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#Edgar Del Gatto
agrpress-blog · 8 months
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Il 19 gennaio del 1809, nasceva Edgar Allan Poe. E già il suo nome, forse, avrebbe dovuto far sospettare qualcosa circa il futuro che, di lì a breve, quel ragazzino minuto e solitario si sarebbe costruito. I suoi genitori, infatti – David Poe Jr. ed Elizabeth Arnold – erano entrambi attori, e, al momento della nascita del bambino, stavano portando in scena la tragedia Re Lear, di William Shakespeare. Tragedia che vede tra i propri personaggi, per l’appunto, un uomo di nome Edgar. E forse quel nome gli è stato d’aiuto nel corso della sua esistenza – o almeno, così ci piace sperare – dandogli forza, consolazione, ricordandogli le sue origini e la sua vera natura, stando lì come un monito, un presagio, quasi. Un’esistenza tormentata, dolorosissima, che ha inevitabilmente formato il cuore e la mente di quel ragazzino, poi diventato uomo, e poi morto a soli a quarant’anni. Anche se, a distanza di secoli, possiamo tranquillamente affermare che quelle quattro decadi sono state sufficienti per provocare un effetto preciso: l’effetto Edgar Allan Poe. Il motivo per cui ognuno di noi, alla luce dei suoi racconti, non può che fermarsi di fronte alla figura e scura e maestosa di un gatto dal pelo nero. Il motivo per cui, una volta letti i suoi libri, si rimane tormentati dal ticchettio inesorabile e costante di un cuore che doveva essere morto – e invece continua a battere. Il motivo per cui ci riesce difficile non credere agli spiriti, ai mondi che abitano le infinite prospettive della mente umana, alle discontinuità. A tutto ciò che non è superficie. All’età di sedici anni, Edgar Allan Poe si innamorò di una donna, una donna adulta, molto più grande di lui, madre di un suo compagno di studi. Si chiamava Jane, e morì precocemente, forse a causa di una malattia. Il giovane – e futuro – scrittore, nonostante la giovane età, rimane sconvolto da quanto accaduto. E ogni notte, per mesi, cominciò a uscire dalla sua stanza per recarsi alla tomba di lei, non riuscendo a spiegarsi il perché di quella morte. La donna, a cui Edgar Allan Poe dedicherà decine e decine di componimenti, compare nei suoi scritti con il nome di Helen. E la forza di questo amore mai realizzatosi sarà il motore propulsivo di molte delle sue opere e delle sue riflessioni. Chissà cosa penserebbe adesso, quella donna, delle migliaia di persone che la ricordano attraverso le lente dell’amore di un sedicenne disperato. E innamorato. L’amore, la paura, il buio, l’immaginazione, la poesia. Tutto ciò fa parte – farà per sempre parte – di ciò a cui pensiamo quando pensiamo ad Edgar Allan Poe. Di ciò di cui parliamo quando parliamo di un uomo giovane e inquieto, che ci ha regalato, forse, la cosa che più gli apparteneva: un cuore incredibile che non smette mai di battere.
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lexartsystuff · 6 years
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Edgar Del Gatto
Meet Edgar Del Gatto, a 55 year old cat person thing i guess who is a accountant and investor in the same company where Elkwood works. Edgar is very respected employee and a retired mobster. Edgar was born into the mafia due to his father being the Don of the family. Even though he hasn't been part of his mafia family for almost 30 years, he still has a large respect for them. Edgar left and became a accountant and then worked his way to become an investor. Edgar and Elkwood would clash often but at the end the day, they both have a mutual respect for each other. Hope you guy like him!
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thebutcher-5 · 3 years
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I racconti del terrore (1962)
I racconti del terrore (1962)
Benvenuti o bentornati sul nostro blog. Nello scorso articolo abbiamo parlato dopo molto tempo di un cinecomic e lo abbiamo fatto con X-Men: Dark Phoenix. Un film pieno di difetti, imperfetto, che non è stato apprezzato e posso capire benissimo i motivi, ma ho trovato certe critiche decisamente severe e ingiuste. Alla fin fine è un film d’intrattenimento che rimane fedele alle tematiche presenti…
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doppisensi · 4 years
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C’è qualcosa, nell’amore generoso e paziente di un animale, che va direttamente al cuore di colui che ha avuto frequente occasione di sperimentare la meschina amicizia e la tenue fedeltà – tenue come la tela di un ragno – di chi è solo un Uomo.
Edgar Allan Poe, Il gatto nero  in “I racconti del mistero”
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giallofever2 · 5 years
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ilm Storici di Producione Italiana e Internazionale)
«Mi hanno chiamato pazzo; ma nessuno ancora ha potuto stabilire se la pazzia sia o non sia la più elevata forma d'intelligenza, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non derivi da una malattia del pensiero, da umori esaltati della mente a spese dell'intelletto generale.»
(da Eleonora, 1841)
Edgar Allan Poe (Boston, 19 gennaio 1809 – Baltimora, 7 ottobre 1849) è stato uno scrittore, poeta, critico letterario, giornalista, editore e saggista statunitense.
Considerato uno dei più grandi e influenti scrittori statunitensi della storia, Poe è stato l'iniziatore del racconto poliziesco, della letteratura dell'orrore e del giallo psicologico.
Poe è considerato il primo scrittore alienato d'America, avendo dovuto lottare per buona parte della vita con problemi finanziari, l'abuso di alcolici e sostanze stupefacenti e con l'incomprensione del pubblico e della critica dell'epoca.
🇬🇧 "They called me crazy; but no one has yet been able to establish whether madness is or is not the highest form of intelligence, if most of what is glorious, if all that is profound does not derive from a sickness of thought, from exalted moods of the mind at the expense of the general intellect. "
(From Eleonora" short story 1842)
🇬🇧 Edgar Allan Poe (born Edgar Poe; January 19, 1809 – October 7, 1849) was an American writer, editor, and literary critic.
Poe is best known for his poetry and short stories, particularly his tales of mystery and the macabre. He is widely regarded as a central figure of Romanticism in the United States and of American literature as a whole, and he was one of the country's earliest practitioners of the short story. He is generally considered the inventor of the detective fiction genre and is further credited with contributing to the emerging genre of science fiction.
He was the first well-known American writer to earn a living through writing alone, resulting in a financially difficult life and career.
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scumdogsteev · 3 years
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October Horror Films 2021 Summary
Here are the movies we watched last month for our October Horror Films project:
Young Frankenstein (1974)
Possessor (2020)
The Wolf of Snow Hollow (2020)
Our House (2018)
Fear Street: Part One - 1994 (2021)
Fear Street: Part Two - 1978 (2021)
Fear Street: Part Three - 1666 (2021)
La novia ensangrentada (aka The Blood Spattered Bride) (1972)
The Last Will and Testament of Rosalind Leigh)* (2012)
Look Away (2018)
Bloodthirsty (2020)
Il gatto nero (aka Edgar Allan Poe's The Black Cat aka Demons 6) (1989)
The Abominable Dr. Phibes (1971)
Dr. Phibes Rises Again (1972)
House on Haunted Hill (1959)
Demonic Toys (1992) (13 Nights of Elvira episode (2014))
Les lèvres rouges (aka Daughters of Darkness) (1971)
Aftermath (2021)
Halloween Kills (2021)
Bingo Hell (2021)
La morte negli occhi del gatto (aka Seven Deaths in the Cat's Eye) (1973)
Chi l'ha vista morire? (aka Who Saw Her Die?) (1972)
Candyman (2021)
Dolls (1987)
The Pit and the Pendulum (1991)
The Manor (2021)
Nachts, wenn Dracula erwacht (aka Count Dracula) (1970)
Await the Dawn (2020)
Slaughter High (1986)
The Woman in Black 2: Angel of Death (2014)
Lycanthropus (aka Werewolf in a Girls' Dormitory) (1961)
The Night House (2021)
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Breakdown by decade:
1950s: 1 1960s: 1 1970s: 8 1980s: 3 1990s: 2 2010s: 4 2020s: 13
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magicnightfall · 4 years
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QUOTH THE RAVEN, “EVERMORE”
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Il titolo di questo post è un richiamo alla poesia Il corvo di Edgar Allan Poe. I più acculturati di voi potrebbero pensare che una simile scelta stia a sottolineare un qualche parallelismo tra il poema stesso, che parla di un amore ormai perduto, e l’ultimo disco a sorpresa di Taylor Swift, evermore.
