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#poesia terapeutica
nuriaverde · 1 year
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Sentirme bien. "Ya llovió"
Ya llovió A la memoria de mi padre.  Ya llovió sobre la vida umbría,  ya cenizó sobre la adolescencia sombría,  ya nevó sobre la infancia perdida ya granizó sobre la juventud aterida.  Ahora es tiempo de vivir la apetencia,  la querencia sin dolencia,  en la charca clara del alma mía.  Si quieres curiosear más sobre mí, échale un vistazo a mi Twitter. Tienes algunas de mis novelas en…
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princessofmistake · 3 months
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L’apoteosi dell’inesistenza ben esprime l’evanescenza di una vita che, sempre più alienata e svuotata dalla virtualità contemporanea, si esaurisce nel vuoto del non vivere. Allora non ci sono più certezze: le nostalgie di un illusorio passato emergono come spettri e le dimensioni spaziali e temporali si sovrappongono e annullano, come in preda agli effetti di un veleno, fino a trascinare il lettore in una dolce agonia che scardina tutte le certezze del reale.
Veleno: Poesie dell'inesistenza versi_di_nina
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unagocciadipioggia · 2 years
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INVISIBILE
C'era lo zucchero
nel caffè
che prendevi
la mattina,
c'erano piccoli
biscotti
secchi
accanto.
C'erano i tuoi capelli
ricci e scuri
la mattina,
i tuoi occhi
che mi
riempivano
e mi
svuotavano
come pozzi
bui.
C'ero io la mattina
con la pelle
che rifletteva il tuo sguardo
e si
perdeva
fra le pareti.
[ Giorno 1 writober - Zucchero]
Instagram: una_goccia_di_pioggia
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vorticimagazine · 2 months
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Capire i sentimenti
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Questa volta, Vortici.it vuole invitarvi a scoprire o riscoprire il libro: Capire i sentimenti - Per conoscere meglio se stessi e gli altri (Mondadori) di Vera Slepoj, venuta a mancare recentemente.
Sentimenti, affetti, emozioni lo sappiamo, accompagnano la nostra esistenza influenzandone il percorso verso sviluppi più o meno felici. Eppure li abbiamo sempre vissuti come ineluttabili. Tale è il loro impatto sull'esistenza umana che, per comprenderne il senso, la natura, le dinamiche, sono state coinvolte le scienze umane e sociali, la medicina e perfino la biologia e la chimica del corpo. Da qualche decennio, invece, la psicologia ci ha insegnato a conoscerli, più che a dominarli come si voleva in passato. Nel bel mezzo di una miriade d'informazioni, tuttavia, ci siamo sentiti dire tutto e il contrario di tutto a causa di un’informazione farraginosa, imprecisa, spesso fuorviante. Mettere un po’ d’ordine nella conoscenza dei sentimenti appare ormai indispensabile  a molti di noi: ed è ciò che offre questo libro, ricco di esperienze maturate nel diretto contatto con chi si rivolge allo psicologo per sbrogliare la matassa ingarbugliata del proprio mondo emotivo. Tentarne un'analisi descrittiva è lo scopo di questo libro, frutto di una vasta esperienza maturata in anni di studio e di pratica terapeutica. Vera Slepoj come psicologa, ha approfondito negli anni lo studio e la pratica dei sentimenti traendone appunto il libro "Capire i sentimenti", uno strumento importante per capire noi stessi e chi ci sta intorno. Ed ecco dunque una rassegna completa di sentimenti positivi (l’amicizia, l’amore, la simpatia, la socialità, la felicità) e negativi (l’angoscia, l’aggressività, la cattiveria, la gelosia, l’invidia, il narcisismo, o la paura, il senso di colpa, l’odio e la violenza). L'autrice ci invita a prestare una particolare attenzione ai sentimenti nelle età evolutive (l’adolescenza, la vecchiaia), quando l’identità di ciascuno elabora mutamenti essenziali. Esprime una sintesi dei sentimenti che travagliano la coppia e la famiglia. E introduce nella sua analisi una categoria di sentimenti spesso trascurati, eppure determinanti nella formazione dell’individuo, soprattutto oggi che la comunicazione di massa e la disgregazione delle culture ideologiche, etniche o religiose impongono sradicamenti e scelte che affondano troppo spesso nell’irrazionale: i sentimenti collettivi, come l’idea di civiltà e di progresso, il pensiero conservatore e rivoluzionario, l'integralismo e il fondamentalismo, che ci costringono a complesse mediazioni tra passato, presente, futuro. “Sui sentimenti si è costruita l’arte di ogni tempo, dalla musica alla poesia, dalla letteratura alla pittura. E i sentimenti sono qui, in noi, e lì, fuori di noi, e con i sentimenti dobbiamo confrontarci per conoscere chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando”. Leggi qui un estratto...  
