri fanno paura? Certo! Un libro deve essere spaventoso, deve far fuggire le ginocchia, deve smobilitare la retina.
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Che senso ha limitarsi alla letteratura italiana quando dialoghiamo, via mail, con amici a Tokyo e amati a Toronto? Che senso ha quando Dante traduceva i provenzali e leggeva i siciliani e i latini per costruire la fatidica ‘lingua italiana’? Quale burocrate cretino obbliga la lettura di Manzoni (un genio) senza considerare Dostoevskij (più utile a un adolescente in crisi ormonale)?
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Da riformatori, le scuole, rifondate, devono diventare fucine editoriali, produttrici di libri, pensatoi, cervelli vivi, mica messi sotto spirito, sotto torchio semmai, accesi, splendidi.
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A scuola bisogna godere, la letteratura è seduzione, la parola è arte amatoria: al rogo chi declama i corsi di aggiornamento per prof afflitti dal tedio, chi alleva in batteria gli scrittori socialmente utili di domani.
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Ovviamente, il professore non assurge al ruolo di sapientino petulante, ma di maestro – cioè: distilla, dalle letture letterariamente vertiginose, il nocciolo, il cuore, i brani prediletti, il meglio di.
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Siamo all’assoluta emergenza, per cui bisogna ripartire dalla necessità di leggere come atto di ribellione in contrasto allo scempio odierno. Dobbiamo costruire progetti letterari alternativi che leniscano la protervia stupida del tempo presente. Ecco un suggerimento, con nuove materie allegate, e certi libri di base – attendo vostre.
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Qualunquista, relativista, irriverente, nichilista, avventato, avvilente, avvincente, avvolgente, deficiente? Ovvio. Questa è la letteratura, baby, vincere gli ignoti. (d.b.)
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Modesta proposta per sostituire i programmi scolastici vigenti
Educazione alla crescita: Seneca, Lettere a Lucilio; Marco Aurelio, A se stesso, Pascal, Pensieri; Arthur Rimbaud, opera omnia; Dino Campana, Canti Orfici; Dylan Thomas, Ritratto dell’artista da cucciolo; Henry Roth, Chiamalo sonno; Cesare Pavese, Il mestiere di vivere; James Agee, La veglia all’alba; William Golding, Il Signore delle Mosche; Isaac B. Singer, Ricerca e perdizione
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Educazione alla sessualità: Ovidio, Metamorfosi; Lettere di una monaca portoghese; Sade, La filosofia nel boudoir; Laclos, Le relazioni pericolose; Henry James, La tigre nella giungla; Aleksandr Puskin, Evgenij Onegin; Yasunari Kawabata, La casa delle belle addormentate; Junichiro Tanizaki, Il demone; Marina Cvetaeva, l’epistolario; Marcel Jouhandeau, Cronache maritali; Vladimir Nabokov, Lolita; Inoue Yasushi, Il fucile da caccia
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Educazione alla vita: Eraclito, ciò che ci resta; Cervantes, Don Chisciotte; Lev Tolstoj, Anna Karenina; Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov; Ernest Hemingway, I racconti; Michel Houellebecq, Le particelle elementari; Elias Canetti, Massa e potere; Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza; Wallace Stevens, Haromonium; Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci; Saul Bellow, Il dono di Humboldt; Ezra Pound, Cantos; Drieu La Rochelle, Diario di un delicato; Ted Hughes, Lettere di compleanno; Carmelo Bene, tutto
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Educazione alla morte: Sofocle, Edipo a Colono; San Paolo, le lettere; Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ic; Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo; Ryunosuke Akutagawa, Memorandum per un vecchio amico; Albert Caraco, Breviario del caos; Yukio Mishima, La decomposizione dell’angelo; William Faulkner, Mentre morivo; Marguerite Yourcenar, L’opera al nero; Giuseppe Berto, Il male oscuro; Sylvia Plath, Diari; Cormac McCarthy, Meridiano di sangue; Philip Roth, Everyman
