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#scarpe dal Venti al Cinquanta
fashionbooksmilano · 1 year
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Creatività a colori Creativity in colour Museo Salvatore Ferragamo
a cura di / edited by Stefania Ricci con la collaborazione di/ with the collaboration of Stefano Fabbri Bertoletti, Colin McDowell
Fotografie/Photographs Stefano Biliotti, Christopher Broadbent, Roberto Quagli
Sillabe, Livorno 2006, 216 pagine,21,5 x 33,5 cm, 300 ill.a colori, ISBN 9788883473616
euro 40,00
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Mostra Museo Salvatore Ferragamo 2006
Il Museo Salvatore Ferragamo espone la collezione in rotazioni biennali, di oltre 10.000 scarpe, create dal noto stilista dalla fine degli anni Venti al 1960, anno della morte, selezionando di volta in volta le calzature secondo temi che permettono di affrontare argomenti inediti e di esplorare nuovi campi d’indagine. La mostra è stata allestita per celebrare gli 80 anni di attività della nota casa di moda e per presentare il nuovo riallestimento e ampliamento del Museo di Palazzo Spini Feroni. L’evento organizzato per l’occasione è incentrato sulle calzature create dal celebre ‘calzolaio delle dive’ scelte secondo il criterio del colore. Tema deciso per il grande fascino che ebbe sull’artista al momento delle sue creazioni e che implica una sensibilità e una conoscenza delle discipline come la fisica, la filosofia e la chimica. La scelta delle calzature da esporre per la mostra vanno dal Venti al Cinquanta del XX secolo e riguardano quelle dai colori decisi e forti (il nero, il bianco, il rosso, il verde, il blu e il giallo) senza tralasciare l’oro e l’argento, da soli o combinati tra loro in perfetta armonia geometrica e in un sinuoso movimento di tinte. Il volume è corredato dai contributi di due specialisti quali Coin Mc Dowell, illustre esperto di moda, e Stefano Fabbri Bertoletti, storico della filosofia, che aiutano a capire cosa realmente sia il concetto di ‘colore’ e l’uso importantissimo e distintivo di esso nella e per la moda.
29/06/23
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i-love-things-a-lot · 5 years
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AVETE PRESENTE LA FANFIC AMADELLO CHE AVEVO PROMESSO? ECCOLA.
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Dopo-Festival
Finalmente era finita. Amadeus sciolse il colletto e sospirò a fondo.
Finalmente era finita, ripeté con più enfasi nella sua testa. Allora perché gli pareva ci fosse qualcosa che mancava?
Ripassò quell'ultima serata a menadito, dallo sketch comico iniziale alla dichiarazione del vincitore.
Il ballo lento.
Il cuore si bloccò a livello delle scarpe. Con mano automatica le tolse e fissò le calze nere senza vederle, incapace di muovere un muscolo.
Il pizzicato di quel pianoforte aveva coordinato il battito del suo cuore mentre il suo profumo si avvicinava, e Amadeus, con mossa timida, nascondeva il viso al vasto pubblico di quella sera.
Non si era mai sentito così prima.
Si riscosse. Non era né tempo né luogo per pensare a cose del genere: Fiorello era il suo migliore amico. Il fatto che in quel palco, in mondovisione, durante quei venti minuti passati a perder tempo in attesa delle votazioni, probabilmente causata per gran parte dal suo nervosismo, per non considerare l'attrito causato dal bacino di lui che premeva contro il suo, avesse avuto quella reazione, era puramente qualcosa di trascurabile.
Che le persone avessero visto?
Si svestì velocemente e ricambiò con i suoi abiti, decisamente più comodi dell'elegante completo usato quella sera.
Impossibile: era svanita velocemente dopo il colpo secco che Fiorello gli aveva riservato. Al ricordo fremette un po'.
Lascia perdere, pensó tra sé e sé, probabilmente nemmeno si ricorda.
Qualcuno bussò alla porta del suo camerino.
"Avanti", disse passando una mano nei capelli scarni. Ah, stava invecchiando.
Si girò e il cuore, che tanto già aveva sopportato quella settimana, si ritrovò di nuovo a tuonare sotto la camicia.
Fiorello esitò un attimo, richiuse la porta dietro di lui e infilò le dita nelle tasche di un paio di jeans scoloriti. Anche lui si era cambiato. Anche lui evitava il suo sguardo.
"Allora, uhm", iniziò senza poter finire, "Si può dire che è andata bene?"
"È andata bene, già" concluse Amadeus con un sospiro. Fiorello si mordicchió nervosamente il labbro, a cui scappò un risolino. L'amico deglutì.
"Bene".
"Già, bene. Si, già, uhm."
Le parole quasi si sovrapposero. Fiorello ridacchiò di nuovo, questa volta meno nervosamente.
"Senti, a proposito del ballo lento-"
"Sei sempre stato molto bravo ad intrattenere. Improvvisare per cinquanta minuti? Solo tu potevi riuscirci."
Fiorello sorrise piano. Finalmente, pensò Amadeus tremando senza saperne il motivo, finalmente il suo amico aveva ritrovato il coraggio di guardarlo negli occhi.
"In realtà avevo in mente di farlo da un po'." Allargò il sorriso, mostrando i denti e coinvolgendo anche gli occhi.
"Scommetto che ti aspettavi un bacio."
Il verso che uscì dalla bocca di Amadeus fu inumano. Quando Fiorello gli aveva chiesto se fosse etero gli era salito il primo sospetto. Quando invece si era avvicinato al suo viso, ecco, e poi all'ultimo secondo aveva cambiato angolazione e si era posato sulla sua spalla...
"Ah, lo sapevo! Ci ho anche pensato, e addirittura più volte, ma poi mi sono detto che no, così era decisamente troppo esplicito e avresti capito-"
"Vuoi provare ora?"
"-che quel bal-" Fiorello si fermò di botto, sorpreso ma felice senza motivo apparente.
"Puoi ripetere, scusa?" Gli chiese sgranando gli occhi.
Amadeus prese tutta la stanchezza accumulata durante quella settimana tremenda, la trasformò in coraggio e richiese: "Vorresti provarci ora?"
Come il grande showman che era, Fiorello non fece una piega. Allargò le braccia e sorrise beatamente.
"Ciurì, vieni qua."
Come un cane va dritto al padrone, così Amadeus andò dritto tra le braccia di Fiorello, che si richiusero attorno a lui in un dolce abbraccio. Questa volta, però, i loro nasi erano l'uno davanti all'altro. Il cuore di Amadeus cominciò a battere più forte.
Con estrema lentezza, Fiorello roteò il viso quel tanto che bastava a evitare uno scontro di nasi, e quando infine premette le labbra sulle sue, fu come se una vibrazione elettrica fosse stata trasmessa col contatto.
Istintivamente Fiorello lo strinse più forte, e altrettanto Amadeus si abbandonò, rendendo quel bacio decisamente più lungo di quelli che aveva dato scherzosamente a mezzo Festival durante le sere precedenti.
Le labbra fremettero, si mossero, si aprirono finalmente in un bacio più appassionato, i respiri si mescolarono e, nonostante l'enorme stanchezza, le membra si sciolsero.
Fu Amadeus ad interrompere per primo il contatto.
"Quindi hai sentito, sul palco, in quel momento...?"
Fiorello fece il finto tonto.
"Sentito? Non ho sentito nulla con le orecchie, no".
Amadeus arrossì fortissimo, ma non osó staccarsi dal suo migliore amico, consapevole del ritorno di quella stessa reazione che aveva nascosto sul palco alle migliaia di telespettatori.
"Intendevo, là sotto", balbettò ancora desiderando ardentemente di cadere in un buco sotterraneo e svanire per sempre.