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Vera Slepoj (1954 Portogruaro  - 2024) è stata una psicologa e scrittrice italiana. Si è laureata in Psicologia presso l'Università di Padova nel 1977, si è poi specializzata in psicoterapia individuale e di gruppo e oggi è psicologa psicoanalista con diploma in sofrologia medica. Ha vissuto e lavorato tra Padova, Milano e Londra. Molte le attività che l’hanno impegnata negli anni: tra le altre, l’insegnamento presso l’Università di Siena, la presidenza della Federazione Italiana Psicologi dal 1989 e dell’International Health Observatory, la direzione di importanti scuole di formazione in psicologia. Autrice di pubblicazioni scientifiche e divulgative, partecipa a programmi televisivi e collabora con diverse testate, tra cui «Diva e donna». Alcuni dei suoi libri sono stati tradotti da case editrici internazionali, tra cui Payot. Ha pubblicato Capire i sentimenti (Mondadori 1996), Cara TV con te non ci sto più (insieme a Marco Lodi, Alberto Pellai che voi lettori avete conosciuto attraverso le nostre pagine e Franco Angeli 1997), Legami di famiglia (Mondadori 1998), Le ferite delle donne (Mondadori 2002), Le ferite degli uomini (Mondadori 2004), L'età dell'incertezza. Capire l'adolescenza per capire i nostri ragazzi (Mondadori 2008), La psicologia dell'amore (Mondadori 2015). Vera Slepoj si è spenta il 21 giugno 2024 a Padova. «Ci mancheranno il suo entusiasmo e la sua simpatia, così come la sua capacità di trattare in modo chiaro e divulgativo temi importanti come le relazioni affettive e altre complesse problematiche sociali.» così l'ha ricordata il sindaco di Padova Sergio Giordani su Repubblica. Scoprite la nostra rubrica Libri Consigliati Foto: https://www.lafeltrinelli.it/Immagine di copertina: freepik.com Read the full article
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daimonclub · 6 months
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Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno
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Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, un post letterario che riprende alcuni brani di questo testo umoristico di Giulio Cesare Croce con una piccola introduzione e una breve biografia dell'autore. Quando frequentavo le scuole medie, nel 1973, nella nostra antologia - LA LETTURA. ANTOLOGIA CON LETTURE EPICHE di Italo Calvino e Giambattista Salinari, Zanichelli Editore, un libro bello corposo per ogni annualità, oltre all'epica, alle poesie e a vari testi letterari di autori classici vi erano anche testi più umoristici, tratti da opere di scrittori di assoluta genialità. Tra questi vi erano brani tratti dal Bertoldo di Croce che, con i testi del Don Chisciotte di Cervantes, erano tra i miei preferiti; non a caso molti anni anni dopo la mia tesi di laurea si occupò proprio del fenomeno umoristico. A distanza di 50 anni, e dopo aver sofferto parecchio durante la mia complicata esistenza, a soli pochi mesi dalla morte di mia madre, dedico questo post a Bertoldo e al suo autore, memore dei miei anni più spensierati, quando dopo delle intese giornate scolastiche ritornavo a casa e potevo beneficiare della presenza dei miei genitori, di una realtà che non ritornerà mai più. Restano solo i ricordi, la nostalgia, la meloanconia, la sofferenza e la lieve funzione terapeutica della letteratura. Giulio Cesare Croce è stato uno scrittore e drammaturgo italiano del XVI secolo, noto principalmente per essere l'autore della popolare opera comica "Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno", la cui trama ruota attorno alle avventure di due contadini, Bertoldo e Bertoldino, e del loro amico Cacasenno. Figlio di fabbri e fabbro a sua volta, morto il padre, lo zio continuò a cercare di dargli una cultura. Non ebbe mai mecenati particolari, e lasciò gradualmente la professione di famiglia per fare il cantastorie. Acquisì fama raccontando le sue storie per corti, fiere, mercati e case patrizie. Si accompagnava con un violino. L'enorme sua produzione letteraria deriva da una autoproduzione delle stampe dei suoi spettacoli. Ebbe due mogli e 14 figli e morì in povertà. L'opera di Croce è caratterizzata da un umorismo vivace, un linguaggio colloquiale e una satira sociale che prende di mira le convenzioni e le ipocrisie del suo tempo. "Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno" è diventato un classico della letteratura comica italiana e ha avuto una grande influenza sulla tradizione del teatro popolare. Una forma scritta precedente come fonte fu il medievale Dialogus Salomonis et Marcolphi. Oltre a "Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno", e ad un romanzo successivo sempre dello stesso filone, Croce scrisse anche altre opere, tra cui commedie, numerosi libretti brevi in prosa e poesia, che abbracciano vari generi letterari della tradizione popolare e raccolte di novelle.
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Giulio Cesare Croce L'autore riprese temi popolari del passato, come la storia di Bertoldo, ambientandola alla corte di re Alboino a Verona e a Pavia. Nella sua versione più organica, rese la storia meno licenziosa e attenuò la rivalsa popolare verso i potenti. Aggiunse un seguito riguardante il figlio di Bertoldo, chiamato Bertoldino, e successivamente un altro seguito elaborato da Adriano Banchieri, chiamato Novella di Cacasenno. Questi racconti furono poi adattati in tre film, nel 1936, nel 1954 e l'ultimo del 1984, diretto dal grande Mario Monicelli, con Ugo Tognazzi e Alberto Sordi. In Bertoldo, l'autore confessò forse le sue aspirazioni personali, rappresentando il rozzo villano come un autodidatta desideroso di fortuna e mecenati. La sua produzione letteraria contribuì significativamente allo sviluppo della commedia dell'arte italiana e alla diffusione della cultura popolare nel XVI secolo, diventando così uno dei precursori della commedia italiana, apprezzata ancora anche oggi. I suoi scritti inoltre contribuirono anche alla grande letteratura carnevalesca, un importante filone identificato per la prima volta da Michail Bachtin, che tra i suoi esponenti conta tra gli altri Luciano di Samosata, Rabelais, Miguel de Cervantes e Dostoevskij. Le sottilissime astuzie di