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#?????????? MA COS VEDONO I MIEI OCCHI
buscandoelparaiso · 2 years
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yesiamdrowning · 5 years
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piccole bugie familiari
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Quando capisci che stai maturando? In genere si è soliti accollare alla propria crescita individuale una serie di eventi dal peso specifico non indifferente. C’è chi giura di essersi sentito per la prima volta adulto quando ha chiesto alla propria ragazza di convolare a nozze. C’è chi afferma d’essersi sentito finalmente responsabile il giorno che a una fantomatica partita di calcetto, da vedere o da giocare, a seconda del racconto, ha è preferito assistere al mortifero saggio scolastico di fine anno della propria figlioletta – immortalato in un’ora e mezza di filmato traballante che nessuno ha mai rivisto. A me, molto più banalmente, succede nelle piccole cose. Mi è successo anche qualche ora fa, quando ho detto una frottola a mio nipote. Ovviamente parliamo di roba innocente, una bugia piccola e bianca detta a fin di bene, d’istinto, per timore di apparire meno stimolante agli occhi di chi credi ti veda come l’elemento più interessante della famiglia. Ma anche per legittima “offesa”, ovvero per contrastare (dov’è possibile) l’incontenibile deriva musical-culturale di un adolescente odierno che di perdersi per strada frammenti di effettivo talento per l’incuria pregressa di uno zio un po' distratto non può proprio permetterselo. Il tutto nasce da un'innocua domanda su un gruppo di famiglia di WhatsApp: “Zio, tu conosci quel tipo che è morto di cui parlano oggi?”. Il tipo di cui parla mio nipote è Mark Hollis, voce dei Talk Talk, e dimostrazione lampante che se su i social si parlasse più spesso di buona musica, magari prima dei coccodrilli, non è poi così scontato che un/a sedicenne a caso la snobberebbe sempre e a prescindere. Comunque, se un tempo probabilmente avrei fatto spallucce rilasciando un sarcastico “Mai coperti...” (sottotitolo: “Non è vero ma io con gente etichettata come new romatic non voglio averci nulla a che fare”), ora gli rispondo in un’unica tirata che sì, lo conosco come se avessimo fatto il liceo assieme e che dei Talk Talk non si vedono in giro le magliette come i Ramones o i Joy Division solo perché le copertine dei loro album sono più brutte, che la loro canzone più nota è Such A Shame, il cui video lo può trovare facile su YouTube, ma anche It’s My Life non era da meno e ne esiste una versione rifatta dai No Doubt, la cui cantante, Gwen Stefani, gli sarà anche capitata sotto il naso su qualche rivista sua o di sua mamma. Insomma, gliela vendo stra-bene. In realtà, rispetto ad altri artisti, so veramente molto poco di più di quanto gli ho detto, sia di Mark David Hollis che dei Talk Talk. A mia discolpa però posso dire che, partendo dal presupposto che in giro c’è tanta di quella musica che alla fin fine chiunque si perde più o meno volontariamente qualcosa per strada, non ho mai studiato a fondo i Talk Talk perché (oltre ad avere magari un altro tipo di ascolti) quando mi sono trovato a parlare di loro, quelli che sono stati i miei interlocutori per tanto tempo me ne hanno parlato in un modo per nulla allettante. Che poi era su per giù questo. Alla domanda: “Che genere fanno?” la risposta era “Non lo so, è difficile da inquadrare, è rock ma molto intellettuale”. Che già mi stanno tre volte più sul culo di prima che lo dicessi. Che poi sostanzialmente è perché, con una definizione tale, mi fai venire in mente gente con l'occhialino e l'attitudine di Carlo Verdone versione Iris Blond and the Freezer. Che poi, ovvio, non corrisponde alla realtà dei fatti manco di striscio - grazie a dio - ma intanto hai fatto allontanare di due metri e mezzo la mia voglia di approfondimento. Ma questo non lo posso di certo dire a mio nipote. Per lui serve una versione dopata, carica di un'indagine che neanche Focus. Anche se Mark Hollis non era un tossico, non soffriva di nessun tipo di disturbo bipolare della personalità, non era sposato con una modella/influencer e, soprattutto, era atletico come potrebbe esserlo Tim Roth con le orecchie a sventola e i capelli sempre ricadenti sugli occhi. Mission: Impossible. Insomma, rischio di perderlo nuovamente nei meandri di chi sa quale patacca post-moderna coi tatuaggi sulla faccia. Per fortuna, nel corso degli anni, ho conosciuto estimatori di Mark Hollis e dei Talk Talk anche al di fuori della cerchia di intellettualini universitari che te ne parlano aggiustandosi gli occhiali col dito medio - tra cui un nutrito gruppo di più o meno insospettabili musicisti. Gente che ha contribuito a creare nella mia mente un piccolo Best Of (che non necessariamente corrisponde a un Greatest Hits) della band. Così gli spiego subito che con i gesti e l'attitudine tutt'altro che tradizionali per una rockstar, l'aria un po' timida di chi, se lo si paragona a Morten Harket, è fatto di tutt'altra pasta, il cantante dei Talk Talk, più che un fascinoso idolo androgino come moda dell'epoca, era un raffinato musicista tra avanguardia, pop e nuovo rock. Anche se all'epoca venne etichettato come promessa dei “nuovi romantici” e persino come  “icona dance”. Mark Hollis ha cominciato la sua singolare carriera dalle ceneri dei Reaction, duo punk composto col fratello Ed che incuriosì  la Beggars Banquet Records, etichetta della madonna con gente come Gun Club o The Fall nel suo catalogo, ben prima che quel fenomeno chiamato new wave esplodesse in tutte le sue declinazioni. E' solo nel 1982, però, che il gruppo trova spazio e attenzione, anche se più come fenomeno di costume che come un originale progetto musicale. L'ingombrante presenza infatti di Colin Thurston, già produttore dei Duran Duran, fa si che i Talk Talk per due anni siano soltanto una variante di quella corrente romantica, soltanto forse meno frivola. Dopo un paio di dischi in quella direzione, The Party's Over e It's My Life, i Talk Talk sono già una band passata dal riempire a malapena gli ottocento posti del Piper Club ai quattromila posti del Tenda Strisce. Ed è qui che Hollis, toccato l'apice e firmato il contratto con la EMI, rivela la sua personalità mandando, se si può dire, tutto in vacca. Con The Colour Of Spring, svoltando verso atmosfere sonore complesse e raffinate, immaginando un pop elegante e ai confini più con la psichedelia che con la dance, semmai con la trance, certa ambient e avanguardia, lontano anni luce da tutti gli stereotipi “romantics” - a meno che i fan dei Wham! non fossero soliti leggere Tennessee Williams (Life Is Whyt You Make It) o Charles Dickens (Time It's Time). Sarà quella la strada spianata per il successivo Spirit Of Eden, in pratica un album slowcore-inside senza saperlo (I Believe In You), dove la miscellanea si amplia ancora (suonano ben 17 musicisti, tra cui oboe, clarinetto, fagotto, violino, corno e dio solo sa che... più un intero coro!) verso il jazz, la musica da camera, minimalismi free-form e quindi verso un clamoroso insuccesso commerciale. Il successivo Laughing Stock, infine, per molti anticiperà il concept di fondo di tanto post-rock (After The Flood, New Grass e Ascension Day). In realtà il pubblico aveva già assistito a trasformazioni importanti e in corso d'opera, basti pensare a Tin Drum dei Japan prima del David Sylvian solista, ma la vicenda di Mark Hollis fa più scalpore perché ancora più estrema. Un salto nel vuoto che lo porta dalla in classifica con tre singoli contemporaneamente al nulla cosmico – e una rivalutazione a posteriori, visto che in un primo momento le bocciature fioccarono da ogni parte. La lezione che ne possiamo trarre tutti è la bellezza di una dimensione comunicativa meno immediata, forse, ma più profonda. Meno facile e che non sempre riesce a tutti. Il difetto maggiore che si riscontra è infatti di solito una certa monotonia data dalla voglia di apparire a tutti i costi “intelligenti”, una singolare piattezza di sonorità e di atmosfere che non si attutisce nemmeno chiamando in causa fior fiori di musicisti (chi ha detto Robert Fripp?). Mark Hollis con i Talk Talk, e poi con la sua carriera solista, è riuscito ad evitare tutto questo. Centellinando poi sempre di più le sue uscite (a volte anche sotto pseudonimo) fino a scomparire. Diventando una sorta di (inconsapevole) outsider, senza bisogno di essere svitato come Brian Wilson o incomprensibile (almeno ai più) come Frank Zappa. Destando ammirazione e curiosità tanto negli UNKLE – con i quali collaborò in un brano - quanto in Robert Wyatt - di cui co-produsse la raccolta complementare alla biografia di Marcus O'Dair. Saluto mio nipote e gli dico che, se butta un occhio la prossima volta che passa dalla Feltrinelli, un disco dei Talk Talk è facile che lo riesca a trovare a meno di 5€. Potrebbe farci un pensierino. Può essere si tratti solo da una delle miriadi di raccolte uscite negli anni, ma chi ben comincia è a metà dell’opera.  
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grandtourxp-blog · 5 years
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GRAND TOUR_02/
\JAPAN_2014/CAMBODIA_2019
/Stefano Gio Semeraro
http://stefanogiosemeraro.it/works.html
-TOKYO-BEPPU_A SENTIMENTAL JOURNEY -
Nell’agosto del 2014 ho attraversato l’arcipelago giapponese da Nord a Sud, per andare a trovare mio fratello. Le presenti immagini fanno parte infatti del racconto (monogatari) fotografico del mio viaggio da Tokyo a Beppu, cittadina situata in un'ampia e profonda baia sulla costa dell'isola di Kyūshū che ha ospitato per tre anni mio fratello, studente internazionale presso l’università locale. Ispirato dall’approccio intimistico di molti fotografi giapponesi contemporanei (da Araki a Moriyama a Tomatsu), ho intrapreso questo viaggio solitario tentando di registrare attraverso i miei scatti le emozioni contrastanti che ho provato nell’addentrarmi, poco alla volta, in una cultura così diversa da quella occidentale, così stereotipata ai nostri occhi e a tratti di difficile comprensione. Un “viaggio sentimentale” che mi ha portato a riabbracciare mio fratello e a vivere di persona quei luoghi affascinanti da lui tanto raccontati. 