Le mani di Fiorello si spostarono sulla parte più bassa della sua schiena, a confine con il sedere, e premettero abbastanza da permettere all'amico di notare che non era l'unico in quello stato. La cosa ebbe il potere di tranquillizzarlo come nient'altro prima.
"Intendi questo?" Sussurrò Fiorello in un tono così suadente e con un'espressione così rapita che Amadeus non poté fare a meno di ricambiare di nuovo il bacio.
Questa volta, però, fu Fiorello a staccarsi per primo.
"Mi hanno mandato a chiamarti, giù danno un banchetto per festeggiare la fine del Festival. Cosa ne pensi? Un po' di cibo, solo io, te e tutto il cast di Sanremo."
Amadeus rise di gusto. Accidenti, il suo migliore amico riusciva sempre a farlo ridere. Fiorello gli offrì il braccio.
"Prego, signore", disse in tono melenso. Amadeus lo accettó con piacere.
"Andiamo?" Chiese con un rinnovato sorriso. Per la prima volta dall'effettiva fine del festival, si sentiva realmente più leggero.
"Andiamo!" esclamò Fiorello aprendo la porta e tirando entrambi fuori dalla stanza.
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pangeanews · 5 years
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“Sapeva quando vivere e quando morire, mi torturò vederlo in miseria”: quando Wystan H. Auden chiese ad Hannah Arendt di sposarlo (e lei lo rifiutò)
Cinquant’anni fa accadono due cose decisive nella vita di Wystan H. Auden, uno dei poeti centrali – per opere, intensità saggistica e molteplice attitudine del verso – del secondo Novecento. Nel tardo agosto del 1969, in Svizzera, muore Erika Mann, la primogenita di Thomas. Nel 1935, Auden aveva accettato – su consiglio dell’amico amato Christopher Isherwood – di sposarla, per consentirle l’ottenimento del passaporto britannico e la conseguente fuga in UK. Era lesbica, Erika. In quello stesso anno, ripescando le lezioni del suo antico prof, J.R.R. Tolkien (era il 1926) e la passione per l’insularità islandese (ad esempio: Letters from Iceland, 1936), Auden traduce l’Edda poetica, il repertorio di miti medioevali, referto di re e spade e lupi e verbi, repertorio identitario di lassù. L’altra cosa decisiva è questa. Auden chiede ad Hannah Arendt di sposarlo. La Arendt ha grosso modo la sua età – 63 anni, quell’anno – qualche anno prima ha pubblicato il celebratissimo La banalità del male. La filosofa rifiuta il poeta. “Il poeta Wystan H. Auden, con cui Hannah era amica dalla fine degli anni cinquanta, andò nel suo appartamento e le fece una proposta di matrimonio. Hannah, ovviamente, gli disse di no, ma questo non la sollevò, perché presagiva che Auden avrebbe preso male questo rifiuto. Auden negli ultimi anni era decaduto da quell’elegante gentleman che era a un clochard trascurato ed era chiaramente disperato nel profondo. Dopo la risposta negativa di Hannah, Auden si ubriacò senza freni e Hannah dovette trascinarlo sull’ascensore. ‘Io odio la compassione’, scrisse Hannah allora a Mary McCarthy, ‘mi spaventa, da sempre, e credo di non aver mai conosciuto qualcuno che abbia provocato in me così tanta compassione’” (da Alois Prinz, Io Hannah Arendt, Donzelli, 1999). Nel 1972, per Faber, Auden pubblica l’ultimo libro di poesie, Epistle to a Godson; a Vienna, il 28 settembre del 1973, il poeta, dopo una lettura di poesie, muore, infarto. Poeta geniale (le Poesie scelte sono edite da Adelphi, 2016, ma sarebbe bello pubblicare come si deve, singolarmente, capolavori come L’età dell’ansia e Horae canonicae), il 12 gennaio del 1975 è narrato dalla Arendt in un lungo articolo, sul “New Yorker”, Remembering W. H. Auden (che proponiamo, parzialmente, nella versione di Andrea Bianchi). A fine anno, il 4 dicembre, morirà anche lei, Hannah. “Penso sempre a Wystan”, scrive, due giorni dopo la sua morta, ancora a Mary McCarthy, “e alla miseria della sua esistenza, e al fatto che mi sia rifiutata di prendermi cura di lui quando venne e pregò di essere protetto”. (d.b.)
***
Incontrai Auden tardi. Tardi sia per me che per lui. Eravamo entrambi in quell’istante nel quale la semplice e comprensiva intimità amicale che formiamo da giovani non ci è più disponibile: non resta abbastanza davanti a noi, né potremmo sperarlo, e quindi non condividiamo l’intimità. Perciò fummo eccellenti amici ma senza confidenze. Di più, in lui vi era una riserva che scoraggiava la familiarità – né da tedesca misi alla prova questo silenzio british. Piuttosto, lo rispettai lieta, quasi fosse la segretezza necessaria al grande poeta, uno che era riuscito a imporsi di non parlare in prosa, in modo sciatto e casuale, di cose sulle quali poteva discorrere in modo più soddisfacente tramite una concentrazione densa e poetica.
Sarà la reticenza la deformazione professionale del poeta? Nel caso di Auden questo sembrava verosimile perché molti dei suoi lavori, con totale semplicità, sorgono dalla parola parlata, dagli idiomi quotidiani – come “Lay your sleeping head, my love, Human on my faithless arm.” [Deponi il tuo capo assonnato, amore mio, sul mio semplice braccio senza fede]. Questo genere di perfezione è molto rara; la troviamo nelle migliori poesie di Goethe e anche, decisamente, in quelle di Puskin, giacché la loro caratteristica è essere intraducibili. Simili poesie d’occasione sono slogate dall’originale e poi si dissolvono in una nuvoletta banale. Qui tutto dipende da “gesti fluenti che elevano i fatti dal prosaico al poetico” – un punto evidenziato dal critico Clive James nel saggio su Auden apparso sul numero del Dicembre 1973 di Commentary. Se questo stile fluente è raggiunto, siamo convinti magicamente che il linguaggio quotidiano sia latentemente poetico e, ammaestrati dallo sciamanesimo poetico, apriamo per bene le orecchie ai veri misteri della lingua. Anni fa Auden mi risultò intraducibile: fui convinta della sua grandezza. Tre traduttori tedeschi si erano dati da fare e avevano fatto stramazzare senza troppi scrupoli una delle mie poesie favorite, “If I could tell you”, la quale sorge in modo naturale da giri di frase colloquiali come “Time will tell” e “I told you so”:
Time will say nothing but I told you so. Time only knows the price we have to pay; If I could tell you I would let you know.
If we should weep when clowns put on their show, If we should stumble when musicians play, Time will say nothing but I told you so.
The winds must come from somewhere when they blow, There must be reasons why the leaves decay; Time will say nothing but I told you so.
Suppose the lions all get up and go, And all the brooks and soldiers run away; Will Time say nothing but I told you so? If I could tell you I would let you know.
[Il tempo non lo dirà, io te lo dicevo. / Solo il tempo sa il prezzo da pagare; / se lo sapessi te lo direi. // Se dovessimo piangere quando i clown si danno da fare, / se dovessimo inciampare quando suonano i musicisti, / il tempo non lo dirà, io te lo dicevo. // Il vento verrà pure da qualche parte se ora soffia qui, / ci saranno cause che fan gialle le foglie; / Il tempo non lo dirà, io te lo dicevo. // Ora pensa che i Leoni prendono e se ne vanno, / e tutti i ruscelli e soldati se ne fuggono; / il tempo non lo dirà, ma io? / Potessi dirtelo, lo sapresti]
Vederlo alla fine caduto in miseria, senza una giacca o un paio di scarpe di riserva, mi fece capire vagamente perché si nascondesse dietro il motto “Enumera le tue fortune”; pure, trovavo difficile capire appieno perché rimanesse in miseria senza riuscire a far nulla in quelle circostanze assurde che gli rendevano insopportabile quel che gli rimaneva da vivere. Era ragionevolmente famoso e una simile ambizione non contò mai troppo per lui perché era il meno vanesio tra gli autori che conoscevo – del tutto immune alle vulnerabilità infinite che sappiamo essere prodotte dalla gretta vanità. Non dico che fosse umile; nel suo caso era la confidenza con se stesso che lo proteggeva dagli adulatori e questa sua qualità esisteva prima di ogni riconoscimento e di ogni fama, prima addirittura di ogni successo.
