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#Giancarlo Vigorelli
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Apocalittici e integrati
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Nell’ Inventario dell'archivio del Fondo Giancarlo Vigorelli, Biblioteca comunale di Milano, a cura di Cooperativa CAeB, Milano, Biblioteca comunale, 2017, sono registrate tre lettere indirizzate da Rodolfo Quadrelli a Giancarlo Vigorelli nonché un testo inedito del medesimo, dattiloscritto con correzioni manoscritte, contenente riflessioni su scrittura, letteratura e poesia. Sarebbe stato interessante consultarli per sapere qualcosa di più sui rapporti tra il famoso critico e il professore di liceo nato a Milano nel 1939 e morto nell’84 a soli 46 anni: poeta e saggista, studioso di Shakespeare e osservatore attento della crisi, da lui ritenuta soprattutto culturale, dell’Italia dei suoi e dei nostri anni. Quadrelli era fra i rappresentanti di punta di una nuova generazione di intellettuali che avrebbe dovuto raccogliere il testimone di una grande cultura legata all’idea di tradizione, i cui esponenti principali erano stati fino ad allora Augusto Del Noce, Rosario Assunto e, più giovane, Elémire Zolla, critica sia verso il potere dominante che verso i contestatori. Il prevalere del conformismo ideologico e politico determinò (oltre a Quadrelli possiamo citare Emanuele Samek Ludovici e Marco Marcolla) l’ostracismo della grande editoria, l’ostilità del potere accademico ma anche l’indifferenza del ceto politico di centrodestra, che li condannarono all’isolamento e alla disperazione. Vennero così a mancare gli anticorpi adatti a temperare il passaggio dalla militanza al cinismo di massa.
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R. Quadrelli, Il senso del presente. Un diario morale, Milano, Rusconi, 1976; R. Quadrelli, Il paese umiliato, Milano, Rusconi, 1973
  Nell’opera miscellanea: I potenti della letteratura, a cura di Rodolfo Quadrelli, Milano, Rusconi, 1970, scritta con Sergio Quinzio, Armando Plebe e Quirino Principe, il Nostro affronta il tema della critica letteraria, avvertendo che “Non è da ravvisare comunque, nelle pagine che seguono, una nostalgia dell’antico contrapposto al moderno: c’è la convinzione che vi siano idee da ritrovare non necessariamente nel passato, sì piuttosto nelle possibilità permanenti che giacciono al di sotto della storia e in interiore homine". [pp. 8-9]
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Giancarlo Vigorelli pubblicherà invece solo nel 1989 Carte d’identità, una raccolta ragionata e integrata di suoi interventi critici, che certo non costituiscono un’Estetica ma almeno, rispetto all’urgenza del momento, un Discorso sul Metodo critico. La presa di distanza da Benedetto Croce a favore del biografismo di Augustin de Sainte-Beuve (1804-1869) non potrebbe essere più chiaramente espressa. In concreto tuttavia, la critica di Vigorelli ha escluso recisamente ogni storia di dati extrapoetici, ogni proiezione sociologica e tantomeno l’inserimento degli scrittori in sequenze evoluzionistiche, e ciò in piena sintonia col dettato crociano. Forse si era insinuato il sospetto che la questione del metodo critico più che sull’impostazione teorica fosse ormai da collegare allo stato di salute della letteratura. Per quattro numeri, tra il 1983 e il 1984, la “Nuova Rivista Europea” da lui diretta accolse le risposte di quegli (oltre cento gli inviti) scrittori e uomini di cultura che avevano voluto confrontarsi col quesito: “Esiste in Italia una società letteraria?”.
È sintomatico che un’inchiesta analoga a quella di Vigorelli sia stata ripresa nel 2015 da un quotidiano in margine ad alcuni temi sollevati dallo storico della letteratura Alberto Asor Rosa, e riassumibili nell’accusa che la massa di scrittori o lo scrittore/massa espressione di indistinte storie individuali senza capacità di presa sul presente abbiano ucciso la critica consegnandosi al mercato.
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R. Quadrelli, Il linguaggio della poesia, Firenze, Vallecchi, 1969
Umberto Eco aveva marchiato Quadrelli da “ultras della sottocultura cattolica” (L’Espresso, 30 gennaio 1972). Dall’alto della sua erudizione gli “apocalittici” apparivano terribilmente noiosi e datati. Eppure l’abolizione del confine, sulla falsariga degli strutturalisti francesi, tra alta cultura e intrattenimento, ha determinato un punto di svolta segnato per Franco Cordelli proprio dalla pubblicazione nel 1980 del Nome della rosa: un ripristino fittizio del ruolo dell’intellettuale, l’origine di tutta la letteratura di consumo arrivata nei decenni successivi, l’atto di nascita dello “scrittore medio”.
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Ri-formare un pubblico consapevole, colto, moderno è compito ormai della scuola e in questo senso la lettura de La poesia, al di là del suo rilievo entro la coerenza interna della filosofia di Croce e delle preclusioni del suo gusto, invitandoci ancora a guardare ai nuclei più risolutivi dell’esperienza poetica, costituisce un antidoto a tanta letteratura inessenziale.