Le immagini scelte per questa mostra si riferiscono solo alla città di Tokyo, una metropoli affascinante e alienante allo stesso tempo, dove antiche abitazioni fatiscenti convivono con i grattacieli più moderni, e in cui è possibile perdersi all’interno del mercato più grande al mondo (Tsukiji) o scoprire angoli sperduti e ricchi di contraddizioni nelle periferie di Asakusa e Ikebukuro, e la piccola cittadina di Beppu, in cui si respira ancora la tranquillità e autenticità delle tradizioni, e il tempo scorre lento nei piccoli ryokan tradizionali, negli izakaya nascosti, e in tutti quegli angoli di strada da cui si vedono “fumare” i tombini.
 “Tsugi wa, Beppu” ( 次は別府 - “Prossima fermata, Beppu”) - “L’annuncio del capotreno mi ha destato dal sonno leggero, intuisco di essere arrivato a destinazione, finalmente a Beppu, la città in cui vive e studia mio fratello. Non è stato semplice viaggiare nel profondo sud del Giappone, quasi nessuno parla l’inglese, i treni cominciano ad essere più datati e meno tecnologici, ma al tempo stesso più avventurosi. Comunico a gesti sperando in una giusta interpretazione da parte degli autoctoni, ringrazio con un cenno della testa. Scendo dal treno, mi incammino fuori dalla stazione e dinanzi a me vedo alcune insegne luminose, silenzio, poche persone nelle strade. Sembra quasi un mondo a rallentatore se paragonato alle città di Tokyo e Osaka. L’umidità è davvero insopportabile, nonostante sia quasi mezzanotte. Comincio a guardarmi intorno e vedo fumi che si alzano nei vari vicoli della città, odori provenire da piccoli carretti ai lati delle strade, alcune persone in yukata e zoccoli di legno chiacchierare mentre rientrano in albergo. Da lontano, mio fratello mi fa un cenno con la mano, lo vedo arrivare a passo lento, anche lui esausto dai vapori caldi che questa città espira continuamente. Un abbraccio e ci dirigiamo verso casa.”
Parte di questo lavoro nel 2018 è stata proiettata nel Teatro comunale di Gonzaga per la IV edizione del Festival 10x10 dedicata all’Oriente.
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Stefano Gio Semeraro, 1984. Dopo aver frequentato i corsi di Fotografia Analogica e Digitale e Visual Storytelling al CFP Bauer di Milano ( dal 2013 al 2015 ), nel 2014 è tra i co-fondatori di CROP  Collective, gruppo di fotografi indipendenti con i quali porta avanti una riflessione meta-fotografica sulla natura e il significato delle immagini fotografiche. Il suo lavoro è stato presentato al Photofestival Milano 2015 nell’ambito dell’evento HTTP_HyperText Transfer Photography, a Fabbrica del Vapore presso Ram Studios, a Palazzo Marino,  presso Spazio Soderini nell’ambito dell’International Photo Project (2015), al Festival Spazivisivi a Sanremo e al Festival 10x10 di Gonzaga (2018).
Il suo interesse è rivolto principalmente al paesaggio in trasformazione, il rapporto tra natura e archeologia urbana, il viaggio attraverso il racconto fotografico. Attualmente lavora a progetti di ricerca personale e collabora a distanza in progetti internazionali tra Italia, Spagna e Giappone.
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Chi sono io e chi siete voi? PS: conosciamoci un po´, se a qualcuno piace, fatemi sapere, saro´molto felice.
Dove non guardiamo vediamo solo trucco, vestiti firmati, e so anche che posti come quello che sto scrivendo io  ci sono non tanti, ma tantissimi. Ma questo argomento mi tocca in prima persona.
 Tutti mi conoscono come una ragazza sempre truccata per bene, vestita anche per bene, ma quella non sono io. Neanche quei capelli lisci perfetti sono miei, e neanche quei grandi occhi verdi pieni di sicurezza solo grazie a quella matita nera che sottolinea tutto, ma é come se non mettesse in evidenza solo il colore dei miei occhi verdi, come se mettesse in evidenza un altra persona, e quella persona non sono io. Quel rossetto che non posso mai dimenticare, che tengo in ogni tasca del giubbino, che tengo in ogni borsa che ho in casa, che ne ho cosí tanti che non ricordo neanche quanti ne ho persi, e ognuno di loro rappresenta un´altra persona. Come se fossi tante persone chiuse dentro a una sola.
- Quella con il rossetto rosso - é quella stronza, quella straffottente, quella che va a corteggiare, e me lo metto quando meno sono sicura di me, in quei giorni che nonostante 5000 amici su facebook nessuno mi pensa, e mi sento sola come non mai, quindi mi dico che devo ricordare agli altri che esisto, come se fosse un urlo di ´EI GUARDATEMI SONO QUI,NON POTETE DIMENTICARVI DI ME´.
- Con quello viola mi sento tumblr, stando nel pullman, mi siedo, accendo qualche canzone triste nelle cuffiette e guardo per ore fuori dal finestrino, come se mi perdessi nei miei pensieri, ma sapete il bello qual´é? e che é davvero cosí, mi sembra di stare in un mondo diverso, come se nessuno mi vedesse, come se nessuno potesse pensare ´quella é pazza´, come se esistessi solo io, quella canzone e i miei pensieri, e mi piacerebbe tanto che fosse davvero cosí.
Questi sono quelli che piú mi toccano. Sono quelli con quali riesco ad attirare piú sguardi per strada. Ma sapete cosa? Io non sono quella, ne quella con il rossetto rosa chiaro o quello fucsia, non sono quella con il rossetto rosso, bordo o viola. Io sono semplicemente quella struccata, quella che nessuno conosce, quella che in realta nessuno vuole conoscere. Perché in realtá vado bene cosí a tutti, perché cosí mi possono criticare, hanno di chi parlare, e secondo loro a me veramente non importa, perché quando qualcuno mi dice qualcosa riguardo a me, riguardo al mio modo di vestire, di parlare, di truccarmi, io semplicemente lo ascolto fino alla fine, poi gli domando se ha finito, mi giro e a testa alta me ne vado. Andandomene mi accendo una sigaretta e ripenso a tutto quello che mi é stato detto, a quelle cose brutte, sporche, quelle parole cosí cattive da risuonarmi continuamente in testa sempre con il volume piú alto. Da una parte hanno raggione, perché loro vedono solo quello che io voglio mostrarli, io vorrei anche che conoscessero quella vera me, ma cosa cambierá? NIENTE, ecco la risposta. Parleranno di altro, perché le persone parlano sempre, e parleranno sempre, sempre cose negative, ormai tutti pensano solo a se stessi, hanno bisogno di divertirsi e ti coprono di merda, e se sia la veritá o una bugia, a chi importa? A NESSUNO. Basta che si divertono, perché se non giudicare cos´altro possono fare? Dove possono trovare altri argomenti? Ormai nessuno parla di arte, di  musica, nessuno va ai teatri, tutti preferiscono gli inciuci e i film con scene pornografiche.  
 - Anonimka 🌹
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codelpho · 6 years
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LE AVVENTURE DA GIOVANE
— Cos, ci andiamo?
― Dove?
― A Petra
― Ah sì, e dov’è?
― In Siria o Giordania, credo
― Cocco, ma dove sei? Non ti vedo
Cocco Bill, lo chiamavamo così, il mio amico Cocco perché fischiava molto bene come il famoso Cocco Bill dei fumetti degli anni sessanta.
Partiamo risoluti quella mattina di Giugno dopo aver fatto tutti i rifornimenti alimentari alla Upim. La 500 FIAT è carica con dietro, sul panchetto, tutte le provviste alimentari; davanti, nel micro baule sotto il cofano, abbiamo piazzato la canadese. Trieste, Iugoslavia, Grecia. Istanbul, la porta dell’Oriente, e poi ancora Aleppo, Damasco, Amman e giù per il deserto a fermarci alle stazioni di pompaggio per fare il pieno di benzina e d’acqua. Alt! Una notte ci fermano, soldati. Uno monta con Cocco Bill e io son fatto salire su una polverosa CADILLAC con sei arabi coi loro kefiah che nascondono il viso. Cocco è dietro di noi e dietro ancora c’è una jeep dell’esercito, la macchina fotografica sequestrata.
Quel viaggetto dura mezz’ora ma a me sembra eterno. Nella notte, lontano si vedono lampi. Temporale in arrivo? No, Cocco mi dice poi che sono salve di artiglieria. La guerra dei sei giorni è finita da qualche anno ma ogni tanto sparano ancora. Ci si accampa un po’ più in là del margine delle stretta strada e il margine non si distingue più, per la sabbia del deserto che invade l’asfalto. Una mattina, fuori dalla tenda, sentiamo rumori e voci. Ci affacciamo: c’è un arabo che saltella e impreca, poi raccoglie una cosa nera, uno scorpione grosso, morto e attorno ce ne sono altri, vivi. Ringraziamo l’arabo con le mani giunte e un inchino e gli regaliamo un pacco di biscotti della Upim e scappiamo.
― Alt! Avrà avuto dieci anni: un bambino col mitra puntato ci sbarra la strada. Cocco frena e abbassa il finestrino: ― Give me money for Al Fatah! Cocco si fruga in tasca e gli dà una monetina, l’equivalente di dieci lire. Ci lascia passare ma dopo ci tirano i sassi. Petra 50 Km indica il polveroso cartello.
― Dai Cocco, ci siamo!
Però quella stradina non finisce più: dritta, lunga, sempre più stretta, circondata da pietre e sabbia. Nonostante la voglia di arrivare non è che si può far di più alla folle velocità di 30 Km all’ora.
Finalmente arriviamo a un casottino di legno col tetto in lamiera bruciato dal sole. Dentro c’è un arabo che, col suo inglese arabizzato, ci chiede soldi in cambio di due ronzini che ci portano giù nella gola per uno stretto, ombroso passaggio scavato fra altissime pareti di rossa pietra. A tratti il sentiero si apre così come si spalancano i miei occhi e la bocca che non può trattenere l’esclamazione di meraviglia per la improvvisa visione del tempio scolpito nella roccia. Devo alzare lo sguardo ben in alto per vedere i capitelli di quelle maestose colonne giganti.
― Cocco aspetta… Cocc aspett… Co asp… ― gli grido e, per gioco, grido il mio nome: Cos… Co… C… le mie parole rimbalzano sulle pareti di pietra procurandone l’eco. Che sortilegio! Ma Cocco non si ferma e allora scendo dal cavallo per addentrarmi nel tempio. Passato il ciclopico portale mi inoltro in un’oscurità quasi totale, una fredda tenebra di buio. Si può anche non credere a niente ma ci sono dei momenti nella vita in cui si prega il dio del primo tempio che trovi ed io prego quel dio di farmi uscire dalla tenebra.