*
Geoffrey Grigson, nel Times Literary Supplement, riporta questo dialogo tra il giovanissimo Auden e il suo relatore a Oxford. “Tutor: ‘E cosa farà, Mr. Aunde, quando lascerà l’università? Auden: ‘Farò il poeta.’ Tutor: ‘Bene, in questo caso troverà utile aver insegnato Inglese.’ Auden: ‘Non capisce. Farò il grande poeta’”. Questa confidenza non lo lasciò mai, ma non gli proveniva da confronti con gli altri o dal tagliare per primo il traguardo; era naturale, ben connessa, ma non identica, con la sua enorme abilità a trattare la lingua, e a farlo rapidamente, quando gli andava a genio. E poi non gli andava nemmeno a genio, perché non esibiva la perfezione finale, né vi aspirava. Sempre tornava alle sue vecchie poesie, d’accordo con Valéry quando dice che una poesia non è mai chiusa per sempre, ma solo abbandonata. In altre parole Auden era benedetto da quella rara confidenza in se stesso che non abbisogna di ammirazione e di buone opinioni altrui; e che può benissimo reggere l’autocritica senza cadere nel trabocchetto del dubbio perpetuo su se stessi. E la cosa spesso la confondiamo con l’arroganza: Auden non fu mai arrogante tranne quando qualche volgarità lo provocava; allora si proteggeva con i modi rudi e abbastanza improvvisi, tipici dell’inglese di razza. […]
*
Auden era più saggio di Brecht, ma non era sveglio quanto lui. Auden sapeva che “la poesia non fa accadere nulla”. Per lui era piena insensatezza che il poeta avocasse a sé speciali privilegi o chiedesse permessi che siamo felici di elargire in gratitudine a tutti. Nulla era maestoso in Auden quanto la sua integra sanità e la sua salda reputazione per la sanità; ai suoi occhi tutti i generi di follia erano assenza di disciplina – indecente, indecente usava dire. Il fatto principale era non avere illusioni, non accettare pensieri (tantomeno se sistematici) che ci chiudessero gli occhi davanti alla realtà. Auden rigettò le sue immature credenze leftist per gli eventi che sappiamo: processi a Mosca, patto Hitler-Stalin, esperienze di guerra civile spagnola. Furono gli eventi a mostrare tutta la sinistra come “disonesta e vergognosa”, come ebbe a scrivere introducendo Collected Shorter Poems. Così è chiaro per sempre da dove saltava fuori il suo:
History to the defeated may say alas but cannot help nor pardon.
[La storia agli sconfitti / sta bene se lo dite ma non giova né perdona.]
E questo equivaleva a dire che “quel che accade è tutto per il meglio”. Auden protestava di non aver mai creduto in questa pessima dottrina, anche se qui sono in dubbio perché quei versi sono troppo buoni, troppo precisi per essere stati prodotti dalla sola efficacia retorica; inoltre, Auden sarebbe stato l’unico a scostarsi dall’ottimismo dei leftist degli anni Venti e Trenta, se veramente avesse creduto alla poesia e non al senso di quello che scriveva. Comunque sia venne il tempo in cui
In the nightmare of the dark All the dogs of Europe bark . . .
Intellectual disgrace Stares from every human face—
[Nell’incubo del buio / Tutta Europa latra . . . / Disgrazia di chi pensa / La noti su tutti i volti]
Ed era il momento in cui sembrava che il peggio sarebbe successo e il male fosse l’unico a cavarsela. Il patto Hitler-Stalin era la svolta da sinistra; ora andavano abbandonate tutte le fedi nella storia quale tribunale finale che giudica le sorti terrene.
Negli anni Quaranta furono in molti a rivoltarsi contro le loro credenze, ma lo fecero dopo Auden, e in ogni caso pochi capirono quel che fosse andato storto dentro il meccanismo fideistico. Ma costoro non smisero del tutto le loro devozioni nella storia e nel successo: semplicemente e di fatto, cambiarono treno. Il treno socialista e comunista era andato male, e presero il biglietto per un viaggio nelle terre del Capitale, dove trovarono Freud insieme a qualche truciolo marxista, un treno ben sofisticato insomma. All’opposto, Auden si fece cristiano e quindi lasciò pure lui il treno della storia. Non so se Stephen Spender abbia ragione a ribadire che la fede fosse la sua stringente necessità; suppongo che questa necessità fosse semplicemente scrivere versi e tutto sommato sono ragionevolmente certa che la sua sanità, il grande senso che illuminava tutta la sua prosa saggistica e di recensore sia debitore verso l’ortodossia e il suo scudo protettivo. […]
*
Certamente sembra poco probabile che il giovane Auden, quando decise di dover diventare un grande poeta, conoscesse il prezzo da pagare, e penso che verso la fine – quando la semplice forza fisica del cuore se ne svaniva e non gli faceva reggere le emozioni che comunque aveva il talento per trasformare in elogio – considerasse il prezzo come troppo caro. In ogni caso noi, i suoi lettori, possiamo solo essere grati che pagò fino all’ultimo centesimo per la gloria durevole della lingua inglese. E i suoi amici possono trovare qualche consolazione nello scherzo sublime che Auden tende loro dall’altra parte del mondo – per molte ragioni, il poeta confidò a Spender che “la sua anima saggia e incosciente scelse per conto suo il giorno ideale per andarsene”. La saggezza di sapere “quando vivere e quando morire” non è concessa ai mortali ma Wystan, siamo indotti a credere, potrebbe averla ricevuta quale suprema ricompensa, quella che gli dèi crudeli elargiscono al loro servitore più fedele.
Hannah Arendt
 *Traduzione italiana di Andrea Bianchi
**In copertina: “Wystan H. Auden: ritratto con sigaretta”, fotografia di Cecil Beaton
L'articolo “Sapeva quando vivere e quando morire, mi torturò vederlo in miseria”: quando Wystan H. Auden chiese ad Hannah Arendt di sposarlo (e lei lo rifiutò) proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2vCqga0
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iostomentendo · 4 years
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Sul fenomeno dei lavori del cavolo
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Di David Graeber.
Nel 1930, John Maynard Keynes aveva previsto che, entro la fine del secolo, lo sviluppo della tecnologia sarebbe stato tale da consentire a paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti di avere una settimana lavorativa di quindici ore. Ci sono tutti i motivi per credere che avesse ragione. Dal punto di vista tecnologico, le condizioni esistono già.
Ciononostante non è accaduto.
Al contrario, la tecnologia è servita semmai per trovare il modo di farci lavorare tutti di più. Per riuscirci si sono dovuti creare impieghi che di fatto sono inutili. Ampi strati della popolazione, in particolare in Europa e nel Nord America, passano l’intera vita lavorativa a svolgere compiti che in cuor loro ritengono non andrebbero affatto svolti. Il danno morale e spirituale che ne deriva è grave. È una cicatrice che segna la nostra anima collettiva, anche se praticamente nessuno ne parla.
