Tumgik
#'sono sempre stata una grande appassionata di cinema' sì ma no
omarfor-orchestra · 1 year
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Comunque quando sono andata a fare il colloquio per la scuola di recitazione mi sono rifiutata di dire che ormai guardo solo fiction perché avevo paura mi avrebbe cacciata
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automatismascrive · 1 year
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Non intitolerò questo post “Dall’Oriente con furore”: The Red Shoes e Incantation
Se qualcuno si prendesse la briga di scorrersi tutte le segnalazioni presenti fino ad ora sul blog, si accorgerebbe ben presto che c’è un medium specifico la cui assenza spicca particolarmente. Vorrei poter fornire a questo ipotetico lettore una spiegazione del tutto legittima di questa mancanza, tipo che la mia religione mi impone alcune costrizioni inaggirabili, ma la verità è molto più piana e soprattutto meno lusinghiera: guardo quasi solo film che hanno visto tutti. Il cinema è sicuramente la forma d’arte mainstream con cui ho meno dimestichezza, se non altro perché è quella in cui sono stata meno immersa sia nella mia infanzia che nella mia adolescenza; so pochissimo di regia, composizione cinematografica e recitazione e quando decido di guardare qualcosa finisco sempre a recuperare un grande classico piuttosto che una produzione sconosciuta girata con due euro e tanta voglia di innovare che potrebbe meritare un posto su questo blog. In questo triste appiattimento dei miei gusti cinematografici verso quello che mi propinano le liste top 50 movies of all time o, più raramente, il cinema della mia città, spicca però una lodevole eccezione nata ai tempi delle superiori: il cinema coreano.
Per nessun’altra ragione al mondo se non quella di aver visto Save the Green Planet! ad un’età formativa e aver immediatamente dopo sturato i miei dotti lacrimali a dovere con Mr. Vendetta, in questi anni ho visto un bel po’ di quello che il cinema coreano degli ultimi due decenni aveva da offrire – rimanendo piuttosto impressionata. Mi pareva dunque interessante dedicare un articolo a tutte quelle persone che si sono viste Parasite quando ha vinto l’Oscar, hanno recuperato Oldboy e Pietà sull’onda dell’entusiasmo e ora vorrebbero qualche consiglio che non si possa trovare semplicemente cercando 10 korean movies you should be watching right now (sì, consulto spesso le liste sull’internet, fight me), ma l’impresa è riuscita solo a metà: per quanto uno dei due film della segnalazione di oggi sia davvero coreano, il secondo è diretto da Kevin Ko, regista taiwanese che ha collaborato addirittura con Netflix per la distribuzione della pellicola. Perché cambiare piani all’ultimo minuto? Be’, uno, perché Man in High Heels si è rivelato una delusione, e due, perché The Red Shoes e Incantation hanno qualcosa in comune che li rende perfetti per condividere lo stesso spazio sul blog: sono entrambi horror paranormali che si focalizzano sul rapporto tra una madre single e una figlia a cui, per non essere troppo specifici, succedono cose. Cose sovrannaturali, terrificanti e a dirla tutta anche un po’ schifose.
The Red Shoes
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Questo poster sta gridando con tutte le sue forze “sono un mediocre horror orientale dei primi anni duemila”, ma voi non credetegli.
Il primo dei due film che si sono meritati uno spazio sul blog è il meno recente – uscito nelle sale coreane nel 2005 – e anche il meno conosciuto dei due. Anche se dovrebbe prendere ispirazione dalla famosa fiaba di Andersen Le scarpette rosse, in pratica condivide con la fiaba giusto l’ispirazione per l’oggetto al centro della trama: un bel paio di scarpe che la protagonista del film, Sun-jae, trova abbandonate in un vagone della metropolitana in un periodo della sua vita particolarmente difficile; ha appena divorziato dal marito, colto in flagrante mentre la tradiva, e si è ritrovata a dover prendere in affitto un orribile appartamentino a basso costo per rientrare nelle spese che devono affrontare lei e la figlia, Tae-su, appassionata di danza classica. Il fortunato ritrovamento sembra davvero l’unica cosa ad andare per il verso giusto negli ultimi mesi – tranne forse l’interesse che In-cheol, designer giovane e carino, dimostra nei confronti di Sun-jae – ma forse proprio per questo anche Tae-su s’invaghisce subito di quel bel paio di scarpe, provocando una serie di incidenti che ben presto mettono Sun-jae in allarme… Da dove vengono quelle scarpe, ed è stato un caso che siano finite proprio nelle sue mani?
Indubbiamente la prima cosa che colpisce di The Red Shoes è l’utilizzo brillante che il regista fa dei colori: come i più perspicaci di voi avranno avuto modo di notare, infatti, le scarpe al centro della storia non sono affatto rosse, bensì di un rosa acceso un filo pacchiano; è rossa però la traccia di sangue che queste scarpe si tirano dietro, una scia di piedi mozzati, cascate sanguinolente e ossa tranciate che pur non essendo particolarmente esplicita per gli standard degli horror di questi decenni è assai ben girata e permette a tutte le scene che dovrebbero suscitare tensione di raggiungere perfettamente lo scopo prefissatesi. Più in generale, si tratta di un film dai toni spenti e grigi, che pur essendo sempre ben leggibile anche nelle scene più buie ha come unico elemento di forte contrasto proprio tutte quelle scene in cui è il sangue a farla da padrone – assieme naturalmente alle scarpe, che accendono tutte le inquadrature in cui sono presenti e catturano l’occhio dello spettatore, esattamente come succede a tutti i personaggi che vi entrano in contatto.
Infatti il canovaccio che segue il film è piuttosto solido ma relativamente convenzionale, almeno fino a tre quarti del film: un oggetto su cui grava un qualche tipo di maledizione viene acquisito da un’ignara protagonista causando danni a non finire a causa della spirale di ossessione in cui precipitano tutti coloro che vi posano gli occhi sopra; è infatti nelle scelte di sceneggiatura e di regia un po’ più peculiari che The Red Shoes riesce a ritagliarsi uno spazio in un genere già piuttosto ricco nel suo anno di uscita, che oggi è tragicamente saturo. In primo luogo, la scelta di una protagonista femminile che ha un rapporto ben lontano dalla zuccherosa perfezione di cui certi film ammantano la relazione madre-figlia e che in un horror del 2005 era quantomeno inusuale (lo stupendo The Babadook è del 2014, per intenderci); Tae-su è pestifera e seccante, come ci si aspetterebbe da una bambina che vive una situazione famigliare complessa, mentre Sun-jae è tesa, irritabile e sotto l’influsso delle scarpe diventa sempre meno paziente nei confronti della figlia. Per quanto si tratti un film che non è capace di scavare a fondo nella relazione familiare disfunzionale come è stato in grado di fare il sopracitato film di Kent, rimane comunque abbastanza abile da mettere in scena una protagonista con cui è facile empatizzare e per cui ci viene naturale fare il tifo, pur rendendo fin da subito chiaro quanto complessa e sfaccettata sia la realtà della sua situazione – e quando alla fine del film abbiamo il quadro completo della situazione, nulla di ciò che accade è inaspettato o costruito dal nulla: riguardandolo per la recensione mi sono divertita a notare tutti i piccoli pezzi del puzzle che possono condurre alla conclusione naturale del film prima che si arrivi ad essa. Anzi, forse un rimprovero che si può muovere al film è proprio quello di essere un po’ troppo didascalico; sarà che l’ho visto di recente ricordandomi molto bene il finale, ma mi è sembrato che in certi punti il film calcasse un po’ troppo la mano sugli indizi che possono portare lo spettatore a svelare l’intreccio prima della fine.
