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#poeti di via margutta
scogito · 2 years
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«Nell'ombra non v'è luce che la luce non adombri». (Gabriella Scali)
Una poesia che mi piace perché lontanissima da me. È composta da voli pindarici di concetto e da molteplici strati di senso. Non porta la mano di chi si improvvisa poeta e per questo va al di là di sé. È contemporaneamente qui e là, con la capacità salda e sentita di soffiare sempre qualche tipo di profumo. Nonostante il mondo.
Due estratti e un inedito:
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Per altre letture:
I Poeti di Via Margutta qui
Collana poetica Vie qui o qui.
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lospeakerscorner · 2 years
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Elena Ponzi, poetessa di via Margutta
Elena Ponzi, poetessa di via Margutta
Dodici liriche di Elena Ponzi sono state inserite nella Collana Poetica I poeti di via Margutta, Dantebus Edizioni Attraverso i versi o la pittura, Elena Ponzi ha la capacità di raggiungere l’anima: che siano tocchi di pennello o parole, fa rivivere suggestioni e ricordi. Nata a Portogruaro, Venezia, ha vissuto a Roma fino al 1977, anno in cui si è trasferita definitivamente a Napoli, città in…
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iltrombadore · 4 years
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Katy Castellucci, la realtà e il sogno della pittura
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Conobbi nei primi anni Ottanta la persona di Katy Castellucci (1905-1985) per poco tempo, quasi di sfuggita: quella fu l’unica occasione, e non saprei dire se la vidi lungo la Via dell’Oca, dove lei abitava accanto a suo nipote Sandro Pagliero, mio caro amico, oppure durante una di quelle provvide esposizioni che all’epoca misero in evidenza le migliori qualità artistiche della Scuola Romana tra le due guerre mondiali, grazie all’opera di galleriste fuori del comune quali sono state Netta Vespignani e Lucia Stefanelli Torossi. Fu un breve incontro, certo, il mio: che tuttavia ricordo sempre vivido ed eloquente perché l’immagine di Katy Castellucci mi si stampò negli occhi come fosse il tipo di una presenza antica e, chi sa perché, a me del tutto familiare. Lei era una donna in età avanzata, e portava i capelli incanutiti affioranti appena dal copricapo che li raccoglieva, in modo impertinente e un poco, quasi, sbarazzino. Era una figura in ogni caso distinta e ben composta, la sua, figura discreta d’altri tempi, di una vanità giovanile raccolta e spiritosa, dal punto di sorriso piegato sui labbri appena mossi, fino alla fresca agilità di un corpicino minuto, esile, ma asciutto, sicuro e ben piantato.  
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Poi, la chiave esplicativa di quel fascino che da lei emanava mi fu, a poco a poco, abbastanza chiara. Katy, nella persona vivente, era come lo stampo animato di uno di quei suoi personaggi femminili, di quelle signore e signorine che aveva saputo così bene ritrarre, dipingere e incastonare in effigie dalle pose diverse di quasi mezzo secolo prima: nude, vestite, azzimate o semi-discinte, con lo sguardo breve, il dialogo dell’ occhio spalancato e interrogante, la spalla enunciata in aggetto di movimento vibrante e sospeso. Presa dal vero, la pittura diventava sogno, e la vita a sua volta diventava sogno della pittura. Sopravviveva, nella presenza e nei modi di Katy Castellucci, lo spirito germinale di quella bohème romana che aveva animato gli studi di Via Margutta e tutto intorno le vie del Tridente, dall’Accademia di Belle Arti, alla salita di Ripetta, a piazza del Popolo, nel pieno degli anni Trenta fin lungo tutto il buio tunnel della guerra e le genuine e  fin troppo ingenue speranze di rinascita che ne seguirono. Una parziale suggestione, era forse la mia, assuefatta e attirata dall’occhio di Mafai e Ziveri penetrante nel mondo cantabile delle comari romane, stenditrici di panni al sole, o in quello abietto e disperato dei bordelli popolari, con le donne sulle scale di Pirandello, quelle popolane alla finestra di Guttuso, oppure le fanciulle velate dal mesto colorismo crepuscolare di Cavalli, e da tutto quel tesoro di immagini femminili ricavato dalla più intensa delle cronache familiari: era come la stenografia o la memoria di un racconto ininterrotto di esperienze vissute e trasposte sulla tela, coi volti e le trepidanti movenze delle adolescenti dipinte da Antonietta Raphael, l’elegante tratto luminoso delle vesti ricamate da Adriana Pincherle, certi corpi accucciati e torniti dal veloce pennello di Toti Scialoja, nei primi anni Quaranta, con una giovanissima Titina Maselli a fare da modella e figura emblematica di  espressività contenuta nelle volute fisiognomiche dei contorni e nell’implorante apertura dello sguardo. 