Come mai l’utopia promessa da Keynes – attesa con impazienza ancora negli anni Sessanta – non si è mai concretizzata?
La spiegazione più comune oggi è che lui non aveva calcolato l’enorme crescita del consumismo. Davanti alla scelta tra meno ore e più giochi e divertimenti, abbiamo collettivamente optato per questi ultimi. Si tratta di un bel racconto morale, ma basta rifletterci un attimo e si capisce che non può essere vero. Certo, è dagli anni Venti che assistiamo alla creazione di un’infinita varietà di nuovi impieghi e settori, ma ben pochi di questi hanno a che fare con la produzione e vendita di sushi, iPhone o scarpe da ginnastica alla moda. Che cosa sono allora di preciso questi nuovi lavori? Un recente studio ha comparato l’occupazione negli Stati Uniti nel 1910 e nel 2000 offrendoci un’immagine chiara (e, faccio notare, riprodotta abbastanza fedelmente nel Regno Unito). Nel corso dell’ultimo secolo, il numero delle persone impiegate in lavori domestici, nell’industria e nel settore agricolo è crollato sensibilmente. Allo stesso tempo, sono triplicati i «lavoratori professionisti, dirigenziali, impiegatizi, del commercio e dei servizi», crescendo «da un quarto a tre quarti dell’occupazione complessiva». In altre parole, i lavori produttivi, proprio come previsto, sono stati in buona parte automatizzati. (Perfino se nel calcolo si escludono i lavoratori dell’industria a livello globale, comprendendovi le masse di quelli indiani e cinesi, questi comunque non rappresentano più una percentuale della popolazione mondiale grande quanto in passato.) Tuttavia, invece di una riduzione significativa delle ore lavorative, tale da consentire alla popolazione mondiale di dedicarsi ai propri progetti, piaceri, visioni e idee, abbiamo assistito a una gonfiatura non tanto del settore dei «servizi» quanto di quello amministrativo, fino alla creazione di settori totalmente nuovi come i servizi finanziari o il telemarketing, o all’espansione senza precedenti di quelli come il diritto societario, l’amministrazione universitaria e sanitaria, le risorse umane e le relazioni pubbliche. E i numeri di questa crescita non tengono conto di tutte quelle persone che hanno il compito di fornire supporto amministrativo, tecnico o di sicurezza a questi settori né, per altro, della miriade di imprese ausiliarie (chi lava i cani o consegna le pizze di notte) che esistono solo perché tutti gli altri passano troppo tempo a lavorare nei suddetti settori.
Sono questi quelli che propongo di definire «lavori del cavolo».
È come se qualcuno ci costringesse a svolgere compiti privi di scopo soltanto per tenerci tutti occupati. Ed è proprio qui che si annida il mistero. Nel capitalismo è precisamente questo che non dovrebbe accadere.
Certo, nei vecchi e inefficienti Stati socialisti, come l’Unione Sovietica, dove l’occupazione era considerata tanto un diritto quanto un sacro dovere, il sistema inventava tutti i lavori che potevano servirgli. (È il motivo per cui nei grandi magazzini sovietici occorrevano tre commessi per vendere un pezzo di carne.) Ma, ovviamente, questo è appunto il tipo di problemi che la concorrenza di mercato dovrebbe risolvere. In base alla teoria economica, se non altro, l’ultima cosa che un’impresa a scopo di lucro farà sarà sborsare soldi a lavoratori di cui non ha affatto bisogno. Eppure, per qualche ragione, succede proprio questo. Quando le aziende effettuano spietati tagli del personale, i licenziamenti e le accelerazioni dei ritmi ricadono invariabilmente su quella categoria di persone che si occupa di produzione, spostamento, aggiustamento e manutenzione. Per qualche strana alchimia che nessuno è in grado di spiegare, di recente il numero di passacarte stipendiati pare in crescita, e sempre più impiegati si ritrovano – non diversamente dai lavoratori sovietici, a dire il vero – a lavorare quaranta, se non cinquanta ore alla settimana, in teoria, poiché di fatto ne lavorano quindici, proprio come aveva previsto Keynes: il resto del tempo, lo trascorrono a organizzare seminari motivazionali o a parteciparvi, ad aggiornare i loro profili su Facebook, o a scaricare serie televisive. La risposta chiaramente non è di tipo economico: è invece morale e politica. La classe dirigente si è resa conto che una popolazione felice e produttiva con tempo libero a disposizione costituisce un pericolo mortale. (Provate a pensare a quel che si è messo in moto quando si è profilata questa situazione negli anni Sessanta.) D’altra parte, per questa classe è straordinariamente vantaggiosa l’idea che il lavoro sia un valore etico in sé, e che nulla spetti a chi non è disposto a sottostare per la maggior parte delle sue giornate alla severa disciplina che esso comporta. Una volta, mentre stavo considerando la crescita apparentemente senza fine dei compiti amministrativi nei dipartimenti universitari britannici, ho avuto una visione di come potrebbe essere l’inferno: è un insieme di individui che passano buona parte del tempo lavorando a qualcosa che non amano e che neanche sanno fare particolarmente bene. Immaginate che siano stati assunti perché sono ottimi falegnami e che poi scoprano di dover trascorrere gran parte del tempo a friggere pesce. E ipotizzate che non sia nemmeno un lavoro da svolgere davvero, o perlomeno che ci sia solo una quantità limitata di pesci da friggere. In qualche modo, però, tutti provano rancore al pensiero che alcuni colleghi possano passare più tempo a fabbricare mobili anziché friggere pesce come invece dovrebbero, cosicché nel giro di poco accumulano enormi mucchi di pesce cotto male e inservibile in tutta la bottega, ed è l’unica cosa che fanno. Ritengo che questa sia una descrizione piuttosto precisa di come funziona sotto il profilo etico la nostra economia. Ora, mi rendo conto che una tesi come questa susciterà immediate obiezioni: «Chi sei tu per dire quali lavori siano davvero “necessari”? E poi che cosa significa “necessario”? Sei un professore di antropologia: che “bisogno” c’è di una simile professione?» (e senza dubbio un bel po’ di lettori di tabloid considererebbe l’esistenza stessa del mio lavoro come un esempio perfetto di spreco della spesa pubblica). Da un certo punto di vista, questo è senz’altro corretto. Non può esistere infatti una misura obiettiva del valore sociale. Non pretendo di contraddire chi è convinto di dare un contributo significativo alla società, anche se in realtà non lo sta facendo. Ma come la mettiamo con quelle persone che sono giunte da sé alla conclusione che i loro lavori sono privi di significato?
Non tanto tempo fa, ho ripreso i rapporti con un amico di scuola che non vedevo da quando avevo quindici anni. Mi ha stupito scoprire che nel frattempo era diventato prima poeta, poi cantante di un gruppo indie rock. Avevo sentito alcune delle sue canzoni alla radio, senza però avere idea che a interpretarle fosse qualcuno che conoscevo. Era senz’altro brillante, originale, e il suo lavoro aveva indubbiamente rischiarato e reso migliore la vita di molta gente in tutto il mondo. Eppure, dopo un paio di album sfortunati, la casa discografica l’aveva scaricato e lui si era ritrovato, oppresso dai debiti e con una figlia piccola, a «fare la scelta obbligata di tante persone senza vocazione: la facoltà di legge», per dirla con le sue parole. Adesso è un legale d’azienda in una nota società di New York. Lui per primo ammette che il suo lavoro è totalmente privo di significato, non dà alcun contributo alla società e, a suo parere, non dovrebbe affatto esistere.