I più acculturati di voi sbaglierebbero.
Perché come lo scrittore di Boston se ne stava svaccato in poltrona a meditare su un qualche tomo, quando la sua tranquillità fu turbata all’improvviso dalla visita di un corvo che ripete all’infinito la parola “Nevermore”, così io me ne stavo svaccata sul divano a meditare sugli episodi natalizi dei Simpson, quando la mia tranquillità fu turbata dalla notifica di un tweet di Taylor che annunciava “evermore”.
Avete presente casa Banks, in viale dei ciliegi 17, prima che l’ammiraglio Boom cannoneggi l’ora esatta, in cui tutti si mettono ai posti di manovra? Ecco, in quel momento l’internet era uguale: tutti che correvano ai posti di manovra cercando di parare il colpo che un nuovo disco a sorpresa avrebbe inflitto sulle nostre menti imbelli, che ancora stavano tentando di metabolizzare la maestosità di folklore.
Io quasi me l’immagino, Taylor, seduta su una sedia girevole con un gatto sulle gambe, mentre osserva il dipanarsi del caos che ha appena creato, come una Bond villain qualsiasi. Perché secondo me c’è malizia. C’è premeditazione. Non è tanto il voler donare arte al mondo, quella è solo la scusa con cui impacchettare le sue malefatte, per dar loro una parvenza di rispettabilità: lei, il mondo, vuole solo vederlo comburere.
(beccate questa, Taylor, non sei l’unica gattara a saper usare i paroloni)
D'altronde, è anche vero che ci sono modi peggiori di terminare un anno (specie uno catastrofico come il 2020) e quindi, per la seconda volta nel giro di pochi mesi, vi presento
il Tomone 6.0.™.
RIGHT DOWN THE RABBIT HOLE
willow
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
La canzone che apre l’album è caratterizzata da una particolare levità, con una melodia che è subito orecchiabile e molto difficile scrollarsi di dosso.
Tematicamente, questa canzone potrebbe essere un ulteriore tassello nella dinamica tra Betty, James, e il flirt estivo di quest’ultimo, la misteriosa “august girl”. In particolare, willow sembrerebbe narrare proprio l’inizio della tresca, perché vi sono riferimenti espliciti alla clandestinità (“Head on the pillow, I could feel you sneaking in”;“Wait for the signal and I'll meet you after dark”). Anche quel “wreck my plans” mi fa propendere per questa interpretazione, perché dubito che nei piani di vita della “august girl” vi fosse quello di diventare l’amante di qualcuno, con tutte le conseguenze — negative — del caso.
Nel descrivere la canzone, Taylor ha detto che le dà l’idea di un incantesimo lanciato per far innamorare qualcuno, e in effetti in tutto il testo si respira quest’atmosfera di incantamento, quasi di perdita del libero arbitrio (“The more that you say, the less I know / wherever you stray, I follow”, “Life was a willow and it bent right to your wind”), un po’ come nella fiaba del pifferaio magico.
Il video, invece, è la diretta prosecuzione di quello di cardigan, e riprende il concetto del filo invisibile che lega tra loro due persone.
#AlcoholicCount: 1 (wine)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Show me the places where the others gave you scars”
champagne problems
[Taylor Swift, William Bowery - aka Joe Alwyn]
“Champagne problems” è un modo di dire per indicare un problema che, se paragonato a situazioni ben più gravi (la povertà, Matteo Salvini, la malattia, Matteo Salvini, la guerra, Matteo Salvini, la pandemia, Matteo Salvini), appare in fin dei conti risibile. Insomma, di che ti lamenti, che c’è chi sta peggio. Ciò non toglie che sia comunque un problema che ci fa star male (non sarebbe tale, altrimenti) e, pur riconoscendo una certa posizione di privilegio di chi si duole di un problema meno grave rispetto a un altro, non è nemmeno corretto minimizzarlo (se non altro per l’effetto valanga).
Così, qualcuno potrebbe considerare uno “champagne problem” il rifiuto di una proposta di matrimonio; si può prenderla con filosofia e decidere che non era altro che il modo che aveva l’universo per dirci che la vera felicità era già prevista allo svincolo successivo, siamo noi che abbiamo girato troppo presto (“But you'll find the real thing instead / She'll patch up your tapestry that I shred”). Nondimeno, è del tutto lecito soffrirne.
Taylor trasla la metafora del problema-non-problema-un-po’-problema al caso concreto attraverso lo champagne che, dall’espressione idiomatica, giunge a essere proprio quel Dom Perignon acquistato per celebrare — perlomeno quella era l’idea — una lieta occasione.
In questa canzone si respira tutta l’incredulità della persona rifiutata: i versi “Because I dropped your hand while dancing / left you out there standing” e “You had a speech, you're speechless / love slipped beyond your reaches / and I couldn't give a reason” creano l’immagine definita di qualcuno che all’improvviso viene mollato lì, così, senza una spiegazione, incapace di rendersi conto di cosa sia appena successo. E nel momento in cui lo si realizza, be’, si va in pezzi (“Your heart was glass, I dropped it”). Chissà se, tra gli invitati alla festa, ci fosse anche un Bart Simpson che poi, pronto col telecomando, facendo avanzare i fotogrammi, possa “persino individuare il secondo preciso in cui il suo cuore si spezza a metà”.
#AlcoholicCount: 9 (champagne, bottle, Dom Perignon)
#CurseWordsCount: 1 (fucked)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “You had a speech, you're speechless / love slipped beyond your reaches / and I couldn't give a reason”
gold rush
[Taylor Swift, Jack Antonoff]
Per quanto questa canzone mi sia piaciuta fin da subito, se devo essere sincera il titolo aveva creato in me aspettative di un poema epico sulla vera corsa all’oro. Avete presente, no? Il Klondike, lo Yukon, Jack London, le slitte per Dawson, cose così. Insomma, mi aspettavo una storia su un evento storico, e non una metafora, ma fa niente: quando sarò in vena di cercar pepite mi rivolgerò al tastierista dei Nightwish Tuomas Holopainen e al suo splendido Music Inspired by the Life and Times of Scrooge, in cui ha trasposto in musica la saga di Zio Paperone del fumettista Don Rosa.
gold rush è, innanzitutto, una canzone sulla gelosia che si prova nel vedere il centro del nostro interesse essere il centro dell’interesse di altri (“I don't like that anyone would die to feel your touch / Everybody wants you / everybody wonders what it would be like to love you”), proprio come l’oro lo era per tutti i minatori. Ma è anche una canzone sull’alzare bandiera bianca: dopo aver messo ripetutamente in chiaro, forse in modo quasi ossessivo, di non amare l’idea della competizione (tutti quei “don’t like”), alla fine si decide di rinunciare del tutto, e quella pepita che per un po’ si era riusciti ad afferrare (“I call you out on your contrarian shit / And the coastal town / we wandered round had never / seen a love as pure as it”) viene lasciata andare (“I won't call you out on your contrarian shit / And the coastal town / we never found will never / see a love as pure as it”).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 2 (shit)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Eyes like sinking ships / on waters so inviting / I almost jump in”
‘tis the damn season
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
È probabile che ’tis the damn season e dorothea siano due facce della stessa medaglia. Se fosse, il punto di vista qui è di Dorothea, che ritorna per le vacanze di Natale nella cittadina in cui ha vissuto prima di diventare famosa.
È interessante notare quanto i toni dei due brani siano differenti: qui si indulge nella malinconia, e il passato viene ricordato con rimpianto (“And the road not taken looks real good now”; “And the heart I know I'm breaking is my own / to leave the warmest bed I've ever known”); in dorothea l’altra persona quasi dà per scontato che le cose dovessero andare come sono andate. Il domandarsi “Chissà se ogni tanto si ferma a pensarmi?”, seguito da quel “Sai, puoi sempre mollare tutto e tornare” non assurge mai al rango di una vera e propria presa di coscienza sull’importanza che si è avuta nei confronti di Dorothea; è solo un sogno a occhi aperti alimentato, più che da un reale desiderio, da una mera curiosità, che prende vita nel momento in cui si vede Dorothea sullo schermo, o sulle pagine di un giornale, per poi morire quando lo schermo sfuma al nero, o la pagina viene girata.