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Educazione alla Storia: Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame; Lev Tolstoj, Chadzi-Murat; Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte; Thomas Mann, La montagna incantata; Ennio Flaiano, Tempo di uccidere; Varlam Salamov, Racconti della Kolyma; André Malraux, La condizione umana; Anthony Burgess, Gli strumenti delle tenebre; Anna Achmatova, Requiem; Henry de Montherlant, Il caos e la notte
  Educazione alla meraviglia: Giacomo Leopardi, Operette morali; Jorge Luis Borges, L’Aleph; Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi; Franz Kafka, Diari; Paul Valéry, Quaderni; William B. Yeats, tutte le poesie; Giorgio Colli, La nascita della filosofia; Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio
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Educazione allo stupore: Bibbia (Genesi, Esodo, Isaia, Salmi, Cantico dei Cantici, Kohèlet); Lao Tzu, Tao te Ching; Sutra del loto; Bhagavad-Gita; Corano; Eschilo, “Orestea”; William Shakespeare, Re Lear; William Blake, Libri profetici; Emily Dickinson, tutte le poesie; Thomas S. Eliot, Quattro quartetti; Saint-John Perse, Anabasi; Ghiannis Ritsos, Quarta dimensione
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Educazione alla paura: Pseudo-Longino, Del sublime; Edgar Allan Poe, I racconti; H. P. Lovecraft, I miti di Chtulhu; J. R. R. Tolkien, Il Signore degli Anelli; Flannery O’Connor, I racconti; Philip K. Dick, Trilogia di Valis; Cormac McCarthy, La strada; Stephen King, La zona morta
*
Educazione all’avventura: Omero, Odissea; Marco Polo, Milione; Goethe, Faust; Walt Whitman, Foglie d’erba; Hermann Melville, Moby Dick; Joseph Conrad, Lord Jim; Giuseppe Ungaretti, tutte le poesie; Curzio Malaparte, Kaputt; René Char, Fogli d’Hypnos; Bruce Chatwin, In Patagonia
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Educazione al coraggio: Anton Cechov, L’isola di Sachalin; Paul Gauguin, Noa Noa; Rudyard Kipling, Libri della giungla; Robert F. Scott, Diari antartici; Antoine de Saint-Exupéry, Terra degli uomini; Albert Camus, L’uomo in rivolta; Boris Pasternak, Le onde; Alvaro Mutis, Summa di Maqroll il Gabbiere; Leonardo Sciascia, La scomparsa di Majorana
Educazione all’avventatezza e alla dissipazione: Lucano, La battaglia di Farsalo; Friedrich Hölderlin, tutte le poesie; Gerard Manley Hopkins, tutte le poesie; Malcolm Lowry, Sotto il vulcano; Horacio Quiroga, tutti i racconti; Antonin Artaud, Succubi e supplizi; James Joyce, Ulisse; Georges Bataille, L’impossibile; Fernando Pessoa, Libro dell’inquietudine; Louis-Ferdinand Céline, Nord; Hermann Broch, La morte di Virgilio; Samuel Beckett, In nessun modo ancora
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colospaola · 6 years
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Biagio Proietti, sceneggiatore, autore, regista, negli ultimi anni ha pubblicato romanzi gialli ma principalmente il suo nome è comparso in molti lavori in televisione o al cinema.
Per il cinema horror ha firmato alcune sceneggiature, come Black Cat (Il gatto nero) del 1981, diretto da Lucio Fulci, film basato su un soggetto che lo stesso Proietti ha tratto da un racconto di Edgar Allan Poe, con protagonisti Patrick Magee e Mimsy Farmer.
In televisione il suo primo successo è stato Coralba, una miniserie in cinque puntate di cui ha firmato il soggetto e la sceneggiatura, con la regia di Daniele D’Anza e protagonisti Rossano Brazzi, Valerie Lagrange, Mita Medici e Glauco Mauri.
Un’altra miniserie di 6 episodi fu Un certo Harry Brent, da un soggetto di Francis Durbridge, interpretato da Alberto Lupo, Stefanella Giovannini, Carlo Hintermann, Ferruccio De Ceresa, Claudia Giannotti.
Il 23 febbraio 1974 la Rai trasmise in quattro puntate Ho incontrato un’ombra, diretto da Daniele D’Anza e scritto da Biagio Proietti, con Giancarlo Zanetti, Laura Belli, Beba Loncar. Ma il suo sceneggiato di maggior successo fu senza dubbio Dov’è Anna?, un giallo di sette puntate diretto da Piero Schivazappa, creato e scritto (soggetto e sceneggiatura) dallo stesso Proietti e da Diana Crispo, interpretato da Mariano Rigillo, Scilla Gabel, Pier Paolo Capponi, Teresa Ricci, fu il primo sceneggiato italiano di gran successo, visto nel 1976 da qualcosa come 24,6 milioni di telespettatori, con il record di 28 milioni per l’ultima puntata.