Ci si potrebbe porre un sacco di domande a questo punto, a partire da: che cosa ci dice della nostra società il fatto che sembri generare una domanda estremamente limitata di musicisti-poeti di talento e invece una domanda apparentemente inesauribile di specialisti di diritto societario? (La risposta è: se l’1% della popolazione mondiale controlla la maggior parte della ricchezza disponibile, il cosiddetto «mercato» non potrà che riflettere ciò che quell’1%, e nessun altro, ritiene utile o importante.) Ma, ancora di più, ciò dimostra che la maggioranza di coloro che svolgono lavori inutili in definitiva ne è consapevole. Non credo infatti di essermi mai imbattuto in un legale d’azienda che non ritenesse il proprio lavoro senza senso. La stessa cosa vale per quasi tutti i nuovi settori citati prima. Esiste un’intera categoria di professionisti stipendiati che, se vi capitasse di incontrarli a una festa e confessaste di fare qualcosa che potrebbero considerare interessante (l’antropologo, per esempio), preferirebbero evitare del tutto l’argomento del lavoro. Ma basta farli bere un po’ e si lanceranno in filippiche su quanto sono inutili e stupidi in realtà le loro occupazioni.
Qui si annida una profonda violenza psicologica. Come è possibile anche solo provare a parlare di dignità nel lavoro se si ha l’intima convinzione che la propria occupazione non dovrebbe esistere? Come può tutto ciò non creare profonda rabbia e risentimento? Tuttavia, come nel caso degli addetti alla frittura del pesce, l’ingegnosità della nostra società ha fatto sì che la classe dominante escogitasse un modo per assicurarsi che quella rabbia si rivolga proprio contro coloro che di fatto svolgono un lavoro sensato. Per esempio: nella nostra società pare valere la regola secondo la quale quanto più è evidente che il lavoro di qualcuno fa del bene agli altri, tanto meno è probabile che l’interessato venga pagato per farlo. Di nuovo, è difficile trovare una misura oggettiva, ma per farsi un’idea basta chiedersi: che cosa succederebbe se tutta questa categoria di persone dovesse semplicemente sparire? Dite quel che volete delle infermiere, dei netturbini o dei meccanici, ma è evidente che se dovessero svanire in una nuvola di fumo le conseguenze si vedrebbero subito e sarebbero catastrofiche. Un mondo senza insegnanti o portuali si troverebbe presto nei guai, così come uno senza scrittori di fantascienza o musicisti ska sarebbe un posto meno vivibile. Non è affatto scontato invece che l’umanità soffrirebbe se tutti gli amministratori delegati di fondi di private equity, i lobbisti, i professionisti delle pr, gli attuari, gli addetti al telemarketing, i consulenti legali o certi pubblici ufficiali dovessero svanire a loro volta. (Anzi, sono in molti a sospettare che si starebbe decisamente meglio.) Comunque, a parte una manciata ben selezionata di eccezioni (come è il caso dei medici), la regola funziona incredibilmente bene.
In modo ancora più perverso, sembra ormai diventato senso comune che così va il mondo. Questo rappresenta uno dei segreti punti di forza del populismo di destra. Ve ne rendete conto quando i tabloid fanno montare il rancore nei confronti dei lavoratori della metropolitana per aver paralizzato Londra nel corso delle trattative sui contratti: il fatto stesso che i lavoratori della metropolitana possano bloccare una metropoli dimostra che il loro lavoro è realmente necessario, ma sembra che sia proprio questo a dar fastidio alla gente. La cosa è ancora più evidente negli Stati Uniti, dove i repubblicani hanno riscosso un notevole successo mobilitando il risentimento verso gli insegnanti e gli operai del settore automobilistico per i loro presunti stipendi e benefici eccessivi (ma non, è il caso di notare, verso gli amministratori scolastici o i dirigenti delle aziende automobilistiche, l’autentica causa del problema). È come se dicessero loro: «Ma se insegni ai bambini! O costruisci macchine! Fai un vero lavoro! E oltre a tutto ciò hai il coraggio di pretendere anche pensioni e un’assistenza sanitaria da ceto medio?».
Se qualcuno avesse ideato apposta un mercato del lavoro perfettamente funzionale a conservare il potere del capitale finanziario, non si vede come avrebbe potuto fare di meglio. I veri lavoratori produttivi vengono incessantemente spremuti e sfruttati. Gli altri si suddividono in uno strato di disoccupati terrorizzati e vituperati da tutti e in un più vasto strato di quanti sono pagati in sostanza per non fare nulla, ricoprendo ruoli che li spingono a identificarsi con le idee e la sensibilità della classe dirigente (manager, amministratori ecc.) – nonché dei suoi avatar finanziari – e covando allo stesso tempo un rancore sommerso nei confronti di chiunque abbia un lavoro con un evidente e innegabile valore sociale. È chiaro che questo sistema non è mai stato architettato consapevolmente, ed è invece scaturito da quasi un secolo di tentativi ed errori, ma rappresenta la sola spiegazione del perché, nonostante le nostre capacità tecnologiche, non stiamo lavorando tutti fra le tre e le quattro ore al giorno.
Strike! Agosto 2013
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ufficiosinistri · 4 years
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Un uomo tranquillo
“Chiamami quando sei lì dove c’è la fattoria, ninìn, mi raccomando!” Era il pomeriggio che precedeva Italia – Bulgaria e mi trovavo in Irlanda. Avevo sentito mia nonna al telefono, da una cabina telefonica verde scuro, posta accanto a un ristorante che vendeva, sul retro, cartocci di pesce. Eravamo però lontani dal mare e venivano servite trote e salmoni, mi disse il ragazzo addetto alla friggitura. Era un luogo pieno d’acqua, quello in cui mi trovavo. Scendeva del cielo, quell’estate del 1994. Ma la trovavi anche dietro agli angoli delle strade, ti sgorgava dai sentieri e ti inzuppava le scarpe da ginnastica, si stendeva lungo laghi e fiordi, rombava nei torrenti. Era impossibile non cucinare il pesce, quindi. Una terra d’acqua, dove l’acqua era l’elemento principale nella composizione dei paesaggi. In inglese, invece, con il termine “water career”, si è soliti indicare una carriera di un giocatore che, pur dotato di buone potenzialità ed evidenti doti atletiche, non abbia inciso più di tanto, nella sua storia agonistica, a causa, nella maggior parte dei casi, di un carattere indolente e poco dedicato al sacrificio per la squadra. Il principale indiziato nel ricoprire questo ruolo, nella storia della Premier League, è stato, da sempre, Francis Benali. Le sue qualità tecniche, da terzino sinistro vecchio stampo, lo hanno però reso indispensabile per scrivere la storia calcistica di un’intera città, Southampton. La sua fu una “water career”, può darsi, ma le sue giocate, da attaccante girovago nonostante fosse un difensore, parallelamente alla sua innata indole da istrione, facevano sì che fosse capace di raggiungere un’innata omeostasi tra ciò che il suo bagaglio culturale da nativo di una zona portuale e multietnica, gli offriva, ed il mondo esterno del campo da calcio, degli allenatori, dei suoi tifosi, delle tensioni, degli stipendi, dei suoi compagni di squadra tra cui possiamo ricordare, tra gli altri, dei calciatori qualunque come Matt Le Tissier e Alan Shearer.