Bertoldo. Nel tempo che il Re Alboino, Re dei Longobardi si era insignorito quasi di tutta Italia, tenendo il seggio reggale nella bella città di Verona, capitò nella sua corte un villano, chiamato per nome Bertoldo, il qual era uomo difforme e di bruttissimo aspetto; ma dove mancava la formosità della persona, suppliva la vivacità dell'ingegno: onde era molto arguto e pronto nelle risposte, e oltre l'acutezza dell'ingegno, anco era astuto, malizioso e tristo di natura. E la statura sua era tale, come qui si descrive. Fattezze di Bertoldo. Prima, era costui picciolo di persona, il suo capo era grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa e rugosa, gli occhi rossi come di fuoco, le ciglia lunghe e aspre come setole di porco, l'orecchie asinine, la bocca grande e alquanto storta, con il labro di sotto pendente a guisa di cavallo, la barba folta sotto il mento e cadente come quella del becco, il naso adunco e righignato all'insù, con le nari larghissime; i denti in fuori come il cinghiale, con tre overo quattro gosci sotto la gola, i quali, mentre che esso parlava, parevano tanti pignattoni che bollessero; aveva le gambe caprine, a guisa di satiro, i piedi lunghi e larghi e tutto il corpo peloso; le sue calze erano di grosso bigio, e tutte rappezzate sulle ginocchia, le scarpe alte e ornate di grossi tacconi. Insomma costui era tutto il roverso di Narciso. Audacia di Bertoldo. Passò dunque Bertoldo per mezzo a tutti quei signori e baroni, ch'erano innanzi al Re, senza cavarsi il cappello né fare atto alcuno di riverenza e andò di posta a sedere appresso il Re, il quale, come quello che era benigno di natura e che ancora si dilettava di facezie, s'immaginò che costui fosse qualche stravagante umore, essendo che la natura suole spesse volte infondere in simili corpi mostruosi certe doti particolari che a tutti non è così larga donatrice; onde, senza punto alterarsi, lo cominciò piacevolmente ad interrogare, dicendo: Ragionamento fra il Re e Bertoldo. Re. Chi sei tu, quando nascesti e di che parte sei? Bertoldo. Io son uomo, nacqui quando mia madre mi fece e il mio paese è in questo mondo. Re. Chi sono gli ascendenti e descendenti tuoi? Bertoldo. I fagiuoli, i quali bollendo al fuoco vanno ascendendo e descendendo su e giù per la pignatta. Re. Hai tu padre, madre, fratelli e sorelle? Bertoldo. Ho padre, madre, fratelli e sorelle, ma sono tutti morti. Re. Come gli hai tu, se sono tutti morti? Bertoldo. Quando mi partii da casa io gli lasciai che tutti dormivano e per questo io dico a te che tutti sono morti; perché, da uno che dorme ad uno che sia morto io faccio poca differenza, essendo che il sonno si chiama fratello della morte. Re. Qual è la più veloce cosa che sia? Bertoldo. Il pensiero. Re. Qual è il miglior vino che sia? Bertoldo. Quello che si beve a casa d'altri. Re. Qual è quel mare che non s'empie mai? Bertoldo. L'ingordigia dell'uomo avaro. Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un giovane? Bertoldo. La disubbidienza. Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un vecchio? Bertoldo. La lascivia. Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un mercante? Bertoldo. La bugia. Re. Qual è quella gatta che dinanzi ti lecca e di dietro ti sgraffa? Bertoldo. La puttana. Re. Qual è il più gran fuoco che sia in casa? Bertoldo. La mala lingua del servitore. Re. Qual è il più gran pazzo che sia? Bertoldo. Colui che si tiene il più savio. Re. Quali sono le infermità incurabili? Bertoldo. La pazzia, il cancaro e i debiti. Re. Qual è quel figlio ch'abbrugia la lingua a sua madre? Bertoldo. Lo stuppino della lucerna. Re. Come faresti a portarmi dell'acqua in un crivello e non la spandere? Bertoldo. Aspettarei il tempo del ghiaccio, e poi te la porterei. Re. Quali sono quelle cose che l'uomo le cerca e non le vorria trovare? Bertoldo. I pedocchi nella camicia, i calcagni rotti e il necessario brutto. Re. Come faresti a pigliar un lepre senza cane? Bertoldo. Aspettarei che fosse cotto e poi lo pigliarei. Re. Tu hai un buon cervello, s'ei si vedesse. Bertoldo. E tu saresti un bell'umore, se non rangiasti. Re. Orsù, addimandami ciò che vuoi, ch'io son qui pronto per darti tutto quello che tu mi chiederai. Bertoldo. Chi non ha del suo non può darne ad altri. Re. Perché non ti poss'io dare tutto quello che tu brami? Bertoldo. Io vado cercando felicità, e tu non l'hai; e però non puoi darla a me. Re. Non son io dunque felice, sedendo sopra questo alto seggio, come io faccio? Bertoldo. Colui che più in alto siede, sta più in pericolo di cadere al basso e precipitarsi. Re. Mira quanti signori e baroni mi stanno attorno per ubidirmi e onorarmi. Bertoldo. Anco i formiconi stanno attorno al sorbo e gli rodono la scorza. Re. Io splendo in questa corte come propriamente splende il sole fra le minute stelle. Bertoldo. Tu dici la verità, ma io ne veggio molte oscurate dall'adulazione. Re. Orsù, vuoi tu diventare uomo di corte? Bertoldo. Non deve cercar di legarsi colui che si trova in libertà. Re. Chi t'ha mosso dunque a venir qua? Bertoldo. Il creder io che un re fosse più grande di statura degli altri uomini dieci o dodeci piedi, e che esso avanzasse sopra tutti come avanzano i campanili sopra tutte le case; ma io veggio che tu sei un uomo ordinario come gli altri, se ben sei re. Re. Son ordinario di statura sì, ma di potenza e di ricchezza avanzo sopra gli altri, non solo dieci piedi ma cento e mille braccia. Ma chi t'induce a fare questi ragionamenti? Bertoldo. L'asino del tuo fattore. Re. Che cosa ha da fare l'asino del mio fattore con la grandezza della mia corte? Bertoldo. Prima che fosti tu, né manco la tua corte, l'asino aveva raggiato quattro mill'anni innanzi. Re. Ah, ah, ah! Oh sì che questa è da ridere. Bertoldo. Le risa abbondano sempre nella bocca de' pazzi. Re. Tu sei un malizioso villano. Bertoldo. La mia natura dà così. Re. Orsù, io ti comando che or ora tu ti debbi partire dalla presenza mia, se non io ti farò cacciare via con tuo danno e vergogna. Bertoldo. Io anderò, ma avvertisci che le mosche hanno questa natura, che se bene sono cacciate via, ritornano ancora: però se tu mi farai cacciar via, io tornerò di nuovo ad insidiarti. Re. Or va'; e se non torni a me come fanno le mosche, io ti farò battere via il capo.