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ioticielo9109 · 4 years
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thougths
Proviamoci pure a fare sta cosa del mettere nero su bianco i propri pensieri e stati d’animo, chissà che mettere in ordine i pensieri mi aiuti ad arrivare a delle soluzioni. Chiesi a Sherlock mentre ero a Baker Street “please open, I need solutions to my clues”.
In realtà ciò che mi spaventa è che buttando fuori tutti i pensieri nel tentativo di metterli in riga me ne libererò veramente, e non è quello che voglio, voglio essere ancora attanagliata da questa confusione perché vorrà dire che sei ancora con me, ma se dovesse succedere potrei stare meglio, delusa da me stessa per il sentimento sbiadito ma libera.
Chissà come sarà. Non sarà un testo poetico, come mio solito, appunto sono pensieri alla rinfusa.
Come sto? Sto bene. Non soffro, non come avrei immaginato almeno. Non capisco però più come io stia in realtà, non capisco se il mio stare bene sia un essere arrivata a una serenità stabile e che quindi riesco a ritrovare sempre nonostante gli eventi destabilizzanti, oppure se io stia mentendo a me stessa perché non posso avere l’occasione di crollare.
Sono crollata emotivamente così tante volte l’anno scorso e gli anni precedenti che non lo potrei sopportare di riviverli, ma forse era perché avevo qualcuno accanto e quindi mi aspettavo di essere salvata, tirata su da terra, qualcuno che mi dicesse “non è niente solo un ginocchio sbucciato, passerà, aspetta che ci soffio sopra”. Invece ora ci sono solo io con me fondamentalmente, quindi l’unica persona che mi può tendere una mano per aiutarmi a camminare sono io.
E io quella mano me la offrirò sempre. Non sono un’arrogante, ma so il valore che ho, so quanto posso dare. L’ho dato, l’ho fatto, ho amato profondamente, con ogni fibra del mio corpo, ho detto tante volte no pur di non perdere quella persona (si, tanto no detti pure a me stessa) e forse era lì che mentivo veramente, lo dissi anche qualche post indietro.
E allora sai cosa? Sto bene davvero, perché sento di essere sincera con me stessa. Forse a volte aspetto qualcuno che mi dica “smettila di dire che stai sempre bene, guarda che puoi permetterti di farti vedere vulnerabile a volte, nessuno è invincibile”. Ma io mi sento proprio così! Io sono invincibile! Sono una forza della natura, dentro di me sento terremoti quando cammino, vulcani in eruzione quando parlo, e non è un vanto se pure le persone a me care l’hanno notato e mi definiscono così. Ciò mi riempie di felicità.
Mi sento sola? No, detta sinceramente. Ho attorno persone così belle che non mi fanno mai sentire sola. Io che con Luca mi sentivo sola spesso. Non credevo che fosse possibile stare così, essere così riempiti dagli altri, eppure è successo proprio a me.
Io che vivevo nelle tenebre, avevo fatto amicizia con le ombre e ho iniziato a vedere solo luce, com’è possibile? Si chiama felicità, serenità, sapere che anche se oggi è grigio prima o poi uscirà il sole, sapere che oggi posso piangere perchè domani riderò fortissimo. E’ per questo che sto bene, perché l’ho sempre agognato e ora ce l’ho, questo modo di pensare intendo.
Avevo paura che nessuno potesse sapere cos’ tanto di me come Luca, pensavo che nessun altro sarebbe riuscito a custodire i miei segreti, le mie paure, i miei occhi lucidi, eppure invece sì! E ho smesso di chiedermi come e ho iniziato a esserne grata.
Ma non è tutto così rose e fiori, non è tutto così splendente, perché i giorni grigi ci sono e stanno diventando tanti in questo autunno, i miei fiori hanno lasciato spazio alle foglie gialle sui marciapiedi. Io ricordo tutto, anche se non ce n’è bisogno perché lo sento nell’anima continuamente tutto questo, questa mia estate. Ma in quei giorni grigi a che penso? A te. 
Sto male? No. Sto bene? Sì, ma potrei stare meglio. Starò meglio? Sono sicura di sì. E presto anche, ne sono certa.
Penso a quando quegli occhi azzurri guarderanno ancora i miei, penso a quando quelle dita mi sfioreranno di nuovo. Ed è questo che fa leggermente male, ma è strano. Se dovessi tornare poetica per un attimo direi così: il mio cuore è un porto piccolo, su un’isola solitaria e molto lontana, ci sono montagne e scogliere alte che rendono la spiaggia selvaggia e quasi inagibile ma di una bellezza unica, la sabbia è scura e l’acqua è talmente azzurra che sembra tempera. Il mio porto è molto spesso in tempesta ma quando c’è il sole sapessi che atmosfera. E’ così piccolo che si allaga facilmente e può entrarci una sola barca per volta, infatti tu ogni tanto ti fai vivo ma ormeggi sempre al largo, ma arrivi così impetuosamente che smuovi il mare e le mie banchine si riempiono d’acqua. Fai sempre un macello, tutto viene sbandato via, le funi, le reti dei pescatori, le sedie che usano per leggere al tramonto, le casse con i loro bottini. Gli scalini non si vedono più e non sai n’è come scendere n’è come salire, devi aspettare che passi tutto, che si calmi tutto. Si riempie e si svuota molto velocemente il mio porto, e sono sempre io che devo rimettere in ordine tutto, qualche marinaio mi aiuta però stai tranquillo, non sono da sola a faticare. C’è un faro pure, ma non funziona bene, si accede solo quando non vede la tua barca e va avanti giorni, mesi prima di smettere di illuminare la spiaggia per niente, ti chiama invano, disperato. Poi arrivi e si da pace, ma è tutto da capo, devo ritirare fuori gli attrezzi per pulire, è un lavoro difficile ma ti lascia con la sensazione che anche se è stata una giornata durissima e troppo lunga finalmente si può andare a dormire, a riposare, spegniamo le luci delle banchine, rimettiamo a posto le sedie e ce ne andiamo contenti e stanchi al bar. E’ in quel momento che il farò si riaccende e tra le risate dolci dei miei compagni tiro comunque un sospiro di malinconia. Hai trasformato il mio bar nel bar sotto il mare. Che storie potrei raccontarti, tra quei muri di legno impregnati di salsedine e anni, una solitudine tenue si aggira tra quelle anime, e la mia si sente a casa, le mie ombre mi conoscono e mi proteggono, la mia luce mi ha promesso che ci sarà ancora quando all’alba il bar chiuderà. Ma il faro? Nessuno è ancora riuscito a ripararlo, non si arrende mica, fa come vuole lui imperterrito, ma ci siamo abituati, è diventato quasi confortante guardarlo.
Ma quando ce ne andiamo sbattendo la porta, l’ultimo trillo del campanello che si ferma e ci diciamo che un’altra giornata è andata, sappiamo che quella barca attraccherà al nostro porto, questa volta in modo delicato, senza inzuppare i giornali del giorno e riempire di alghe le scialuppe, sappiamo che si fermerà e chissà che il faro non riprenda a funzionare bene. Accadrà presto, lo aspetteremo vivendo ogni giornata, ogni onda, ogni tramonto, ogni birra a notte fonda tra le canzoni gridate, tra ogni gatto che rincorre i ratti, tra ogni bancale da sistemare e ogni vento che ti porterà sempre più vicino a me. Succederà, vedrete.
Ok e va bene, non riesco a non ricadere nell’essere metaforica, chiedo perdono, ma non si capisce pur meglio in questo modo come mi sento forse? E vi dirò, Ora sono più felice.
Qual è quindi la soluzione all’enigma? Per ora il quadro completo sembra ancora lontano ma sento di essere sulla giusta strada, se ciò che mi rende felice è pensare questo allora penserò questo, perché non mi da tormento. Mi dà speranza, non sono un’illusa, né una testarda, è una sensazione troppo forte, come qualcosa di imminente, sesto senso? No, non del tutto, ma una carezza della mia mente al cuore, come a dire “tranquillo, ci credo anche io”
E per la seconda volta, cuore e mente sono d’accordo.
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missmelancholya · 4 years
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Game over. Riprova. Riprogramma una nuova vita. Nuove persone, un nuovo mondo, nuovi colori, sensazioni nuove cose.
Capitolo 2. Revenge.
Il primo gameplay non è stato facile. Tutto vissuto in prima persona. Ogni tanto mettevo muto. Ogni tanto cambiavo personaggio. Lo scopo era combattere contro i propri demoni e contro il mondo. Adattarsi al mondo senza farsi schiacciare da esso. Ci ho giocato 10 anni e finalmente sono riuscita a concluderlo. Ma alla conclusione mancava qualcosa, sentivo un senso di vuoto. Ho davvero vinto?! Così ho creato un secondo gioco. Il capitolo due, ignara di dove mi possa portare ma alla ricerca di qualcosa. La verità...?!
Round 1
Sei guarita. Sei guarita già da un po’, ma i contagiati sono ovunque e cercano di morderti per contagiarti nuovamente. Tu li accogli, provi a guarirli, loro ti mordono. Game over.
Round 2
Sei di nuovo malata, non è la stessa malattia di prima, è più leggera. Ormai hai gli anticorpi, guarisci in fretta ma è comunque un colpo basso. Ti barrichi in casa per un po’. Livello completato.
Round 3
Ricominciare da 0 di nuovo. Provi a uscire, cerchi di capire chi è malato e chi no, ma poco importa tanto non ha mai avuto la skill in quanto forza di volontà e il punto debole del tuo personaggio è un cuore fin troppo compassionevole. Non giudichi nessun malato, cerchi solo di starci lontano per il tuo bene. Provano sempre ad avvicinarsi, alcuni ti lanciano cose. Come se volessero attirare l attenzione. Stavolta basta. Li ignori. Altri vengono travestendosi da sani, e poi se ne vanno. Come se ti prendessero anche in giro. Maschere, sono arrivata a un livello difficile, metto in pausa. Ricomincio da capo.