Sempre di Proietti è la sceneggiatura di Philo Vance, miniserie di tre romanzi per 6 puntate protagonista Giorgio Albertazzi, regia di Marco Leto.
Come autore e regista ha firmato Storia senza parole, premiato dai giornalisti televisivi come miglior film Tv nel 1981 e presentato in molti festival cinematografici, e Sound un film tv in 2 puntate con Peter Fonda.
Ha scritto molto romanzi, fra i quali citiamo Dov’è Anna? (tradotto in albanese), Una vita sprecata, Io sono la prova, Chiunque io sia e La prima domenica di giugno.
Signor Proietti, come si definirebbe?
Cito le parole di un grandissimo come John Ford che dichiarava di essere un artigiano con gli stivali, io non ho mai portato gli stivali ma sono orgoglioso di essere un artigiano che ha costruito con passione i suoi lavori. Credo che il problema della società italiana sia stato quello di sminuire e persino distruggere la grande categoria degli artigiani, nel campo dello spettacolo troppe persone dopo un film o un libro o una fiction si considerano grandi autori e alla seconda opera spariscono.  Io nel 2018 sto festeggiando 60 anni di carriera avendo cominciato a lavorare quando avevo 18 anni.
Quando ha iniziato a interessarsi al mondo della sceneggiatura nell’ambito televisivo e cinematografico?
Ho detto in molte interviste che da ragazzo, negli anni cinquanta, la scoperta del mondo della cultura è stata attraverso la radio che allora aveva una posizione superiore a quella che poi ebbe la televisione dagli anni sessanta in poi. Altra passione il cinema – merito dei miei genitori che lo amavano e ricordo  mi portarono a vedere Roma città aperta quando uscì nelle sale. Avevo cinque-sei anni- e il teatro, allora era davvero troppo caro per le nostre tasche. Cominciai ad andare molto spesso a teatro quando divenni maggiorenne, a diciotto anni, e così potei far parte della claque, un’organizzazione che smistava in tutti i teatri gruppi di persone, di varia età, per far scattare l’applauso in certi momenti precisi, così scoprii Peppino de Filippo che aveva un suo teatro adesso purtroppo chiuso, Il teatro delle arti, e un grande come Dario Fo. Con i miei esigui risparmi, andavo a vedere Eduardo e il Piccolo di Milano, troppa concorrenza per ottenere di andare gratis con la claque. Queste passioni si svilupparono all’inizio in una forma maniacale di archivista: cominciai a riempire quaderni, alcuni li conservo ancora – dove compilavo filmografie, elenchi di autori e direttori di musica e di teatro. Infine cominciai a scrivere le inevitabili poesie (ho smesso a venti anni) e racconti ma subito compresi che la vera passione era il cinema, la televisione che a quei tempi ancora non si conosceva. Il primo televisore mio lo si acquistò nel 1956, se non ricordo male, e la nostra casa si riempiva di gente che veniva a vedere Lascia o raddoppia?
Le prime cose che feci concretamente nel mondo dello spettacolo furono legate alla mia passione per il cinema, diventata per fortuna una notevole competenza critica e storica, nonostante la giovane età, per cui quando m’iscrissi all’Università di Roma, dove mi sono laureato in giurisprudenza, anche se non ho mai esercitato, cominciai a occuparmi del CUC (Centro Universitario Cinematografico), uno degli storici cineclub romani, per il quale feci programmi e scrissi schede, che ancora conservo. Poi mi occupai del FILMCLUB, uno storico cineclub che al cinema Planetario faceva proiezioni di capolavori rari e che per questo attirava non solo il pubblico degli appassionati ma anche degli autori di cinema. Così ne conobbi molti, da Luigi Di Gianni, grande documentarista, a Francesco Maselli, del quale divenni assistente alla regia e poi aiuto e poi anche autore di soggetti e di sceneggiatura. Fino a volare con le mie ali.
Come ha conosciuto Daniele D’Anza?