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Bertoldo e il suo asino Astuzia di Bertoldo. Partissi dunque Bertoldo, e andatosene a casa e pigliato uno asino vecchio, ch'egli aveva, tutto scorticato sulla schiena e sui fianchi e mezo mangiato dalle mosche, e montatovi sopra, tornò di nuovo alla corte del Re accompagnato da un milione di mosche e di tafani che tutti insieme facevano un nuvolo grande, sì che a pena si vedeva, e gionto avanti al Re, disse: Bertoldo. Eccomi, o Re, tornato a te. Re. Non ti diss'io che, se tu non tornavi a me come mosca, ch'io ti farei gettar via il capo dal busto? Bertoldo. Le mosche non vanno elleno sopra le carogne? Re. Sì, vanno. Bertoldo. Or eccomi tornato sopra una carogna scorticata e tutta carica di mosche, come tu vedi, che quasi l'hanno mangiata tutta e me insieme ancora: onde mi tengo aver servato quel tanto che io di far promisi. Re. Tu sei un grand'uomo. Or va, ch'io ti perdono, e voi menatelo a mangiare. Bertoldo. Non mangia colui che ancora non ha finito l'opera. Re. Perché, hai tu forse altro da dire? Bertoldo. Io non ho ancora incominciato. Re. Orsù, manda via quella carogna, e tu ritirati alquanto da banda perché io veggio venire in qua due donne che devono forse voler audienza da me; e come io le avrò ispedite, tornaremo di nuovo a ragionare insieme. Bertoldo. Io mi ritiro, ma guarda a dare la sentenza giusta. Astuzia sottilissima di Bertoldo, per non essere percosso dalle guardie. Quando Bertoldo vidde che in modo alcuno non la poteva fuggire, ricorse all'usato giudicio e, volto alla Regina disse: “Poi ch'io veggio chiaramente che pur tu vuoi ch'io sia bastonato, fammi questa grazia: ti prego in cortesia, che la domanda è onesta e la puoi fare, in ogni modo a te non importa pur ch'io sia bastonato, di' a questi tuoi che mi vengono accompagnare, che dicano alle guardie che portino rispetto al capo e che elle menino poi il resto alla peggio”. La Regina, non intendendo la metafora, comandò a coloro che dicessero alle guardie che portassero rispetto al capo e che poi menassero il resto alla peggio che sapevano; e così costoro, con Bertoldo innanzi, s'inviarono verso le guardie, le quali aveano di già i legni in mano per servirlo della buona fatta; onde Bertoldo incominciò a caminare innanzi agli altri di buon passo, sì che era discosto da loro un buon tratto di mano. Quando coloro che l'accompagnavano viddero le guardie all'ordine per far il fatto ed essendo omai Bertoldo arrivato da quelle, cominciarono da discosto a gridare che portassero rispetto al capo e che poi menassero il resto alla peggio, che così aveva ordinato la Regina. I servi sono bastonati in cambio di Bertoldo. Le guardie, vedendo Bertoldo innanzi agli altri, pensando che esso fusse il capo di tutti, lo lasciarono passare senza fargli offesa alcuna, e quando giunsero i servi gli cominciarono a tempestare di maniera con quei bastoni che gli ruppero le braccia e la testa, e in somma non vi fu membro né osso che non avesse la sua ricercata di bastone. sì tutti pesti e fracassati tornarono alla Regina, la quale, avendo udito che Bertoldo con tale astuzia s'era salvato e aveva fatto bastonare i servi in suo luoco, arse verso di lui di doppio sdegno e giurò di volersene vendicare, ma per allora celò lo sdegno che ella avea, aspettando nuova occasione; facendo in tanto medicare i servi, i quali, come vi dissi, erano stati acconci per le feste, come si suol dire. Bertoldo sta nel forno e la Regina il fa cercar per tutto. Dopo che l'infelice sbirro fu mandato a bere, si fece gran diligenza per trovar Bertoldo, ma per le pedate volte alla roversa non poteva(si) comprendere ch'ei fosse uscito fuori di corte, e la Regina lo fece cercar per tutto con animo risoluto di farlo impiccare, parendogli pur grave la beffa della veste e dello sbirro. Bertoldo viene scoperto nel forno da una vecchia, e si divulga per tutto la Regina esser nel forno. Stava dunque il misero Bertoldo in quel forno e udiva il tutto e cominciò a temere molto della morte e si pentì d'esser mai andato in quella corte e non ardiva d'uscire fuori per non essere preso, sapendo che la Regina gli aveva mal animo adosso; e ora tanto più avendogli fatto la burla dello sbirro e della veste, dubitava ch'ella non lo facesse impiccare. Ma avendo indosso quella veste, ch'era lunga, né avendola tirata ben dentro del forno tutta, essendone restata fuori un lembo, volse la sua mala sorte ch'ivi venne a passare una vecchia appresso al detto forno, e conosciuto l'orlo della veste, che pendeva fuori, che quella era una delle vesti della Regina, si pensò che la Regina fusse rinchiusa nel detto forno; onde andò in un tratto da una sua vicina e gli disse che la Regina era in quel forno. Andò colei seco e, guardando nel forno, vidde la detta veste, e, conoscendola, lo disse ad un'altra, quell'altra ad un'altra e così di mano in mano a tale che non fu meza mattina che per tutta la città andò la nuova che la Regina era in un forno dietro le mura della città. Il Re dubita che Bertoldo non abbi portato la Regina in quel forno, e va a chiarirsi del fatto. Udendo il Re simil fatto, dubitò che Bertoldo avesse portato la Regina in quel forno, perché lo conosceva tanto tristo che credeva ch'ei potesse fare ogni cosa, e le strattagemme del passato maggiormente gli crescevano il sospetto; onde subito andò alla camera della Regina e la trovò ch'ella era tutta arrabbiata; e inteso da lei la beffa della veste, si fece condurre a quel forno e guardando in esso vidde costui nel detto avviluppato nella veste della Regina, e tosto lo fece tirar fuori, minacciandolo della morte; e così fu spogliato della veste il povero villano e restò con gli suoi strazzi intorno; e tra che esso era brutto di natura e avendosi tutto tinto il mostaccio nel detto forno, pareva proprio un diavolo infernale. Bertoldo è tirato fuori del forno e il Re sdegnato dice: Re. Pur ti ci ho colto, villan ribaldo, ma a questa volta non scamperai del certo, se non sei il gran diavolo. Bertoldo. Chi non vi è non vi entri, e chi v'è non si penti. Re. Chi fa quello che non deve, gli avviene quello che non crede. Bertoldo. Chi non vi va non vi casca, e chi vi casca non si leva netto. Re. Chi ride il venere, piange la domenica. Bertoldo. Dispicca l'appiccato, egli appiccherà poi te. Re. Fra carne e unghia, nissun non vi pungia. Bertoldo. Chi è in difetto, è in sospetto. Re. La lingua non ha osso e fa rompere il dosso. Bertoldo. La verità vuol star di sopra. Re. Ancor del ver si tace qualche volta. Bertoldo. Non bisogna fare, chi non vuol che si dica. Re. Chi