’tis the damn season è ammantata da un’atmosfera di rassegnata mestizia, veicolata da espressioni come “cold”, “gogs up windshield glass”, “bad perfume”. Paradossalmente, quell’immagine delle ruote infangate del furgone, che in condizioni normali sarebbe altrettanto “negativa”, qui invece è l’àncora ai bei ricordi di un tempo che fu, ma ormai perduto.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 5 (“damn”, compresa quella nel titolo)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “And the road not taken looks real good now”
tolerate it
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Cold As You, White Horse, Dear John, All Too Well, All You Had To Do Was Stay, Delicate, The Archer, my tears ricochet e, infine, tolerate it: la traccia n. 5 degli album di Taylor è sempre una traccia peculiare; con l’eccezione di Delicate, vi si veicola sempre una certa dose di afflizione (perfino in All You Had To Do Was Stay, nonostante il suo beat possa far immaginare il contrario).
In questa canzone si racconta dell’atteggiamento scostante di una persona nei confronti di un’altra. È un rapporto di coppia in cui tutti gli sforzi di una per far funzionare la relazione (“I sit and watch you, I notice everything you do or don't do”; “Use my best colors for your portrait”; “I greet you with a battle hero's welcome”;) si scontrano contro la protervia dell’altro, un’arroganza che deriva evidentemente dal credersi migliore (si percepisce infatti un sentimento di inferiorità della voce narrante —“You're so much older and wiser and I / I wait by the door like I'm just a kid” — al punto che arriva a domandarsi se non sia invece lei, da persona meno “saggia”, ad aver frainteso tutto — “If it's all in my head tell me now / tell me I've got it wrong somehow”), e finanche contro una sorta di insofferenza (“Always taking up too much space or time”). Col risultato che tutto l’amore, anziché venir celebrato, viene soltanto tollerato: non è nulla di più di una scocciatura.
Sebbene l’ispirazione dichiarata di questa canzone derivi dal romanzo “Rebecca, la prima moglie” di Daphne du Maurier (diventato anche un film di Alfred Hitchcock), non è difficile trovarvi temi e concetti da Taylor già affrontati in altri brani. Per esempio, a me sono venute in mente Dear John (“Don't you think I was too young / to be messed with”, “Well maybe it’s me / and my blind optimism to blame”; “Never impressed by me acing your tests”), Tell Me Why (“Why… do you have to make me feel small”), Cold As Yoy (“You put up walls and paint them all a shade of gray / and I stood there loving you and wished them all away”; “You never did give a damn thing honey but I cried, cried for you / And I know you wouldn't have told nobody if I died, died for you”), perfino We Are Never Ever Getting Back Together (“With some indie record that's much cooler than mine”).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 2 (shit)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I made you my temple, my mural, my sky / Now I'm begging for footnotes in the story of your life”
no body, no crime [feat. HAIM]
[Taylor Swift]
Lo scettro per la canzone più brillante di evermore ce l’ha senza ombra di dubbio no body, no crime. Finalmente, l’ossessione di Taylor per la serie poliziesca Law & Order paga, e noi ne guadagniamo la divertente narrazione (mi auguro non autobiografica) di un omicidio. Quando l’ho fatto presente a mio fratello, mi ha risposto: “Capirai, nulla che i Carach Angren non abbiano già cantato”. Oh be’, in ogni caso non è mai troppo tardi per darsi alla cronaca nera, dico io.
Questo brano è il racconto lineare, ma sapientemente articolato, dell’uccisione di un uxoricida fedifrago, e già le sirene della polizia nell’intro (lasciatemi credere che l’ispirazione derivi da Hanno ucciso l’uomo ragno) contribuiscono a delineare una precisa atmosfera di gusto giallo.
La canzone è una vera e propria escalation: si comincia con una donna, Este, che fiuta il tradimento da parte del marito (“Her husband's acting different and it smells like infidelity”; “She says, that ain't my merlot on his mouth/ That ain't my jewelry on our joint account”), si prosegue con la misteriosa scomparsa della stessa Este (“Este wasn't there / Tuesday night at Olive Garden at her job / or anywhere” / “He reports his missing wife”) e con delle circostanze piuttosto sospette, che fanno ritenere un tentativo di depistare l’analisi forense sulla scena del crimine (“And I noticed when I passed his house his truck has got some brand new tires”). Che poi l’amante del marito si trasferisca a casa, be’, a questo punto è proprio il minimo che ci si possa aspettare.
La piega che prende la canzone a partire dalla terza strofa è tutto fuorché inaspettata, perché Taylor ci ha indirizzati lì con un crescendo ben costruito (e sottolineato da quei “But I ain't letting up until the day I die” nei due precedenti ritornelli). E qui scopriamo che il marito assassino è sulla buona strada per venire assassinato a sua volta: c’è la barca con cui far sparire il corpo (Dexter Morgan dice “ciao”), c’è la pulizia della scena del crimine, c’è l’alibi falso, c’è la macchinazione verso l’amante che avrebbe anche il movente (che propizio tempismo, quello di aver stipulato un’assicurazione sulla vita del morto).
La canzone termina, a chiusura del cerchio, con una variazione del ritornello: al posto di “lui” (il marito) quale sospettato dell’omicidio di Este ora c’è “lei” (l’amante) quale sospettata dell’omicidio di lui; infine, di nuovo “lui” ma stavolta al posto del secondo “io” nel verso relativo al non lasciar perdere. In questa frase in particolare, ripetuta e lasciata in sospeso su “he”, viene omesso fino all’ultimo il riferimento alla morte (a differenza di quando è riferita alla voce narrante), ma ormai era evidente, visto anche il passaggio dal tempo presente – “I ain’t” — al tempo passato — “I wasn’t”, quale sarebbe stata l’ultima variazione. E anche se era evidente, e sapevo dove Taylor sarebbe andata a parare, quando ho sentito quel “died” non ho potuto fare a meno di esultare. Tiè.
#AlcoholicCount: 2 (wine, merlot)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 2 (Este, il marito di Este)
#FavLyrics: “Este's been losing sleep / Her husband's acting different and it smells like infidelity”
happiness
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Ascoltando happiness si entra per forza in un universo parallelo dove le leggi che governano il mondo naturale non valgono, perché mi rifiuto di credere che questi siano cinque minuti e quindici secondi di canzone. Ho capito la teoria della relatività e tutto il cucuzzaro, ma qui si rischia di minare i principi fisici alla base del tempo istesso.
La canzone si apre con un’immagine allegorica, il trovarsi “sopra gli alberi”, che permette di stabilire lo stato d’animo della voce narrante che riflette su una relazione terminata: ci si trova non letteralmente al di sopra degli alberi ma in un luogo mentale di sufficiente (seppur non completo) distacco per cui si è in grado di fare una valutazione obiettiva di ciò che è stato (“Honey, when I'm above the trees / I see this for what it is”). Nonostante l’epilogo infelice, infatti, c’è l’onestà intellettuale di riconoscere gli aspetti positivi (“In our history, across our great divide / there is a glorious sunrise”; “But there was happiness because of you”; “[…] seven years in Heaven”).
Non si è ancora, tuttavia, arrivati a quella maturità emozionale per cui si è in grado di lasciarsi tutto alle spalle: “But now my eyes leak acid rain on the pillow where you used to lay your head”; “I hope she'll be your beautiful fool / who takes my spot next to you / No, I didn't mean that / sorry, I can't see facts through all of my fury”. Ma d’altronde lo si ammette: “You haven't met the new me yet”.