Facendo l’aiuto di Maselli per due film (Gli indifferenti e Fai in fretta a uccidermi…ho freddo con Monica Vitti, di cui scrissi il soggetto e la sceneggiatura), conobbi Oscar Brazzi fratello di Rossano e organizzatore generale della Vides di Franco Cristaldi, per il quale scrissi la sceneggiatura di un film, Salvare la faccia diretto da Rossano con il nome di Edward Ross. In tv era stato un grande successo Melissa tratto da Durbridge e la Rai chiedeva a Brazzi e D’Anza di fare un nuovo sceneggiato, allora cominciavano a nascere i primi telefilm prodotti con tecnica cinematografica per la Rai ma fuori dai suoi studi, così i Brazzi mi chiesero di scrivere un soggetto da proporre: io scrissi una storia lunga Per amore di Carol che la Rai acquistò come romanzo inedito (l’ho pubblicato ampliato e rivisto come E-book per la Delos da due anni ed è ancora in vendita, per chi volesse leggerlo) e così conobbi Daniele D’Anza con il quale scrissi la sceneggiatura. Lui era uno dei re della televisione, io un ragazzo di 27 anni pieno di speranze e di fame, sia di lavoro sia di successo. Da quel momento diventammo amici e scrivemmo insieme tanti successi, fino al triste anno della sua morte, il 1984. Sono lieto di aver scritto con un grande giornalista, ottimo scrittore e adesso nella rara categoria dei miei amici-fratelli, Mario Gerosa, un libro Daniele D’Anza- Un rivoluzionario della Tv dove abbiamo sottolineato la grande importanza di un regista e sceneggiatore eccezionale, a volte dimenticato, come accade spesso purtroppo. Coralba fu un grosso successo in Germania, Francia, Svezia (a colori) e anche in Italia dove usci i primi di gennaio del 1970, in bianco e nero. Da qui cominciò la mia carriera televisiva: il potente direttore degli sceneggiati di Rai Uno Giovanni Salvi mi chiamò per scrivere la versione italiana di Un certo Harry Brent tratto da Francis Durbridge, per il quale lui voleva coinvolgere in un giallo il divo televisivo per eccellenza, Alberto Lupo, ma all’attore non piaceva il personaggio proposto, così Salvi mi chiese di lavorare sul testo, di avere un’idea tale da convincere l’attore, io ci riuscii, facendo di Harry Brent, che nell’originale inglese era solo un nome nel titolo, si parlava molto di lui ma non si vedeva mai, il vero protagonista della storia con un finale tragico che giustamente fece scalpore. Alberto disse di sì, così nacque un grandissimo successo ripetuto l’anno dopo con Come un uragano e soprattutto una grande amicizia. Alberto era un grande attore non solo un divo e un uomo eccezionale che seppe anche superare i traumi violenti e dolorosi di una malattia terribile.
E’ stato difficile adattare i romanzi di Francis Durbridge?
Quelli di Durbridge non erano romanzi ma serie televisive che lui scriveva per la BBC con puntate di 20/25 minuti, una misura che in Italia non esisteva, perché la prima serata richiedeva opere che durassero almeno un’ora, così fu per La sciarpa e Paura per Janet raggiungendo il massimo del successo con Melissa ripetuto da Giocando a golf, una mattina gli ultimi tre riscritti da Daniele D’Anza che ne fece anche la regia. Io fui chiamato per Un certo Harry Brent poi ho ripetuto il successo con Come un uragano fino al mitico Lungo il fiume e sull’acqua, dove cambiamo il titolo, The other man, e persino il colpevole, oltre che molte altre cose della trama. Tre enormi successi che mi permisero di affermarmi come un autore gradito dal pubblico, con la possibilità di portare avanti un discorso personale di giallo ambientato in Italia, con tutte le sfumature possibili passando dalla love story di Ho incontrato un’ombra alla serie realistica Dov’è Anna al fantastico La mia vita con Daniela. Il lavoro che io e gli altri autori italiani, che hanno lavorato su Durbridge, facevamo consisteva in un vero e proprio lavoro di sceneggiatura, considerando le serie inglesi come soggetti che andavano non solo allungati ma ampliati nella trama, arricchiti con personaggi nuovi, con soluzioni diverse dagli originali anche nel meccanismo giallo, basti pensare che in Lungo il fiume ho persino cambiato il carattere del protagonista e il colpevole.  Al punto che dopo non volli più farne altri, perché per me un ciclo si era concluso. Devo riconoscere che il pregio di Durbridge è quello di costruire una macchina gialla molto efficace e di agganciare il pubblico con belle sorprese, alla profondità dei personaggi ci abbiamo sempre pensato noi, approfittando anche di avere a disposizione ottimi attori, poiché si trattava di grosse produzioni destinate ad avere indici di ascolto molto alti, per quel che mi riguarda tutti oltre i venti milioni di pubblico