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Pure tra diverse maniere di vedere, ad inseguire varianti e regole di stile, lo spirito veramente originale della “Scuola Romana” di quel tempo si riconosceva nell’approccio narrativo e autobiografico, nel viatico  non retorico di una pittura moralmente intesa come pietra di paragone della vita: una naturalezza espressiva della generazione artistica che si allontanava dai moduli e precetti estetici del “Novecento”e dalle risultanze spettacolari del dinamismo futurista, per ripiegare invece sul crinale di un racconto figurativo più intimo e molto umano, legato ai valori emotivi della composizione d’immagine. Era il segno di una attenzione meticolosa per la formulazione del dipinto come testimone e contrassegno di un autentico “essere nel mondo”, un vademecum spirituale che andava ben oltre la tecnica e i rituali del professionismo e di ogni qualsivoglia retorica celebrativa e ufficiale. Di questo approccio alla pittura “come vita” -la cui lezione principale veniva da Scipione, e seguiva sul piano letterario il movente poetico delle “occasioni” montaliane- l’animo gentile di Katy fu tutto preso e determinato: la sua radice espressiva si circondò così dei sentimenti immediati e vivamente fissati sulla tela travalicando le più veloci traduzioni impressioniste per tornire a fondo l’impasto sintetico degli effetti cromatici  che miravano a modellare una forma sospesa, incantata, e pure fedele al vero, senza accorgimenti artificiosi, senza soverchie magìe, tutta aderente al motivo esistenziale e psicologico del soggetto figurato. 
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Della pittura di Katy avevo avuto notizia, all’epoca in cui la conobbi, solo per sommi capi: me ne ero fatta l’idea sommaria di una valida e meticolosa seguace della “scuola di Via Cavour”, per quell’impaginato semplificante tutto su di un piano e la stesura calibrata dei colori giunti a tono per condensare l’immagine in superficie, secondo che avevo visto in alcune sintomatiche tele di Mafai alla metà degli anni Trenta. Il tonalismo e la passione per il timbro del colore mi pareva allora lo scopo dominante la pittura di Katy. Ed era solo in parte vero, poiché era un giudizio approssimativo. Solo quando di lei si fece una prima retrospettiva, qualche anno dopo la sua scomparsa - promossa da Lucia Torossi, con gli scritti di Claudia Terenzi, Fabio Benzi, Romeo Lucchese e Federica Pirani- fu possibile, almeno a me, di avere una sensazione più esauriente di quella volontà d’arte condensata sulla tela, secondo un percorso che è assieme stilistico ed esistenziale.  Molta cultura visiva passa per le pitture di Katy; molta esperienza umana, molto vissuto. Siamo nel pieno degli anni Trenta. Roma trema al cospetto delle demolizioni, e si risveglia al clamore futuristeggiante di un gusto razional-classicista che rimodella l’Augusteo, la spina di Borgo, l’area dei Fori, i campi aperti all’atletismo, dallo Stadio dei Marmi alle palestre del Foro Mussolini. Sotto la traccia delle immagini ufficiali, costeggia in silente conflitto il profilo inquieto di una nuova generazione che tenta di riconoscersi chiusa in sé stessa,  sul filo di una vitalità pittorica che trasfigura il dato esistenziale in un ermetico lirismo della realtà.  