L’assunto sviluppato nei ritornelli, tuttavia, ci fa capire che prima o poi si arriverà al punto in cui ci sarà (di nuovo) la felicità. Basta solo darle tempo.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 1 (shit)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “In our history, across our great divide / there is a glorious sunrise”
dorothea
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
dorothea è la storia di una ragazza che ce l’ha fatta. Di una ragazza che ha inseguito i suoi sogni, che ha lasciato i confini limitanti di una cittadina di provincia e ha fatto fortuna. Qui è un suo vecchio amore giovanile che la ricorda. Probabilmente è diventata un’attrice famosa (“A tiny screen's the only place I see you now”, “Selling dreams / selling make up and magazines”), e si è circondata di amici altrettanto famosi (“You got shiny friends since you left town”). Ma quello che, dall’esterno, è visto come un sogno scintillante, potrebbe in realtà avere i suoi coni d’ombra. Lo sguardo di Dorothea brillava di più quando era a Tupelo, in Mississippi (“The stars in your eyes / shined brighter in Tupelo”), rispetto a dovunque si trovi ora (presumo Los Angeles, menzionata in ’tis the damn season), e se volesse potrebbe sempre mollare tutto e ritornare alle origini (“But it's never too late / to come back to my side”). Non che l’amore giovanile pretenda alcunché da Dorothea, né un effettivo ritorno né di essere pensato, ma è solo bello sognare di fare ancora parte della vita di qualcuno, quella vita che sembra così bella e perfetta, anche solo come vago ricordo.
Dorothea sembrerebbe l’altra metà di ’tis the damn season, però a punti di vista invertiti.
A me ha fatto venire in mente anche un’altra canzone, Queen of Hollywood dei Corrs. È la stessa storia: una ragazza parte da casa per inseguire un sogno, e lo raggiunge. Solo che anche in questo caso il sogno ha i suoi risvolti oscuri (qui, forse, ben più oscuri che in dorothea): “Now her mother collects cut-outs / and the pictures make her smile / but if she saw behind the curtains / it could only make her cry / She's got hand prints on her body / sad moonbeams in her eyes / not so innocent a child”.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “And if you're ever tired of being known / for who you know / you know, you'll always know me”
coney island [feat. The National]
[Taylor Swift, Aaron Dessner, Bryce Dessner, William Bowery - aka Joe Alwin]
Questo brano è un po’ il risarcimento morale per la parte di evermore (canzone) che non mi piace: la voce bassa e vibrante di Matt Berninger qua compensa quella alta di Justin Vernon di là.
Strutturalmente, coney island richiama exile, con due voci diverse che esprimono due punti di vista; entrambi hanno domande ma nessuno ha le risposte. L’intera canzone è pervasa da una malinconia nostalgica, in cui i ricordi riaffiorano prepotenti: da una panchina di Coney Island si tornano a rivedere, come fossero un film, scene di una vita passata, e si finisce col chiedersi cosa sia andato storto e quali potessero essere, di ognuno, le mancanze che hanno condotto a quell’epilogo.
Tra l’altro, è interessante notare come una delle cose per cui qui si domanda scusa è il non aver messo l’altra persona al centro delle proprie attenzioni (“Sorry for not making you my centerfold”, dove centerfold è il paginone centrale delle riviste), ed esattamente di questo ci si lamentava — a parti inverse — in tolerate it: in una stessa metafora editoriale, là si doveva pregare di essere considerati almeno una nota a piè di pagina (“Now I'm begging for footnotes in the story of your life”).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Will you forgive my soul / when you're too wise to trust me and too old to care?”
ivy
[Taylor Swift, Jack Antonof, Aaron Dessner]
L’edera (ivy) è una comune pianta infestante, cioè una pianta che invade i luoghi in cui cresce, e danneggia le piante già lì esistenti. Non penso che Taylor potesse trovare una metafora migliore per raccontare una storia di infedeltà.
La narratrice è già promessa a qualcun altro (“Taking mine, but it's been promised to another”) il quale poi diventerà il marito (“And drink my husband's wine”), eppure non può fare a meno di cadere in tentazione: si è inevitabilmente innamorata di un persona diversa. È qualcosa che va al di là del suo controllo (“So yeah, it's a fire / it's a goddamn blaze in the dark / and you started it”) e per quanto provi all’inizio a osteggiarlo (“Stop you putting roots in my dreamland”) non ci riesce. L’edera ormai non solo ha attecchito, ma ha invaso tutto (“My house of stone, your ivy grows / and now I'm covered in you”). E non si può fare altro che arrendersi a questo, pur con la consapevolezza che non si potrà mai vivere in pace, ma sempre guardandosi indietro per paura (“What would he do if he found us out?”; “Spring breaks loose, but so does fear / he's gonna burn this house to the ground”), e nascondendosi, vivendo di momenti rubati (“I’d live and die for moments that we stole”), facendo tesoro di un tempo che è preso soltanto in prestito (“On begged and borrowed time”), certi che si verrà scoperti prima o poi.
Nella canzone non ci sono riferimenti moderni di alcun tipo, il che mi fa pensare che questa sia la canzone con protagonista la “pioneer woman” di cui Taylor ha parlato nell’intervista con Paul McCartney (link), presa in un amore proibito. Si capisce allora meglio, se dunque la collocazione temporale della storia è l’epoca dei pionieri americani (il vecchio West, per intenderci), il perché quella donna abbia dovuto sottostare alla forma (il fatto di essere stata promessa già a qualcuno, e infine sposarlo) anziché essere libera di seguire il proprio cuore (che però, in ogni caso, non sarà mai del marito: “He wants what's only yours”).
#AlcoholicCount: 1 (wine)
#CurseWordsCount: 5 (goddamn)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Stop you putting roots in my dreamland”
cowboy like me
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Come gold rush, anche il titolo di questa canzone mi aveva fatto partire per la tangente: già mi vedevo insieme a Taylor tra le polverose pianure dell’Oklahoma, con i cavalli lanciati al galoppo, le Colt, gli sceriffi e i banditi, immagini e concetti che mi sono cari come a Cicerone era cara l’ipotassi. E se almeno gold rush mi piace un botto, quindi le perdono il fatto di avermi infinocchiata, questa canzone invece la trovo ben poco memorabile, se non proprio sciapa, e perciò un po’ me la sono legata al dito.
Si tratta di un brano abbastanza monotono, in cui nemmeno il bridge riesce a risultare meno anonimo delle strofe. Il che è un peccato, perché le premesse c’erano tutte, se solo musicalmente si fosse osato un po’ di più. La storia qui raccontata, in effetti, potrebbe essere un ottimo spunto per un dramedy di ricconi, coi campi da tennis e le macchine di lusso, così egoriferiti da non accorgersi nemmeno di farsi turlupinare da due arrivisti sociali che puntano solo ai soldi (“Telling all the rich folks anything they wanna hear”; “Only if they pay for it”; “Hustling for the good life”; “And the old men that I've swindled / really did believe I was the one”), ma poi si innamorano l’uno dell’altra. Da truffatori diventano truffati essi stessi (“Forever is the sweetest con”), o forse soltanto una dei due (“We could be the way forward / and I know I'll pay for it”), che potrebbe esserci rimasta scottata e allora torna al punto di partenza (“I’m never gonna love again”, che si ripete sia all’inizio della canzone che alla fine).
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 1 (fuck)
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “You're a bandit like me / eyes full of stars / hustling for the good life”
long story short
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Ipotizziamo che, facendo una meritata escursione post-pandemia sui Monti Sibillini, io caschi da un precipizio perché non sono riuscita a mettere un piede sulla sporgenza a forma di zoccolo di gnu e l’altro sulla rientranza a forma di vertebra di moffetta, e di conseguenza finisca in coma. Ecco, nel (malaugurato) caso in cui vogliate svegliarmi (no, davvero, non disturbatevi), sparare a palla questa canzone potrebbe essere il modo migliore per farlo (ma comunque non c’è bisogno).
Per arrivare a long story short siamo dovuti passare per reputation. In This Is Why We Can't Have Nice Things, le cose belle andavano messe via, al riparo, per evitare che altri le rompessero, e i cancelli venivano chiusi, e ci si rifugiava all’interno; in Call It What You Want le finestre erano state sbarrate non tanto per resistere alla tempesta — arrivata così all’improvviso da non aver tempo di prepararsi — ma per mettere una toppa alla distruzione che la tempesta aveva causato (“Windows boarded up after the storm”). Tutte immagini, queste, che rimandano al nascondersi (“Nobody's heard from me for months”), a un atteggiamento di mera difesa, e di conseguenza passivo: non si poteva certo contrattaccare, tanto si era male in arnese (“I brought a knife to a gun fight”).