Round 3 -again-
Esco di casa solo dopo aver chiaro a me stessa che devo farmi rispettare. Mi accorgo che tutto il mondo del primo capitolo era basato su una me “malata” e sono io nuova nello stesso mondo di prima, il mondo non cambia, questo è l unico mondo che conosco e non so programmarne un altro.. così provo a uscire, si provo a uscire ancora perché non sopporto la prigionia, voglio essere libera. Loro sono ovunque. Di giorno sono persone normali, di notte si trasformano in mostri. Alcuni hanno le budella di fuori perché si rifiutano di mangiare, altri gli occhi cuciti perché non riescono a vedere la realtà, c’è chi è solo un mostro deforme perché si odia, altri si vedono doppio e non capiscono con chi parlano, altri ancora sono un groviglio di fili... io li vedo tutti, non so se altre persone sane come me riescono a vederli. Credo di aver guadagnato questa skill completando il primo capitolo in prima persona. Ora ho gli occhiali dell’ empatia. Sicuramente un oggetto utile per difendersi dato in mano a una persona meno compassionevole. Nel mio caso sembra solo che questo mondo voglia prendermi in giro. Ne esco io e li vedo ovunque. Li vedo crogiolarsi, alcuni cercano vie di fuga nelle strade buie della città. Piove. È notte fonda, dietro un vicolo c’è musica. Eccoli, alcuni cercano di distrarsi. Sono pieni di codici crackati ma io li vedo lo stesso per quello che sono, anche se cercano di nascondersi. E forse anche se sono una delle poche o forse l unica a vederli così, io li accetto, li capisco, cazzo mi piacciono. Mi piacciono perché anche io ero così. Ma non vanno bene. Loro non vanno più bene per me. Nel primo capitolo in fin dei conti ero una di loro ma ora non lo sono più. Loro sono ancora incastrati li. Non posso farci nulla, forse devo solo arrendermi. Torno a casa. Livello completato.
Round 4
Questa tortura virtuale ha un visore così realistico che alle volte mi fa confondere. Si collega ai miei neuroni facendomi provare davvero dolore ma so che è solo un gioco, come una recita. Rido. Ma perché sto ridendo non lo so nemmeno io. Torno nel gioco. È giorno, di giorno sembra tutto tranquillo... è quando cala la luce che li vedi veramente come sono, o meglio come loro credono di essere. Seguendo la strada principale della città arrivo in una strada sterrata... lontano c’è una casa abbandonata con una vetrina, provo a visitarla. In quel momento vedo il mio riflesso nello specchio, anche il riflesso è come vedersi dentro, al buio. Il mio riflesso è normale, quasi mi manca la mia forma da mostro strano. Ma più passa il tempo più mi dimentico com ero... entro ispeziono in giro ma è come se fosse tutto abbandonato. Riprovo a caricare il livello da capo.
Round 4 -again-
È come girare in cerchio. Mi chiamano gli amici, cerco di ignorarli, quasi tutti sono contagiati e non voglio più essere una di loro, non dopo tutta la fatica che ho fatto a essere così. Non rispondo, stavolta non rispondo. Spengo il telefono scappo fuori. Mi siedo in un bar. Ordino un cocktail frutttato non troppo alcolico. Faccio un respiro e mi domando cosa ci sarà da fare in questo livello per superarlo. Non è facile non ci sono indizi. Il barista mi guarda. Stranamente lui non è un mostro. Mi chiede se ho bisogno di parlare, non so cosa voglia dire, gli dico che non lo so. Lui mi invita a seguirlo. Mi fa scendere delle scale polverose e mi porta in un seminterrato buio, poi esce e mi chiude dentro. Metto in pausa. “Ma che cazzo è successo?!” Rientro nel gioco e lo faccio ripartire, non funziona. Il gioco si blocca. Tutto diventa buio. Ho terribilmente paura dei bug nei giochi. Sto sprofondando sono terrorizzata. “Esci del gioco” non riesco. Sono intrappolata!!!!! BOOOOOOOM!
Crash 1
Davanti a me ho un mio amico, quello della vecchia vita, dietro a lui un altro, è un altro ancora... sono tutti in fila sospesi dietro di me non c’è niente ma provo a scappare come se volteggiassi. Stanno piangendo e mi trascinano verso di loro. Mi giro e scappo, davanti a me compare uno specchio, sono io, è tutto normale. Ma sto ridendo. Perché sto ridendo. Sento una voce “ribellati no?” Non capisco. BOOOOM
Fine crash
“Allora come mai non ti ribelli?”. È il ragazzo del bar, sono tornata nel gioco. Metto in pausa. Esco dal gioco un attimo. Ok riesco. Cos’era un virus?! Mi arriva un sms “non scappi da te stessa un bacio” mittente anonimo. Continuo a non capire è come se questo capitolo fosse ancora più intrigato di quello prima. “Dai torniamo al bar?” Non dico nulla, non so cosa dire. Lascio perdere, lascio perdere, sempre. Che nervoso. È come una sconfitta... ma cosa posso fare?! Domandare perché?! ... proviamo. “Perché mi hai fatto questo? Cos era?” “Non lo sai?! Non posso dirlo. Fa parte del gioco” ecco come volessi dimostrare, non risolve nulla. Se mi arrabbisssi sarebbe uguale. Tanto vale lasciar perdere come sempre... esco dal bar stranamente mi dice livello completato.
Round 5
Perché si chiamano “round” non ci sono dei combattimenti..... prendo il cellulare, cancello tutti i numeri e tutte le chat delle persone del mio passato, voglio ricominciare da zero. Ma... GAME OVER.
Round 1 -again-
Cosa?! Perché ho ricominciato dall’inizio?! Sono ancora in un loop?! Ma che loop può essere questo. Questo gioco mi ha stancato. “Esci dal gioco!”
Capitolo 1 -round 1-
Questa è una presa in giro....?! Dev esserci un bug. “Esci dal gioco”.
Capitolo 0
Dove sono? Cos è questo mondo....? Non c’è nulla... è tutto bianco. “Esci dal gioco” non riesco. “Esci dal gioco!!!” Nulla. Mi guardò in tasca trovo un biglietto nella felpa, guardo se contiene un indizio. “Futuro” in che senso?! Questo è il futuro? E perché è prima del passato?! Che senso ha. “Esci dal gioco” ancora nulla...
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Resto
Parte dalla pancia, rimane lì compressa per qualche istante, come uno starnuto, qualcosa di fragoroso, roboante che però rimane lì: immobile e stagno. Non si muove né esplode, ma lievita, si espande agli arti. Alle gambe, non vogliono stare ferme e tremano, mi costringono ad alzarmi e a sgranchirmi, fare una passeggiata intorno a me stesso, cambiare posizione e il solito tic di muoverle entrambe ripetutamente come stessi suonando una doppia cassa di una batteria senza batteria e senza doppia cassa, solo rumore costante del pantalone che scroscia al muoversi ripetuto e nevrotico dei miei supporti in carne e muscoli ed ossa e sangue che permettono il movimento, le palle degli occhi si distraggono, guardano qualunque cosa per cercare l’attenzione che non trovano, che non mi fanno vedere quello che guardo ma come se specchiassero ciò che nella testa gira velocissimo, le sinapsi e l’elettricità della materia grigia che crea forme e pensieri e idee che non hanno forma o sostanza ma parte tutto dalla pancia.
Respiri profondi, il lenzuolo si muove seguendo il mio corpo e i miei movimenti viscerali e toracici, ansimo e riempio le sacche polmonari della stessa aria che espiro con così tanta forza dalle narici e dalla bocca quando il setto nasale è congestionato e mi impedisce di respirare correttamente. Le bianche pareti non hanno colore, gli oggetti che mi circondano non hanno singole forme ma una unica e infinita che circonda e cammina sulle mura, e la fioca luce che penetra dall’unica finestra in alto a sinistra incide di un colore giallognolo quattro poligoni di forme diverse come uno sputo di sangue sul pavimento, seguendo la via di fuga della parete sul quale le forme sono impresse, al cui centro si staglia una grande croce nera e di tanto in tanto, in base al vento, foglie e secchi rami come arti demoniaci di esseri notturni che picchiettano ritmicamente sul vetro della finestra. Osservo le forme che assumono gli oggetti e le loro ombre, come si muovono e cosa cercano di dire col linguaggio dei segni, sembrano muoversi spontaneamente come le mie braccia che cercano sotto il cuscino qualcosa da stringere per distrarmi dal peso che sul mio petto va schiacciando gli organi che la cassa toracica difende con così tanta cura e minuzia. Il cuore si è spostato nella zona lombare, lo sento pulsare. La gola secca non riesce a deglutire la saliva che si accumula in bocca e diventa uno sforzo riuscire a respirare come una mano che stringe la trachea, denti che appiattiscono una cannuccia nera stringendo forte con la mascella su una delle due aperture, una bottiglia in plastica da buttare compressa e schiacciata con forza. Un peso sul petto mi fa dimenticare di respirare facendomi finire in una brevissima apnea che dura pochi secondi, a sufficienza da farmi spalancare le palpebre che se non fosse per il fascio di luce sulla parete non mi renderei conto di aver effettivamente aperto gli occhi o meno tanto è il buio di questa stanza durante la notte.
Partono dalla testa le domande che nel solo interlocutore di me stesso non trovano ovviamente risposte, ma solo altre domande. A rapidissima velocità le mie sinapsi e i circuiti non meglio identificabili dalle mie conoscenze in materia elencano una serie di motivi secondo i quali questa sensazione sarebbe cominciata, partendo dalla nostalgia istantanea dei momenti in cui la tranquillità è ormai un vago e non definito ricordo di quando in me non si era sviluppato questo petardo inesploso nello stomaco, quando il cuore era al suo posto e batteva a velocità regolare e stabile, quando la mia macchina di coscienza era leggera. L’elenco infinito non produce risposte, incrementa il ritmo dei respiri profondi che smettono di essere profondi rimanendo solo respiri di aria calda e viziata che non mi offrono pace. Sento i sacchetti polmonari sempre più stanchi ed affaticati, il costato che comincia a grattare quasi come stesse cercando di farsi altro spazio nelle carini dei fianchi per poter immettere all’interno dei polmoni una quantità maggiore di aria, come se respirare profondamente fosse la soluzione a qualunque male, una boccata di aria fresca dopo essere stati settimane sui libri ed in camera a studiare. Nessuna risposta viene data, nessuna soluzione sembra essere la più plausibile. Le sigarette accese e spente dopo qualche minuto di inspirazione cancerogena dei vapori emessi dalla combustione mista di tabacco e cartina di certo non aiutano, ed è meglio evitare di prolungare l’esposizione a questo masochismo. La marijuana allo stesso modo delle sigarette non ha tutti gli effetti benefici che le si vogliono attribuire, perché alla fine ciò che davvero interessa alle persone non è togliere il mercato dalle mani della mafia, o le entrate per lo stato ma potersi fumare una cazzo di canna quando ne si ha voglia, potersi coltivare in casa le piante e spaccarsi le meningi di thc per il solo gusto di essere liberi di fare una cosa trasgressiva, che poi i santoni delle canne e della coltivazione in proprio sono alla stessa stregua dei vegani e dei bigotti: tutti e tre credono in un qualcosa di trascendente che poi, alla fin fine, nemmeno esiste. La questione è trovare qualcosa in cui credere così fortemente da potercisi dedicare anima e corpo, vomitando questi pesi sul petto e sullo stomaco a queste divinità, questi esseri superiori che capiscono e perdonano, che sia uno sballo da rilassamento estremo di qualsiasi muscolo del corpo, le mani giunte in preghiera e la richiesta di indicazioni sulla corretta strada da prendere per rientrare nelle Sue grazie o le predicazioni e le paternali su quanto ci sia di sbagliato nel mangiare cadaveri e quanto invece più sano e giusto nei confronti di nemmeno-loro-sanno-chi sia mangiare prodotti di scarto di altri prodotti di scarto con nomi evocativi quasi orientaleggianti-tropicali-bio-insapore con cui riempiono le loro bocche. Pensare quale sia la fonte di questa sensazione che mi riveste come un cappotto in lana il petto, stretto attraverso pellicola alimentare, che mi stringe e mi fa boccheggiare come se fossi appena uscito da una apnea di quaranta minuti, come quando co si sveglia la mattina di soprassalto e ci si guarda intorno alla ricerca della causa, di qualcosa di familiare sui cui riporre la tranquillità del risveglio, il fiatone del sonno. Nessuna risposta, nessuna causa plausibile, e sento la gola stringersi sempre di più. Ho la sensazione che nemmeno la saliva che ingoio con la forza stia scendendo giù per la gola ma si fermi lì, in mezzo alla strada, costringendomi a tossire e schiarirmi la voce per ripristinare le vie respiratorie otturate da una secchezza che sembra abbia le pareti della trachea e della laringe fatte dello stesso materiale degli asciugamani e cercassi comunque di mangiare un plum cake.