Tumblr media
Riuscì a giocare con un braccio rotto, riuscì a segnare gol fantasmagorici, riuscì a inventare nuovi modi per fare fallo. Un equilibrio simile a quello che rifletteva ai suoi visitatori il paesaggio irlandese in cui mi trovavo quell’estate, noleggiando una bicicletta troppo pesante per i miei cinquanta chili, se si tiene conto anche del vento che sferzava quei paesaggi. Un paesaggio omeostatico, dominato dalle acque e da una recondita instabilità, ma nel complesso equilibrato e inerziale: quasi come potrebbe essere, vista dall’esterno,l’intera carriera di Benali al Southampton, da quando esordì nel 1988. Mia nonna, però, aveva in mente solo John Wayne nel film di John Ford. Non “Ombre Rosse”, bensì “Un uomo tranquillo”. Lo avrà guardato venti volte, in vita sua, ma quell’occasione non le sarebbe sicuramente capitata ancora. Mi avvicinai alla cabina telefonica e diedi uno sguardo attorno, le famiglie si appoggiavano ai totem del parco naturale nel quale mi trovavo a bighellonare, che spiegavano cosa fosse una torbiera, come si stesse creando e da dove spirassero i venti. La linea ci mise tantissimo, prima di arrivare a far squillare il telefono di mia nonna, nel caldo della Pianura Padana. “Ciao ninìn, ti sei ricordato?” Gli scellini iniziarono a scendere inesorabilmente. “Ci sono, state bene lì? Fa caldo?” – le solite cose “E come va in Irlanda, siete lì dove c’è l’uomo tranquillo?” “Sì, ci siamo, non so se la fattoria sia questa qui che vediamo dalla cabina, ma ti portiamo le foto, quando torniamo!” Benali fece volare Paolo Futre contro dei cartelloni pubblicitari, quando il portoghese giocava nel West Ham, dopo una brevissima apparizione nelle fila del Milan. Fu uno dei pochi momenti in cui il terzino perse la testa, nonostante una reputazione da giocatore senza filtri. Uscì dal campo senza incrociare lo sguardo di nessuno e andò negli spogliatoi. Non era nemmeno partito come titolare, in quell’occasione, ad Upton park, e si fece sbattere fuori senza passare dal “via”. La squadra della sua amata città perse per due reti a uno una brutta partita, e si fece sbattere fuori in un battito di ciglia. Ma era questo, ciò che volevano a Southampton. Desideravano celebrare una bandiera lontana dai giocatori “simbolo” che alimentavano le speranze delle altre squadre inglesi che, a conti fatti, riuscivano a vincere di più rispetto ai Saints. Volevano un player capace di dimostrare sentimenti nei confronti degli avversari e del calcio moderno, a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, un calciatore concittadino allenato alla modernità ma allo stesso modo dotato di empatia e umanità. Ordinato, mordace, dotato di uno stile ineguagliabile. Nessuno riuscirà mai a prendere il suo posto, lungo le sponde dei quale canale o braccio di mare chiamato Solent: quello di un giocatore, che con la sua connettività tra essere umano e giocatore di calcio, riuscì a creare un pensiero diverso di tifo e sostegno senza mai, però, divenire un eroe. Distante anni luce dai simulacri e dagli altri, anosmici calciatori che, per una pura coincidenza, siano diventati oggetto di culto da parte di tifosi ed allenatori. Un uomo tranquillo.
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Domino Solutions: Adidas diventa leader dell'abbigliamento sportivo
Adidas Ag (ADS.DE) è un’impresa multinazionale con sede a Herzogenaurach, in Baviera (Germania), produce calzature, abbigliamento e altri articoli sportivi, per attività professionale, dilettantistica o per il tempo libero. È il maggiore produttore di abbigliamento sportivo in Europa e oggi il maggiori a livello mondiale. I suoi prodotti sono tutti identificati da tre strisce parallele e disposte in modo obliquo.
Le origini dell’attuale azienda si possono far risalire al 1924 quando Adolf Dassler (detto Adi), figlio di un calzolaio, aveva cominciato a produrre scarpe da calcio nella lavanderia della madre a Herzogenaurach, una cittadina della Baviera. In quell’anno assieme al fratello maggiore Rudolf Dassler, fondò la Gebrüder Dassler Schuhfabrik (fabbrica di scarpe dei fratelli Dassler). Adi si occupava di fabbricare materialmente le scarpe mentre Rudolf si occupava della distribuzione e della parte gestionale. L’azienda ottenne subito un grande successo e guadagnò la ribalta internazionale già durante i Giochi olimpici del 1929 e del 1936, equipaggiando le medaglie d’oro Lina Radke e Jesse Owens.
Nel 1947, a causa di dissapori che erano già sorti durante la II guerra mondiale, i due fratelli si divisero. Rudolf formò una sua azienda che chiamò inizialmente Ruda (unendo le prime due lettere del nome Rudolf e del cognome Dassler) e che poi nel 1948 ribattezzò in Puma Schuhfabrik Rudolf Dassler, oggi nota semplicemente come Puma. Adolf invece chiamò la sua azienda “Adi Dassler adidas Sportschuhfabrik” e come logo una “scarpa con le tre strisce”.
Adi scoprì poi negli anni cinquanta che una marca finlandese di scarpe, la Karhu, fondata due anni prima della Adidas, adottava già le tre bande come marchio, oltre ad un orso (Karhu in finlandese): decise allora di comprare l’esclusiva delle “tre strisce” dalla Karhu per una cifra pari a circa 1600 euro attuali più due bottiglie di whisky.
Nel 1967, l’azienda lancia il suo primo capo da abbigliamento, la tuta, indossata da Franz Beckenbauer aprendo cosi ad un nuovo business, un’azienda che fino ad ora era famosa per le scarpe. Ciò che ha sempre contraddistinto Adidas e il suo fondatore, era la capacità di creare prodotti innovativi, guadagnandosi la fiducia degli atleti. Il segreto del successo di Adi Dassler ha avuto un ingrediente personale aggiuntivo, egli ha sempre incontrato atleti (alcuni di loro anche solo in visita a Herzogenaurach), che hanno ascoltato attentamente ciò che diceva e che hanno posto costantemente osservazioni su ciò che poteva essere migliorato o addirittura inventato per sostenere le loro esigenze.
Nel 1970, adidas ha conquistato un altro ramo dell’industria dei beni sportivi, fornendo la palla ufficiale, TELSTAR, per la Coppa del Mondo FIFA 1970. Come dice già il nome TELSTAR, la palla è stata progettata per migliorare la visibilità della TV in bianco e nero. Era l’inizio di un lungo sodalizio, con Adidas che ha fornito il pallone per ogni partita ufficiale di tutte le FIFA World Cup a seguire.
Nel 1972, il mondo osservava la Germania quando i Giochi Olimpici si sono aperti a Monaco. Appena in tempo per l’evento, adidas ha presentato un nuovo logo: il Trifoglio, simboleggiando le prestazioni. Alla morte di Adi Dassler nel ’78, la società è stata guidata dal figlio di Adi, Horst, con il sostegno della madre Käthe, riprendendo – tra le altre cose – a padroneggiare la sua invenzione, il marketing sportivo moderno.
Curiosità
Negli anni 80 la divisione permeava così tanto la vita cittadina che Herzogenaurach divenne famosa per essere “la città dei colli piegati”, per via del fatto che le persone, prima di rivolgere la parola a qualcuno, erano solite controllare quali scarpe portasse l’interlocutore. Se il resto della Germania era diviso dalla cortina di ferro in “wessie” e “oessie”, Herzogenaurach era divisa dalle scarpe in “adisassler” e “pumeraner”. La cittadina ha due squadre di calcio, l’ASV Herzogenaurach per l’Adidas e l’FC Herzogenaurach per la Puma; vi sono i bar, i pub, le macellerie, i quartieri residenziali e così via per la fazione Adidas e quelli per la fazione Puma; se in un ristorante vi era seduto qualcuno della fazione avversa, gli altri si sedevano il più lontano possibile; persino i matrimoni “misti” erano, e forse un po’ lo sono tuttora, scoraggiati e si narra ancora la storiella secondo la quale una volta un ragazzo che lavorava per Adidas si innamorò della figlia di un dirigente di Puma e, dopo averla sposata, fu costretto a cambiare fazione con tutta la famiglia, con sommo dispiacere di suo padre che non si riprese mai completamente. Nel 2015 il sindaco della cittadina bavarese, che per “par condicio” indossa a giorni alterni vestiti Puma e Adidas mentre quando è in vacanza li mischia, ha fatto costruire una nuova fontana con raffigura un calzolaio e bambini che giocano al tiro alla fune: uno indossa scarpe con le tre strisce, l’altro scarpe con il felino.