Il castello che crolla e la caduta dal piedistallo sono la stessa cosa, se non fosse che in long story short, alla fine, per quanto si sia stati spinti giù dal precipizio, non si finisce spiaccicati: “Climbed right back up the cliff / long story short, I survived”. Si abbandona l’atteggiamento difensivo di prima, e si diventa artefici della nostra stessa salvezza (“But if someone comes at us / this time I'm ready”). Non solo, ma si è anche menato qualche fendente, nonostante gli agguati subiti: “I was in the alley surrounded on all sides / the knife cuts both ways”.
E tutto quel che c’è stato prima può essere liquidato con un laconico “It was a bad time”. Adesso si guarda al futuro.
(Io, comunque, col cacchio che intendo arrampicarmi di nuovo su: mi faccio mangiare dai lupi e ciaone)
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “And I fell from the pedestal / right down the rabbit hole / long story short, it was a bad time”
marjorie
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Eravamo usciti per fare un giro per le colline marchigiane tra i castelli di Jesi, forse verso l’Acquasanta. Mi ricordo un rettilineo asfaltato e il sole al tramonto che bagnava d’oro tutto intorno. Io e mio fratello ci divertivamo a cantare Dove il mondo non c’è più di Francesco Renga, che andava forte in radio in quel periodo. Questo mi fa pensare che fosse il 2002, e io avevo tredici anni e mio fratello undici. Mi sa che all’epoca nonno aveva già venduto la Ritmo e l’aveva sostituita con la Uno, e nonna si godeva i nipoti che non avevano una preoccupazione al mondo. Poi succede che a un certo punto cresci, hai i tuoi interessi, i tuoi giri, no, dai, non mi va di andare a cena dai nonni, devo studiare, vabbé, andiamo ma poi torniamo presto, guarda, no, oggi non vengo proprio che ho da fare. E poi a un certo punto se ne va uno, e tre anni dopo se ne va anche l’altra, e allora pensi che alcune cose avresti dovuto gestirle diversamente, perché lo sapevi che poi l’avresti rimpianto, potevi anche alzare gli occhi ogni tanto, sempre puntati per terra, evitare di essere sempre così insofferente, perché diavolo dovevi essere sempre così insofferente, e ripensi all’ultima volta che sei stata a cena lì e non sapevi sarebbe stata l’ultima, e richiami alla mente la casa, e ne visiti le stanze che hai archiviato nella memoria, perché non ci hai più rimesso piede dal giorno dell’ultimo funerale.
Ascoltando marjorie mi si è aperto un vaso di Pandora di ricordi, e ho pianto così tanto da essermi disidratata da sola. Spero che quest’album venderà bene, perché con almeno metà dei ricavi Taylor dovrà pagarmi i danni morali.
Marjorie Finlay era la nonna materna di Taylor, cui quest’ultima aveva già tributato omaggio nel video di Wildest dreams, attraverso il nome e le fattezze del personaggio da lei interpretato. Questa canzone è tanto intima quanto universale, e l’affetto che Taylor prova(va) per la nonna travolge l’ascoltatore come i carri armati britannici hanno travolto i soldati tedeschi nella battaglia della Somme. Tra le cose più belle, quei versi che hanno tutto il sapore di consigli di vita tramandati da nonna a nipote: “Never be so polite, you forget your power / never wield such power, you forget to be polite”; “Never be so kind, you forget your clever / never be so clever, you forget to be kind”.
La canzone colpisce nella sua semplicità: rispetto ad altri brani di evermore, il testo di marjorie non si esibisce in artifici poetici e fa a meno di tutto il bagaglio di orpelli retorici, metafore, sottotesti caratteristici della scrittura di Taylor, perché non avrebbero avuto ragion d’essere, in un brano così: quando si pensa ai nonni, la strada che collega cuore e cervello è un rettilineo, non una via tortuosa fatta di incroci e rotatorie. E allora “What died didn't stay dead / what died didn't stay dead / you're alive, you're alive in my head”.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I should've asked you questions / I should've asked you how to be / Asked you to write it down for me / Should've kept every grocery store receipt / ‘Cause every scrap of you would be taken from me”
closure
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Non arriverò certo a dire che closure sia una brutta canzone (un aggettivo salace attribuibile solo a End Game, I Don’t Wanna Live Forever e a quell’abominio del remix di Lover con Shawn Mendes), perché non lo è, né che sia la peggior canzone di evermore (forse quella è cowboy like me), però ha qualcosa che le impedisce di scalare la classifica. Più che altro è colpa della produzione folk-industriale, specie nell’intro, che non aggiunge nulla; semmai toglie. E soprattutto stona sia nella canzone stessa, che poi prende altre direzioni, sia con il resto dell’album. Qualcuno, ben più eloquentemente di me, ha detto che “sembra quasi che si stia provando a connettersi a internet tramite una connessione cavo nel 1997”.
Il testo però ha i suoi guizzi, come “Don't treat me like some situation that needs to be handled / I’m fine with my spite / and my tears / and my beers and my candles”, e il ritornello è molto orecchiabile. Forse è solo questione di acquisire il gusto, perché se il primo ascolto mi ha fatto dire “che madonna succede?” ben presto mi è entrata in testa, cigolii compresi.
Quanto al significato, il commento sulla connessione mi ha fatto pensare che possa, in effetti, trattarsi, se non di un modem (e ci manca solo che Taylor si metta a scrivere le canzoni sui modem, ma a questo punto non mi stupirei) di un’altra machine… magari big, e non stiamo certo parlando della canzone dei Goo Goo Dolls. “The way it all went down”; “Looks like you know that now”; “I know that it's over / I don't need your "closure””; “Don't treat me like some situation that needs to be handled / I’m fine with my spite and my tears / and my beers and my candles” son tutti versi che mi fanno pensare alla travagliata vicenda relativa alla vecchia casa discografica e alla proprietà dei master, cui di recente si è aggiunto un ulteriore capitolo con la vendita degli stessi, da parte della Big Machine, a un soggetto terzo rispetto a Taylor (“Your closure”). Oltre il danno, pure la beffa.
#AlcoholicCount: 1 (beers)
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “Don't treat me like some situation that needs to be handled / I’m fine with my spite and my tears / and my beers and my candles”
evermore [feat. Bon Iver]
[Taylor Swift, Justin Vernon, William Bower - aka Joe Alwyn]
La vita è miseria e poi si muore, e Taylor con questa canzone ha pensato bene di ricordarcelo (ma siamo onesti: ce lo siamo mai dimenticato?).
evermore è una ballad malinconica accompagnata da un pianoforte meraviglioso, in cui si riflette su un periodo di profonda tristezza e sofferenza, che dura tuttora: si cerca di trovarne l’inizio (“I replay my footsteps on each stepping stone / trying to find the one where I went wrong”), si tenta di affrontare il problema, ma senza esito (“Writing letters / addressed to the fire”), si riconosce di non avere gli strumenti per gestire la situazione (“Barefoot in the wildest winter”), e anziché concentrarsi sui passi da fare per uscirne, ci si ferma guardare indietro, quel momento in cui tutto è andato in malora (“I rewind the tape but all it does is pause / on the very moment all was lost”). Tutto questo per giungere all’amara conclusione: che questo dolore sia per sempre (“That this pain would be for / evermore”).
Tuttavia la canzone si conclude con una nota positiva, a cui giungiamo guidati dal bridge. Una volta riconosciuto che esiste qualcosa in grado di darci la forza di andare avanti, allora ecco che cambia la percezione e, forse forse, this pain wouldn't be for evermore.
C’è da dire, tuttavia, che la formula è dubitativa in entrambe le conclusioni: non c’è mai la certezza, nell’uno e nell’altro caso, che il dolore sia o non sia perenne (l’ultimo verso dei ritornelli, infatti, è sempre introdotto da “And I couldn't be sure”), e se da un lato ciò dà speranza, dall’altra ti evita di illuderti troppo. A differenza di Daylight, in cui si dà per certo il lieto fine, qui resta sempre un margine di dubbio.