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Tae-su, interpretata da un’attrice piuttosto abile per la sua giovane età.
Insomma, pur essendo un film assai godibile, specialmente per gli appassionati del genere, The Red Shoes ha qualche limite: pochissimo interesse per la sottigliezza (… quando i personaggi afferrano le scarpe parte una melodia inquietante di poche note), qualche nodo logico e spazio-temporale poco credibile per permettere inquadrature e scene più d’impatto – come nel caso di quelle girate in metropolitana – e in generale il poco interesse ad innovare, specialmente sul lato del sovrannaturale. Complici anche gli anni che si porta sulle spalle che hanno visto fiorire ogni sorta di paranormal horror con approccio molto simile, difficilmente quello che si vede in scena sorprenderà, sia per livello di brutalità che raggiunge sia per concept innovativi: rimane in ogni caso un buon film che è un ottimo modo per iniziare a guardare produzioni coreane un po’ diverse da quelle dei soliti noti.
Incantation
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Rassicurante. Fun fact, il regista si è ispirato sia ad alcune correnti buddiste sia all’induismo per creare i simboli e gli oggetti associati al culto al centro del film.
Il dubbio che continuerà a perseguitarmi ben dopo la pubblicazione di questo post sarà: ma c’è bisogno che io scriva di Incantation? Wikipedia mi informa che è stato l’horror taiwanese con gli incassi più alti mai registrati, è stato distribuito da Netflix ed è tutt’ora disponibile sulla piattaforma… Eppure io l’ho visto per puro caso spulciando i consigli di una scrittrice che apprezzo, i400calci, il mio personale riferimento per il cinema soprannaturale e di menare (cit.), non l’ha recensito e in generale la stampa italiana non è rimasta particolarmente colpita da questo film che si è invece guadagnato immediatamente un posto tra i miei horror preferiti. Quindi, sempre per la legge per cui alla fine su questo benedetto blog scrivo un po’ di quello che mi capita sottomano, ho deciso che se anche fuori dalla mia bolla personale l’hanno visto tutti e parlandone faccio come l’utente che entra in un forum di videogame indie e spaccia Undertale per l’equivalente del libro dello scrittore polacco morto suicida, io ne voglio parlare lo stesso perché l’ho adorato.
E il fatto che io abbia adorato un film found footage, categoria di pellicole che in circostanze normali mi irrita terribilmente quando non mi induce direttamente il sonno, è già di per sé un ottimo termometro di quanto Incantation sia abile nel gestire questo formato e nell’utilizzarlo per aumentare ulteriormente la tensione in un film che fin dal minuto uno è già teso come una corda di violino: Li Ronan, una giovane donna di fronte ad una telecamera, implora chiunque stia vedendo il girato di recitare con lei una preghiera per salvare la figlia Dodo. Apprendiamo infatti che Ronan aveva in passato fatto qualcosa che la aveva convinta di essersi attirata addosso una maledizione dalle conseguenze nefaste per chi le stava intorno, costringendola a dare in adozione la figlia appena nata; dopo un percorso psichiatrico e la ferma sicurezza che le sue convinzioni erano dettate dalle esperienze traumatiche vissute in precedenza, decide di riprendere con sé la bambina iniziando un percorso di affidamento. Ma quello che sembrava essere solo un residuo della sua paranoia inizia a manifestarsi in maniera sempre più reale attorno a Dodo, portando Ronan a fare scelte sempre più disperate per salvare la figlia dalla condanna che sembra incombere su di lei – e svelando allo spettatore a poco a poco ciò che le è successo davvero sei anni prima, quando il suo cammino si è incrociato con quello di un bizzarro culto rurale dalle usanze stravaganti ma pericolose.
Anche la premessa di questo film è piuttosto convenzionale e non è difficile immaginare la piega che prenderà la vicenda: Ko è però abilissimo a suscitare curiosità circa l’incidente scatenante dell’intera storia e a dosare i flashback che ce lo raccontano con millimetrica precisione, alternandoli a scene che sono già da sole terribilmente inquietanti poiché scavano a piene mani in quel terrore che si prova nel non sentirsi al sicuro a casa propria, nel proprio stesso letto e soprattutto nel non avere un posto dove fuggire; la maledizione che insegue Ronan è pervasiva, letale e senza volto, esattamente come il culto in cui si è ritrovata invischiata prima di avere Dodo. Indubbiamente il livello di attenzione per i dettagli delle cerimonie, dei vestiti e delle sculture che sono al centro della misteriosa religione è l’altro grandissimo punto di forza dell’intera pellicola, che comprende benissimo quali sono le dinamiche davvero spaventose su cui vale la pena calcare la mano e si avvale quindi di un’estetica che rinforza l’atmosfera grottesca e oppressiva di cui si nutrono questo tipo di movimenti religiosi. Rituali intricati e violenti pur nella loro tetra sacralità, che in ultima istanza pretendono la totale sottomissione di tutti i loro adepti e sono famelici di nuovi proseliti; pur senza addentrarmi eccessivamente nelle vicende del film, che vale la pena di essere visto senza spoiler, è evidente che tutto, fino alla rivelazione finale che spazza via ogni dubbio sulla reale natura della maledizione, è orchestrato in maniera perfettamente coerente rispetto a ciò di cui il regista vuole parlare: lo schiacciante potere che conferiamo all’adorazione del divino che mastica, consuma e sputa intere vite solo per estendere il suo dominio sullo spirito umano.
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Avrei potuto scegliere frame più interessanti, ma a) sono pigra e b) il programma che uso di solito per fare screenshot avuto qualche problema. Giuro che il film è bello da vedere.
Certo, per quanto Ko sia abile ad utilizzare il found footage per calcare la mano sulla natura ubiqua e pervasiva della disgrazia che segue la protagonista, si tratta di una modalità narrativa che per sua natura si presta più di altre a rompere la sospensione dell’incredulità (quante telecamere accese potranno mai esserci in queste situazioni al limite?); è anche vero che il ruolo del filmato è fondamentale per la rivelazione che ci verrà fornita sul finale, nonché essenziale per supportare il tema portante della narrazione, ed è dunque stata indubbiamente una scelta vincente e non un mero vezzo stilistico che molti registi contemporanei adottano giusto per riscaldare una vecchia minestra in un nuovo microonde. Ed è davvero l’unico appunto che mi sento di fare ad Incantation – tranne forse una mancanza di spazio data alla relazione tra Ronan e l’assistente sociale che verrà coinvolto nelle vicende, che porta ad una decisione un filo improbabile – poiché per il resto si tratta di un film capace di utilizzare elementi orrorifici per nulla rivoluzionari per raccontare una storia carica di tensione che lima lo spettatore fino ad arrivare ad un finale capace di mettere a nudo il cuore pulsante dell’orrore che la protagonista deve sfidare.