Liquido freddo simile ad acqua ma dal gusto più saporito dell’acqua si accumula fra i lembi di pelle che coprono le palle degli occhi straripando in piccole gemme lucide che si fanno strada lungo le tempie trovando come destinazione i capelli, le orecchie, il cuscino, a seconda della strada che percorrono. Mi metto in posizione fetale spaventato, stanco, terrorizzato da questa membrana che mi riveste e che non riesco a staccare dalla mia pelle perché non si trova in superficie ma esattamente sotto, come se in realtà fosse esattamente l’opposto cioè la pelle a rivestire questo strato di paura e terrore e inquietudine immotivata e agitazione e tachicardia e sudore freddo e lacrime e cuore pulsante nello stomaco e respiri che cercano di raccogliere più aria possibile e gola secca e io non posso fare nulla se non pensare a come vorrei aprire una porta all’altezza dello stomaco, strappare dal di dentro questa membrana plasmosa e tirarla via con forza.
Spesso è durante la giornata che passo le ore in questo stesso stato, cercando di non far uscire gemme salate dagli occhi e senza mettermi in posizione appallottolata ove posso. Durante i momenti in cui mi trovo in questo stato e guardo di fronte a me gli occhi non vedono gli oggetti che cerco con lo sguardo ma riflettono questa sensazione e gli effetti che questa mi provocano. Immagino durante le lezioni di prendere le teste dei ragazzi che chiacchierano innocentemente di fronte a me disturbando la lezione al sottoscritto, parlando di quanto sia stato divertente andare al locale la sera prima, di come è stato buffo Luca che è inciampato mentre aveva in mano tre piattini di roba del buffet cadendo rovinosamente a terra attirando l’attenzione e le risate esagerate di un tavolo di quattro o cinque liceali fra ragazzi e ragazze di 17/18 anni che hanno passato dieci minuti a ridere e a guardarlo per vedere se sarebbe caduto una seconda volta o meno, o di come Gianmario sia completamente innamorato di una sua compagna di corso con cui spesso si scambiano sguardi mentre entrano od escono di classe, di come ha più volte cercato di parlarle ma ogni volta si vergognasse perché non sapeva mai cosa dire e allora finiva per passarle di fianco guardandola ma vedendo davanti a sé soltanto la delusione e il rimpianto di non avere abbastanza coraggio da rivolgerle parola. O di come Antonella si sia presa una infezione al terzo piercing – uno sull’ombelico – e che sta mancando dalle lezioni per quello, perché non riesce proprio ad indossare magliette o nulla, sta tutto il tempo in camera da letto sdraiata a pancia in su, chissà come dorme la notte, se dorme bene, o quando deve andare in bagno o farsi la doccia, o sedersi sulla poltrona per leggere o studiare e di come quella settimana lei si sarebbe fatta l’ennesimo tatuaggio, sul retro del gomito: aveva in mente di farsi fare una scritta latina in stampatello tutta intorno ad un triangolo grande formato al suo interno da tre triangoli più piccoli neri e nello spazio al centro bianco, anch’esso a forma di triangolo e fra i tre triangoli più scuri, una piccola ancora. Immagino di prendere le loro teste, urlare contro parole la cui importanza è di scarso rilievo, al solo scopo di sfogare la rabbia innaturale e spingerle l’una verso l’altra con forza, o entrambe verso il tavolino comune della bancata dell’aula o contro la struttura ferrea delle sedie ove sono installati i banchetti e le sedute ripieghevoli della classe. Niente di personale, nessun odio, solo una forte rabbia per qualcosa che ho dentro di me, che poi si concretizza nel respirare con più forza, cercando di ignorare le persone che mi circondano, ma non ci riesco, e membrana sotto la pelle si materializza dentro alla mia testa facendomi immaginare un universo parallelo in cui urlo a gran voce e faccio scontrare con forza crani altrui e lancio verso le direzioni del mio campo visivo tutto ciò che mi capita fra le mani. Ma poi non succede, stringo la penna o i pugni, mi sgranchisco il collo, cerco di ingoiare e vado avanti. Ma la sensazione mi rimane dentro, e vorrei solo strapparla via.
Poi tutto all’improvviso passa, e come se cercassi con forza di non tornare nel buco che immagino chiudersi nella stanza rosa e grigia ed elettrica del mio cranio, cerco di fare tante cose e di non pensarci, ma sento che è lì, la sento presente ma sopita e ancora non so come o cosa la faccia svegliare, ma mi godo il momento di quiete.
Respiro. Resto.
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Elenco di cose che sono cambiate (chissà poi perché) in ordine puramente casuale. - Non penso più che ci sia sempre tempo per fare tutto. Penso ancora che non ci sia un momento giusto per ogni cosa e che le cose certe volte possano accadere quando meno ce l'aspettiamo, proprio nell'attimo che si sembra più sbagliato e inadeguato, ma non penso più che il tempo si possa utilizzare tutto come vorremmo noi. Non penso più “finché c'è vita c'è speranza”, perché ho scoperto che a certe speranze, semplicemente, ci si deve rinunciare. - Rinunciare è una bella parola. Fino a qualche tempo fa avrei detto il contrario: non si rinuncia, si lotta finché la vita ce lo consente, ma non sottovaluto più la bellezza del lasciar perdere, del dire “ma sai che c'è? io me ne frego”. - Fregarsene è un'arte che s'impara. Io pensavo di no e invece mi sono dovuta ricredere. Pensavo “non cambierò mai, mi farà sempre tutto un po’ male, anche le cose leggere, anche i fatti innocui. sono così e pace” e invece col cacchio. Invece una sera mi sono addormentata ripetendo tra me e me “anche se hai paura una dormita te la puoi anche fare” e ho dormito dieci ore di fila come non mi succedeva da trent'anni (credo). Da lì è stato tutto in discesa. - Dopo una salita c'è una discesa, ci insegnano così. Ce lo insegnano per rassicurarci, perché insomma: è un bel pensiero. Io però ultimamente mi faccio delle belle camminate anche sui monti e mi sono accorta di una cosa che secondo me si può accostare anche alla vita: andare in discesa è faticoso, è pure un po’ pericoloso. In pratica: è un casino tutto. - È un casino tutto, ma è bello così. Fino a qualche anno fa dicevo a tutti: vorrei poter stare un pochino tranquilla, ma ora so che non sono il tipo che ha bisogno di tranquillità. Ho bisogno di muovermi, di fare, di andare. Anche se non me la sento, soprattutto quando non me la sento. Stare ferma mi spegne, mi fa regredire a quando ero piccola e non volevo andare all'asilo perché con la nonna si stava meglio. - Stare meglio non è sempre la scelta migliore. A volte la scelta migliore è stare un po’ scomodi. Uscire con persone scomode, frequentare luoghi scomodi. - Per fare un esempio stupido: gli scogli sono scomodi, ma le stelle cadenti dagli scogli si vedono alla grande. Provare per credere. - Non ho più certezze. Prima ne avevo a bizzeffe: non vivrò mai in campagna, sognerò sempre il mare, non ascolterò mai canzoni di merda, non comprerò mai libri che insegnano la sopravvivenza (tipo: come smettere di farsi le paranoie e co.), non metterò mai i tacchi per andare a lavoro perché io sono una trasandata spettinata fricchettona etc.etc., non perderò mai questo e non perderò mai quello, non farò mai un figlio. Invece poi. Sogno di abitare in una grande città che mi avvolga e mi respinga continuamente, ho perso molto e ancora non ho fatto bene il conto, i tacchi per andare a lavorare due o tre volte me li sono messi, di canzoni di merda ne ho ascoltate e ne ascolterò ancora parecchie e certe volte penso a come sarebbe la mia vita se dovessi pensarla divisa per due, o forse si può dire raddoppiata?, se dovessi dedicarla senza se e senza ma a due occhi sì nuovi, ma assolutamente non sconosciuti. - Penso che forse ci proverò, a fare un figlio. Ci proverò, perché come ho scritto prima non è detto che siamo sempre in tempo per tutto e non basta la forza di volontà. Non sempre. - Ero convinta che imparare a fregarmene mi sarebbe piaciuto molto e invece mi fa schifo. Cozza proprio con il mio viso, con l'espressione dei miei occhi, con la mia persona: io voglio che m'importi, che non lo so se è detto bene, ma sono sicura che ci siamo capiti. - Credevo che il primo capello bianco mi avrebbe uccisa e invece sono ancora qui e quasi quasi ne vado fiera. Cioè, ora non esageriamo. Comunque non faccio di tutto per nasconderlo. Più o meno. - “Quando andrai a vivere da sola mi rammenterai” mi diceva la nonna. Ed è vero. La rammento spesso, tra me e me, perché aveva ragione: la forma è importante. Non è tutto, ma conta. È già un modo per dimostrare amore, per raccontare una passione, per dichiarare che ci sappiamo prendere cura delle nostre cose e di noi stessi. È il punto di partenza. Faccio una cosa che non avrei mai pensato di fare: stiro. Non la biancheria intima come faceva lei, ok, ma ogni tanto stiro. - “Non ti perdonerò mai” e invece poi ho perdonato tutti. Portare rancore richiede tempo ed energie, richiede una buona memoria. È una prerogativa dei cuori fragili. Ho scoperto però di avere un cuore super, un cuore che resiste alla grande e allora sono tenuta ad amare, a dedicarmi alla bellezza, ad arricchirmi. Me lo dice sempre una persona a cui voglio tanto bene: sfama la tua anima. Non sarò mai la più brava, la più bella, la più amata, la più divertente, quella che si ama “per sempre”, ma ho un balconcino pieno di fiori e ne vado molto fiera. - Al per sempre non ci ho mai creduto e invece ora un po’ ci credo. Secondo me qualcosa che non finisce forse esiste. Magari non va avanti come avremmo voluto noi, magari fa tutta un'altra strada e magari è pure quella sbagliata, ma chissà: forse il paesaggio sarà mozzafiato, forse poi la destinazione sarà la stessa. Porsi dei limiti è sacrosanto, ma porre dei limiti alle combinazioni di possibilità che tengono in piedi una vita è presuntuoso e sciocco, oltre ad essere completamente inutile. Per il resto tutto come sempre: il mio naso è sempre più grosso, la cellulite c'è ancora tutta, guardo ancora i cartoni animati, mi taglio i capelli da sola, non so guidare, non so cucire, non so nuotare, non vado in palestra, non ascolto i messaggi vocali, non fingo interesse, mi tengo alla larga da chi non sa ascoltare e da chi non è gentile. La gentilezza (quella insita nelle mani e negli occhi) è ancora fondamentale, per me. Abbraccio ancora le persone quando bevo un bicchiere di troppo. Il mio mese preferito è sempre luglio e se mi gira fingo ancora di avere un superpotere per quattro o cinque giorni di fila, finché una mattina mi sveglio e me ne dimentico. Ho ancora nostalgia per qualcosa che non ho mai vissuto e certe volte guardo fuori dalla finestra e penso “ora secondo me succede una magia”. Provo ancora quel brividino lì e mi sa che se c'è una cosa che non cambierà mai, forse è proprio questa: ci credo ancora.