Questa canzone segna la seconda collaborazione col frontman dei Bon Iver, Justin Vernon, dopo exile. Avendo amato tantissimo quel contrasto meraviglioso tra la voce profonda di Vernon e quella delicata di Taylor, evermore mi incuriosiva parecchio. Purtroppo non posso dire che l'attesa sia stata del tutto ripagata, perché qui manca ciò che rendeva particolare exile, quel chiaroscuro di voci, avendo Justin Vernon deciso di cantare, anziché dall’oltretomba di sotto, dall’oltretomba di sopra; questo tipo di cantato, così alto, a tratti stridulo, è quanto più lontano possa esistere dal mio gusto personale, e se devo essere sincera faccio parecchia fatica ad arrivare alla fine del bridge.
#AlcoholicCount: 0
#CurseWordsCount: 0
#MurderCount: 0
#FavLyrics: “I replay my footsteps on each stepping stone / trying to find the one where I went wrong”
right where you left me
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Una delle due bonus track della deluxe edition che ancora non ho ascoltato perché non mi è arrivato il cd, ma non è che mi lamento perché per scrivere ‘sto robo ho esaurito tutta la mia energia vitale dei prossimi sei anni e due canzoni in meno son due canzoni in meno e io non che ci sputi sopra.
#AlcoholicCount:
#CurseWordsCount:
#MurderCount:
#FavLyrics:
it’s time to go
[Taylor Swift, Aaron Dessner]
Come sopra.
#AlcoholicCount:
#CurseWordsCount:
#MurderCount:
#FavLyrics:
WHEREVER YOU STRAY, I FOLLOW
evermore è stato presentato come il seguito naturale di folklore. In effetti, non c’è soluzione di continuità nei due lavori, e lo stesso video di willow, che riprende dove quello di cardigan aveva lasciato, lo dimostra. E nemmeno c’è una cesura tra le sonorità dell’uno e dell’altro, cosa che invece ha sempre caratterizzato il passaggio da un disco al successivo. Taylor stessa ha detto che una volta iniziato (e finito) di scrivere folklore non sono riusciti a fermarsi. È facile capire perché: canzoni di questo tipo, caratterizzate da una commistione di elementi biografici ed elementi di finzione, offrono uno sfogo artistico senza eguali. Probabilmente è stato come attingere a una vena creativa che non si esauriva ma che si alimentava da sola.
Anche in questo caso, ed è superfluo specificarlo, il cavallo di battaglia è costituito dai testi, in cui non si disdegna nemmeno di citare Re Mida e i giardini pensili di Babilonia. In un panorama musicale in cui molto spesso la sostanza recede in favore dell'apparenza, Taylor imperterrita, presumo dopo aver passato il lockdown un po' a registrare un po' a leggersi il Merriam-Webster, continua a sfornare dei testi che davvero non hanno paragone nel mondo mainstream, nel pop soprattutto.
Rispetto al predecessore, dove un ruolo importante hanno le ingenuità giovanili (dalla bambina di seven al trittico cardigan-august-betty) in evermore i temi trattati passano invece spesso sotto la lente cinica e disillusa dello sguardo adulto.
Sempre rispetto a folklore, che mi aveva folgorata subito sulla via di Damasco, confesso che evermore ci ha messo un po’ a carburare, a farsi strada. Probabilmente, folklore aveva dalla sua la particolarità di essere davvero una novità; non tanto (e non solo) per il sound, ma soprattutto per la storia della sua genesi (che tra l’altro è la stessa di evermore, solo che folklore è arrivato prima), cioè di musica creata per alleviare la solitudine e l’angoscia esistenziale dovuta alla pandemia. Con evermore, insomma, la sensazione è “been there, done that” che forse l’ha reso meno speciale ai miei occhi, nonostante sia stato annunciato a sua volta a sorpresa.
E se tutte le canzoni di folklore mi sono parse subito ben distinte nella loro individualità, qui ho fatto più difficoltà a scinderle, e ho dovuto attendere che mi si diradasse la nebbia nel mio cervello (cervello che tra l’altro sta ancora processando this is me trying) prima di essere in grado di distinguere, che ne so, long story short da dorothea (parlo per iperbole, eh!).
Forse, per tutta questa serie di circostanze, mi trovo a preferire folklore, ma avendo fatto sufficienti ascolti di evermore per apprezzarne le varie sfumature e la profondità, mi rendo conto che è difficile dare un giudizio così tranchant: perché al di là di tutto evermore è comunque un disco splendido, e a prescindere dai gusti personali che mi indirizzano più da una parte che dall’altra, una cosa è certa: con Taylor, comunque, si casca sempre in piedi. Visto il periodo natalizio, è un po’ l’annosa questione della faida tra panettone e pandoro: perché costringersi a scegliere quando ci si può strafogare di entrambi con uguale soddisfazione?
[a questo link il Tomone 5.0 su folklore]
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goodbearblind · 3 years
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#Repost @supercalifragilistiche with @get_repost ・・・ 172 anni fa moriva Edgar Allan Poe (Boston, 19 gennaio 1809 – Baltimora, 7 ottobre 1849). Una morte travagliata e misteriosa. Una cinque giorni di passione inizia il 3 ottobre 1849 con il ritrovo dello scrittore, delirante, a Baltimora. Nessuno sapeva il perché di quelle condizioni o il perché di quei vestiti che non erano suoi. La morte lo portò via con il mistero che lo aveva sempre contraddistinto durante la sua vita. Uno scrittore atipico che scrisse solo un romanzo durante la sua vita. 69 racconti che lo hanno reso uno dei padri della moderna letteratura americana e del moderno racconto poliziesco. Solo sette anni di scrittura. Altra atipicità che lo ha reso unico. Nel 1842 la crisi derivata dalla malattia e poi morte della moglie. Divenne un’alcolista e finì in estrema povertà. Un artista completo I suoi racconti hanno sempre parlato di temi oscuri. Celebri Il corvo e altre poesie, Il gatto neroe Annabel Lee. Poco apprezzato dal pubblico e dalla critica della sua epoca, come prassi in questi casi. Riscoperto solo dopo grazie alla cultura popolare. Spesso citato nella letteratura, musica, produzioni cinematografiche e televisive. Particolarmente azzeccata la serie The Followingdove il cattivo, Joe Carroll, si ispira alle idee di Poe e crede nella “follia d’arte“, concetto spesso esposto dallo scrittore. L’omicidio come arte, come spesso raccontato. E forse è proprio questo genio lo rese folle. Follia e genio, due concetti così simili e così diversi. Due concetti opposti che si incrociano facilmente. Edgar Allan Poe era tutto questo. #edgarallanpoe https://www.instagram.com/p/CUtr3xfNlYN/?utm_medium=tumblr
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isajbc · 6 years
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“Hay algo en el generoso y abnegado amor de un animal que llega directamente al corazón de aquel que con frecuencia a probado la falsa amistad y la frágil fidelidad del hombre". Edgar Allan Poe. . . . . . #Cat #gatosdeinstagram #blackcat #cats #gato #gatos #katze #gatto #pet #mascotas #mascota #photography #photooftheday #petstagram #pets #neko #ねこ #kat #petsofinstagram #gatosfofos #cats_of_world #catsofinstagram #catloversclub https://www.instagram.com/p/BtPWZCGl_bb/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=qtybxrqaatrl
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alemicheli76 · 2 years
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"L'agghiacciante caso del gatto nella minestra" di Claudio Vastano, Saga edizioni. A cura di Alessandra Micheli
“L’agghiacciante caso del gatto nella minestra” di Claudio Vastano, Saga edizioni. A cura di Alessandra Micheli
Sherlock Holmes? Hercule Poirot? Maigret? Montalbano? Per favore snobbateli. Sta per arrivare Pestalozzi a dominare il giallo! Amanti di Wilkie Collins, nostalgici dell’ispettore Auguste Dupin di Edgar Allan Poe, non riuscirete, fidatevi, a restare indifferenti al genio ironico, grottesco e totalmente sconveniente di questo personaggio. Esilarante e polemico. Geniale e dotato di un acume che…