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mayolfederico · 4 years
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ventuno giugno
Mario Deluigi, Grattage
  Di mia madre
Di mia madre nulla saprei dire – come ripeteva rimpiangerai un giorno, quando non ci sarò più, e come non credevo né nel “più”, né nel “non ci sarò”, come mi piaceva guardare, quando leggeva un romanzo alla moda, sbirciando subito l’ultimo capitolo, come in cucina, reputando che questo non è per lei il luogo adeguato, prepara il caffè…
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giuliomozzi · 7 years
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Come sono fatti certi libri, 22 / "Curriculum mortis", di Enrico Emanuelli
Come sono fatti certi libri, 22 / “Curriculum mortis”, di Enrico Emanuelli
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di Antonio Celano [In questa rubrica pubblico descrizioni, anche sommarie, di libri che – al di là della storia che raccontano o del tipo di scrittura – presentano una “forma” un po’ particolare, o magari bizzarra. Che cosa si intenda qui per “forma” mi pare, visti gli articoli già pubblicati, piuttosto evidente. Chi volesse contribuire si faccia vivo in privato ([email protected]). gm].…
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adrianomaini · 3 years
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E annaffiato di lambrusco puoi mangiar Giancarlo Fusco. E per cena caldi caldi succulenti e grassi Astaldi. Vigorelli di maiale con la salvia. Poi caviale che ha portato giù dal Don il Visconte di Modron.
Alba de Céspedes
[NOTE] Si tratta dello scrittore e giornalista genovese Giancarlo Fusco. È un chiaro riferimento alla figura della scrittrice e giornalista italiana Maria Luisa Astaldi. Il testo indica il noto giornalista Giancarlo Vigorelli. L’associazione dei termini «Don» e «Visconte di Modron» ricondurrebbe ad un unico profilo, ovvero quello di don Luchino Visconti di Modrone, celebre regista italiano con cui Alba aveva avuto modo di collaborare.
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tmnotizie · 5 years
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SAN BENEDETTO – Domenica 1 dicembre 2019, alla Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto, alle 17,30, sarà inaugurata la mostra “Aligi Sassu illustra i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni”. All’inaugurazione interverranno, oltre alla curatrice Rosalba Rossi, la critica d’arte Gloria Gradassi, la psicologa scrittrice Pascale Chapaux Morelli, docente all’Università di Parigi e Lella Palumbi, narratrice di luoghi, di arte e di storia.
La mostra, patrocinata dalla Città di San Benedetto del Tronto con la partecipazione della Fondazione Casa del Manzoni di Milano, sarà visitabile fino al 16 gennaio 2020.
Ideata e curata da Rosalba Rossi, è promossa dalla Fondazione Banco di Napoli che, dallo scorso 22 maggio, a seguito di fusione per incorporazione della Fondazione Chieti, ha la sua sede in Abruzzo nel Palazzo de’ Mayo, ubicazione permanente delle opere esposte nella mostra sambenedettese e che furono donate nel 2002 alla Fondazione Chieti dal mecenate Alfredo Paglione, titolare della celebre Galleria 32 di via Brera a Milano e cognato dell’artista Aligi Sassu: si tratta di 58 acquerelli originali, realizzati da Aligi Sassu su incarico dell’editore Giampiero Giani per illustrare “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni.
“Anche quest’anno il periodo natalizio alla Palazzina Azzurra –  sottolinea l’assessore alla cultura Annalisa Ruggieri – è caratterizzato da una mostra di alto spessore che, siamo sicuri, saprà catturare l’interesse degli amanti dell’arte. Accogliamo infatti in Palazzina Azzurra una delle prime esposizioni dell’intera opera dei 58 acquerelli originali che Sassu realizzò per illustrare “I promessi sposi” fuori dalla sede museale permanente di Chieti dove vengono custoditi.
La figura di Aligi Sassu è una delle più prestigiose della cultura contemporanea e voglio ringraziare gli organizzatori per aver dato questa grande dimostrazione di amore per San Benedetto”.
Storia degli acquerelli
Gli acquerelli (formato cm 40,50 X 29,50) sono stati realizzati nell’inverno del 1942 – 43 a Zorzino sul Lago d’Iseo, dove l’artista si era ritirato, essendo sorvegliato speciale, dopo l’uscita dal carcere nel quale era finito per attività antifascista.
Questo periodo di ritiro è caratterizzato da un intenso lavoro creativo in cui, oltre ai 58 acquerelli oggetto dell’esposizione, vedono la luce opere che saranno considerate tra i maggiori capolavori dell’artista, come la grande “Deposizione”, opera attualmente in Vaticano, e “I martiri di Piazzale Loreto”, un dipinto che completato, appunto, nel 1944, sarà poi esposto alla Biennale di Venezia nel 1952 e, su indicazione di Argan, sarà acquistato dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma (esposto poi fino allo scorso 28 Giugno 2019 in una mostra presso la Fondazione Prada di Milano).
La raccolta dei 58 acquerelli de “I Promessi Sposi” è stata sempre considerata dallo stesso Sassu l’opera sua più significativa nel campo dell’illustrazione, preceduta da una produzione di circa 125 disegni e schizzi preparatori. Il committente editore Giani, tuttavia, nel 1944, non la pubblica ed Aligi Sassu è così costretto a venderla a Renato Perugia, amico e gioielliere di Milano, il quale in seguito la cederà, ad insaputa dello stesso artista, ad altro collezionista.
Nel 1977, considerati oramai dispersi, gli acquerelli vengono ritrovati intatti (tutti ad eccezione di uno solo, che si saprà, poi, finito nella casa di Savona della scrittrice Annaviva Acquaviva) nella collezione di Gino Cerastico, industriale farmaceutico milanese. Per una delle strane coincidenze che la storia spesso propone, nell’anno 1977 cade proprio il 150° anniversario de I Promessi Sposi.
Nel 1982, alla morte di Gino Cerastico, la di lui vedova offre a Sassu la possibilità di riacquistare i 57 acquerelli in suo possesso. L’artista prende tempo, considerando eccessiva la richiesta avanzata da Luisa Cerastico Zecca, che, pertanto, conclude la vendita degli acquerelli ad Alfredo Paglione (cognato di Aligi Sassu) nella sua celebre Galleria 32 di via Brera a Milano.