Anche questo consiglietto giunge al termine! Forse con un film un po’ più mainstream rispetto alle storie segnalate di solito sul blog, ma la verità è che ho visto Incantation a febbraio e ci sto ancora pensando, quindi ho dovuto esorcizzare il tarlo in qualche modo; confido comunque che almeno uno di questi due film abbia stuzzicato il vostro interesse, se non altro per la curiosità di conoscere il destino delle due protagoniste e delle loro rispettive figlie. 
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nadia762 · 2 years
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La mia amica scrittrice Daniela Tani intervista  Serra Yilmaz che ama il Casentino e… i tortelli!
Sono a Firenze nella dimora luminosa di Serra Yilmaz, attrice turca così conosciuta dal grande pubblico che non ha bisogno di presentazioni. Dalle finestre della sua cucina intravedo la Cupola del Brunelleschi e se abbasso lo sguardo il verde dell’Orto botanico fa presente quanto ormai la primavera avanza con i suoi profumi. Serra è sempre una ottima cuoca e una perfetta padrona di casa. Ho riassunto le nostre chiacchiere in questa bella intervista.
Istanbul, le radici. Che cosa ti manca?
Mi manca Istanbul perché, come tutti sanno è una città molto affascinante, ma anche quando sono a Istanbul mi manca Istanbul. La città non è più quella della mia infanzia, ed è normale, quando io avevo sei anni c’era un milione di abitanti, adesso ce ne sono venti. Costruita, cementata, stravolta nei suoi sapori più antichi. Sono andata a Istanbul dopo la pandemia per girare l’ultima puntata delle Fate ignoranti, sono rimasta in albergo, al Pera Palace per dieci giorni con Ferzan e il gruppo degli attori, dopo sono andata casa mia, in mezzo alle mie cose. Il giorno della partenza il cuore mi si è un po’ chiuso, ma una volta arrivata a Firenze ero molto contenta di essere qui, perché io ho scelto nella vita di essere dove sono, di non lasciarmi prendere dalla nostalgia. Se c’è una nostalgia si srotola nei sogni, il rimpianto di quello che non c’è più è una nostalgia onirica. Di Istanbul mi mancano i servizi, mi manca il pragmatismo turco. Ho  venduto una casa a Istanbul e ho fatto tutto da qui, velocemente con il catasto on line e con la banca, qui con le banche è tutto complicato. Mi mancano le cose che facilitano la vita di tutti i giorni. Io sono sempre in movimento, ho avuto casa a Parigi, adesso sono qui, domani chissà, e in ogni posto cerco il modo di organizzarmi al meglio. In Turchia quando chiamo il taxi, io che abito al secondo piano, non ho l’ascensore, devo risparmiare le mie ginocchia, posso chiedere al tassista di venire a prendere su le mie valigie, qui devo per forza avere un ascensore,  se chiedi una cosa del genere, sai dove ti mandano…
Che lavoro avresti voluto fare da grande?
Ho sempre voluto fare l’attrice. Ho pensato, ma per poco tempo, di fare il medico e probabilmente sarei stata un bravo medico, ne sono convinta. Poi è passata. Io ora mi diverto di più, vedo quanto sono stressati gli amici medici arrivati a cinquanta anni.  Il prezzo da pagare nel cinema e nel teatro è la precarietà.
Le emozioni più forti che ti dà il cinema e quelle che ti dà il teatro. Emozioni, difficoltà, preferenze.
Preferenze non ne ho perché adoro recitare. Non sono una appassionata delle prove a teatro. Non sono amata dal regista e dai compagni al momento delle prove perché ho bisogno di molto tempo per entrare nel personaggio, c’è una attività cerebrale che ha un tempo più lungo, quindi può essere scocciante per gli altri e li capisco, ma tutto si risolve al momento della prima. Il “Don Chisciotte”, con la regia di Roberto Aldorasi, Marcello Prayer, Alessio Boni, lo abbiamo portato nei più importanti teatri d’Italia, prima della pandemia e poi in questa ultima stagione e abbiamo sempre fatto il sold aut.
Al cinema, invece, si fa tutto sull’istante, esiste una bella complicità con gli attori, c’è una sorta di microcosmo, una complicità in cui ti senti partecipe di un gruppo e quando le riprese sono finite il film parte per il suo viaggio.
Anche senza conoscerti si ha l’impressione che l’amicizia percorra i tuoi rapporti di lavoro. È così?
Sì e no. Ci son o persone con cui riesci a fare amicizia con altre no, come in tutti gli ambienti. Noi due per esempio ci siamo conosciute nell’87 e ancora ci sentiamo e ci vediamo anche se con  intervalli di tempo più o meno lunghi. Sui set di Ferzan Ozpetek, perché principalmente, in Itali ho recitato nei film di cui lui è il regista, non posso dire che ci sia competizione, c’è un filo amicale che spesso rimane anche una volta che il set è concluso. Si conservano quei sentimenti, Mi piace farmi viva con auguri e complimenti quando un collega vince un premio o ha una nomination speciale, mi piace mantenere le relazioni anche se c’è una distanza di vita e di spazio. E’ un mestiere in cui le amicizie non sono spesso nello stesso luogo, cambiano i set, cambiano le complicità. Ogni set è un microcosmo a sé.
Quali attrici del passato hai amato di più e da cui hai tratto ispirazione?
Mi piaceva Jeanne Moreau, la Mangano, la Magnani, Bette Davis, trovo queste attrici molto interessanti perché sento il mio carattere vicino al loro. Ma adoro anche Audrey Hepburn, la bellezza magnifica di Ava Gardner, quella di Rita Hayworth. Fra le attrici del presente amo Isabelle Huppert che diventa bella perché è brava.
C’è qualche serie televisiva turca che ti piacerebbe venisse esportata in Italia?
Io non guardo mai le serie, né turche né altre, però ho scoperto alcune serie turche su Netflix, per esempio “Ethos” mi è piaciuta molto, avevo fatto anche un messaggio agli amici italiani, ma in genere non ho l’animo di mettermi a guardare le serie.
Dopo la tua esperienza turca come regista di “Perfetti sconosciuti” ti piacerebbe intraprendere un progetto di regia anche in Italia?
Non credo di voler fare la regia in Italia. Bisogna combattere troppo per ottenere soldi e tanto altro. Ferzan Ozpetek voleva produrre il film in Turchia e io mi sono appoggiata a lui. Dovrei avere qualcosa di molto a cuore per fare la regia di un film tutto mio. Il fim “Perfetti sconosciuti” italiano aveva una sceneggiatura perfetta, era riproponibile anche in altri paesi, partiva da una idea vincente, per questo mi sono cimentata nella regia di un remake turco, ma solo perché sapevo di avere un valido aiuto.
La tua natura eclettica ti porta anche verso il mondo gastronomico. Nei tuoi piatti, la “fusion”, la mescolanza, l’incursione nelle ricette di provenienza diversa, rappresentano la tua filosofia in cucina?