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"Tutti coloro che hanno provato affetto per un cane fedele e intelligente comprenderanno facilmente la natura e l' intensità del piacere che se ne può trarre. C'è qualcosa, nell' amore disinteressato e capace di sacrifici di una bestiola, che va direttamente al cuore di chi ha avuto frequenti occasioni di mettere alla prova la gretta amicizia e l' evanescente fedeltà del semplice Uomo"
Il gatto nero - Edgar Allan Poe
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Ben ritrovati lettori, oggi voglio parlarvi di un libro straordinario che ho scoperto per caso e solo grazie alla book challenge cui stiamo partecipando ( io e mia sorella). E sì, proprio così è avvenuta la scelta, ma anche perchè io amo gli animali, in particolar gatti e cani. E' un libro leggero, per tutti coloro che li amano e che hanno voglia di emozionarsi, ridere e cullarsi tra le pagine di una storia meravigliosa. Ebbene, il romanzo di oggi è "Sette vite e un grande amore. Memorie di un gatto" di Lena Divani edito da E/O Edizioni, dalla collana dal mondo. EDITORE: E/O Edizioni GENERE: Narrativa contemporanea e moderna PAGINE: 160 DATA DI PUBBLICAZIONE: 4 settembre 2013 TRAMA Chi ha vissuto con un gatto, sa quanto quest’ultimo possa essere furbo, tenero, feroce, subdolo, ingegnoso, idiota e completamente adorabile. Proprio come il protagonista di questo romanzo, una grande storia d’amore fra Zucchero, un gatto ironico e riflessivo (nonché obeso), e la sua umana, Madamigella, una scrittrice dalla vita isterica e sregolata. Giunto alla sua settima vita, Zucchero è un gatto con i baffi e ne avrebbe di cose da raccontare! Soprattutto sa benissimo come addomesticare un umano e non gli si venga a dire che siamo noi, poveri stolti, ad addomesticare loro. Con senso dell’umorismo e cultura sorprendenti per un gatto (sorprendenti solo per degli scettici e ignoranti umani, si capisce), Zucchero ci racconta la sua vita esilarante (e a tratti commovente) con Madamigella, e a noi lettori non resta che divertirci e commuoverci con loro. Sette vite e un grande amore, che si inserisce nella lunga e il¬lustre tradizione della letteratura “gattofila” a cui appartengono rac¬conti e poesie di autori come Edgar Allan Poe, Celine, Baudelaire, Bukowski e molti altri, è stato uno dei grandi successi editoriali del 2012 in Grecia. RECENSIONE COMPLETA SUL BLOG immersinelmondodeilibri.home.blog https://www.instagram.com/p/CKGzK3gnfro/?igshid=1aa01cccv38fx
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mikuhatsune91 · 4 years
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📚   Editore Italiano: @elliotedizioni Volumi: 1 ( concluso )            𝐓𝐑𝐀𝐌𝐀: In questa raccolta incontriamo ogni sorta di creature inquietanti: Lady Ducayne, dalla penna di Mary Elizabeth Braddon, è l’esatto opposto di Dracula: una vampira fisicamente fragile, ben inserita nell’alta società; il famigerato gatto vampiro dei Nabéshima, mostro che stregò il principe di Hizen, in Giappone; e ancora, l’albero mangia-uomini, leggendaria pianta carnivora che ispirò Phil Robinson. E in questa teoria di esseri incredibili un posto d’onore va riservato alla Morte in persona descritta da Edgar Allan Poe, che semina una terribile epidemia che si protrae per mesi e riesce infine a penetrare nel castello in cui un migliaio di uomini sani si sono rinchiusi per sfuggirle. Sette racconti del brivido, molti dei quali inediti in Italia, capaci di far smarrire il lettore nei meandri del sovrannaturale.          𝐂𝐎𝐒𝐀 𝐍𝐄 𝐏𝐄𝐍𝐒𝐎:      ( continua nei commenti )           𝐇𝐚𝐬𝐡𝐭𝐚𝐠: #bookblogger #booker #booktrailer #bookstagram #bookish #booklover #bookaddict #bookit #libriovunque #libridaleggereprimadimorire #librichepassione #libri #libridaleggere #instabook #blogger #parliamodilibri #lettrici #libridaleggereassolutamente #libridaamare #instabookfriends #gruppopennalibri #bookinfluencer #friendlybookstagram #amazon #unboxing #elliotedizioni #iraccontidelvampiro #dracula #japan #bookinfluencer https://www.instagram.com/p/CJ5l-zlnHrc/?igshid=1u2651ptmeqla
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xadis5 · 4 years
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Eccoci di nuovo con una domanda del #30mesidilibritag , per me assai difficile, alla quale dare una risposta... "Qual è il libro più brutto che tu abbia mai letto?" Fortunatamente devo dire che di libri brutti brutti che proprio non consiglierei a nessuno ne ho letti pochi quindi dovrebbe essere facile per me dare una risposta ma nel complesso non li butterei proprio via. Guardando ora la libreria mi sono saltati all'occhio due titoli "il giardino segreto" di Frances Hodgson Burnett e "arrivederci ragazzi" di Louis Malle (del quale non ricordo assolutamente nulla) che non mi sono piaciuti perché imposti dalla scuola ed io da piccolo odiavo leggere appunto perché era una costrizione. Magari se provassi a leggerli adesso forse porterei anche apprezzarli, non so. I "racconti del terrore" di Edgar Allan Poe è un altro libro che non mi è piaciuto, anche se il racconto "il gatto nero" non lo trovai brutto, perché ho trovato il suo stile di scrittura inconcludente, avevo la sensazione che mancasse qualche cosa e non capissi dove voleva andare a parare. Per voi quali sono i libri più brutti che abbiate letto? e perché? #30mesidilibritag #booktag #libribrutti #sconsigliodilettura #edgarallanpoe #giardinosegreto #arrivederciragazzi https://www.instagram.com/p/CGPZMHdHLrP/?igshid=f7ne26tzeyhl
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levysoft · 4 years
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Olympia di Édouard Manet è un celebre dipinto dallo stile rivoluzionario che suscitò un grande dibattito in occasione della sua esposizione al Salon di Parigi del 1865.
Édouard Manet, Olympia, 1863, olio su tela, 130,5×190 cm. Parigi, museo d’Orsay
Descrizione di Olympia di Édouard Manet
Una giovane donna priva di abiti è distesa su un letto rivolta verso il fronte del dipinto. Il suo viso non rivela alcuna emozione e lo sguardo acuto è puntato in avanti. La protagonista indossa solamente alcuni gioielli, orecchini di perla e un bracciale. Intorno al collo poi è annodato un laccetto nero e sottile. Ai piedi porta un paio di zoccolette gialle mentre tra i capelli spunta un’orchidea rossa. Il braccio sinistro è piegato e sostiene il busto, invece la mano destra copre il pube della ragazza.
A destra del dipinto, una donna di colore guarda la protagonista porgendo un mazzo di fiori avvolto in una carta bianca. Accanto a lei poi un gatto nero alza la coda e guarda con sospetto in avanti.
Il materasso è coperto da lenzuolo bianco sgualcito mentre grandi cuscini sostengono il busto della giovane. Sotto di lei inoltre spunta un telo giallo decorato con motivi a fiori. L’ambiente è minimamente descritto e molto sobrio. A sinistra, si individuano un paravento marrone e una tenda verde scostata in alto.
Interpretazioni e simbologia di Olympia di Édouard Manet
Manet nel dipinto Olympia propose una nuova interpretazione del nudo femminile, un genere appartenente alla tradizione della pittura occidentale. L’artista infatti ricorse ad una rappresentazione diretta e priva di compromessi con la morale borghese dell’epoca. La prostituta è quindi rappresentata in modo prosaico senza veli, anche fisicamente, e con un linguaggio crudo. Al posto del nudo idealizzato, Manet propose una immagine fredda e realista di una giovane cortigiana. La sua figura infine non è rivisitata con filtri mitologici, allegorici o simbolici ma rappresenta solo una prostituta nuda. Anzi, la posa che la tradizione classica assegna a Venere viene qui destinata alla rappresentazione del meretricio.