Lo stesso gallerista e mecenate Alfredo Paglione si adopera quindi sin da subito per riuscire a pubblicare l’opera. La pubblicazione avviene in pochi mesi, a cura di Michele Calabrese della Casa Editrice Art Market di Monterotondo (Roma).
Viene realizzata un’edizione monumentale di grande formato, numerata per singolo pezzo e corredata dalla prefazione di Giancarlo Vigorelli, presidente della Casa del Manzoni a Milano, dove la pubblicazione viene presentata alle Autorità (tra cui anche il cardinal Colombo), in data 5 Maggio 1983, insieme agli acquerelli originali.
Dopo questa prima manifestazione milanese, i 57 acquerelli sono stati oggetto di ulteriori esposizioni, in Italia e all’estero. Nel 2002, i coniugi Alfredo Paglione e Teresita Olivares, volendo destinare l’intera raccolta dei 57 acquerelli alla Città di Chieti, la donano alla Fondazione Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti.
Nel 2003 il capolavoro manzoniano di Aligi Sassu torna, infine, alla sua integrità originale. Dopo un’attesa di venti anni, infatti, alla morte di Annaviva Acquaviva, i coniugi Paglione riescono ad acquistare l’unica tavola mancante, la TAVOLA LIII, quella dedicata alla peste, ricomponendo l’intera opera.
Per l’occasione, la Fondazione Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti propone la ripubblicazione in una lussuosa edizione (completa del testo de I Promessi Sposi) dell’intera opera che dallo stesso anno 2003 ha trovato dimora definitiva nella Citta di Chieti, al Museo Palazzo De’ Mayo. Quest‘ultimo, dallo scorso 22 Maggio 2019, a seguito della fusione per incorporazione della Fondazione Chieti, è la sede in Abruzzo della Fondazione Banco Di Napoli.
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redazionecultura · 7 years
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Brama di Vita e di Letteratura. Giancarlo Vigorelli nel clima culturale del Novecento
Brama di Vita e di Letteratura. Giancarlo Vigorelli nel clima culturale del Novecento
Fino al 5 maggio 2018, negli spazi espositivi della Biblioteca Sormani, una mostra storico-documentaria racconta la vita e l’attività giornalistica e letteraria di Giancarlo Vigorelli (1913-2005), critico milanese, scrittore, giornalista, presidente del Centro Nazionale Studi Manzoniani e intellettuale di spicco dello scenario culturale del Novecento.
La mostra, a cura di Giuseppe Langella,…
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iuibay-blog · 13 years
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Movie The Greatest Love Pda
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Marcella Rovena Giulietta Masina Sandro Franchina Giancarlo Vigorelli Alexander Knox Maria Zanoli Ettore Giannini Teresa Pellati Ingrid Bergman Tina Perna
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Brama di vita e di letteratura. Il Fondo Giancarlo Vigorelli alla Biblioteca Sormani
Una sera a Roma … Miguel Angel Asturias divorando con gli occhi gli scaffali della mia biblioteca finì a dire che dovevo essere nato con un libro in mano. …E andandosene … gridò sulla porta: “Juan Carlos, tu in una unica mano, tenevi due libri, il libro della Letteratura, ma también el libro total de la Vida!”
Racconta questo aneddoto, in apertura del volume Carte d’Identità, Giancarlo Vigorelli, il critico letterario e giornalista milanese che attraversò da protagonista il Novecento.
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1- Giancarlo Vigorelli. Archivio Giancarlo Vigorelli - Biblioteca Sormani; 2- G. Vigorelli, Carte d’Identità, Milano, 1989
Nato a Milano nel 1913 in una famiglia modesta, sin dalla giovane età Vigorelli fu un lettore vorace, prima per diletto e poi per professione. Dichiarò lui stesso sulla “Fiera Letteraria” il 24 aprile 1955: “E io so, avendo scelto di studiare, cosa costò di sacrifici e fatiche quella scelta a mio padre e a mia madre; ma per fortuna, … sono felice, ieri e oggi, di non essermi mai fatto trovare da mio padre ‘con le mani in mano’. Per lui, era la colpa maggiore; un sacrilegio. Infatti in mano, dai dieci anni, io ho sempre avuto un libro”. 
Forte di un’accurata formazione umanistica, all’inizio degli anni Trenta Vigorelli frequentò la casa di Tommaso Gallarati Scotti, punto di incontro dell’élite culturale del tempo: Croce, Maritain, Ivanov, Fogazzaro, Ortega, Carcopino, Rilke, Valery sono solo alcuni dei nomi illustri che si scambiarono idee e opinioni nel salotto del diplomatico milanese. Vigorelli ne respirò le istanze di rinnovamento e le fece sue, scegliendo in un primo momento di scendere in campo dalla parte degli “ermetici” raccolti intorno alla rivista “Il Frontespizio”, quindi di allontanarsene, qualche anno più tardi, seguendo l’esempio dell’amico Carlo Bo.
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3- Spazio espositivo Biblioteca Sormani (Foto: N. Nicodemi); 4- Giancarlo Vigorelli con Carlo Mattioli e Giacomo Manzù. ©Archivio DUfoto – Archivio Giancarlo Vigorelli – Biblioteca Sormani 
Spirito cosmopolita, intraprendente e avventuroso, Giancarlo Vigorelli viveva a pieno il fermento culturale di quegli anni e frequentava indifferentemente letterati e artisti, come Manzù, Sassu, Birolli, Fontana, Guttuso e Cantatore, con i quali dibatteva nei caffè milanesi “non da critici, ma da anime e da intelletti affini”.
A cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta, già collaboratore delle principali riviste letterarie, (“Corrente di vita giovanile”, “Il Frontespizio”, “Campo di Marte”, “Primato” e “Prospettive”), Vigorelli conobbe Vittorio Sereni, lo appoggiò e lo incoraggiò in fase di stesura di Frontiera, la sua prima raccolta poetica. Nell’agosto del 1943 fu costretto alla fuga a causa di un articolo scritto per il settimanale “Tempo”, nel quale aveva espresso la propria soddisfazione per la fine del Regime fascista. Riuscì quindi a rifugiarsi in Svizzera, dove prese parte a quella Resistenza che si era organizzata spontaneamente tra i due confini e dove ebbe occasione non solo di incontrare i più importanti intellettuali italiani ed europei rifugiati in terra elvetica, ma anche di portare avanti la propria attività di critico e letterato: per la “Pagina letteraria” del “Corriere del Ticino” scrisse la recensione a Eclissi di luna di Angioletti (23 ottobre 1943) e a Finisterre di Montale (6 novembre 1943); con Piero Chiara, Giorgio Scerbanenco e altri letterati in “esilio” collaborò alla collana editoriale “L’ora d’oro” fondata da Felice Menghini per le Edizioni di Poschiavo.
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5- Spazio espositivo Biblioteca Sormani (Foto: N. Nicodemi) 
Rientrato a Milano alla fine della guerra, spinto probabilmente da un bisogno di cambiamento, si trasferì dopo pochi anni a Roma, dove rimase fino all’inizio degli anni Settanta. Interessato a tutti gli aspetti della vita culturale, Vigorelli ebbe qui l’occasione di allargare ulteriormente i propri orizzonti verso il cinema e il teatro. Diresse la “Settimana Incom”, rilanciò “Il Dramma”, partecipò a convegni sul rapporto tra cinema e letteratura e, contemporaneamente, entrò in prima persona in alcune pellicole cinematografiche in veste di sceneggiatore o di attore, collaborando con registi come Roberto Rossellini, Antonio Leonviola, Cesare Zavattini e Pier Paolo Pasolini.
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6- Pier Paolo Pasolini, Dacia Maraini, Alberto Moravia. Roma, 16 dicembre 1964. Premio Tor Margana. ©Archivio DUfoto – Archivio Giancarlo Vigorelli – Biblioteca Sormani; 7- Gino De Sanctis e Giancarlo Vigorelli, Ponzio Pilato, Trattamento per il film. Athena Cinematografica, Roma, 1955 - Biblioteca Giancarlo Vigorelli – Biblioteca Sormani 
Ma è soprattutto con Pasolini che Vigorelli strinse un intenso rapporto di amicizia, testimoniato anche da questo ricordo: “Il mio ultimo incontro con Pier Paolo Pasolini a Roma era stato uno scontro e una riconciliazione affettuosissima… Lo avevo visto piangere, disarmato come ai primi anni della sua “meglio gioventù” quando mi faceva leggere i primi versi e io fui tra i pochi, allora, a credere in pieno nella sua poesia…. È morto un vecchio poeta, e forse l’unico testimone pagante, in bene e in male, di questa nostra società letteraria, che così raramente paga di persona.” 
In quegli stessi anni, in piena guerra fredda, Vigorelli fondò con Giovanni Battista Angioletti la Comunità Europea degli Scrittori (COMES) e quindi la rivista “L’Europa letteraria”, proponendosi di abbattere, grazie alla letteratura, i confini tra l’Europa dell’Est e quella dell’Ovest, dando voce anche agli scrittori dissidenti perseguitati.
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8- Spazio espositivo Biblioteca Sormani (Foto: N. Nicodemi)
Tornato di nuovo a Milano, Giancarlo Vigorelli fu nominato presidente del Centro Nazionale di Studi Manzoniani (CSNM). Manzoni del resto, insieme a Stendhal, era stato l’autore della sua vita e della sua vita aveva scandito le tappe fondamentali: nel 1942 con il commento alla Storia della Colonna infame; nel 1954 con il saggio Manzoni e il silenzio dell’amore; nel 1976 con Manzoni Pro e Contro, una vasta antologia di testimonianze critiche italiane e straniere sull’autore de I Promessi Sposi. In quella che appare a tutti gli effetti la chiusura del cerchio della sua vita, Vigorelli colse questa preziosa occasione per far conoscere al pubblico il “Vero Manzoni”, contro ogni riduzione, deformazione e falsificazione dando il via all’imponente Edizione Nazionale ed Europea delle Opere manzoniane.
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Nell’arco di una vita dedicata allo studio e alle relazioni umane prima ancora che letterarie, Giancarlo Vigorelli raccolse una vasta biblioteca (oltre 50.000 volumi) e un prezioso archivio che rispecchiano gli interessi e l’impegno di una personalità poliedrica e offrono un ricco panorama della letteratura italiana e straniera del Novecento. L’intero Fondo è conservato dalla Biblioteca Sormani e in queste settimane, fino al 5 maggio, è il protagonista assoluto della mostra, a cura del prof. Giuseppe Langella, che si snoda lungo lo scalone monumentale del Palazzo. Le carte di Vigorelli, recentemente ordinate e inventariate, le lettere, le dediche, le riviste, le fotografie e alcune le opere di artisti da lui scoperti ci permettono di ripercorrere il fervore culturale del secolo breve, seppur per sommi capi, attraverso quell’intreccio tra vita e letteratura che ha caratterizzato la biografia del critico milanese.