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La pittura non è documentazione. Altro è la pittura, altro la fotografia. Il vero diventa fantasma dipinto, prensile immagine, sintesi di forma e colore. Ecco Scipione, ecco Raphael e Mafai, ecco Marino Mazzacurati e Ziveri, ecco Cavalli, Cagli e Capogrossi, Afro, Mirco e Janni, mentre si fanno strada Fazzini, Montanarini, Savelli e De Felice, Omiccioli, Scialoja e tutti gli altri, assai sensibili alla versione formale di una pittura da cui possa traboccare un contenuto emotivo, fin troppo umano, anche quando presentato in forma di mitologema “primordiale”. Abbinando il vezzo femminile alla forza di carattere, con il beneficio di una grazia spontanea, il vocabolario estetico di Katy trasfigurava così l’esperienza del quotidiano nello smalto di un armonico cammeo, il cui effetto visivo travalica il tempo storico conservandone i lineamenti. Alle eleganze tonali raggiunte nel 1935-1936 (al tempo in cui espose alla Cometa di De Libero le sue opere insieme a quelle di Adriana Pincherle) si affiancano le vibranti e scabre pulsioni sentimentali di certi nudi raggomitolati, e i successivi autoritratti, l’accento realistico ed espressivo nel dialogo intimo intrecciato con il volto di sua sorella Guenda, compagna di vita e prove morali, mettendo a frutto un bagaglio stilistico (Ziveri, soprattutto) per conferire al dato narrativo l’incanto della pittura. Katy viveva così il sogno della pittura tanto quanto viveva la sua vita di donna moderna immersa nei fragori del secolo. E d’altra parte che non fosse solo un mondo inventato, ma piuttosto un diffuso tessuto di umanità e di vita culturale, ce lo ricorda Romeo Lucchese, quando descrive per esempio la comunità di “piccola Atene, lontana dal regime”situata ai bordi del Tevere sul galleggiante a due  passi dalla salita di Ripetta dove si incontravano quasi tutti gli artisti che sarebbero stati  associati alla “Scuola Romana”, assieme ad architetti, galleristi, scrittori e poeti. 
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Forse, il garbuglio di stili e personalità emerse con i cento fiori della “Scuola Romana” trova il suo epicentro espressivo nel comune bisogno di testimoniare, l’accento di vitalità che si racconta incastonata nella pittura e in un disegno febbrile di corpi, volti, brani di scenario e paesaggio urbano immersi nella luce di Roma, quando limpida, quando corrusca, come tela di fondo di drammatiche, inesauste e impredicabili attese esistenziali. Era così tratteggiato il clima culturale di quella sovrabbondante inquietudine “ermetica” d’anteguerra, che si sarebbe risolta per diverse diramazioni espressive e riduzioni stilistiche dopo le prove morali del traumatico crollo del regime fascista, nella attività di resistenza, di cui molti artisti furono interpreti appassionati, e anche Katy ne fu partecipe, col tratto di una fedele e costante attenzione, quando fece la spola per collegamenti informativi tra Roma e Milano, dove il marito Corrado De Vita era impegnato nella clandestinità. Il segno della fedeltà alla pittura intesa come sogno della realtà era la conferma di un’adesione alla vita intesa come sogno della pittura. 