Innovazione e tecnologia
Oggi sembra abbastanza comune, ma già negli anni ’80, un computer non apparteneva ne tantomeno poteva avere la forma per entrare nelle tue scarpe. Questo non ha impedito ad Adidas di metterlo lì. Un’innovazione prima del suo tempo, il Micropacer presentava un sistema – noto oggi come miCoach – che fornisce statistiche di rendimento agli atleti.
L’improvvisa morte di Horst Dassler nel 1987, due anni dopo la morte di sua madre Käthe, significava acque turbolenti per Adidas. Dopo che la famiglia Dassler è uscita dalla società, sono state cambiate leadership e prese decisioni strategiche discutibili che hanno causato una perdita record nel 1992 e portato la società vicina al fallimento.
Rilancio
Robert Louis-Dreyfus il nuovo CEO ha fatto sembrare facile un lavoro quasi impossibile. Insieme al suo partner Christian Tourres, capì che l’adidas quasi in bancarotta non aveva bisogno di essere reinventata, semplicemente bastava darle una nuova direzione. Ha trasformato il gigante addormentato da venditore ad azienda di marketing e ha guidato la società Adidas indietro sul percorso di crescita. Nel 1995, diventa una società pubblica, quotandosi in borsa e il suo nuovo slogan di marketing non riusciva a riassumere meglio il suo percorso: “Lo sapevamo allora, lo sappiamo ora”.
Acquisizioni strategiche
Nel 1997 acquisisce la Salomon Group e i suoi marchi Salomon, TaylorMade, Mavic e Bonfire, cambiando nome in adidas-Salomon AG. L’anno dopo adidas-Salomon AG si impegna a tornare alle sue radici e si è trasferisce in una nuova sede appena fuori Herzogenaurach. Il “World of Sports”, un’ex base militare americana trasformata in campus, costantemente rinnovato, ampliato e modernizzato per ospitare la società in crescita e i suoi dipendenti. A partire dal 2013, il World of Sports ospita più di 3.000 dipendenti adidas, offre strutture sportive all’aria aperta, una caffetteria, un asilo e una palestra.
Nel 2006 quando Adidas e Salomon si separano, perche quest’ultima venduta con i suoi marchi (escluso TaylorMade) ad Amer Sports, Adidas acquisisce Reebok, tra i quali i marchi Rockport e Reebok-CCM Hockey e riunendo due tra le aziende più rispettate e più conosciute del mondo nel settore degli articoli sportivi. Nel mese di giugno, la società viene nominata Adidas AG.
Kasper Rorsted nell’ottobre 2016, diventa il novo CEO di adidas dopo aver guidato la società tedesca di beni di consumo Henkel per otto anni, ben accolto tra i dipendenti, i media e gli investitori. Le industrie della moda e dell’abbigliamento sportivo hanno continuato a rivoluzionare con salute e fitness che si fondono in un concetto di stile di vita, Rorsted ha iniziato a dirigere l’azienda verso nuovi successi in un’era digitale, fondandosi sulla strategia creata in precedenza, Creando il nuovo.
Solidi Bilanci
Adidas ha chiuso il 2016 con ricavi pari a 19,29 miliardi di euro, in salita del 14% rispetto ai 16,915 miliardi dell’anno precedente. Depurando i conti dagli effetti cambi il progresso sarebbe stato pari al 18%. L’utile netto attribuibile agli azionisti è stato pari nel 2016 a 1,02 miliardi di euro, in salita del 59,3% rispetto ai 640 milioni di euro del 2015. Il management del gruppo ha porposto ai soci di approvare la distribuzione di un dividendo di 2 euro per azione. Per il 2017 i vertici si attendo un utile per azione in crescita tra il 18% e il 20% a circa 1,225 miliardi di dollari.
Nel secondo trimestre 2017 le vendite record hanno raggiunto i € 4,4 miliardi, in crescita del 21%, che rappresenta il più alto tasso di crescita del secondo trimestre da più di un decennio. In particolare, il marchio Adidas continua a sperimentare un calore senza precedenti, con ricavi in aumento del 25%. Nonostante i gravi venti contrari degli effetti valutari negativi, il margine lordo del Gruppo è salito di 50 punti base al 48,8%. Il margine operativo del Gruppo è migliorato di 3,4 punti percentuali al 9,4%. Di conseguenza, l’utile netto da attività continuative è quasi raddoppiato, raggiungendo un massimo storico durante il secondo trimestre di € 291 milioni.
Evoluzione in borsa
L’azienda dopo la crisi del 2007, e precisamente dal 21 novembre del 2008 è cresciuta del 700%, passando da € 21,00 agli attuali € 198,00.
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pangeanews · 5 years
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“Sarei uno stupido sentimentale se ti immaginassi un esiliato come Joyce, un ribelle alla Van Gogh, un solitario alla Rilke. Avrai il tuo posto di lavoro, la tua burocrazia, non preoccuparti”. Riscopriamo Stephen Spender, il poeta che ha diretto la rivista culturale della CIA
C’era una volta a New York una rivista bizzarra di nome Encounter. Fu fondata nel 1953 da Stephen Spender mentre stava appollaiato sulle spalle dell’aquilotto più grande, W.H. Auden. Sopra di loro volava mamma-falco, la CIA, con discreti finanziamenti.
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La fiaba collassa nei primi anni Sessanta quando, non si sa bene per quale stramaledetta disclosure, vien fatto chiaro chi mette i soldi nella rivista e allora apriti-cielo, nel parapiglia generale Encounter prosegue a scossoni fino al 1990. Ma è l’ombra pallida dell’originale: una rivista nata quando la Guerra Fredda era ancora un piccolo diversivo.
Una rivista, in sostanza, dove facevano capolino i racconti di Brancati e Silvio D’Arzo insieme ai reportage di Barzini sulle famiglie aristocratiche italiane di primo Novecento – un Proust in sedicesimo. Fu Encounter a ospitare il racconto di Nabokov sulla famiglia Vence, la sua piccola smentita su Lolita (Un libro chiamato Lolita), oltre alle prodezze della Yourcenar da giovane (Riguardo il Krishna) e ai soliti sotterfugi di Landolfi russofilo.
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Poi, per rimanere in forma, Encounter pubblicava tra primavera ed estate del 1958 la poesia di Brecht sul tribunale e quella di Saint-John Perse sui vascelli. Ora vi domanderete: perché tanta spregiudicatezza? Perché in fondo la cosiddetta destra, anche agli occhi schematici della CIA, doveva essere un filo anarcoide. Sicché la bella principessa, prima di esser risvegliata dal principe rompi-palle che le dice “guarda che i finanziamenti sono sporchi”, aveva fatto bei sogni.