Vi aspettiamo dal lunedì al venerdì dalle 15.00 alle 19.00 e il sabato dalle 9.00 alle 12.30. Ingresso da Via Francesco Sforza 7
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Il contemplatore solitario
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L’archivio Giancarlo Vigorelli comprende un fascicolo (non molto corposo in verità) dedicato a Ernst Jünger, consultato in occasione del ventesimo anniversario dalla morte dello scrittore. Si tratta di corrispondenza con la traduttrice Elisabetta Potthoff Sartorelli probabilmente preliminare alla pubblicazione di alcune pagine del diario di Jünger (pure comprese nel faldone) in NRE (Nuova Rivista Europea) diretta dallo stesso Vigorelli.
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Gentile Signora Sartorelli, non so se ho già risposto alle sue amichevoli righe del 5 marzo, ma il mio compleanno mi ha portato molta posta e molte visite.Lei chiede a proposito del mio Duktus. Ritengo che sia possibile renderlo in Italiano, lingua che apprezzo molto, altrettanto bene come in francese. Naturalmente l’orecchio del traduttore deve sintonizzarsi. In tal senso le auguro un pieno successo, pregandola di farmi avere tramite l’editore qualche copia della sua traduzione per i miei amici italiani. Cordialmente Suo Ernst Jünger (Archivio Giancarlo Vigorelli, Serie 6, Scritti di altri autori, b.106, fasc. 11)
A colpire nella lettera riportata è il riferimento al Duktus. Il termine non è da intendere in senso stretto ma è evidentemente riferito alla particolare ricerca stilistica di una “scrittura delle cose” di cui Jünger era giunto a consapevolezza durante un viaggio in Sicilia già alla fine degli anni Venti:
“La lingua ci ha insegnato a disprezzare troppo le cose. Le grandi parole sono come il reticolo di meridiani e paralleli che avvolge la carta geografica […] Su steccati cadenti e pali da crocicchi sono scarabocchiati segni che il cittadino ignora. Ma il vagabondo li riconosce, li decifra, vi trova le chiavi per comprendere l’essenza di un intero paesaggio, i suoi pericoli e la sua sicurezza. Ora, anche il bambino è come un vagabondo che abbia varcato la porta tenebrosa che ci separa dalla nostra patria eterna [p. 100] La lingua che vagheggio dev’essere comprensibile fino all’ultima lettera o viceversa del tutto incomprensibile, in quanto espressione di un’organicità suprema, che è la condizione dell’amore supremo [p. 103]”. E. Jünger, Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna, in Foglie e pietre, Milano, Adelphi, 1997.
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7: Rettili e anfibi / A. E. Brehm. - Torino : Unione Tipografico-Editrice, 1902
Il viaggiatore (e lo scrittore) non sono mai completamente originali ma riprendono itinerari già percorsi: la ricerca degli archetipi in Sicilia accomuna Jünger a Goethe, che nell’isola aveva maturato l’impianto fondamentale delle sue osservazioni morfologiche sulle piante, gli animali e i colori, unendole alle ricerche sull’arte classica. Natura e arte sono osservate da Goethe allo stesso modo: l’attenzione è visiva catturata dalla forma e da quella relazione delle parti con il tutto che rendeva l’Italia “un grande organismo artistico” (cfr.  D. Sacco, Goethe in Italia. Formazione estetica e teoria morfologica, Milano, Mimesis, 2016).
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Forscherfreuden auch für dich : bunte Blätter aus einem naturwissenschaftlichen Skizzenbuch.../ Hans Meierhofer Zurich : Fretz & Wasmuth, [1946]
Nel Novecento l’arte ha ormai un ruolo marginale e Jünger conduce le ricerche morfologico-tipologiche avendo come contraltare della Natura la Storia, che nella secolare esperienza dello scrittore si era trasformata da storia politica in storia della tecnica. Se nei primi decenni del XX secolo si poteva ancora credere che l’Italia fosse “il paese dove fioriscono i limoni” del Wilhelm Meister, nei decenni seguenti le “cacce sottili” attraverso geografia, zoologia e astronomia devono spostarsi in località più remote: l’Isola di San Pietro davanti alle coste della Sardegna, anche se nessun luogo è ormai immune da un destino incombente come testimoniano le pagine dei Diari contenute nell’Archivio, di cui riportiamo alcuni stralci:
Carloforte, 29. 8. 1978
Quando arrivai per la prima volta a San Pietro, solo il medico aveva l’automobile, oggi l’intera isola è motorizzata … Da decenni sono in fuga.
 San Pietro, 2. 9. 1978
Verso La Punta. La mia preoccupazione di trovare anche qui uno dei ghetti di lusso del turismo moderno era infondata – tutto come un tempo.
 San Pietro, 4. 9. 1978
Certamente si va verso il disastro, passo dopo passo. Se cento anni fa avessero mostrato a mio nonno la visione di una città moderna col suo chiasso, il suo puzzo, i suoi pericoli, allora egli l’avrebbe presa per l’inferno, non l’avrebbe accettata.
 San Pietro, 5. 9. 1978
Poi verso la laguna dietro al cimitero per le cacce sottili. Risultato buono. L’acqua salmastra e le sue rive rappresentano una zona limitrofa in cui come nelle grotte o negli slums delle grandi città si insediano specie strane – una vera e propria miniera per gli entomologi, gli ornitologi, i botanici.