Olympia infatti era un soprannome molto comune riservato alle cortigiane nell’Ottocento. Il gatto nero poi era un simbolo erotico legato alla sessualità femminile. Inoltre la serva che porge un mazzo di fiori espone l’offerta di un cliente.
Alcuni dettagli chiariscono inoltre il contesto del dipinto. Le lenzuola sono sgualcite e indicano che la ragazza passa molto tempo adagiata. L’orchidea rossa fra i capelli è un segno di sensualità. Anche i gioielli indossati senza troppa raffinatezza segnalano la vita pubblica della giovane.
I riferimenti alla tradizione
Manet fece riferimenti diretti però a opere del passato quali  la Venere di Urbino di Tiziano, la Maja desnuda di Goya e Vélasquez. Inoltre riprese i personaggi dell’odalisca e della schiava nera da autori come Ingres. Nel territorio veneto poi tale iconografia era tipica della tradizione del Cinquecento.
La Venere dipinta da Tiziano dallo sguardo ammaliante, simbolo di femminilità e fedeltà domestica, diventa nell’opera di Manet una prostituta che guarda sfrontatamente verso l’osservatore. Tale immagine ricordava anche le prime fotografie di giovani donne che lavoravano nelle case di tolleranza dell’epoca.
Il dipinto quindi offrì molti aspetti provocatori nei confronti di coloro che sostenevano la tradizione accademica e la morale borghese. Intanto le forme prive di modellato e circondate dai toni neri sono esplicitamente esposte. Poi la giovane donna offre uno sguardo deciso e diretto, privo di pudore per la sua nudità cosi esposta. Nonostante questo Manet non era interessato a provocare i tradizionalisti, quanto a rappresentare il vero senza filtri morali.
I committenti, le collezioni, la storia espositiva e la collocazione
Manet espose l’Olympia in occasione del Salon di Parigi del 1865.
Claude Monet, il maestro impressionista, nel 1890, organizzò una sottoscrizione pubblica per offrire il dipinto allo Stato francese. L’opera dal 1890 al 1907 si trovò così al Musée du Luxembourg di Parigi. Nel 1907 l’amministrazione dei musei lo attribuì poi al Museo del Louvre di Parigi dove rimase dal 1907 al 1947. Dal 1947 al 1986 fu sempre di proprietà del Museo del Louvre ma esposto alla Galleria Jeu de Paume. Infine nel 1986 il comune di Parigi lo destinò al Musée d’Orsay.
L’artista e la società. La storia dell’opera Olympia di Édouard Manet
Manet progettò con attenzione l’opera e l’idea di realizzare un nudo di tale impatto era già nelle sue intenzioni durante il viaggio in Italia dal settembre del 1853. In tale occasione infatti realizzò un disegno della Venere di Urbino di Tiziano. L’artista disegnò anche una copia del dipinto di Goya, la Maja, conosciuto grazie a stampe calcografiche. Di questa attenta preparazione rimangono molti disegni e vari bozzetti.
Victorine Meurent nel 1863 posò per offrire la sua immagine alla figura di Olympia. La giovane era infatti la modella preferita di Manet negli anni Sessanta dell’Ottocento.
La giuria del Salon parigino del 1865 accettò l’opera temendo l’organizzazione di un nuovo “Salon des refusés”, come era avvenuto già nel 1863. Il soggetto rappresentato nel dipinto suscitò però diverse critiche. Lo stile diretto e privo del filtro neoclassico o mitologico determinò infatti la condanna dell’opera. Anche il pittore realista Gustave Courbet non apprezzò le novità del dipinto. I detrattori criticarono la scelta di rappresentare un corpo nudo femminile con un realismo che giudicarono offensivo. Infatti la posa, le forme non idealizzate e i colori suscitarono la loro indignazione. Sull’onda emotiva alcuni visitatori della mostra cercarono di distruggerla e gli organizzatori del Salon misero due poliziotti a protezione del dipinto.
Alcuni intellettuali però si schierano in difesa dell’opera come Charles Baudelaire. Lo scrittore Èmile Zola considerò l’immagine una convincente rappresentazione della realtà vicina anche alle descrizione di alcuni suoi personaggi come quello di Nana.
Lo stile di Olympia di Édouard Manet
Manet dipinse l’Olympia con lo stesso stile di rottura che utilizzò anche ne La colazione sull’erba. Le figure non sono modellate con le mezze tinte del chiaroscuro. Inoltre le campiture che costruiscono le forme non sono sfumate ma piatte. Infatti Manet per ritagliare le figure e i dettagli dello spazio ricorse a contrasti di luminosità, di temperatura cromatica e tra colori complementari.
La tecnica
Olympia di Edgar Manet è un olio ad impasto su tela di 130,5 x 190 cm.
Il colore e l’illuminazione
Il dipinto di Manet, coloristicamente, è risolto grazie a diversi contrasti. Infatti le figure in primo piano si staccano dallo sfondo scurissimo perché sono molto chiare. Inoltre la veste della domestica è rosa, dipinta contro lo sfondo verdastro e freddo. Il panneggio del lenzuolo è reso con toni azzurrini che contrastano per complementarietà con il marrone arancio del pavimento e del paravento.
La scena è illuminata da una luce diretta e cruda che proviene dal fronte del quadro. Virtualmente giunge così dallo spazio nel quale si trova l’osservatore. È quindi una illuminazione che svela senza alcuna discrezione il corpo della giovane. Infatti la luce non crea alcuna atmosfera ma sembra illuminare un set espositivo che valorizza un prodotto piuttosto che svelare un corpo femminile.
Lo spazio
La scena ritrae un ambiente chiuso che si intravede sullo sfondo scuro. Come ne la Colazione sull’erba, la prospettiva geometrica è azzerata e i dettagli ambientali suggeriscono la presenza di una stanza annullando la profondità.
La composizione e l’inquadratura
Il dipinto è di forma rettangolare e formato orizzontale. L’inquadratura poi è piuttosto semplice e permette la rappresentazione del letto di profilo che traversa l’intera superficie in larghezza.
La struttura compositiva infine è ordinata su semplici linee ortogonali che creano una griglia sulla quale si inserisce il busto leggermente obliquo della protagonista.
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goodbearblind · 4 years
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Alza il bicchiere, brindando di nuovo all'anarchia. "Sono un anarchico, sì", spiega. "Perché sono vivo. La vita è una provocazione .... Sono contro le persone al potere e ciò che questo impone loro. Gli anglosassoni devono imparare cos'è l'anarchismo. Per loro, è violenza. Un gatto sa cos'è l'anarchia. è. Chiedi a un gatto. Un gatto capisce. Sono contro la disciplina e l'autorità. Un cane è addestrato a obbedire. I gatti non possono essere. I gatti portano il caos. Libertarismo - c'est la vie. Henri Cartier-Bresson. Henri Cartier-Bresson the Anarchist Artisan - Intervista a Charlie Rose: https://rawnakedart.com/2017/01/07/henri-cartier-bresson-the-anarchist-artisan/ Le foto del film del 1934 The Black Cat sono state scattate da Cartier-Bresson. The Black Cat (diretto da Edgar G. Ulmer) è un film allegorico anti-nazista pubblicato quando Hitler salì al potere, un film di forza anticipatrice e un racconto horror sul cultismo - interpretato da Karloff e Lugosi (entrambi sindacalisti e antifascisti ). Il trailer di Black Cat qui: https://www.youtube.com/watch?v=D1yyr5UfVWE . . #HenriCartierBresson #anarchy . (Fonte https://rawnakedart.com/2017/01/07/henri-cartier-bresson-the-anarchist-artisan/?fbclid=IwAR21QlMbtTBbKxdJil-ChfxWCxPOAgHAvSqF3T5xuJtUY6-1ow-JWysv8ck) . . Grazie a @rosanna.amanda.anargie ❤️ e non dimenticando #negromatapacos #loukanikos e i tanti altri #riotdogs ❤️🖤 https://www.instagram.com/p/CIDLp84gLHN/?igshid=1ews28u34qbgc
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