si veste di quel d'altri, presto si spoglia. Bertoldo. Meglio è dar la lana, che la pecora. Re. Peccato vecchio, penitenza nuova. Bertoldo. Pissa chiaro, indorme al medico. Re. Il menar delle mani dispiace fino ai pedocchi. Bertoldo. E il menar de' piedi dispiace a chi è tratto giù dalle forche. Re. Fra un poco tu sarai uno di quelli. Bertoldo. Inanzi orbo, che indovino. Re. Orsù, lasciamo andare le dispute da un lato. Olà, cavaliero di giustizia, e voi altri ministri, pigliate costui e menatelo or ora a impendere a un arbore, né si dia orecchie alle sue parole perché costui è un villano tristo e scelerato che ha il diavolo nell'ampolla e un giorno sarebbe buono per rovinare il mio stato. Su, presto, conducetelo via, né si tardi più. Bertoldo. Cosa fatta in fretta non fu mai buona. Re. Troppo grave è stato l'oltraggio che tu hai fatto alla Regina. Bertoldo. Chi ha manco ragione, grida più forte. Lasciami almeno dire il fatto mio. Re. Alle tre si fa cavallo e tu glien'hai fatte più di quattro, che gli sono state di troppo affronto. Va' pur via. Bertoldo. Per aver detto la verità ho da patir la morte? Read the full article
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Il potere della scrittura in psicologia: le parole che guariscono
In psicologia, la scrittura svolge un ruolo cruciale nell'esplorazione della mente umana, nella terapia e nella comprensione di sé. La scrittura è una forma di espressione umana che risale a migliaia di anni fa. Ma nel contesto della psicologia, va ben oltre la semplice comunicazione. È diventata una potente forma di terapia che permette alle persone di esplorare e affrontare le sfide della mente e delle emozioni. Strumento di esplorazione personale e catarsi La scrittura terapeutica è una pratica che incoraggia le persone a esplorare i loro pensieri e le loro emozioni attraverso la scrittura. Questo processo può aiutare a comprendere meglio se stessi, a identificare i modelli di pensiero dannosi e a trovare soluzioni ai problemi emotivi. Scrivere consente di mettere in parole ciò che altrimenti potrebbe rimanere confinato nella mente, rendendo le emozioni e i pensieri più tangibili e accessibili. La scrittura terapeutica può anche fungere da forma di catarsi, consentendo alle persone di esprimere emozioni rese inaccessibili dalla paura, dal dolore o dalla vergogna. Scrivere di esperienze traumatiche o difficili può essere un modo per iniziare il processo di guarigione. Questo tipo di scrittura può essere fatto in privato o sotto la guida di uno psicoterapeuta specializzato. Scrittura e psicologia: il diario personale Il diario personale è uno dei modi più comuni per praticare la scrittura terapeutica. Scrivere in un diario offre regolarmente un'opportunità per riflettere su eventi, pensieri ed emozioni personali. Questo processo può aiutare ad individuare schemi ricorrenti, identificare fonti di stress o ansia e persino tracciare il proprio progresso nel tempo. L'autoconsapevolezza è una componente fondamentale della salute mentale, e il diario personale offre uno spazio sicuro per esplorarla. Scrivendo i propri pensieri, si può ottenere una visione più chiara dei propri bisogni, obiettivi e desideri. L'Approccio della Scrittura Terapeutica in Psicoterapia Nel contesto della psicoterapia, la scrittura terapeutica può essere integrata in diverse modalità. Uno psicoterapeuta può incoraggiare i pazienti a scrivere tra le sedute come mezzo per esplorare i propri sentimenti e pensieri. Questi scritti possono poi essere discussi durante le sessioni per ottenere ulteriori insight e per sviluppare strategie di coping. In alcuni casi, la scrittura può essere utilizzata per specifiche terapie, come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT). Qui, i pazienti possono essere invitati a tenere un registro dei loro pensieri automatici negativi o ad esplorare i loro schemi di pensiero distorti attraverso la scrittura. La scrittura creativa è un altro strumento utilizzato in psicologia. Questo può includere la poesia, la narrativa o altre forme d'arte verbale. Scrivere in modo creativo può consentire alle persone di esprimere emozioni in modo simbolico, fornendo un'uscita per sentimenti complessi. Può anche essere utilizzato come forma di espressione personale e di autoesplorazione. In copertina foto di StockSnap da Pixabay Read the full article
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iannozzigiuseppe · 2 years
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Arte terapia dell'anima (guarisci te stesso) - Marcello Riccioni / Prefazione di Daniele Novara - Fefè Editore
Arte terapia dell’anima (guarisci te stesso) – Marcello Riccioni / Prefazione di Daniele Novara – Fefè Editore
Arte terapia dell’anima guarisci te stesso Marcello Riccioni Prefazione: Daniele Novara Fefè Editore Come per musica, poesia o teatro, le emozioni che un’opera offre diventa curativo. Riccioni ci suggerisce come fare attraverso l’analisi “terapeutica” di dieci opere. Questo libro è un manuale ispirato alla lettura maieutica dell’opera d’arte. L’idea di base è che ciascuno di noi, di fronte ad…
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tullioeosdias · 3 years
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Meu café. 
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kovboo · 2 years
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prólogo
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Hoje eu me odeio de uma forma inexplicável.
Porque os dias velhos voltaram. Porque o meu velho eu voltou. E meu demônio, encarcerado em apenas alguns meses, está domando meu raciocínio lógico que deveria ser formado por empatia e egoísmo funcional. E eu, novamente, estou numa competição acirrada sobre ser a decepção número um, que faz os mais queridos chorarem com toda a tristeza do peito, e, no caminho, lutarem por minha disposição.
Porque no fim, eu sou inconsolável e desequilibrada. E não importa minha responsabilidade e dever, o meu ego doente, faminto por vitória suja e amarga, sempre está sendo colocado primeiro.
A linha grossa dos meus olhos borram. Mas não há um som que comprove o choro, senão apenas seu rastro.
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1: Mario Petrocchi (pittore)
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Mario Petrocchi nasce a Roma nel 1924 e trascorre in Libia l’infanzia e l’adolescenza col padre Carlo. Quest’ultimo era un noto paleontologo che nel Sahara effettuò scavi di notevole importanza scientifica come la scoperta dell’elephas primigenius (a quattro zanne).