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castellidsabbia · 6 years
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CAOS CALMO
Come mi descriverei. Sì, mi descriverei così osservandomi fuori di me. Che poi forse sono già fuori di me, mi sento fluttuare sulla mia testa, andarmene via e poi tornare. Mi controllo, mi controllo sempre.
Mi vedo camminare con gli occhi nemmeno così tanto tristi, malinconici. La malinconia mi esce dalle orbite, la malinconia di qualcosa che non ho, non ho mai avuto, ho creduto di avere, ho capito di non poter avere. Cammino così, spinta dalla malinconia, mi si legge in faccia.
Ma non faccio pena, metto quasi timore di questa freddezza palese eppure mostrata così, come un modo di essere. Si legge in faccia alla gente, se ne accorgono della mia faccia. Sono triste? Mi sento triste, credo. Sono così triste da essere arrabbiata. Non ho più spazio per essere triste allora, sono solo molto, molto arrabbiata.
Di una rabbia violenta, di quella che ti fa stringere forte le mani stringendo niente mentre sei in metro. Quella che ti fa digrignare i denti mentre cammini. Ecco perché la mia malinconia con fa compassione a nessuno, spaventa e basta. Perché mi vedono l’occhio malinconico, le mani e le labbra serrate, la vena sul collo che sta per esplodere, io che li sto per ammazzare tutti. Spacco tutto.
Corro, mi ammazzo di ginnastica, urlo, spacco tutto. Senza fare un minimo rumore, in silenzio. Con il completino della Nike, la crema idratante, il tappetino da yoga. Tutto perfetto, tutto sotto controllo.
Come sei posata. Come sei elegante. Come sei interessante. Che vita piena. Che testa piena. Sì, così piena apposta per non pensare al resto. Come sei seria. Come sei discreta. Come non riuscite a vedere nemmeno mezzo millimetro più in la’ dei miei occhi che boccheggiano in apnea, stanno a galla sulla superficie di un lago. Un pozzo. Sono un pozzo. Nel senso di buio totale, nel senso di profondo e lontano. Se ti affacci su un pozzo non ci vedi un cazzo.
Sono così tanto arrabbiata, da essere spaventosamente calma. Sono un pozzo, sono buio.
D’estate, mamma quando eravamo vicino al pozzo in giadino mi diceva di guardare in alto e scoprire la luna piena. Esprimi un desiderio.
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Tu non hai idea..
Non hai idea dell' effetto che mi fai. Potrei descriverti esattamente ora con gli occhi stanchi ricoperti da occhiaie cos' ho pensato quando ti ho visto quel pomeriggio in moto mentre mi fissavo per cercare un parcheggio. Tu non hai idea. Tu nemmeno ci crederai...ma io appena ti ho visto, nel momento stesso in cui mi ha sorriso ho pensato "é esteticamente il ragazzo che ho sempre sempre sempre sognato per me". Era come se ti conoscessi già. Come se cazzo io ti avevo già parlato, non era la mia volta che mi toccavi la spalla. Pioveva, e tu che sei un km più alto di me hai preso in mano l'ombrello e mi tenevi sotto stringendomi con il braccio. Me lo ricordo come fosse ora "ora dal vivo posso dire che non sei solo carina, sei bellissima cazzo." morta. Tu non hai idea dell' effetto che mi fai ancora ora. Mi ricordo tutto. Il primo tavolo, il primo bicchiere insieme. E cazzo i tuoi occhi, non so perché continuavi a fissarmi ma giocavo contro me stessa a vedere quanto riuscivo a fissarti negli occhi. E cazzo ci riuscivo. Di solito non riesco, mi imbarazzo invece con te non era così. Potevo stare li a parlarti per ore dei miei cazzi che tu mi fissavo dritto negli occhi e io ricambiavo. Fissi negli occhi. Ricordo quando ho iniziato a parlare con il barista, che mi stava scrivendo anche lui in quel periodo, e tu hai iniziato a fissarmi e sorridere come se ti piacesse che parlassi con un altro mentre lui vedeva che stavo con te. O non so neanche io perché sorridevi, ma tu non hai idea di quanto mi piacevi e non sapevo dirtelo. E mentre ascoltavo l' altro ragazzo tu fissavi me e avrei voluto morire li, sentivo i tuoi occhi addosso in una maniera imoressionante. Non so che cazzo eri o chi cazzo ti aveva mandato, ma eri perfetto. Cazzo se lo eri. Lo sei cazzo. Forse lo sei davvero. Mi ricordo esattamente dove ti ho portsto e di cosa è scattato mentre ti sei avvicinato davanti a me sposandomi un capello dal viso. Non ti so spiegare che cazzo ho sentito, ma è stato questione di un secondo, ed eravamo a un millimetro l'uno dall' altro. Te lo giuro che se avessi sentito il mio cuore stava per esplodere. Non so che cazzo era. So che entrambi abbiamo provato la stessa cosa. Ci siamo fissati negli occhi e ci siamo scostati contemporaneamente.
I nostri occhi in quell istante hanno fatto l'amore.
Da lì è iniziato tutto.
Tu mi facevi paura.
Io non mi dovevo innamorare di te. Non dovevo.
Dovevi togliermi i problemi non crearmene, ma cazzo eri perfetto e io troppo razionale. Mi ricordo quando te ne sei andato e mi hai scritto mentre sei sceso a bere in un bar che non vedevi l'ora di settimana prossima per salire ancora, e se avessi detto di no saresti tornato a farmi cambiare idea. Avrei voluto davvero che tornassi indietro. Non potevi smettere di pensare a quel attimo.
Poi quella settimana dopo all'inizio c' era imbarazzo, non so perché... ma ho fin pensato che io in quei giorni ero troppo nervosa e non mi piace tirare fuori argomenti per parlare e probabilmente saresti andato via prima... E invece è stato ancora meglio. Sei riuscito a capire che qualcosa non andava e provato a parlartene e tu ci hai preso in pieno. Da lí poi abbiamo parlato di un migliaio di cose che dio solo sa come ci sono saltate fuori, e mentre io parlavo dei miei problemi tu mi sfioravi e in un momento hai detto esattamente "peso quasi 80 kg e tu sei la metà esatta di me.... " mi hai fissato e hai fatto finta di nulla. "si cioè pensi 40 kg...". Ti avrei baciato all' istante. Lo sapevamo entrambi che stavi davvero riferendosi al peso ma appena ti è suonata la frase hai spalancato gli occhi come se avessi detto una cosa che non potevi più nascondere. Come se avessi rivelato un segreto al tuo peggior nemico. Io ti avrei baciato già allora. Ma non potevo. La mia testa non poteva. Non voleva rischiare. Ma io ti avrei baciato mille volte. Minchia se lo avrei fatto. Non so come ho fatto a resisterti. Continuavi a dire che ero strana, in senso positivo anche se io inizialmente me la presi e tu cercavi di ironizzare finché sei arrivato davanti a me e mi hai preso il viso tra le mani e hai detto"oi sei perfetta. Sei stata perché non sei il tipo di ragazza che di solito frequento, ma infatti io mi sto comportando con te in un modo strano. Non faccio così con tutte la seconda volta che le vedo. Non gli porto un souvenir la prima volta che le vedo da dove sono stato in vacanza perché continuavo a pensarle. Non so come descriverti ma sei quella che vorrei, ma so che non è periodo e so che per te è presto però fidati che non sei strana in senso negativa. Sei perfetta. Chiunque ti salterebbe addosso" dicevi si che ero diversa dalle altre e che ero il tuo prototipo, che non ti sei mai accontentato ed era come se io fossi tutto in una persona sola. Mi preoccupavo sempre di mettere maglia accollare perché non volevo sembrare quel tipo di ragazza e non volevo attirare troppo la tua attenzione, ma non serviva a un cazzo. Eravamo due calamite lo stesso cazzo ahahah. Mi fissavi negli occhi e dicevi" che cazzo di occhi hai? Cioè ma chi cazzo te li guarda da così vicino ora? ormai vedono me tutti quelli che ti guarderanno eh" lo so Alex, hai ragione. Ti vedono dai miei occhi perché non mi esci dalla testa e sto prendendo i giro tutti. Tutti, compresa me.