Io ho un atteggiamento molto netto. Nel programma gastronomico che ho condotto in Turchia per più di un anno avevo ospiti attori, pittori, rappresentanti del mondo culturale, era presente un assistente, cucinavamo insieme, anch’io cucinavo, poi insieme ci sedevamo a tavola. Se io faccio una ricetta tradizionale deve essere quella. In Turchia mi arrabbio quando vedo scritto sul menu di un ristorante “Sugo alla bolognese” e poi quello che si mangia è tutta un’altra cosa: carne macinata con un po’ di soffritto. Può andar bene, per esempio, se viene scritto “Bolognese” di Bursa o “Bolognese fatta alla maniera di…”.Se io cucino “Il pollo alla circassa” quello deve essere, altrimenti, se faccio delle variazioni, devo scrivere “alla maniera di Serra”.
Ti piacerebbe fare un programma televisivo di cucina con il format simile a quello che hai fatto in Turchia? E quale ospite famoso ti piacerebbe avere per poi mangiare insieme i piatti cucinati?
Mi piacerebbe moltissimo. Se ci fosse una proposta interessante. Ma se mi propongono, come hanno fatto, di essere presente per fare l’ospite che guarda e riempie la scena, quasi una comparsa, non mi interessa. Vorrei un programma dove io cucino, propongo ricette e faccio una chiacchierata con l’ospite con cui mi siedo a tavola. Ospiti da invitare ce ne sarebbero diversi.
Fra i tortelli del Mugello e i tortelli casentinesi, quali preferisci? (Attenta a rispondere bene!)
Ma i tortelli casentinesi, naturalmente! (ride). Per essere sincera conosco molto bene i tortelli del Mugello perché quella è una delle prime zone che ho conosciuto in Italia e che continuo a frequentare perché là ho amici carissimi. I tortelli casentinesi spero di mangiarli questa estate quando sicuramente andrò a fare delle escursioni per le foreste casentinesi. Conosco  bene però il tessuto casentinese, adoro quell’arancio e quel verde acceso di cui ho avuto anche un mantello. Sono andata a Stia, a Poppi di cui ho ammirato il Castello e il panorama bellissimo dei dintorni. Ci vorrei tornare al Castello, che potrebbe essere un ottimo set di teatro. Anche Angelo Savelli è di Stia, caro amico e grande regista, abbiamo riproposto “L’ultimo Harem” al Teatro di Rifredi per dodici anni, e anche  “La Bastarda di Istanbul” ha avuto svariate repliche.
Hai un luogo dell’anima in Turchia? E in Italia?
In Italia è la Toscana, non è un caso che ho deciso di vivere a Firenze. Il primo posto conosciuto è stato il Mugello, Scarperia, Borgo San Lorenzo, grazie agli amici che abitavano là. Adoro Venezia anche se non ci vivrei, mi piace perdermi fra le sue calle. La Puglia, bellissima, che ho conosciuto da poco. Per la Turchia adoravo un posto sull’Egeo, Ayvacik, la sua spiaggia magnifica, non c’era nemmeno la corrente elettrica, ora è invaso dal cemento. Questo governo turco è un disastro, non facilita certo la conservazione dell’ambiente. Amo l’Egeo, amo le località che un tempo erano incontaminate e che adesso, purtroppo, hanno subito dei grandi cambiamenti. In Italia sono innamorata di Villa Adriana, dell’energia che vi si respira. In Turchia, Aphrodisias è il posto dell’anima per me, gli scavi sono stati ampliati, il sito archeologico è inserito nella lista dei patrimoni dell’umanità.
Che cosa è per te la felicità?
La felicità è come un fuoco di fiammifero, è qualcosa di molto fugace, molto breve. Siamo in un mondo che probabilmente avrà una fine apocalittica, visto come viene trattato l’ambiente e visto quello che sta succedendo, però penso che dobbiamo essere felici quando ci si sveglia la mattina e possiamo vedere il cielo sopra di noi, possiamo muoverci senza che ci faccia male qualcosa e il nostro corpo è in armonia con la giornata che abbiamo davanti. Evidentemente con l’età può essere più difficile, può cambiare la resistenza del corpo, ma dobbiamo avere sempre la coscienza che tutto può cambiare, in qualsiasi stagione della vita, per questo dobbiamo approfittare di tutto, finché possiamo.
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len-scrive · 7 years
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Sei chi frequenti - Parte 4 - Finale
Nell’estate tra la fine delle medie e l’inizio delle superiori il rapporto tra me e il mio storico amico d’infanzia si rianimò e cominciammo a vederci per scambiarci opinioni su cose più serie dell’ultima puntata di Holly e Benji.
Ciò non toglieva il fatto che eravamo due cazzoni inarrivabili e il livello di cagate dette e fatte è a tutt’oggi incalcolabile. Anche se l’amicizia non c’è più.
Ahimè, io vado d’accordissimo coi maschi, sono sempre stati i miei migliori amici, ma quella è un’amicizia destinata a finire. Perché è giusto così, alle mogli e alle fidanzate non piacciono le amiche, ed io non amo le situazioni meno che idilliache.
Io e il mio amico avevamo la capacità di influenzarci a vicenda e così accadeva sempre che gli interessi di uno finivano per toccare l’altra e viceversa; così, data la grande passione del mio amico per le arti marziali, ci vedemmo insieme tutti i film di Van Damme.
Ed io mi innamorai all’istante.
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Che poi, anche lì, penso fosse esaltazione comune per me portata all’estremo, perché Jean-Claude non è il mio tipo; oppure erano i suoi personaggi, tutti uno più fesso dell’altro, con la verve recitativa di un lombrico e il senso dell’umorismo di mio nonno. Però che risate.
Sì, perché eravamo esaltati ma non stupidi. Adoravamo Van Damme e andava bene, ma lo prendevamo anche per il culo. Io prendo sempre per il culo ciò che amo, questo anche nella vita di tutti i giorni.
E mi fa piacere che chi mi vuole bene mi prenda altrettanto in giro, chiaro.
Van Damme non fu l’unica vittima dell’idiozia che ci scambiavamo vicendevolmente. Appena il mio amico beccò Crying Freeman in film (lui che amava il fumetto) lo sottopose alla mia attenzione e fu così che mi innamorai di Mark Dacascos.
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Mark sancì l’inizio di un rituale specifico nato tra me e il mio amico; che era quello di propinare all’altro le porcate più porcate di film mai prodotte per farlo soffrire e ridere alle sue spalle. Tralasciando il fatto che se l’avevi visto una volta e ti aveva fatto schifo, il film, rivedertelo una seconda volta per fare dispetto al tuo amico non era proprio dimostrazione di genialità.
Così nacque anche il mio amore per i film di serie Z. Quelli che guardi, massacri, insulti, sputtani, ma intanto che ridere nel mentre.
Mark produsse così una delle prime serate della nostra amicizia guardando film del cazzo (a parte quelli di Van Damme, chiaro): il film fu DNA comprato, attenzione bene, comprato solo perché c’era lui. Non ho idea di che argomento trattasse e non ricordo nulla della trama: ci sarà un motivo.