Nella Rai di quegli anni si respirava un clima molto più propenso alla sperimentazione nel contesto delle miniserie televisive…
Io preferisco usare il vecchio termine di sceneggiato che all’inizio stava a significare opere tratte da romanzi, poi comprendeva anche gli originali, cioè le opere scritte appositamente per la televisione come molte delle mie. La prima cosa che va sottolineata è l’alta qualità media di tutti i lavori, dovuta alla buona se non ottima scrittura, a regie a volte lente, anche per colpa della vecchia tecnologia e del montaggio su nastro a 2 pollici, ma in ogni caso molto efficaci e in grado di stringere un forte contatto con il pubblico, per finire con uno standard di recitazione di ottimo livello, dovuto alla partecipazione di attori che lavoravano soprattutto per il teatro, come si vedeva e si sentiva. E poi c’era il coraggio di sperimentare generi e stili non solo in settori sperimentali ma anche nei lavori destinati, in prima serata, al grosso pubblico. Se pensiamo al genere giallo è stata proprio la televisione a lanciare il giallo italiano, contribuendo all’apertura, anche in campo letterario, fino ad allora dominato dalla letteratura anglosassone, a romanzi non solo scritti da autori italiani ma ambientati nel nostro paese.  Lo dice uno che è considerato un maestro del giallo televisivo ma anche di quello letterario. E non me lo sto dicendo da solo, ovviamente, ormai me lo ripetono in tutte le salse, anche con premi alla carriera e targhe quasi commemorative, e sono felice di averlo potuto fare godendo di una libertà che aveva regole e limiti forti sul piano politico e censorio, ma aveva il coraggio di provare sempre nuove strade perché, anche se non c’era concorrenza sfrenata, tutti aspiravano ad avere il massimo ascolto del pubblico, che spesso coincideva anche con l’indice di gradimento.
So che ha anche lavorato nel medium della radio, c’è una differenza profonda tra scrivere per la radio e la televisione?
Chi fa questo mio mestiere, se è un artigiano onesto, ha uno scopo, qualunque sia il mezzo che sta usando in quel momento: raccontare una storia e tenere il pubblico inchiodato davanti a schermo cinema o televisione oppure a una radio. Una delle cose più gravi che ha fatto la Rai è stato di eliminare dai suoi palinsesti tutto quello che, in mezzo secolo, è stato uno dei punti di forza: la prosa radiofonica sia che se intenda quella scritta appositamente o adattando romanzi famosi oppure mandando in onda classici di teatro.  Per ragioni di concorrenza e della disgraziata teoria che il pubblico non ha tempo per seguire un programma di prosa ha ridotto la radio a uno juke box di musica e di notizie, con tante parole inutili in libertà. Le rispondo più direttamente con un esempio: con Diana Crispo mia partner abituale abbiamo scritto Tua per sempre Claudia un originale radiofonico in molte puntate, che è stato tradotto in francese e trasmesso in Belgio, dove ebbe un tale successo che ci chiesero di fare una versione televisiva: noi curammo il testo, che rimase molto simile a quello radiofonico, con un solo spostamento fondamentale: l’ambientazione a Bruxelles invece che a Roma. Qualche anno dopo anche la Rai decide di farne uno sceneggiato televisivo. cambiando il titolo in Doppia indagine e l’ambientazione per motivi produttivi fu spostata a Genova, città meno sfruttata dal punto visivo. Ebbene in questi passaggi fra radio e tv ci sono stati adattamenti ma la sostanza della storia e soprattutto i dialoghi sono rimasti quasi gli stessi perché erano la parte migliore di quel lavoro. In fondo chi scrive non è altro che la vecchia nonna che, una volta seduta vicino al camino, raccontava storie che sembravano favole ma invece era un modo per insegnarti a vivere.  Anche facendoti paura.
Da dove ha tratto l’idea per Dov’è Anna?