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Quel sintomatico scambio di arte e vita venne messo ancora più alla prova nel tumultuoso secondo dopoguerra che moltiplicò le energie artistiche e l’incanto narrativo autobiografico -temperie distintiva della “Scuola Romana”- si venne ad affievolire cedendo il passo alle prevalenti tendenze del neo-formalismo astratto e del realismo ideologico, con la minuta compagine dei “pittori fuori strada”(Scialoja, Sadun, Stradone, Ciarrocchi) a tentare la via d’uscita di un palpitante esistenzialismo figurativo. Katy Castellucci, dal canto suo, restò legata alla scelta originaria di una pittura pervasa di sognante “figuratività” che sembrò riemergere quasi intatta quando nel 1951 si presentò come quasi vent’anni prima ad esporre con Adriana Pincherle  presso lo Zodiaco di Linda Chittaro. Di quella mostra, l’ occhio arguto di Alfredo Mezio colse soprattutto il “bagaglio romano e marguttiano” rilevandone la “cartavelina tonale, neopicassiana, purista”, accanto alle sentite derivazioni da Mafai e Ziveri. Quella occasione fu, che io sappia, l’ultima impegnativa  comparsa pubblica dell’ opera di Katy, che non mutò di stile, se non per poche varianti, vicine alla parallela attività di insegnante, costumista e scenografa. Era la conferma di un comportamento morale oltre che estetico: poche in vita furono le esposizioni, poche le sortite, ma costante fu l’impegno  custodito, come messaggio di serietà e sincerità, nella bottiglia della pittura. Peccato, ma non è forse un caso, se  Katy non compare nel film-melodramma “Le modelle di Via Margutta” girato da Giuseppe Scotese nel 1945 dove altri suoi amici artisti -Fazzini, Montanarini, Tamburi, Guzzi, Tot, Scordia- si avvicendarono a recitare la parte di sé stessi negli studi del n.51. In quel clima di nascenti speranze nate dopo il trauma della guerra, avremmo visto volentieri la sua elegante figuretta, così emblematica della “Scuola Romana”, in movimento sullo schermo. Eppure oggi anche quell’assenza ci dice molto, ci racconta di lei, della sua discrezione e gentile ritrosia, e suggerisce sul suo temperamento artistico molto più della presenza.
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paoloferrario · 4 years
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VIA MARGUTTA A TURNU (sulla VIA DE BENZI), poesia di Gino Peroni , in I VERS DEL G.A.T. E I SO SPEGASC, edito a cura del Gruppo Artistico Tornasco in collaborazione tra soci e poeti, 1978
VIA MARGUTTA A TURNU (sulla VIA DE BENZI), poesia di Gino Peroni , in I VERS DEL G.A.T. E I SO SPEGASC, edito a cura del Gruppo Artistico Tornasco in collaborazione tra soci e poeti, 1978
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sanremista-dal51 · 5 years
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Sta cadendo la notte sopra i tetti di Roma tra un gatto che ride e un altro che sogna di fare l’amore. Sta cadendo la notte senza fare rumore sta passando una stella sui cortili di Roma e un telefono squilla nessuno risponde a una radio che parla è vicina la notte sembra di accarezzarla. Amore vedessi com’è bello il cielo a via Margutta questa sera a guardarlo adesso non sembra vero che sia lo stesso cielo dei bombardamenti, dei pittori, dei giovani poeti e dei loro amori consumati di nascosto in un caffè. Amore vedessi com’è bello il cielo a via Margutta insieme a te a guardarlo adesso non sembra vero che sia lo stesso cielo che ci ha visto soffrire che ci ha visto partire che ci ha visto. Scende piano la notte sui ricordi di Roma c’è una donna che parte e un uomo che corre forse vuole fermarla si suicida la notte non so come salvarla. Amore vedessi com’è bello il cielo a via Margutta questa sera a guardarlo adesso non sembra vero che sia lo stesso cielo dell’oscuramento e dei timori dei giovani semiti e dei loro amori consumati di nascosto in un caffè. Amore sapessi com’era il cielo a Roma qualche tempo fa a guardarlo adesso non sembra vero che sia lo stesso cielo la stessa città che ci guarda partire volerci bene che ci guarda lontani e poi di nuovo insieme prigionieri di questo cielo di questa città che ci ha visto soffrire che ci ha visto partire che ci ha visto. Si suicida la notte non so come salvarla. (Luca Barbarossa) #sanremo #sanremo36 #sanremo86 #sanremo1986 #festivaldisanremo Brano: Via Margutta Immagine: Via Margutta - Alexander Sergej - 1968 https://www.instagram.com/p/B-PnGMcl8l-/?igshid=mvsd533ujqlk
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"... Amore vedessi com'e' bello il cielo a via Margutta questa sera a guardarlo adesso non sembra vero che sia lo stesso cielo dei bombardamenti, dei pittori, dei giovani poeti e dei loro amori consumati di nascosto in un caffe'..."
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