Poi tutta da sola scoprii My Own Private Idaho. Apriti cielo. Non solo questo portò alla folle passione per Keanu Reeves, ma confermò anche il fatto che tutte le storie a tematica omosessuale mi sono sempre piaciute, da che leggevo Wilde a tutto ciò che è arrivato dopo.
Keanu durò un bel po’, e il bello era che al tempo non se lo cagava nessuno e nessuno ne parlava.
Non appena me ne innamorai io accadde una cosa interessante, uscì Little Buddha e fu il delirio. Si parlava solo di lui e di quanto era bravo.
Tra me e me pensavo: gli ho portato ben fortuna, eccheccavolo.
Ah, ho portato fortuna anche a DiCaprio, sappiatelo.
Guardando Growing Pains arrivò anche la famosa puntata in cui Luke vuota le bottiglie di vino nel lavandino e papà Seaver pensa che se le sia bevute lui; secondo me in quell’occasione Leo dà una prova d’attore notevole, nonostante il telefilm non necessitasse di incredibili prestazioni.
Ecco, io l’ho pensato subito: questo diventa un mostro.
Ero piccolina, ma avevo ragione. Sono molto fiera di me per questo, lo racconto anche in giro, ci faccio su delle conferenze stampa.
Poi accadde l’inevitabile, come in ogni ciclo della mia vita. Arrivò la serie tv dell’epoca che attendeva solo il momento buono per sconvolgermi la vita. Cominciò Young riders (I ragazzi della prateria in Italia, sempre per il nostro buon gusto in fatto di titoli rivisti e corretti)
E mi innamorai di Stephen Baldwin.
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Eh, non mi sono fatta mancare nulla. La signora e il signor Baldwin hanno prodotto begli esemplari, via.
Adesso, siate sinceri, Young Riders era un gran bel telefilm. Al di là dell’ambientazione che io amo, era proprio ricco di bei personaggi, delineati bene, di certo non proprio corretti dal punto di vista storico, visto che erano tutti degli eroi senza onta, giusti, leali e coraggiosi, però le avventure erano appassionanti e gli attori bravi.
Per questo telefilm mi macchiai di dimostrazioni di cattivo gusto come neanche con Matrix e i Take That riuscii mai più a produrmi. Sono stata capace di andare in giro con una stella da sceriffo appuntata addosso e con gilet con le frange…
E in quel periodo anche altro occupò la mia mente, perché iniziai a seguire il wrestling. E anche se amavo un po’ tutti i personaggi, in realtà Tatanka e la sua danza di presentazione erano i miei preferiti. Probabilmente per restare in tema “ragazzi della prateria”.
E alla fine successe.
Successe anche a me di appassionarmi a qualcosa a cui mezzo mondo si era appassionato.
Ero stata una bambina e una ragazzina idiotissima, ma ero stata sempre piuttosto originale nelle mie scelte. Ma poi arrivarono loro e, sebbene sia stata una mia scelta anche quella, non posso dire di essere stata una delle poche.
Ebbene sì, i Take That nacquero ed io folleggiai per Howard Donald per i successivi tre anni.
Tre anni.
Un record.
Sì, dovetti arrivare ai diciassette anni per ricordarmi di avere un cervello e usarlo meglio di come stavo facendo.
No, va beh, scherzo.
Adesso, come ho già detto più volte, sono severa su queste cose, nel senso che mi guardo indietro e di tutte le passioni che ho avuto quella per i Take That è l’unica che mi sta sulle palle, ma penso di sapere perché.
L’esasperazione che ho visto allora e di cui, discolpandomi un po’, posso dire di aver fatto parte non completamente, mi ha mostrato un modo di essere appassionata a qualcosa che non è sano.
Io ricordo le giornate trascorse con le mie amiche a sparare cazzate e ascoltare le loro canzoni e di quei ricordi vado fiera, vado meno fiera delle dimostrazioni di idiozia che forse sono d’obbligo a quindici anni, ma non tolgono il fatto che poi ti guardi indietro e dici “Ma che rincoglionita”.
Si dice che se certe cose non le fai ad una certa età non le puoi più fare e riguardo questa particolare cosa non c’è dubbio. Fuori, di fronte ai cancelli di Buona Domenica, ad aspettare cosa ancora adesso devo capirlo, non ci andrei mai più nemmeno se dentro agli studi ci fosse Stephen King.
Con la passione un po’ idiota per i Take credo di essermi educata da sola alla mia avversione per la ricerca della vicinanza con gli artisti.
Ancora oggi tutto il mio mondo gira intorno al cinema e alla televisione ben fatti, per i quali nutro amore smodato e di cui non potrei fare a meno, ma tendo a separare così tanto l’attore da ciò che interpreta che magari certe volte esagero pure in senso contrario.
Twitter avvicina molto agli artisti in quanto persone, ma molti di loro non possono essere loro stessi per ovvie ragioni. Tenderò sempre a considerare qualsiasi cosa detta da una persona popolare, qualcosa di relativamente artefatto e detto per una qualche ragione. Nessuno con uno stuolo di proseliti può prendersi il diritto di dire qualsiasi cosa gli passi per la testa, perciò il fatto di pensare che internet mostri la vera natura  degli artisti penso sia abbastanza ingenuo.
Però è comunque divertente l’idea che sia il tizio che lavora al supermercato sotto casa, sia Kevin Smith si mettano a postare cagate magari nello stesso momento. Ti dà un senso di “tutto il mondo è paese” più ampio di quello che potevi avere un po’ di anni fa.
Dicevo che Howard non mi ha portato ad organizzare manifestazioni contro le fan di altri gruppi musicali e non mi ha portato a picchiare le altre fan di Howard perché lui era mio (sì, succedeva, buon dio, succedeva anche nella mia scuola), però ho detto e fatto cazzate che ancora oggi penso ai miei genitori che erano costretti a farsi vedere in giro con me e mi convinco di aver fatto loro purgare la decisione di avere una figlia.
Sicuramente la loro musica era meglio di tante porcate che ci sono in giro adesso, comunque.
Hanno pagato caro l’essere dei bei ragazzi e l’aver attirato un pubblico prettamente femminile di ragazzine urlanti e imbecilli, altrimenti avrebbero fatto più strada di quella fatta.
Del resto Robbie ha ben dimostrato di saper fare quello che fa, anche se veramente non so quanti artisti come lui non si guardano indietro dicendo “Ho buttato via la mia giovinezza”. Ma questo è un altro discorso.
Ricordo che i ragazzi non avrebbero ammesso di apprezzare una canzone dei Take That manco sotto tortura e non credo fosse perché le canzoni non erano belle. Era solo che dire “Mi piacciono i Take That” era come dire “Sono una ragazzina urlante”.
Tra concerti e viaggi vari in giro per l’Italia a San Remo, Milano e via dicendo ho trascorso tre anni a fare esperienze e amicizie nuove, a divertirmi e a fare cose (tipo dormire dentro al Teatro Ariston grazie al buon cuore di una guardia che non ha lasciato le ragazzine idiote fuori al freddo a congelare) che oggi non si possono più fare. Posso dire che la passione per Howard tutto è stata tranne che inutile. E non è stata deleteria, solo molto idiota.