Vivere nel deserto ha notevolmente influito sulla personalità di Mario che ha scelto di laurearsi in medicina coltivando interessi scientifici. Dopo la laurea, conseguita a Roma, ha svolto attività di ricerca presso l’università di Cordoba e Miami. E’ stato docente di Storia della Medicina e ha collaborato all’organizzazione del Museo di Storia della Medicina dell’università La Sapienza di Roma che era stato fondato dal professore Alberto Pazzini.
Accanto all’attività di ricerca e di studi ha sempre continuato a svolgere la professione medica fino al 2001.
La scelta artistica di Mario Petrocchi nasce negli anni’60 e diventa terapeutica, quando accanto alle esperienze dolorose dei pazienti vive anche un dramma personale. Così con un linguaggio semplice e colorato ci trascina in una  realtà colta e a volte  visionaria.
L’ARTISTA SI RACCONTA..
“Ho iniziato a dipingere quadri ad olio all’età di quarant’anni in un periodo difficile della mia vita. Sono autodidatta ed ho adibito a studio una stanza della mia abitazione.
La mia passione per l’arte è stata ricompensata dalla critica e nel 1977 sono stato citato nel catalogo nazionale degli artisti curato da Elio Mercuri.
Nel 1978 ho presentato una quarantina di quadri per una mostra personale presso la Galleria dei 10 di Roma, un evento dal discreto successo
Nello stesso anno ho partecipato alla collettiva del premio Fermo Meloni ai Lidi Ferraresi dove, con la tela intitolata Ultimi passi, ho vinto la medaglia d’oro.
Nel 1981 ho partecipato allo stesso premio a Martina Franca.
Tutte le opere che ho realizzato, più di 400, sono olii su tela o cartone e sono nate da esperienze di viaggio, mostre d’arte o avvenimenti biografici.
Considero la pittura un mezzo terapeutico, come già accaduto a noti artisti, per superare le difficoltà della vita. Con il pennello riesco a trasferire emozioni e sensazioni provate nel tempo. Nascono così dei paesaggi trasognanti dove riverso tutto il mio mondo.
Non amo dipingere all’aperto ma dipingo i ricordi che sono rimasti impressi nella mia mente
Mi hanno definito un pittore difficile da collocare in una sola corrente artistica perché da paesaggista divento metafisico o surrealista, mi ritengo un sognatore che svela a tutti i segreti più intimi.
Attraverso alcune opere che ho appositamente selezionato voglio raccontarvi il mio mondo…”
SINTESI DELL’INFINITO
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Olio su tela 1973
Questo quadro è il ricordo di un viaggio su una nave diretta in Turchia sul Bosforo e poi realizzato nello studio a Roma.
Una linea netta segna il confine dei colori cupi che solo nel cielo lasciano intravedere il sole. In realtà lo scenario visto a mezzogiorno si è poi trasformato in una veduta notturna, proprio come il buio interiore di quegli anni. Sulla tela infatti sono stati trasferite le mie sensazioni.
RAGIONE E SPIRITUALITA’
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Olio su tela 1976
Quest’opera nasce da uno spettacolo teatrale Efigenia visto per caso ad Atene  una sera d’agosto.
Davanti ad uno stilizzato allestimento scenico c’è la figura della divinità avvolta in una nube che contrasta col fondo azzurro. Fu così che le divinità presso gli antichi illuminarono il pensiero, ma col passar del tempo diedero spazio alla ragione
LA CASA DI FILOMENA
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Olio su tela 1980
C’era una volta e c’è a Varapodio, località calabrese, la casa di Filomena, una donna del paese. E’ lì per ricordare un passato di sogno che duri un istante, che duri una vita.
LA GINESTRA
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Olio su tela 2014
La tela omaggia il grande Leopardi che qui è rappresentato seduto su uno scoglio intento ad osservare il Vesuvio e il golfo di Napoli sul quale primeggia un cespuglio di ginestre.
In occasione della recitazione della poesia in una libreria di Roma, l’attore Andrea Mariotti si è commosso davanti alla foto di quest’opera.
DESERTO DEL SAHARA
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Olio su tela 1971
Luci, spazi infiniti, colori violenti, sintesi di sensazioni gelosamente riposte un tempo durante le escursioni nel Sahara e riaffiorate all’improvviso. Quasi si respira l’afa soffocante del deserto.
MOSCHEA SOTTO IL GHIBLI
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Olio su tela 1993
Deserto libico, giornata di ghibli, caldo afoso, apparizione della moschea tra folate di vento e sabbia.
“Così, per ogni tela, ho usato metodologie differenti, seguendo ciò che mi dettava la fantasia, in quanto, proprio quest’ultima, più che la ragione, ha giocato un ruolo fondamentale nella scelta delle immagini e nell’uso del colore fino ad arrivare, talvolta, a non rispettare la logica delle luci e delle ombre” Mario Petrocchi 
curato da Alessandra Bartomioli
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nuriaverde · 2 years
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Nueva pulsación. "A tientas"
A tientas A la memoria de Antonio Antón. A tientas yo te buscaba, a tientas yo te quería,  a tientas yo te idealizaba,  a tientas yo te creaba.  Ahora eres mi hogar y mi descanso,  ahora eres mi monte  y mi mar.  Ahora duermes conmigo porque hicimos a tientas  un ejercicio de amar.  