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Das kleine Schmetterlingsbuch : die Tagfalter / kolorierte Stiche von Jacob Hübner ; Geleitwort von Friedrich Schnack Leipzig : Insel, [1934]
Goethe nella relativa tranquillità del piccolo ducato di Weimar poteva ancora ostentare un’olimpica tranquillità rispetto al precipitare degli eventi successivo alla Rivoluzione francese, mentre il suo più giovane contemporaneo G. W. F. Hegel vedeva già in Napoleone vincitore a Jena l’affermazione dello Spirito assoluto nel mondo. Jünger, il più volontariamente ottimista fra i critici della Modernità, ha tentato di correggere la filosofia della storia di Hegel alla luce di una rinnovata filosofia naturale che sulla falsariga della polemica sui colori fra Goethe e Newton recuperasse la dimensione “qualitativa” del sapere accanto a quella “quantitativa” della scienza. In questo senso la “biopolitica” (Jünger adombra il concetto ma non usa il termine) costituirebbe un punto di svolta per l’umanità:
San Pietro, 10. 9. 1978
Due settimane sull’isola senza aver incontrato un serpente. Queste sono le tracce vuote che il progresso lascia dietro di sé. A questo proposito una domanda che si riallaccia alle osservazioni di Al muro del tempo: se nuovi Titani sono all’opera – cosa di cui non dubito – come si spiega allora la devastazione che essi apportano a Gea? […] Il problema si colloca proprio al centro di un paesaggio vulcanico con lo sguardo retrospettivo volto alle immani devastazioni. In proposito abbiamo la teoria delle catastrofi di Cuvier e inoltre anche Esiodo e l’Edda; la terra rinverdisce nuovamente dopo che Surtur l’ha incendiata e genera nuove creature […] Gli astrologi non conoscono alcuna evoluzione, ma ere divise da crepuscoli. Ciò che essi definiscono come “Acquario”, il sorgere di elevate spiritualità, deve dapprima mostrarsi come distruzione, dalla caduta degli dei sino alla bassezza quotidiana.
Come indicato dall’Autore, la pagina dei Diari è chiarita da quelle di Al muro del tempo nelle quali Jünger accosta i riferimenti degli astrologi alla precessione degli equinozi (lo spostamento dell’asse terrestre rispetto alle costellazioni) alle profezie di un monaco vissuto nell’XI secolo: Gioacchino da Fiore: “Alle due grandi età del Padre e del Figlio – questo il suo pensiero- deve seguirne una terza, nella quale lo Spirito opera sul divenire del mondo in quanto nuova e diretta manifestazione della divinità […] l’età del Padre è sotto il segno dell’Ariete, quella del Figlio sotto il segno dei Pesci, mentre sotto il segno dell’Acquario, nel quale saremmo ora entrati, ha inizio una grande epoca dello Spirito. L’illuminismo la precedette quale alba”.
E’ noto che uno degli ispiratori del grandioso sistema hegeliano sia stato proprio (attraverso i mistici tedeschi) Gioacchino da Fiore. A noi resta il dubbio che salutare l’età dell’uomo nuovo come il “tempo dei gigli” (così l’aveva definito l’abate calabrese) dopo l’esperienza del Novecento (e del Novecento in Germania in particolare) denunci il limite nella lucidità di uno sguardo “da entomologo” al quale è tuttavia mancata la conoscenza per empatia.
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Tra le farfalle : guida alla conoscenza ed alla determinazione dei principali macrolepidotteri nostrani : ad uso dei principianti e dilettanti / Ermanno Giglio-Tos. - Torino : Carlo Clausen Hans Rinck, 1906
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pangeanews · 5 years
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Robinson Jeffers, l’ultimo epico, il poeta preferito da Bukowski e da Andrea Pazienza
Un secolo fa un uomo voltò le spalle al mondo, prese terra davanti al mare e costruì una casa per la donna che amava. La donna era detta Una, la casa fu costruita su una rocca californiana, a Carmel, la chiamò Tor House, era una torre di pietre, perché a lei piacevano i racconti irlandesi e le poesie di William Butler Yeats.
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L’uomo è un poeta. Si chiamava Robinson Jeffers (1887-1962), nato in Pennsylvania, nella culla del reverendo William, un vero prodigio. A dodici anni parlava inglese, tedesco, francese; traduceva dal greco e dal latino, versato nei miti classici e nella sapienza biblica. Aveva studiato in Europa. Robinson Jeffers è tra i grandi poeti americani del secolo, il 4 aprile 1932 la rivista “Time” gli dedica la copertina, ma se non lo avete mai sentito nominare non c’è problema – il problema è di chi ha fatto di tutto per tacitarne il canto.
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Nel 1969 Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound, traduce per la ‘Fenice’ Guanda, la collana “diretta da Giancarlo Vigorelli”, un libro di stupefacente bellezza, La bipenne e altre poesie, di Jeffers. La fama di Jeffers è decapitata, nel suo paese: egli non è un poeta che tranquillizza, che scrive versi a decorare il destino in vacanza. Robinson Jeffers, un uomo che ha scelto di vivere una vita arsa, al deserto di sé, nel brillio della severità, è un poeta scomodo. Pacifista radicale, asceta guerriero, poeta dalla poesia armata, che scava nel mito, che spesso sceglie la profezia, con l’inflessibile potenza di un biblico. Così la ‘quarta’ del libro pubblicato in Italia: “Troppo impolitica, forse, questa pronuncia, troppo intransigente e severa per riuscire immediatamente ‘popolare’… Robinson Jeffers è forse l’ultimo poeta capace di raggiungere una dimensione autenticamente e modernamente epica”.