Ma sono idiota anche ora perciò non è che possa stupirmi.
E passò anche quello. Una volta separati i Take That (e non mi sono strappata i capelli, credetemi, nonostante quello che si diceva in giro di noi folli fans) piano piano sono tornata alla mia passione per il cinema e la tv, e poi sono anche cresciuta, smettendo di appassionarmi alle cose grazie agli attori.
Le ultime passioni sono legate più che altro al quarto anno di superiori e al mio ritorno alle serie televisive.
Mi ricordo che un giorno mi fissai a guardare un telefilm che sul subito presi per il culo brutalmente, che ancora oggi prendo per il culo brutalmente, ma che alla fine ho guardato con gioia e che considero decisamente un buon prodotto nonostante gli effetti speciali infami, le trame pittoresche e la recitazione un po’ da capre belanti.
Trattasi di Hercules The Legendary Journeys e potevo mai invaghirmi del protagonista io? Ma figuriamoci.
No, io stravedevo per Iolaus e per tutta la sua idiozia così felicemente ostentata.
Ci tengo a dire una cosa.
Al di là della stupidità di questi post, che mi pare ovvia e voluta, del resto mi piace prendermi per il culo e mi piace che si sappia che si può essere idioti in modi diversi, non per forza solo deleteri e crudeli, quello che emerge è che al tempo la televisione univa le persone. Almeno io la ricordo così.
Attraversando questo lungo sentiero fatto di nomi, facce e titoli che hanno segnato la mia vita, io rileggo soprattutto di una famiglia che si metteva davanti alla tele e condivideva pensieri e sentimenti che saranno stati anche basati su cazzate, ma intanto hanno prodotto ricordi.
Le mie ultime passioni prima di diventare più orsa e meno capace di esternare sono stati due telefilm che hanno letteralmente unito la famiglia di fronte allo schermo per decine decine e decine di serate.
E chi se ne frega se erano di fronte allo schermo, alla fine ero insieme alla mia famiglia a discutere e divertirmi; capita così di rado ormai, praticamente più, che non posso non avere un bel ricordo di quei tempi.
X-Files è stato, per lungo tempo, letteralmente la colla che ci teneva attaccati alla tv.
Io ero una psicopatica della possessione, perciò registrare su vhs tutto ciò che mi piaceva era obbligo imperativo categorico.
I miei si rassegnavano all’idea che per noi avere un videoregistratore non significava poter vedere un programma mentre se ne registrava un altro, fine ultimo di un video, ma vedere un programma mentre si registrava QUEL programma.
Io toglievo la pubblicità, eh beh, che vi credete? e gli ignobili insulti che mi partivano ogni volta che riattaccavo la registrazione in ritardo erano coloriti e svariati. Poi stavo mezz’ora a lamentarmi di questa cosa coi miei familiari che avrebbero gradito vedersi in santa pace il resto del telefilm, invece.
E no, non ero innamorata di Mulder, anche se tra lui e Scully, per affinità di pensieri, preferivo lui. Io ero impazzita per Krycek (Nicholas Lea) nonostante non fosse proprio un personaggio simpatico.
In onore del fatto che le mie passioni mi hanno sempre spinto a fare cose utili nella mia vita, posso dire di aver seguito con entusiasmo un corso di russo dopo aver sentito Krycek, in Tunguska, sparare insulti a ripetizione contro Mulder. Gli aveva anche sputato dietro, in quella puntata, ma io mi sono limitata ad imparare un po’ di russo.
Altra cosa che nella mia vita è servita a farmi amici nuovi, per un po’, non per sempre, e nuove esperienze.
Sempre per Nicholas affittai cose improponibili e le propinai al mio amico, com’era ancora d’uso tra di noi. Una sera lo costrinsi a vedere Xtro II: The Second Encounter (non abbiamo mai capito quale fosse stato il primo, di incontro) una cosa che non è possibile classificare come film, davvero. Una scena in particolare produsse risate isteriche.
C’era questo alieno che ammazzava i protagonisti uno ad uno. E ad un certo punto uno di questi tizi veniva massacrato al ritmo di una colonna sonora raccapricciante che tu ricordavi bene proprio perché faceva schifo.
Quando i protagonisti decidevano di riguardarsi la stessa scena che tu avevi appena visto grazie alla telecamera di sicurezza della base, tu rivedevi la stessa scena con in sottofondo anche la stessa colonna sonora.
Quanto ridere.
Altra colpa di cui mi macchiai per Nicholas fu causata dalla mia fissa di registrare tutto su vhs.
Una mattina alle cinque mi alzai e in tele davano Once A Thief. Io non sapevo nulla di questo telefilm ma appena vidi Nicholas afferrai la prima vhs che trovai per registrarci sopra. Era protetta (per chi non è di quell’epoca la protezione era togliere la linguetta di plastica a lato in modo da non registrarci più su) ma mica me ne fregò qualcosa.
Se era protetta, uno dice, ci sarà stato un motivo.
No, io ci appiccicai sopra il classico pezzo di scotch (sempre a portata di mano accanto alla televisione) e ci registrai su per una mezz’ora buona prima di accorgermi che:
Era una vhs originale, perciò aveva un buon motivo per essere protetta.
Era Legends of the Fall. Non proprio l’ultimo dei film.
Non era nostro, era stato prestato da terzi.
Mi sentii profondamente in colpa. Le vhs originali erano sacre per me, terribile errore.   
  E per ultimi ci sono il buon Tobias Moretti e il suo sostituto Gedeon Burkhard ne Il Commissario Rex.
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Questo telefilm è stato l’ultimo a tenere la famiglia incollata al televisore.
Avevamo anche noi un pastore tedesco all’epoca, mio grande amore ancora oggi ricordato e di cui ancora oggi sento la mancanza.
Le avventure di Rex e del suo amico umano erano uno spettacolo. Anche lì, niente di eccezionale nella recitazione, il più bravo era proprio Rex, niente di che come trame, ma i personaggi e il modo in cui ti diventavano familiari sono stati la sua forza.
La tristezza quando Tobias ha lasciato il serial si è fatta sentire per lungo tempo, in particolare il pensiero che Rex avesse perso il suo amico in un brutto modo mi aveva toccato profondamente, poi è arrivato Gedeon e devo dire che si è inserito perfettamente facendo sentire poco la differenza tra una serie e l’altra.
Dopo di lui però ho smesso di guardarlo perché era diventato un coacervo di attori incapaci e brutte trame. Mi pare che ultimamente ci si era infilata pure l’Italia dentro e questo per me è sempre stato un deterrente per guardare qualsiasi cosa.
Comunque un applauso a Tarantino che guardando Rex avrà pensato “Perché non chiamare Gedeon e Christoph per Inglourious Basterds”? Bravo. Beh, magari non è proprio guardando Rex che l’ha pensato, ma due da un telefilm solo sono un bel numero.
La puntata con Christoph, tra l’altro, è stata l’unica in cui si vedeva recitare qualcuno. Così, tanto per dirlo.
Com’era carino, nonostante lì interpretasse sempre la parte dello psicopatico.
  Ecco ho concluso, più o meno.