Nella letteratura crime o gialla, come la definiamo noi italiani, schematizzando ci sono due scuole: quella inglese, con la caposcuola Agata Christie, dove il meccanismo giallo predomina rispetto all’introspezione della realtà e della società; quella americana, l’hard boiled, dove il realismo della scrittura serve a far emergere le violenze e le incongruenze di un mondo difficile, spesso dominato dalla criminalità. Due modi di guardare il mondo, diversi di sicuro, forse opposti, io ho sempre preferito la letteratura americana e i miei maestri sono sempre stati Raymond Chandler (del quale feci, come autore e come regista, un adattamento radiofonico in otto puntate per otto ore di programma de Il lungo addio con un cast eccezionale, da Arnoldo Foà a Ileana Ghione)  e Dashell Hammett al quale ho dedicato un testo teatrale, incentrato sui mesi di carcere che lui fece per colpa della caccia alle streghe del Maccartismo. Tutto questo per dire che quando, dopo i successi ottenuti con storie più tradizionali, ho finalmente avuto la possibilità di imporre una mia scelta, proposi alla struttura di Rai Uno con la quale lavoravo, l’idea di fare un originale televisivo in molte puntate basato su un tema giallo – la scomparsa di una donna e la ricerca che fa di lei suo marito – ma teso a sviluppare temi scabrosi e drammatici della realtà italiana, di solito affrontati in trasmissioni culturali o giornalistiche da seconda serata, qui invece elevati a storie da prima serata, destinata ad avere un grosso pubblico, anche se non ci aspettavamo la risposta che fu eccezionale: una media per le sette puntate di quasi 25 milioni di spettatori con il record di 28 milioni per l’ultima puntata quella dove si svelava che cosa era successo ad Anna, tale da meritare addirittura le prime pagine sui giornali.
Io che ho inventato la serie e scritto le sceneggiature di tutte le puntate con Diana Crispo, mia partner abituale, (non solo nel lavoro ma è anche mia moglie) mi sono spiegato il successo per le stesse ragioni che ci avevano spinto a scrivere questa storia: il pubblico i riconosceva nei personaggi, nelle situazioni drammatiche che non erano avulse dalla realtà, ma riguardavano la vita di tutti noi (la difficoltà di adottare bambini, la situazione dei manicomi in Italia, le difficoltà della vita quotidiana di una coppia, che all’improvviso venivano portati alla ribalta da una storia che, nello stesso tempo, aveva i ritmi e gli stilemi di un racconto giallo. Mi dispiace che c’era un’ottava puntata che non fu mai realizzata, con la motivazione dell’eccessivo costo, ma la verità era che per l’epoca era troppo audace, perché parlava di prostituzione. Quando sempre nel 1976, abbiamo pubblicato il romanzo tratto dalle sceneggiature per un’importante casa editrice come la Rizzoli, la puntata mai andata in scena fu invece il corpo centrale del romanzo che aveva l’inizio e la fine identici alla versione televisiva, ma aveva un sapore più realistico e malinconico. Un bel romanzo a mio avviso.
Recentemente ha adattato alcune delle sue sceneggiature, come La mia vita con Daniela e Dov’è Anna, in una serie di romanzi, il passaggio da un medium all’altro è stato complesso da elaborare? 
Non per correggerla ma il romanzo Dov’è Anna è uscito nel 1976 pochi mesi dopo la fine del teleromanzo e fu un buon successo, anche se i lettori conoscevano già l’esito della storia.  Un paio di anni fa un editore giovane, la 21 edizioni 0 ci chiese di ristamparlo, noi ci rimettemmo mano lavorando soprattutto sullo stile di scrittura rendendo ancora più secco e realistico, lasciando intatta la storia e soprattutto l’epoca di ambientazione. Dagli anni settanta a oggi la tecnica ha creato innovazioni, basti pensare al cellulare, che modificano molto la nostra vita quotidiana e cambiano il modo di ricercare una persona scomparsa, quindi la storia di Anna andava lasciata in quell’epoca e in quella società italiana di allora.  Il lavoro è andato bene e ha creato anche una versione albanese Ku este Ana? pubblicato l’altro anno, spero con successo.