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pangeanews · 5 years
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“Ci sono follie che ridestano sorgenti creative altrimenti inconoscibili”: dialogo con Eugenio Borgna su poesia e malattia
Incarnato in alcune figure ‘di frontiera’, francamente inafferrabili – Alda Merini, Dino Campana, ma pure Nietzsche e Van Gogh – il binomio, veritiero ma delicatissimo, arte e follia, o meglio, poesia è follia, è diventato pop, un logo pubblicitario come un altro, luogo e criterio di vendita. In realtà, non c’è alcun giudizio di valore – la cerca di una impalpabile ‘diversità’ rispetto alla palude della ‘norma’ – in un concetto che va auscultato, soprattutto nel suo nido di dolore.  “Gli schizofrenici soffrono della verità”, scriveva Norman O. Brown in un libro decisivo, Corpo d’amore. D’altro lato, è Eugenio Borgna, luminare della psichiatria, a tornare con gloria sul tema, disseminato nelle sue innumerevoli pubblicazioni – cito, un po’ a caso, in una bibliografia a suo modo salvifica, L’arcipelago delle emozioni, Le intermittenze del cuore, La solitudine dell’anima, La nostalgia ferita – anche nel libro più intimo, La follia che è anche in noi (Einaudi, 2019), che racconta gli anni della direzione del manicomio di Novara e la ‘rivoluzione’ di Basaglia, nel 1978, e ci fa toccare, con delicatezza, la nostra meridiana ‘diversità’. Borgna, che da sempre usa materiali poetici per giungere a soluzioni psichiatriche originali, improntate all’egida della gentilezza, al carisma dell’ascolto, è estremamente chiaro: “La psichiatria… non può fare a meno della poesia che l’aiuta a riconoscere la fragilità e l’umanità della follia”; “La grande poesia e i grandi romanzi consentono alla psichiatria di dilatare e di ampliare la conoscenza dell’anima che ne è l’orizzonte infinito… la follia e la poesia confluiscono in una straordinaria associazione creativa”. La prima frase conclude l’Introduzione al libro, la seconda sigilla il volume. Non importa qui la poesia come ‘terapia’ – nonostante nel volume Borgna ricalchi le “poesia di una straziante bellezza” di una sua rara paziente, Margherita – ma la poesia come lingua dell’eccezionalità e dell’eccedenza – cioè, dell’uomo ‘naturale’ –, selvaggia e inafferrabile, non delegata al ‘comunicare’, ma, finalmente, al ‘dire’, smascherando. In questo caso, sì, la poesia è il calco delle zone oscure, o delle inaccettabili luminosità, dell’uomo, e leggere è una cura, cara, feroce. (Davide Brullo)
Lei scrive, con gioia piena (o quasi) della ‘rivoluzione’ di Basaglia, aggiungendo, però, una nota di “nostalgia” per il manicomio, o meglio, “una comunità di cura”, che dirigeva a Novara. Come mai questo doppio sentimento, quasi contraddittorio?
I manicomi italiani non si potevano riformare, e questo perché in essi dilagavano contenzioni, porte e finestre murate, indifferenza e noncuranza negli psichiatri e negli infermieri, psicofarmaci somministrati in dosi esagerate, non accompagnati da ascolto e da attenzione alla sofferenza e alla disperazione dei pazienti. Come spiegare allora la nostalgia di un manicomio nel quale ho vissuto quindici anni della mia vita? La contraddizione sembra insanabile, ma, lo dico nel mio libro, il nostro manicomio era soltanto femminile, non si contenevano i pazienti, non si tenevano le porte chiuse, le pazienti potevano uscire nel grande parco del manicomio, suore e infermiere si sono rapidamente adeguate alla nostra psichiatria gentile, gli assistenti giungevano dalla Clinica psichiatrica della Università di Milano, e infine la follia femminile è molto più mite di quella maschile. Sì, il nostro solitario manicomio si poteva definire una comunità di cura, medici, suore, infermiere, in una cordata che non sarebbe stata più possibile nei servizi di psichiatria degli ospedali generali. Queste le ragioni della mia nostalgia di un sogno troppo fragile e troppo bello per sopravvivere.
Insiste, nel libro, sulla psichiatria come colloquio e soprattutto come gentilezza. Parole quasi paradossali in ambito medico. Il punto, forse, è capire che il male non è una astrazione, ma che “la follia è anche in noi”, dunque prendersi cura dell’altro è curarsi: è così?
La psichiatria come colloquio, la psichiatria come gentilezza, sembrano essere definizioni, come lei dice giustamente, inconciliabili con il discorso che dovrebbe fare la psichiatria come scienza, e nondimeno la psichiatria non è solo scienza, ma anche scienza umana e colloquio e gentilezza ne sono una dimensione essenziale. Il nostro non sarebbe stato un manicomio, nel quale si riusciva a fare una psichiatria umana e terapeutica, e Franco Basaglia non sarebbe giunto a ideare e a realizzare una psichiatria senza manicomi, se colloquio e gentilezza, ascolto e partecipazione emozionale, non fossero stati strumenti di cura, smascherando la violenza, che si nascondeva in ogni psichiatria manicomiale, e trasformando il modo di vivere dei pazienti. Ma di colloqui e di gentilezza, di ascolto e di partecipazione emozionale, si ha ardente bisogno se si vuole conoscere la follia che è anche in noi e, come dice, prendersi cura dell’altro è curarsi: cosa che ci è sembrato davvero avvenire a Novara, e prima ancora magistralmente a Trieste con Basaglia. Certo, di colloquio, e di gentilezza, di ascolto e di emozioni ferite, avrebbero bisogno anche i medici di base, e quelli di ogni altra specializzazione. Cosa che, come si sa, non sempre avviene.
A un certo punto cita Giorgio Colli, autore di quella frase magnetica e ambigua, “la follia è la matrice della sapienza”. D’altronde, pubblica e commenta le poesie, molto intense, di una sua paziente, Margherita, e conclude scrivendo che “la follia e la poesia confluiscono in una straordinaria associazione creativa”. Le chiedo di specificarmi meglio questo concetto e soprattutto, di che tipo di follia parliamo. 
Sì, la frase di Giorgio Colli, “la follia è la matrice della sapienza”, che lei definisce felicemente magnetica e ambigua, come anche quella di Clemens Brentano, il grande poeta romantico tedesco, che a sua volta definiva la follia “la sorella infelice della poesia”, sono metafore, ma la psichiatria non può non vivere di metafore, come diceva uno dei grandi psichiatri del secolo scorso, Eugène Minkowski, e questo perché la follia è un arcipelago sconfinato. Ci sono follie che si accompagnano ad angoscia e a tristezza, al deserto delle emozioni e alla disperazione, e che non possono non essere curate con farmaci, ma ci sono follie che, sia pure mediate dal dolore dell’anima, che non manca mai, ridestano in noi sorgenti creative altrimenti inconoscibili. Margherita non avrebbe mai scritto le poesie, che lei definisce molto intense, ma la stessa cosa non si potrebbe dire, sia pure ad altezze incomparabili, delle poesie di Friedrich Hölderlin, o delle narrazioni di Gérard de Nerval e di Robert Walser, che ha trascorso venti anni della sua vita in un manicomio svizzero, e che ha scritto romanzi di straziata bellezza. La follia e la poesia confluiscono in una straordinaria associazione: sono le cose che Karl Jaspers ha scritto delle liriche di Hölderlin.