Nel senso che ricordarsi tutto non è impresa adatta alla mia povera mente che non ha memoria eidetica come quella di Spencer Reid. Tuttavia credo di aver fatto un buon lavoro.
Ci sono cose che non si devono dimenticare e ricordarsi di quando si era bambini, di cosa si provava e per che cosa si era felici è sempre importante.
Anche per merito di cose futili, penso sia stato un bene lo stesso.
Sei chi frequenti - Parte 1
Sei chi frequenti - Parte 2
Sei chi frequenti - Parte 3
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fashioncurrentnews · 6 years
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Intervista ad Emily Ratajkowski
Ama definirsi «una semplice londinese cresciuta in California ». Emily Ratajkowski, infatti, “modella, attrice, femminista e designer” (come recita la bio del suo profilo Instagram), è nata nella zona di Westminster 27 anni fa, da genitori americani (la madre, un’insegnante di lettere, e il padre, un artista di origine polacche) trasferitisi a San Diego quando lei era ancora bambina. Superstar dei social, ai 18,3 milioni di follower pronti a dispensare like sui suoi selfie in costume da bagno (da lei disegnati) sfuggono alcuni dettagli della personalità. Come il fatto che è un’appassionata di arte e perfino una collezionista. A Vogue Italia, in veste di nuovo volto Kérastase Paris, svela pensieri, riflessioni e passioni. Tutt’altro che social.
  Per cominciare, si sente più inglese o americana? 100% a stelle e strisce. Ma a Londra ho mosso i miei primi passi. Ed è lì che sono andata per la prima volta a teatro. A 4 anni ero già ossessionata dal musical Cats.
È, e sarà, al cinema in tre pellicole: “I Feel Pretty” (in Italia dal 23 agosto), “In Darkness” e “Welcome Home”.Voleva fare l’attrice fin da piccola? La mia è una famiglia di artisti: mia madre è una professoressa di letteratura inglese e una bravissima scrittrice, mentre mio padre è un pittore. Quindi, forse sì, era nelle mie corde, ma ricordo che desideravo fare anche il pompiere! Ero e sono una persona a cui piace cambiare idea.
Poi però ha studiato Belle Arti alla UCLA. Qual è il suo pittore preferito? Sono cresciuta a contatto con l’espressionismo astratto, ma oggi apprezzo molto Henry Taylor, un figurativo che riporta su tela la storia delle persone che incontra, dai familiari ai senzatetto, dalle celebrities alle cameriere. Vive a Los Angeles ed è diventato un mio caro amico.
E lei da chi vorrebbe essere ritratta? Potrei dirle da quello che considero il più grande, Picasso, ma i quadri che mio padre mi ha dedicato saranno sempre i più speciali e fedeli alla mia anima.
Nel tempo libero disegna e legge. Se disegnare bozze di figure e forme è come uscire dal tempo, leggere mi riporta alla realtà, in totale relax. Viaggiando molto, preferisco raccolte di racconti, come “Tutto da sola” di Lorrie Moore (Giunti, ndr), storie di donne che affrontano la precarietà del mondo attingendo alla forza che ciascuna possiede, senza intaccare la fiducia in se stesse e negli altri. Una prospettiva femminile molto onesta che raccomando a tutte di leggere.
Poi c’è la Emily-collezionista. Mi piace perdermi tra le gallerie, cercando di dare un senso alle varie forme d’arte. Colleziono per lo piùdipinti contemporanei, ai quali ho aggiunto qualche scultura e alcune ceramiche. Li acquisto ovunque vada, anche se a Los Angeles e New York ho spesso la fortuna di conoscere direttamente gli artisti. E a LA ci sono molte gallerie degne di nota: Blum & Poe, David Kordansky e Night Gallery, solo per citarne alcune.
Pensavamo di sapere tutto della modella supergooglata, invece… Invece c’è anche la Emily che, per esempio, ama giocare con il make-up e creare personaggi diversi. A volte basta un eyeliner.
Parla di make-up, perché allora Kérastase Paris? Sono fanatica dei capelli: cambiano tutto, consentendo di essere chic, casual o sensuale. Certo, danno il meglio solo se curati adeguatamente. Pensi che è stata la mia hair stylist, Jennifer Yepez, che mi ha fatto conoscere Kérastase: e mi sono appassionata prima alla linea supernaturale Aura Botanica. Poi ho scoperto Elixir Ultime, che è diventato l’olio che porto sempre con me per ritocchi last minute, antiumidità. Per finire ho provato Resistance Extentioniste, la gamma per i capelli lunghi, che mi ha permesso di non tagliarli più. In pratica, sono diventata il volto di un marchio di cui ero già addicted.
Il 69% delle millennial considera i capelli lunghi più femminili, un trend in crescita del 12% rispetto a 5 anni fa (fonte Dream Lenght Qualitative Research, 2017). Cosa ne pensa? Totalmente d’accordo. Guai a vedere un paio di forbici!
  Foto Inez & Vinoodh. Courtesy Kérastase Elixir Ultime.
  Margherita Tizzi, Vogue Italia, agosto 2018, n.816, pag.88
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beautyscenario · 6 years
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Alla scoperta della beauty routine di Guia Rossi, giornalista. I prodotti che ama e quelli di cui non può fare a meno
Architetto mancato, giornalista professionista freelance e web editor di moda e design con incursioni nel mondo dei viaggi, del cibo e cultura, di cui è molto appassionata. “Ho un debole per la moda e la cultura delle immagini. Scriverne poi è stata una conseguenza naturale. Sempre più convinta che a fare la differenza sia il Come e non il Quanto. Sono nata a Genova, sono poi diventata milanese per vocazione e mi divido tra il lavoro che amo nell’editoria e l’insegnamento di materie di moda. Ho una dipendenza viscerale dalla carta, ne accumulo senza accorgermene, perché tutto di lei regala ispirazione. Packaging e cartoleria sono le mie debolezze segrete. Nel pochissimo tempo libero adoro scovare posticini nuovi dove assaggiare e bere quello che ancora non ho provato. Se il Giappone è la mia seconda casa, il mare è il paradiso, e tornarci mi rigenera. D’altronde al mare ci sono nata. Questa é la mia beauty routine”
Un succo detox o una tisana che amo bere. Betulla e finocchietto, per stimolare la circolazione e aiutare la digestione. E poi, il profumo del finocchietto mi ricorda le estati soleggiate di Favignana.
Il profumo per me…È il respiro della pelle, ed è meraviglioso riconoscerlo nelle persone che amo.
Profumo preferito. Indosso 34 Diptyque, per adesso il solo che riesce a esprimersi sulla pelle rispettando la mia personalità. Si tratta di una fragranza che racconta di un luogo preciso, l’odore della boutique originaria della maison francese al numero 34 di boulevard Saint Germain. La prima volta che l’ho indossato è stata sorprendente realizzare quanto le sue note speziate, ambrate e boisé dei mobili e dei kilim, mi appartenessero così tanto. In estate, però, preferisco acque profumate, come You First alle foglie di pomodoro e fiori d’arancio, o Tranquillity di Comfort Zone, un’acqua per il corpo odorosa. Riescono con poco a portarmi da un’altra parte. Sono fragranze più leggere che mi accompagnano durante le lunghe giornate calde.