Sai cosa mi ricordo ancora baby? Oltre a quanto eri cutie quando mi chiamavi così? A quando eravamo sulla panchina e non facevi altro che appoggiarti a me e toccarmi il braccio timidamente e poi con la scusa della mia allergia cercavi di massaggiarmi la caviglia piena di sfogo allergico. Giuro non riesco a togliermi di testa quell'immagine di te mentre mi guardi e continui a ripete che stai così bene e non vuoi andare via. Stavi per baciarmi e io ti ho scostato"sei così bella per non farti baciare". Avrei voluto che mi prendevi e me lo stampa i sto cazzo di bacio senza darmi tempo di pensare ma tu eri troppo e non lo avresti mai fatto. Mi rispettava troppo per poi farmi tornare a casa piena di paure e rimorsi. Siamo stati li un ora a ripeterci che stavamo bene e sai cazzo io stavo davvero bene.
Se potessi tornare adun solo attimo tornerei li su quella panchina con te. E cambierei tutto. Da lì non mi scappavi più.
Da lì eri mio e fanculo tutto e tutti.
Tu e quel fascino particolare che ho amato dal primo sguardo. Capelli "arancioni" e occhi marroni. Ma da dove ti avevo inventato? Eri come un mio disegno diventato realtà. E poi siamo andati in un altra panchina più vicino alla tua moto perché dovevi andare ma nessuno dei due voleva... Volevo baciarti. Ma la mia testa non poteva. Non riusciva a farlo. Lo avrei voluto tanto Alex cazzo. Ma sono troppo razionale e avevo troppo paura di quello che mi facevi. Eri una cazzo di droga.
Non so se eri un bene o un male, so che mi facevi stare in paradiso e so che pensavo di aver preso una sbandata assurda per i tuoi capelli e la tua faccia da paraculo e la tua intelligenza. Dio avrei fato l' amore con tutti i tuoi ragionamenti. Non c' era mezza cosa su cui non la pensassi uguale a te. Dio eri perfetto per me cazzo.
Mi ricordo quando per messaggio tu stavi capendo che ero troppo incasinata e mi stavo risentendo con il mio ex e io cercavo di trovare una scusa per farti restare. Me lo ricordo benissimo. E tu hai detto"tranquilla baby resto. Hai solo bisogno di troppe coccole mi sa" e io"da chi? "e Lui per una volta ha preso iniziativa senza dire che dovevo averle da chi voleva ma hai detto" da me. E anche io ho bisogno te patrizia".
Non so spiegare a nessuna cosa cazzo si era creato fra di noi... So che stavo da dio.
Solo che non eri arrivato nel momento giusto. Non era un bel periodo e io lottavo con il mio cuore e la mia testa da un po'. Non sapevo più chi fossi e cosa volessi e avevo un cuore a pezzi dalle troppe delusioni. Eri tutto quello che volevo ma non potevo farti male.
Sei salito a una festa solo per vedermi e io ho lasciato che mi trovassi. Stavo per farmi offrire un drink da un altro ragazzo quando girata di spalle mi hai visto e mi hai toccato i capelli. Come se fossi sicuro che fossi io "ei baby".
Eri tu e io ero la tua baby.
Mi drogavi con i tuoi stessi occhi e quelle lentiggini che sogno ancora. Alla fine ho preferito una tua birra che un drink e la mia amica già sapeva che avrei scelto te mille volte. Eravamo in discoteca e dio tu guardavi solo me. Continuavi a prendermi in vita e io continuavo a pensare che la mattina avevo visto il mio ex e non potevo. Che dovevo scegliere.
O lui o te Alex.
E io ero troppo incasinata per una cosa così bella come te. Non potevo farcela.
E ho rifiutato ancora una volta mente tu avevi il naso a due millimetri da me.
Poi ti ho visto con un altra e ho mandato tutto a puttane. E questa era pure amica mia. Non so cosa volevo fare. Poi ho realizzato foste amici già da un po' ma mi irrita ancora ora quel pensiero di te vicino a un altra.
Io ho convinto me stessa di tante cose, ma cazzi io e te non riuscivamo mai a staccarci.
Alex è un anno oggi. E ti ho ancora in testa ma ne ho fatte troppe e ho troppi dubbi sulla tua vita.
Sono troppo razionale perché se non lo fossi le cose sarebbero andate molto diversamente. Non so se cazzo mi hai fatto, ma mi hai stravolto tutto. Al punto tale da pensare che una cosa così forte non l avessi mai provata.
E ora? Ti ho lasciato andare e io sto cercando di scappare da questo posto. Penso di capire cosa mi rende felice e ho paura di perdere persone che ho accanto. Ma mi manchi e ti penso spesso. E forse non so più chi sono. Non so più chi mi hai fatto diventare.
So solo che voglio andare via da qui il prima possibile e cambiare di nuovo.
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colospaola · 7 years
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Un giorno, verso sera, sulla panchina di un parco, ho incontrato Gianni, uno spazzacamino.
Aveva un buffo cappello a cilindro, la faccia coperta di fuliggine e un meraviglioso sorriso.
A dir la verità non mi sembrava vero di aver incontrato uno spazzacamino, ma l’animo della giornalista ha avuto il sopravvento e ho pensato che forse avrebbe risposto a qualche domanda….
Forse era una favola, o forse stavo sognando…….
Quando e come ha deciso di diventare spazzacamino?
 Dopo aver lavorato per 8 anni un’azienda che produceva caldaie come tecnico di laboratorio, nel 1997 mi sono messo in proprio come manutentore di caldaie e bruciatori, un giorno una signora anziana mi chiese se oltre a pulire la caldaia potessi pulirle anche la stufa a legna, visto che lo spazzacamino quell’anno non era potuto andare…….stesso tuo stupore : come lo spazzacamino ? Decisi di informarmi, scoprii Santa Maria Maggiore, il museo dello Spazzacamino, la storia degli Spazzacamini e da allora mi sono messo a fare anche questo lavoro, adesso direi che circa il 40% dei miei clienti mi chiama per la pulizia delle canne fumarie e camini.
Credo che molti bambini degli anni 60′ 70′ e 80′, siano rimasti affascinati dalla Spazzacamino di Mary Poppins e dal celebre ballo sui tetti.  Ci si ritrova?
Molti bambini si aspettano che io arrivi vestito come il celebre Spazzacamino di Mary Poppins e rimangono delusi quando mi vedono con abiti da lavoro “ normali “, credo che se mi mettessi la divisa per andare a lavorare molti mi prenderebbero per pazzo….In realtà non esiste una vera divisa da Spazzacamino qui in Italia, come invece c’è nei paesi del nord Europa.
Comunque quelli che erano bambini negli anni 70 e 80 ormai sono grandi, ma se hanno fatto vedere il dvd di Mary Poppins ai loro figli ( come ho fatto io per esempio ) un pensierino lo fanno e devo dire che la cosa mi piace!
C’è comunque un aspetto quasi fiabesco nella figura dello spazzacamino, le piace?
Si, lo spazzacamino è quasi visto come un personaggio fiabesco perché rievoca ricordi di un passato lontano, la vecchietta vicino al camino, la pentola con la polenta, la casetta in montagna del nonno di Heidi con le caprette che ti fanno ciao, insomma un mondo che molti hanno solo visto in televisione o che hanno immaginato leggendo qualche libro….Quando sfiliamo a Santa Maria Maggiore la gente che ci vede ritorna a questi pensieri ed è questo che rende unica la cosa.
Ma c’è qualcuno che l’ha accolta cantando la canzone dello spazzacamino?
Molte persone anziane mi hanno accolto con la canzone o con vecchie filastrocche che si usavano ai loro tempi, ma di solito la canticchio io quando sono a lavorare sui tetti…rende meno pesante il lavoro fisico.
Lei ha studiato al Politecnico, cosa se posso?
Ho il diploma di perito elettronico, istituto OMAR di Novara, poi mi sono iscritto al Politecnico di Torino, ingegneria elettronica ma dopo tre anni ho abbandonato… quindi niente Laurea, ma tanta esperienza di vita che è servita per il futuro e per fare curriculum.
Quella dello spazzacamino, è stata un’attività che già era praticata dalla sua famiglia?
No nessuno, mio padre ha lavorato quaranta anni in Svizzera come saldatore, gli zii emigranti pure loro, nonno materno minatore, il primo spazzacamino sono io…
Ha avuto eventualmente dei maestri?
Nessun maestro. Mi sono chiesto: come posso farlo senza sporcare in giro ? poi tutto è venuto da solo, negli anni mi sono attrezzato e quindi adesso il lavoro è diventato molto più semplice, anche se molte volte si trovano canne fumarie costruite malissimo.
Ok, adesso il lavoro dello spazzacamino è differente da quello che si faceva nella prima metà del 900, una volta gli spazzacamini erano i bambini che si arrampicavano su per la canna fumaria, che era larghissima.
Adesso le canne fumarie sono di dimensioni molto ridotte e quindi si usano scovoli che vengono fatti scendere partendo dal comignolo.
Lo spazzacamino è ancora attuale oggi e chi la chiama per il suo lavoro?
Attualissimo, i combustibili solidi, le biomasse, insomma la legna e il pellet tanto per capirci hanno ripreso piede, e quindi la pulizia della canna fumaria è necessaria (oltre che obbligatoria per legge, esiste una normativa che impone la pulizia annuale, ma non è molto conosciuta…), la clientela va dalla nonna con la vecchia cucina economica a legna, l’architetto che ha il caminetto nello studio, il pensionato che ha fatto installare la caldaia a legna, la pizzeria per il forno di cottura….insomma un po’ di tutto.
Quali sono i pregi e i difetti del suo mestiere?
Pregi….se lo fai con amore e passione ti diverti pure, ok è faticoso… però forse è quella rievocazione fiabesca che dicevamo prima, la gente ti accoglie in casa in maniera diversa, non è quel “ oddio devo fare la revisione della caldaia adesso mi tocca chiamare il tecnico anche se la caldaia funziona…. “ qui è “ Gianni mi vieni a pulire la canna fumaria del caminetto? Avvisami prima di venire che ti preparo il caffè! “
Difetti: tutti si ricordano di pulire la canna fumaria all’ultimo momento e quindi settembre ottobre e novembre sono mesi di fuoco, dove la sera non mi ricordo neanche chi sono, molte volte soprattutto con le nuove generazioni le persone sottovalutano il tuo operato e credono che lo spazzacamino lo possa fare chiunque, ma una preparazione tecnica è necessaria, un impianto costruito male diventa pericoloso e noi dobbiamo essere in grado di riconoscerlo, da poco in Italia ci si sta muovendo perché gli installatori e manutentori d’impianti a biomassa siano abilitati per questo e ti posso assicurare che molte volte mi trovo davanti ad impianti a dir poco osceni…
E’ un mestiere che lei considera pericoloso?