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Il libro apre con una considerazione di e. e. cummings: “Subito nominai Robinson Jeffers, affermando che era assolutamente scandaloso il modo in cui i ‘critici’ così poco americani lo trascuravano”. Come mai era scomodo fino allo scandalo questo poeta? In parte lo dice Mary de Rachewiltz: “Molti critici avevano accusato Jeffers di pessimismo eccessivo, quasi da incitare al suicidio, affrettatamente scambiando le sue premesse per conclusioni. Mentre egli è molto esplicito: la morte va sempre tenuta lontana e combattuta; e pochi poeti hanno avuto quanto lui in orrore e deprecato la guerra. Soprattutto le inutili e ingiuste guerre che ha combattuto (e ancora combatte) l’America”. Jeffers non nega la violenza né la esalta, la analizza come dato primo del vivere (scrive: “Il Dio che si autotortura. Questo richiede una spiegazione. L’universo esterno divino non è in pace con se stesso, ma pieno di tensioni e violenti conflitti. Il mondo fisico è governato da opposte tensioni. Il mondo delle cose viventi è formato da una lotta continua e da desideri irriconciliabili. Il dolore è una parte essenziale della vita”). Jeffers usa la poesia come un coltello: “La poesia racchiude ed esprime il tutto, come prosa non potrà mai. Il suo compito è contenere un mondo intero, all’istante, fisico e sensuale, dell’intelletto e dello spirito… La scienza tende a scomporre le cose per scoprirle; seziona, analizza. La poesia invece mette le cose insieme, facendo scoperte ugualmente valide e allo stesso tempo creando”.
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Spesso idolatrato, Robinson Jeffers è poeta per nascosti, da leggere tra gli alberi. Charles Bukowski, in modo inatteso, lo adorava. “Mi ha influenzato moltissimo, adoravo la sua selvatica ruvidezza nel verso… Jeffers è il mio dio… non sopportava gli uomini, pensava che la vita umana fosse terribile, come potrei non adorarlo?”.
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Robinson Jeffers incontra Una Call Kuster nel 1906. Non ha neanche vent’anni. Lei è più grande di tre, è sposata con un avvocato di Los Angeles. L’amore clandestino viene scoperto, esplode lo scandalo, i due scappano, Una divorzia. Nel 1919, un secolo fa, Jeffers porta la sua musa nella torre di pietra di Tor House, che continua a raffinare e amplia, con la nascita dei figli. Tor House, la casa, è il centro della vita artistica di Jeffers: la sua poesia è ‘mitica’ perché lui, come il poeta ancestrale, costruisce un mondo, lo abita. In Tor House il poeta racconta la propria impresa, bordeggiando i secoli, consapevole che ogni cosa ha una durata, ha valuta di schianto:
Se cercherete questo posto dopo una manciata di vite umane: forse ancora un po’ della foresta da me piantata sarà in piedi, eucalipti dalle foglie scure o il cipresso costiero, sbrindellato dalle bufere; ma il fuoco e la scure sono diavoli. Cercate le fondamenta di granito levigato dal mare, le mie dita conobbero l’arte di sposare pietra a pietra, troverete alcuni resti.
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Il punto più alto del successo pubblico, nel 1947. Robinson Jeffers firma una versione dalla Medea di Euripide (pubblicata due anni dopo su “Il Dramma”). Il testo approda a Broadway, con Judith Anderson – che qualche anno prima era in scena per Hitchcock, in Rebecca. La prima moglie. Repliche continue, fama micidiale – che Jeffers farà di tutto per sconfiggere.
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Ha la faccia di un’aquila. Una faccia simile, così affilata e severa, l’ha avuta soltanto Samuel Beckett. In effetti, sono aquile difformi, entrambi, difficili, dispari: Samuel disintegra ogni mito; Jeffers ne edifica di nuovi. Nel 1995 Luca Scarlini traduce la Medea di Jeffers per Aletheia; nel 1977 appare, nella ‘bianca’ Einaudi, il poema Cawdor, l’impresa traduttiva è di Franca Bacchiega. In Italia Robinson Jeffers non esiste. È il poeta prediletto di Andrea Pazienza, però, che ne illustra il poema definitivo: “Campofame è la storia dell’uomo che uccise la morte e delle conseguenze di questo atto impossibile. Nel 1987 il poeta Moreno Miorelli spedisce a Pazienza le fotocopie del poema di Robinson Jeffers e Andrea inizia a lavorare alla storia”. La testimonianza di Miorelli è da ribattere: “I russi, Robinson Jeffers, il mito di Orfeo, ponevano Andrea in forma diretta, di fronte al gran mistero. Per questo le lacrime erano per lui la reazione istintiva, immediata. Chi l’ha veduto durante e dopo l’ascolto di un poema gettarsi a terra, piangendo, capace solo di ripetere ‘Questo! Questo!’ non si chiede più, se mai se l’è chiesto, se la poesia ha o non ha un senso oggi”.
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“Robinson Jeffers ha realizzato una delle più controverse e affascinanti esistenze per un poeta americano… In un’epoca in cui molti poeti contemporanei, seguendo l’egida di T.S. Eliot e di Ezra Pound, insistevano sulla necessaria difficoltà del linguaggio poetico, Jeffers denunciava il loro lavoro come triviale manierismo: lui cercava chiarezza retorica, emozione, pensiero. Diceva che la storia e la società lo avevano condotto alla disperazione, eppure, ha affrontato la politica con la franchezza di un poeta del suo tempo, benché austerità e solitudine gli abbiano aizzato contro, dagli anni Trenta, il disprezzo. In un’epoca spirituale caratterizzata da sublime disordine della Waste Land, ha costruito una fede antinomista sulla roccia di ciò che ha chiamato ‘Inumanesimo’, una specie di panteismo, mescolato alla scienza e al culto mistico della feroce bellezza della natura”, scrive David J. Rothman, presidente della Robinson Jeffers Association.