Tra gli autori che cita, si sofferma su Cristina Campo, la grande reclusa, e Georg Trakl, arso dalla “tristezza vitale”. Sembra che la parola vertiginosa, la poesia, viva uno scarto potente con il mondo, con il mondano, che la porta fuori di sé. Il linguaggio poetico in sé, forse, è ‘patologia’, discorso del dolore… Mi dica. 
Come dicevo, la parabola semantica di una parola complessa, come è questa di follia, è infinitamente ampia. La risposta, consegnata alla domanda precedente, tematizzava la follia come forma patologica di vita, come sofferenza infinita, come malattia, ma la follia è anche un diverso modo di pensare e di immaginare la vita, una diversa forma di vita, una diversa percezione del reale. Come chiarire le differenze fra l’una e l’altra forma di vita, che rientrano nell’area delle emozioni malate che sono a fondamento di ogni forma di follia? Malattia psichica, fatica di vivere, male oscuro, inaudita sorgente di dolore dell’anima, desiderio di morire, che giunge talora al suicidio, è la depressione che rientra da sempre fra i sintomi emblematici della follia. Ma non è malattia psichica, anche se a volte sconfina nei sintomi della depressione, ne è la sorella mite, la malinconia, la tristezza vitale, l’una apparentemente simile all’altra, e invece l’una radicalmente diversa dall’altra. La depressione è infrequente, e molto infrequente la malinconia: le cose molto belle che lei dice del linguaggio poetico, del discorso del dolore, si applicano alla malinconia, alla tristezza vitale, che è premessa alla poesia leopardiana, e a quella trakliana, ad esempio.
Qual è il libro o l’autore che più ha influito nella sua ricerca psichiatrica, che lo accompagnava negli anni di direzione della ‘casa di cura’ a Novara?
Negli anni in cui a Novara mi occupavo della direzione del manicomio, che, sì, non era se non una comunità di cura, ci sono stati alcuni autori che con i loro libri mi hanno accompagnato nel mio cammino. Alcuni tedeschi: la psichiatria come scienza umana, la psichiatria che è stata definita fenomenologica, e che è stata la premessa alla rivoluzione copernicana di Basaglia, e alla nostra artigianale a Novara, è nata nei paesi di lingua tedesca. Alcuni nomi: quello di Karl Jaspers che, prima di essere stato grande filoso, è stato grande psichiatra: a trent’anni, nella celeberrima clinica psichiatrica universitaria di Heidelberg scriveva un libro di psicopatologia, ancora oggi di sconvolgente attualità, che, questo ne dica la incultura della psichiatria italiana, veniva tradotto in italiani cinquant’anni dopo. Se non avessi conosciuto la lingua tedesca, e non avessi letto in particolare i libri di Karl Jaspers e di Kurt Schneider, e quelli di uno psichiatra svizzero, Ludwig Binswanger, non avrei mai potuto scrivere negli anni della mia direzione manicomiale i molti saggi scientifici, e non mi sarebbe stato possibile realizzare una psichiatria gentile.
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unagocciadipioggia · 3 years
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Ci sono così tante cose
che mi preoccupano che
la testa non mi funziona
più.
Ho occhi dappertutto
sulla pelle
che si contorcono
non appena vengo
sfiorata,
bruciano
inaspettatamente
spingendomi
a chiuderli.
Instagram: una_goccia_di_pioggia
(non repostare, per favore; rebloggare è okay)
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luisocarvajal · 5 years
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alfredomedici · 4 years
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PAGINA 9
Era stanco. Aveva sonno ma ancora gli giravano in testa le parole di Enrico, il rapinatore loffio e innammorato di Angela.
Quella volta si erano soffermati sul perchè l'uomo del crimine s'era perso per lei fino a strutturare idee fantastiche e allucinatorie come quelle dei suoi colloqui con Padre Pio. Certo sotto la coltre della sua educazione al malaffare si nascondeva un bambino senza un padre e con una mamma a dir poco distratta.
Come era solito fare nei momenti più vuoti o noiosi pensò una poesia che gli serviva a sintetizzare la condizione emotiva tra il malfattore redento e l'angelica Angela, educatrice dai buoni sentimenti.
E pensò così:
ascoltarti
mi da confusione
sei tu pazza
oppure io incapace
e stiamo così
in questa lunga attesa
in questa danza
senza musica
in questa stanza
piena di parole
Angela
è te che voglio
e non le tue parole
Messa così Angela gli apparve meno angela. E messa così Enrico sembrò essere stato cucinato da una dark lady terapeutica.
Arturo stava entrando in una love story alla Dashiell Hammett con lui Sam Spade con la faccia di Humphrey Bogart nel "Falcone Maltese" di J. Huston. Mise sul giradischi "Laura" di Charlie Parker e si addormentò.
Si svegliò in piena notte.
Aveva sognato un grosso insetto con sei zampe ma capovolto e lui doveva rimettere nella giusta posizione l'enorme e orripilante scarafaggio.
Si avviò verso la cucina puntando dritto al frigorifero, sezione congelatore, e tirò fuori una vaschetta di gelato al cioccolato che stava lì come farmaco salvavita. Il sogno kafkiano parlava di lui. Eppure Kafka l'aveva letto poco. Certo di tanto in tanto lo citava perchè già il nome, Kafka, faceva un bell'effetto sugli interlocutori.
Affondò il cucchiaio nel gelato e sentì all'improvviso l'inquietudine addolcirsi.
La città alle tre di notte era silenziosa: il modo migliore per leccare gelati alla luce sexy di un frigorifero semiaperto.
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descargalibros · 5 years
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Descarga La burbuja terapéutica (Josep Darnés)
5 / 5 ( 1 voto ) Cómo caí en las trampas del crecimiento personal y las terapias. ¿Puede uno volverse adicto al crecimiento personal? ¿Cuándo la terapia deja de ser la solución y se transforma en el problema?… Categoría: Infantil / Juvenil Nuestra sociedad se ha psicologizado de arriba abajo y el bienestar emocional […]
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