I suoi rischi li ha, quando sali sui tetti devi prendere tutte le precauzioni possibili, cavi di sicurezza, imbragature, casco di protezione, e poi ci sono sempre le solite vespe che vengono a ronzarti intorno…quando non trovi i calabroni che hanno deciso di costruire abusivamente il loro nido nella canna fumaria…allora lì si che mi metto a ballare come lo spazzacamino di Mary Poppins…
Ma allora non è vero che siete in via d’estinzione?
Breve storia degli spazzacamini: verso la fine del 1800 le famiglie che vivevano nella Val Vigezzo e nella Valle dell’Orco per avere una bocca in meno da sfamare nel periodo invernale mandavano i figli più piccoli a fare lo Spazzacamino. Questi partivano con uno Spazzacamino più anziano che li prendeva in affido e che li portava nelle grandi città tipo Torino, Milano e li sfruttava, lui si prendeva i soldi della pulizia e i bambini si dovevano accontentare del cibo che le famiglie gli davano dopo aver eseguito il lavoro di pulizia della canna fumaria, difficilmente venivano pagati….rimanevano lontani da casa per tutto l’inverno e ritornavano a casa solo in primavera.
A Torino nel 1874 nacque l’Opera Pia Spazzacamini di fondazione cattolica che si prendeva cura dei piccoli spazzacamini che almeno una volta la settimana vedevano un pasto caldo e potevano lavarsi.
Io ho conosciuto Giacomo Ferrando, che questa vita l’ha vissuta e me l’ha raccontata, è morto all’età di ottantotto anni e per ottanta ha fatto lo spazzacamino.
Questi spazzacamini non esistono più, esistono i manutentori delle caldaie, delle stufe a pellet, e poi quelli come me che si occupano anche delle caldaie a legna, dei caminetti, delle canne fumarie, che si arrampicano sui tetti e amano fare lo spazzacamino.
Un consiglio veloce da spazzacamino, per chi ama i caminetti in casa?
Per chi ama i caminetti nessun consiglio, amare significa prendersene cura e questi già lo fanno, per chi è attratto dai caminetti a legna invece direi di affidarsi ad un installatore esperto, con esperienza, non al primo che capita, se hanno già un caminetto in casa allora direi di chiamare uno spazzacamino che gli possa dare dei consigli.
La miglior pubblicità è il passaparola, io la clientela me la sono fatta così, direi che un tripadvisor anche per gli spazzacamini non sarebbe male.
Cos’ è da dentro, il raduno degli Spazzacamini di Santa Maria Maggiore? E quanto è importante per Lei?
Questo sarà il mio 18° raduno, nelle prime sfilate c’era una certa soddisfazione nel farlo per orgoglio personale, poi dopo aver conosciuto i veri spazzacamini, quelli che ti dicevo prima, tutto è cambiato.
Sfilo come rappresentante degli spazzacamini della Valle dell’Orco, mi sono innamorato di quella valle, di quelle persone.
Incontrare quelli che fanno questo lavoro che arriva dalla Francia, Svizzera, Norvegia, Romania, Russia…27 nazioni diverse….tutti vestiti di nero, neri di fuliggine in volto e come diceva Gianni Rodari solo con il bianco degli occhi…è una sensazione bellissima, la stessa che si prova su di un palco a fine spettacolo con l’applauso del pubblico.
Comunque, quando Domenica 3 settembre alla fine della sfilata vedrai uno spazzacamino sul tetto del comune di Santa Maria Maggiore che farà suonare la campana, quello sarò io…….e li inizierà il mio ballo, la mia favola….
    Ho incontrato Gianni, uno spazzacamino Un giorno, verso sera, sulla panchina di un parco, ho incontrato Gianni, uno spazzacamino. Aveva un buffo cappello a cilindro, la faccia coperta di fuliggine e un meraviglioso sorriso.
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p-ars · 7 years
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Esperimenti di scrittura 2/7 Al bar Scrivere (al) “bar” è molto generico. Esistono moltissimi tipi di “bar”, uno per ogni popolo, uno per ogni città, per ogni quartiere, per ogni barista; verrebbe da dire che ci sono “infiniti bar” (alle volte uno accanto all’altro, alla faccia di ogni teoria macro/micro economica) che ogni giorno compaiono e scompaiono; niente di più vicino ai cicli cosmici di creazione e distruzione. E (quasi) tutti questi bar sono già stati ampiamente de-scritti da moltissimi de-scrittori, forse ben più di uno per ogni bar (possono coesistere due scrittori nello stesso bar, contemporaneamente? Si sfideranno all’arma bianca? Collaboreranno? Sono curioso di sapere se la letteratura scientifica annovera studi specifici su casi come questi). Tuttavia, suppongo esistano bar senza uno scrittore “di casa”, così come scrittori senza un “bar” dove scrivere, e questo rende sicuramente più avventurosa l’esistenza, considerando quanti incontri fortunati possano ancora avvenire tra scrittori e bar. Forse lo stesso bar è diverso per ciascuno di noi, forse ciascuno di noi crea il bar che frequenta, sento l’eco del principio di indeterminazione di Heisenberg, è lo sguardo che crea la realtà, la teoria dei quanti, magari dei guanti se il barista li indossa, ma sarebbe allora un bar di lusso, per scrittori di lusso, chi può permettersi oggi il lusso di fare lo scrittore. D’altro canto, credo anche che al barista – generalizziamo, che sia il gestore oppure il dipendente – faccia piacere avere uno scrittore nel proprio bar. Entrereste in un bar deserto? Dunque qualcuno impegnato in un’attività intellettuale – fantastico, intellettuale! – certo non può che dare lustro al locale. Dobbiamo però considerare una serie di casi, di interazioni che danno risultati finali molto diversi tra di loro. Scrittore introverso con barista introverso = ciascuno si fa i fatti suoi, e tutto finisce lì. Scrittore introverso con barista estroverso = il barista “disturba” lo scrittore. Cambierà bar? Lo inserirà come vittima nel proprio thriller? Scrittore estroverso con barista introverso = il barista gli farà capire che deve scrivere e non chiacchierare? Scrittore estroverso con barista estroverso = probabilmente parleranno spesso del più e del meno, con conseguenze funeste sui tempi di completamento del romanzo, o del racconto, o della poesia, o di quello che è. Che non è un male se lo scrittore è mediocre, ma chi può dirlo prima di aver letto. Quando ero ragazzo, ricordo di aver scelto un bar piuttosto lontano da casa, per mettermi a scrivere uno dei miei romanzi. Era la storia di un toro che scappava da un mattatoio, in principio nessuno se ne accorgeva, il toro scorrazzava libero per la città e nei vari capitoli raccontavo come veniva avvistato casualmente dai passanti, e le loro reazioni nel trovarselo di fronte. Il romanzo finiva male, una pattuglia trovava il toro con le corna incastrate in un reticolato vicino all’autostrada, e decideva di abbatterlo per evitare gravi incidenti, prima che riuscisse a liberarsi e a correre in mezzo alle auto. Il carabiniere che apriva il fuoco si rendeva conto di quanto fosse difficile ucciderlo, non gli bastava un proiettile solo. Era una sorta di tragedia collettiva della solitudine, compresa quella del toro. Il bar dove avevo scelto di scrivere questa storia si trovava (si trova, c’è ancora?) di fronte all’ospedale Sant’Anna, quello “dove nascono i bambini”, ed era frequentato da futuri padri preoccupati, gestanti che prendevano il caffè prima di entrare in ospedale, parenti con regali e fiocchi azzurri e rosa, qualche studentessa di ostetricia. Ai tempi si poteva ancora fumare nei locali pubblici. Che cosa prendevo? Succo di frutta, di solito. Forse era per quello che le studentesse di ostetricia non mi filavano nemmeno per sbaglio. Oggi, riprovando l’esperienza di scrivere in un bar per descrivere che cosa “voglia dire”, mi rendo conto più precisamente di tutta una serie di cose. In primo luogo, i discorsi (o no) della gente: quelli che entrano e non dicono una parola, quelli che invece capisci subito che non vedono l’ora di attaccare bottone. I discorsi da bar, su calcio, tempo, politica. Tu scrittore scrivi, ma non puoi fare a me di ascoltare – anche “solo” inconsciamente – quello che stanno dicendo. Credo che il bar (la locanda, il pub) sia stato il primo social network della storia: ciascuno entra, dice la sua, si atteggia come vorrebbe che gli altri lo percepiscano, esce. Con il suo scrittore seduto al tavolino, il bar per osmosi filtra la realtà “fuori”, in una sorta di distillato di luoghi comuni che potrebbero benissimo essere verità assolute – e in fondo lo sono – di umanità varia che si ferma oppure no per un istante, per un caffè quando deve restare sveglio, per un bicchiere di vino quando vuole far dormire la mente. Attraverso le vetrine, lo scrittore può guardare per strada la gente che passa: meglio di molti canali televisivi, la vita è lì, ad un passo, eppure lui è comodamente seduto al suo tavolino. Non può cambiare canale, e questo non può che fargli bene, in questo caso. Come se fosse un’estensione di casa sua, lo scrittore si trova in un luogo che gli permette di scrivere, ma anche di entrare in contatto con gli altri, senza per questo dover scendere troppo a patti con la sua intimità, la sua privacy. Vedo avventori giocare di scaltrezza per chi si accaparra il quotidiano, sempre solo uno, così che per sapere che cosa succede nel mondo è necessario aspettare il proprio turno, oppure farselo raccontare. Il bar che ho scelto per l’esperimento ha tre videopoker. Credo che questo faccia immediatamente declinare la scrittura verso considerazioni sociali e/o fataliste. Fortunatamente, il bar è anche e ancora il luogo dove si dà il primo appuntamento: qui saranno nati amori, oppure ne sarà stata certificata la morte (cerebrale?), magari qualcuno era già pronto per il conseguente espianto, a-mors tua vita mea. Scrivere al bar con un computer sembra voler dire al mondo “sto lavorando a qualcosa di importante” oppure “è lavoro, è studio”; scrivere a mano significa invece “ehi, è arte”, agli occhi di molti forse suona come “darsi un tono”. Eppure penso a quanti manifesti letterari sono nati nei bar, quanti rivoluzionari hanno scritto in una locanda il proprio credo, quanti criminali hanno pianificato le loro rapine, quanti co-spiratori hanno co-spirato.
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