La mia casa profuma di…Possiedo tante candele ma non ne accendo nemmeno una per il dispiacere di consumarle. Però le annuso di nascosto. Le più sniffate al momento sono al pompelmo & muschio e allo zenzero & pepe nero di Pomandère Living. A seguire mi faccio coccolare dall’aroma del talco di una bella candela Bellora.
Un rito prima di coricarmi. Crema mani e piedi anche in estate. Non posso tollerare di avere i talloni screpolati e mani secche. Ho appena iniziato a usare il Gel Para Pés e Pernas Cansadas di Granado Pharmacias, brand brasiliano storico (1870) con un packaging e labelling delizioso. È a base di estratti di hamamélis, ginko biloba e castagne d’India. Per le mani, invece, adoro il tubetto crema all’olio d’oliva e gelsomino di Panier des Sens.
Cosa faccio per mantenermi in forma…Cammino molto. Anche se ho la patente non guido, ho paura del traffico isterico milanese. Pratico yoga da anni una volta a settimana e quando posso nuoto e faccio snorkelling. Basta?
Dieta o non dieta..Assolutamente no! Adoro il cibo e le sue infinite declinazioni. Ci provo a prendermi delle pause-detox, ma non sempre riesco a protrarle a lungo! Buoni propositi? Aumentare la frutta fresca di stagione anche se preferisco di gran lunga la verdura.
Come mi rilasso. Leggendo, guardando film e viaggiando. Quando ho del tempo free non riesco a non sfogliare un giornale senza ritagliare, appuntare, approfondire. Sarà davvero un rilassamento?
Rossetto preferito. 955 Craving Coral di Maybelline New York. Con questa tonalità di rosso, luminosa e matt, sento di definire le mie labbra piuttosto sottili senza indurirle visivamente. E poi mi ricorda lo stile degli anni 50, quando le pin-up sorridevano ammiccanti con quella dentatura smagliante e labbra rosse golose.
Smalto preferito. Non indosso spesso lo smalto sulle mani, ma quando sono in vena mi diverte stendere sulle unghie Turin It Up di Orly, un’esplosione alla Pollock di micropaillettes colorate. Piccole tele astratte. Diversamente, per collegarmi al rosso del rossetto, vado sul sicuro con Big Apple Red di OPI. Oppure in nude di Essie, il Ballet Slippers.
I prodotti di makeup che uso. Nella mia essential list non manca una base nutriente. Cambio spesso, ma adesso sto usando Cellular Anti-Age di Nivea, un filler in perle da applicare giorno e notte. A seguire uso il blush per sostenere la buona salute di zigomi e applico il mascara Cinema Couture di L’Oreal. Una matita occhi per intensificare lo sguardo la sera. La mia è Kajal Eyeliner 05 di Dr. Hauschka.
Non potrei mai rinunciare… Al blush sulle guance. Senza le gote da Biancaneve non sono io. Da sempre uso Smoldering Plum di Clinique, ha una formula molto delicata, leggera, ricca di pigmenti per un risultato luminoso perfetto.
Un disastro beauty. È strano ma non me ne viene in mente nessuno. Nell’ambito beauty e nella cura di pelle e capelli non mi butto mai alla cieca. Prima di provare qualcosa, mi documento sino allo sfinimento.
Per il mio viso uso…Passando tante ore davanti al monitor del computer, provo a dare sollievo al contorno occhi con un massaggio delicato con il roll-on 7.9 di Yves Rocher. Funziona! Quando ho le labbra screpolate mi concedo uno scrub goloso di The Kiss di Lush al sale marino fino, zucchero e olio di cartamo. Ho provato il gel peeling alla rosa di Daiso preso in Giappone: è fresco e lascia la pelle davvero compatta e pulita.
Per i capelli invece….Ho i capelli sottili e il momento dello shampoo è, per me, una vera ossessione beauty. Con i prodotti greci di Apivita, mi trovo benissimo. Propoline è uno shampoo alla lavanda e miele per pulire cuti delicate come la mia. Curo le doppie punte con DP di Prokrin Elements, un siero anti doppie punte. Li nutro poi con Phytoelisir di Elgon, un olio latte leggero no-rinse con olio di melone del Kalahari, in grado di regalare alla chioma maggiore lucentezza e uno splendido effetto anti-frizz e anti-statico. E per non stressarli con lavaggi troppo frequenti uso lo shampoo secco di R+Co, Death Valley.
I prodotti che uso per il corpo. Ho cominciato da poco a usare Mio, Skin Fit for Life, un body serum tonificante che applico dopo la doccia, aiuta a mantenere elastiche anche le parti più ostiche e secche come i gomiti e le ginocchia. Dopo le abbuffate di sole, durante l’estate, vaporizzo sul décolleté Moisturizing Spray Harmonizing di Susanne Kaufmann. Le proteine della seta e gli olii essenziali dei noccioli di frutta che la compongono idratano e rinfrescano. Inoltre è un ottimo primer anche per il make-up. Infine provo a combattere l’odiosa buccia d’arancia con una crema anti cellulite, una microemulsione fisiologica a cristalli liquidi specifica che si chiama CelluHiTech di Dermophisiologique.
Una mania beauty. Le maschere express usa e getta. Tra quelle che ho comprato durante i miei viaggi in Giappone e le novità che mi portano le amiche dai loro viaggi, non me ne perdo una. E poi c’è il packaging, che dà grande soddisfazione. Tra tutte, Boscia, Magie Lab e The Face Shop.
Un cibo che mi fa sentire bene.. Un dolce sempre. Sono un’inguaribile golosa. Poi ci sono i limoni, lo zenzero, le olive taggiasche e i formaggi di capra.
Nel muo frigo non manca mai…Limoni, verdura mista e qualche bevanda curiosa da provare.
Un sito dedicato al beauty che seguo…Curioso nel nuovo ecommerce plentyness.com, un luogo dove sì fare shopping di prodotti beauty e lifestyle ma anche di ispirazione e approfondimento delle tematiche di wellbeing e organics products.
Tra comprare in profumeria oppure online preferisco…. Mi ritengo all’antica, lo scambio vis à vis ha ancora il suo fascino. Specialmente quando si tratta di acquisti beauty. Preferisco decisamente farli in profumeria, in erboristeria o in Spa a fine trattamento.
Cosa manca secondo me alle profumerie italiane. In Italia credo manchino le idee per visual nuovi e moderni, leggeri e pratici nel mostrare ai clienti sia i prodotti main stream, sia le linee di ricerca.
Che cosa mi piacerebbe trovare in profumeria. Personale più preparato. Troppo spesso le assistenti alla vendita vogliono piazzare a tutti i costi, anche a occhi bendati.
L’argomento che mi appassiona di più in tema beauty. Skincare viso e corpo. La nostra pelle è un involucro importantissimo. Volergli bene fa bene anche a tutto il resto.
Alla scoperta della beauty routine di Guia Rossi, giornalista. I prodotti che ama e quelli di cui non può fare a meno Alla scoperta della beauty routine di Guia Rossi, giornalista. I prodotti che ama e quelli di cui non può fare a meno…
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