Sempre nel 1976 anno ottimo per me e Diana, pochi mesi dopo Dov’è Anna? in televisione creò successo e scalpore La mia vita con Daniela, una storia misteriosa basata su l’altra faccia della realtà quella che non si vede e spesso proprio per questo non si capisce. Il tema ci sembrava talmente affascinante che decidemmo di farne un romanzo cambiando il titolo nel più esplicito Chiunque io sia dove una donna s’interroga sulla sua vera identità e sulla possibilità che cose che riteniamo assurde e impossibili possono succedere anche a noi, cosiddette persone normali. Il ritratto di una donna che ci affascina e ci coinvolge sia se ci appare sugli schermi televisivi sia sulle pagine di un libro.  Continuo a ripetere che le storie, quando sono valide, non sono influenzate dal mezzo di comunicazione, importante è conoscere le differenze dei vari linguaggi e sapere agganciare il pubblico, coinvolgendolo. Non è una regola generale ma se uno sa scrivere per il cinema e per la televisione o per la radio sa anche scrivere romanzi, basta dedicare più tempo allo stile di scrittura, ma se questo è condizionato dalla tua capacità di raccontare per immagini non è un difetto ma anzi un pregio. Mi piace quando il lettore mi dice che, mentre leggeva, vedeva la scena. Io ne sono felice, non amo la letteratura che si arrotola su se stessa e ha un respiro corto. Personalmente ho sempre trovato divertente e affascinante raccontare una storia, con linguaggi differenti, mi sembra una sfida che vale la pena affrontare e vincere. A volte mi sembra di esserci riuscito.
Crede che la Rai, con il passar del tempo, si sia standardizzata troppo, producendo serie su temi ormai usurati, come la famiglia e il giallo di stampo classico?
Il difetto sta nella serialità che produce per antonomasia ripetizione e nella fedeltà tardiva a m modello americano di serie a episodi che in Usa hanno in parte abbandonato, per seguire il modello europeo italiano e francese. Cioè il romanzo sceneggiato in poche puntate, la cosiddetta miniserie, facilmente ripetibile se ha successo, con seguiti sempre strutturati però in forma di romanzo. La differenza sta nello spessore che si dà alla trama e ai personaggi: nelle serie a episodi da un lato ci sono i protagonisti che hanno storie personali e caratteri ben definiti ma vengono investiti da vicende sempre diverse che hanno respiro corto anche per la necessità di risolversi in pochi minuti per lasciare il passo a altre storie. La struttura del romanzo televisivo è la stessa di ogni romanzo letterario e varia a seconda del genere ma permette di offrire un panorama vasto e differenziato; in Italia dove siamo stati i re di questo genere abbiamo finalmente ricominciato a fare qualcuno ma ci vuole tempo perché le cose migliorino: gli autori di oggi si devono adeguare a regole diverse, gli attori della fiction attuali sono molto carenti e la dimostrazione è data dagli esempi al contrario: quando ci sono attori del calibro di Zingaretti, di Marco Gialini e testi nati da romanzi il successo non manca. Io sono ottimista, la ripresa ci sarà anche se si continua nell’errore di non sfruttare i cosiddetti maestri, ultimi superstiti. Il mio è un conflitto d’interessi, spero di potermelo permettere.
Quali sono i suoi progetti futuri?
Scrivere tante altre storie soprattutto per la letteratura perché per la televisione sono considerato vecchio, ma la cosa non mi fa arrabbiare molto perché quelli che la dirigono ai vari livelli sanno poco di televisione ed è più interessata a inseguire il pubblico, il segreto dei dirigenti degli anni sessanta era che loro il pubblico lo creavano, con il lancio di proposte molto varie fra loro. Si viveva in regime di monopolio ma la concorrenza non è sempre sinonimo di benessere e di felicità.
Io adesso mi occupo soprattutto di diritto d’autore, sono stato nel consiglio di gestione della Siae per quattro anni, adesso vedremo se con le prossime elezioni qualcosa cambierà, la cosa pericolosa è che stanno cercando di inserire la concorrenza anche nel campo della tutela del diritto d’autore e questo è un male non un bene, perché alla fine lede i sacrosanti diritti degli autori. Il nostro diritto non è una merce ma è un valore sacro: la libertà di creare.
Io continuo a scrivere libri per il gusto di farlo, mi godo che fra qualche mese uscirà un volume dedicato alla mia opera, scritto da persone che stimo e che considero amici, mi batto per i diritti degli autori, anche a livello internazionale il che mi permette anche di fare bellissimi viaggi e di conoscere nuovi amici, infine cerco di vivere al meglio. Mi rende felice lo stupore che leggo negli occhi della gente, quando, dopo avermi visto in azione, scoprono la mia età.
In realtà sono molto vicino ai sessant’anni di carriera e ho cominciato che ne avevo diciotto. Fate i conti …
I grandi sceneggiati Rai: domande a Biagio Proietti Biagio Proietti, sceneggiatore, autore, regista, negli ultimi anni ha pubblicato romanzi gialli ma principalmente il suo nome è comparso in molti lavori in televisione o al cinema.
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