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Perciò andiamo a prendere la principessa nel sonno. Ammiriamone i lineamenti senza svegliarla. Leggiamoci in pace una poesia di Spender dal nitore michelangiolesco, filtrato da George e Rilke.  Dopodiché passiamo sul divano a bere lo sherry del suo editoriale. Andrebbe regalato a tutte le ereditiere che consumano la cultura patria sugli scaffali di cristallo. In sostanza Spender va al centro dell’editoria nell’età dei consumi: era diventata già allora, negli USA anni Cinquanta, un tritacarne mediatico dove un autore segue all’altro senza coerenza, quando la giovinezza non è più freschezza di novità ed esplorazione, ma un semplice fatto anagrafico. Un mostro che conosciamo bene…
Spender aveva visto giusto: ci saranno sempre più torme & orde generazionali che si mangiano a vicenda mentre, in alto, gli officials della cricca e della consorteria universitaria (come li chiama lui) guardano soddisfatti. E allora buona lettura, felice lettura…
Andrea Bianchi
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Stephen Spender, Orfeo – Adamo – Cristo
Chi canta con dolcezza: è lui che sa ascoltare. Orfeo che vedeva un albero nei rami del mondo incantava gli animali: ma per primi furono loro a incantarlo – ondeggiando nel suo sangue, il loro ritmo fu fatto musica. Il sole venne alla luce dai suoi occhi; fischiavano gli uccelli lungo le sue ossa: da entrambe le cose ricavava i toni e li fissava col flauto. Prima di lui, Adamo fu l’asse della Creazione, il centro da cui si irraggiavano gli unicorni che gli ruotavano intorno. Finì per ardere sul fuoco con gli animali e soffrì con le bestie che ricevano da lui il loro nome e fece fiorire la vita nell’Eden con parole incantate. Poi Cristo, inchiodato alla sua Croce, ricevette dentro le sue piaghe il calice amaro versatovi dagli uomini – Eli eli lama sabachthani. Di qui – come Orfeo che doma gli spiriti, come Adamo che nomina il creato – fece cristiana l’umanità, stretta da amore senza fine per mezzo dell’agonia trasformata in Inno di gioia.
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Lettera a un giovane scrittore
Caro Henry James Joyce Junior,
Nulla mi fa più piacere dell’idea che gli anni Cinquanta potrebbero essere un decennio nel quale la letteratura riceverà nuovo impulso dalle riviste letterarie (…) e però, invecchiando – mi immaginavo – oltre a capelli imbiancati, denti caduti e profilo imbolsito, ecc, cose che sono successe, mi aspettavo di essere lasciato indietro nella Marcia del Secolo. Invece oggi vedo bene che ogni cinque anni c’è una nuova generazione. Come potrebbe essere altrimenti, quando la gioventù dimenticata di ciascuno è letteralmente qualcosa di preistorico per chi abbia venti anni in meno di lui? Per una matricola del 1939, quella del 1918 [Spender è del 1909, ndr] aveva in mano degli strumenti e dei pensieri ormai scartati dal processo evolutivo – e così va anche oggi coi ventenni, quando l’ultima battaglia per l’impero britannico è soltanto materia d’esame da imparare alla svelta per l’esame. Per non dire degli anni Trenta!…
Bene, mi sono reso conto di questo fatto ma ho comunque fatto un errore. Non ho previsto che il giovane non ha, per forza di cose, gli attributi che io collegavo alla nozione “essere giovane”. Pensavo che essere giovane significasse avere nuove idee, essere “avanti”, sperimentare. Pensavo al giovane come uno che sostiene, nelle arti, i movimenti moderni che sganciano la mente dall’atmosfera industriale sviluppando un idioma adatto alla città moderna. Per me, i giovani erano quelli che buttavano il sangue nella battaglia condotta nel nome del “monologo interiore”, della “rivoluzione della parola” e del surrealismo.
Perciò – dovrei vergognarmene, caro Henry? – il giovane di questo secolo mi sembrava uno che segue gli uomini di genio con degli spunti personalizzati, dopo una digestione immaginifica: James Joyce che accartoccia notte e giorno dublinesi nelle teste di Leopold Bloom e Stephen Daedalus; il primo Eliot, coi suoi Preludi, La Terra desolata e la sua esperienza di sviluppo urbano che sottintende le visioni di Spengler e di Toynbee; Apollinaire che esibisce il suo corpo sensuale e la sua lieta intelligenza davanti ai fucili del Fronte occidentale; D.H. Lawrence che pensa di poter cambiare il corso del progresso creando un sentiero dove i sessi si possano intendere in modo più istintivo.
Così per il mio modo di pensare la gioventù non era semplicemente un fatto generazionale, non era lo stesso che “essere giovane”. La si misurava dalla capacità di sviluppare una mente contemporanea ai fatti, un buon senso. L’idea della “scrittura nuova” voleva esprimere un’esperienza moderna a partire da un certo centro vitale e forniva valori importantissimi coi quali giudicare il mondo moderno.
Se uno guarda così le cose, la gioventù è andata diminuendo a partire dagli anni Dieci: è diventata un lusso. I lieti anni Venti erano troppo cinici perché i giovani andassero a tradurre i dati esterni nel pensiero interiore che Joyce o Rilke erano riusciti a raggiungere; gli anni Trenta furono abbordati dalla politica perché le condizioni basilari della vita avevano reso impossibile, minacciandola, un’arte che fosse antimaterialista; i surrealisti furono coraggiosi, a dire il vero, e strapparono un ultimo brandello di gioventù, ma al prezzo di perdere il controllo intellettuale e consapevole sul loro materiale.
Può darsi, caro Henry, che io non stia scrivendo proprio della gioventù che tu hai in mente quanto invece del movimento moderno, ora fuori corso, che aveva arruolato tutti i giovani, anche quando erano affascinati dai pensieri mortuari di Lawrence o dalla sapienza anziana di Yeats (per dire). “La gioventù” ora tu protesti così, “non è altro che aver 25 o 26 anni e non 40 o 60; i vecchi dovrebbero imparare dai giovani che gli argomenti pieni di significato non sono più quelli di una volta”.
Quindi forse, caro Henry, i vecchi non hanno più diritto di attendersi che i giovani siano moderni.
Ad ogni modo possiamo chieder loro di non cedere le anime agli officials i cui gradi si estendono ai vari reggimenti di burocrazia, pensiero universitario e cricche di critici austeri. Per come la vedo, le aree vitali che oggi vengono paralizzate dal conformismo sono sempre più vaste. Chi accetta il conformismo non mette in questione l’esistenza della società di massa e del consumo di massa, nemmeno quando ne rifiuta i valori. Nessuno prova più a leggere Rilke o Joyce, a digerirne interamente l’esperienza in una vita più interiore, dove questa massa si può sciogliere e ricomporre per dar forma a una nuova civiltà. Forse questo abbandono del vecchio compito lo si deve, in fin dei conti, alla politica: perché oggi nessuno immagina nulla, per cambiare le cose, fuori di lei, e questa rafforza – sempre – il materialismo dell’epoca.
È difficile ora non essere uno degli officials. E sarei un sentimentale attardato ad attendermi una qualche rivolta da parte tua – diventare un esiliato come Joyce, un ribelle alla Van Gogh, un solitario alla Rilke. Potrai entrare a far parte della burocrazia, avere il tuo posticino o il tuo lavoro, un qualche titolo ufficiale per poi fare le scarpe ai tuoi superiori, tutto col tuo spirito ombroso, con la tua forza oscura e interiore. Forse mi capisci e stai già facendo tutto questo, e in questo caso la mia lettera sarà inutile. Può anche darsi, caro Henry, che tu mi prenda per i fondelli quando mostri che esser giovani, in fondo, non vale nulla. Se riesci a nasconderti le cose davanti a te stesso, saresti un tipo sveglio.
Stephen Spender
* traduzione di Andrea Bianchi
**In copertina: Stephen Spender (1909-1995) ha diretto la rivista “Encounter” dal 1953 al 1966
L'articolo “Sarei uno stupido sentimentale se ti immaginassi un esiliato come Joyce, un ribelle alla Van Gogh, un solitario alla Rilke. Avrai il tuo posto di lavoro, la tua burocrazia, non preoccuparti”. Riscopriamo Stephen Spender, il poeta che ha diretto la rivista culturale della CIA proviene da Pangea.
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