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Nel 1950 Una muore. Tor House era la casa della poesia, un po’ Sion, un po’ Carmelo, un po’ regno delle fate. Jeffers subisce crisi depressive dagli anni Trenta, quando quella fetta di California viene afflitta dal turismo. Dopo la morte di Una, per lei, Robinson Jeffers scrive il suo poema più grande, Hungerfield, “Campofame”. I primi versi sono da incidere sui tronchi:
Se tempo è solo un’altra dimensione, allora tutto ciò che muore Resta vivo; non annientato, solo tolto di vista. Una è ancora viva. Pochi Anni fa: facciamo l’amore come falchi avidi, Un ragazzo con una ragazza sposata. Anni fa Siamo ancora giovani, le spalle forti, gioiosi al lavoro Per costruirci la casa. Poi lei, nell’arco della finestra sul mare, Sopporta all’infinito, ma poco paziente, Insegna ai figli a leggere. È ancora lì; Il bel volto pallido, i folti capelli, i grandi occhi Chini sul libro. ancora anni fa: Seduti coi figli adulti nello scafo, che avviamo Al largo di Horn Head nel Donegal, osserviamo le pulcinelle Di mare rotolare lungo la roccia, e le sule come stelle cadenti Gracidare al mare: i grandi occhi azzurri pieni di lacrime Per la selvaggia bellezza.
Sembra una poesia sorgiva, il canto di un Orfeo selvatico, che chiede il permesso ai fiumi e virtù di visione alle volpi prima di avventarsi tra gli uomini. (d.b.)
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Lasciateli in pace
Se Iddio ha avuto la bontà di darvi un poeta Ascoltatelo. Ma per l’amor di Dio lasciatelo in pace finché è vivo; niente feste o premi Che l’uccidono. Un poeta è colui che sa ascoltare La natura e il proprio cuore; e se il frastuono del mondo lo circonda, se è forte saprà sbarazzarsi dei nemici. Ma degli amici no. Fu questo a spegnere la vena di Wordsworth, smorzarla in Tennyson e avrebbe ucciso Keats; che fa di Hemingway Un buffone e a Faulkner fa scordare il mestiere.
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De Rerum Virtute
I
Ecco il teschio di un uomo: i pensieri e i sentimenti di un uomo Sono passati sotto la leggera volta d’osso come nuvole Sotto la volta celeste: amore, desiderio e dolore, fumi d’ira, bianche bufere di paura, sospese qui dentro: E talvolta la strana ansia di sapere Il valore, lo scopo e le cause degli eventi Ha sorvolato come un aereoplanino in ricognizione le immagini Contenute in questa mente: senza mai scoprire gran che, E ora è vuoto, una bolla d’osso, guscio d’uovo risucchiato.
IV
Io sto sulle rocce della baia Sovranes. A ovest oltre le acque in tormenta e la schiena curva del mondo Imperversa l’inutile guerra in Corea, e stupidamente Profetizzo. Brucia troppo il cervello Perché qualcuno, eccetto forse Dio, ne veda la bellezza. È davvero difficile vedere bellezza In alcun atto umano, atti di un microbo ammalato Sul satellite di un granello di sabbia che turbina vorticoso Nel mondo delle stelle… Forse qualcuno ne sarà; in ogni caso Non durerà a lungo – Beh: da quando mia moglie è morta sono impaziente… E quest’era di semi-mondi pieni d’ira e di dispetto Mi dà sui nervi. Io credo che l’uomo sia bello, Ma è difficile vederlo, avvolto in falsità. Michelangelo e gli scultori greci – Come hanno lusingato la razza! Omero e Shakespeare – Come hanno lusingato la razza!
V
Una luce ci resta: la bellezza delle cose, non dell’uomo; L’immensa bellezza del mondo, non del mondo umano. Guarda – e senza fantasia, desiderio o sogno – guarda direttamente I monti e il mare. Non sono belli?
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Uccelli e pesci
D’ottobre a milioni verso riva vengono i pesciolini Lungo la costa granitica del continente Nella loro stagione: ma che pacchia per gli uccelli marini. Che stregoneria d’ali fantasmagoriche Nasconde l’acqua scura. Pesanti i pellicani gridano “Ha!” come il corsiero dell’amico di Giobbe, E si tuffano dall’alto, i cormorani lunghi E neri scivolano sott’acqua e cacciano come lupi Nell’opaco verde. I gabbiani stridono, attenti, Avidi e invidiosi, protestano e beccano. Ingordigia isterica! Questi uccelli innocui! Come se trovassero oro Per strada. Meglio dell’oro, si può mangiare: e chi Tra questi volatili selvaggi ha pietà dei pesci? Non uno certo. Misericordia e giustizia Sono sogni umani, non riguardano gli uccelli né i pesci né il Padre Eterno. Ma prima di andartene, guarda bene. Le ali, le bocche fameliche, i pesciolini plasmati dalle onde, lucidi veloci molluschi Vivono di paura per morire nel tormento – Loro destino e degli uomini – le isole rocciose, l’oceano immenso e Lobos sull’imbrunire Sopra la baia: non è forse bello? Questo è il loro valore intrinseco: non misericordia, intelligenza o bontà, ma la bellezza di Dio.
Robinson Jeffers
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pangeanews · 5 years
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“Quasimodo mi disse, c’è forza nelle sue poesie, ma butti via tutto…”: dialogo con Curzia Ferrari, tra Jacques Fesch, l’amore sviscerato per Majakovskij e il rapporto con il Premio Nobel
Forse sarà il nitore russo, il rapace di entrare nell’alcova della psiche. Per prima cosa, quando la avvicino, redarguisce la mia disattenzione. Ha ragione. Rimedio. Quando leggo I giorni di Jacques (Ares, 2019) resto banalmente sbalordito. La storia di Jacques Fresch, dalla cornice agiografica – ghigliottinato il primo ottobre del 1957, a 27 anni, figlio di buona famiglia, con l’agio della dissipazione e l’ago dell’inquietudine, il ragazzo sogna la Polinesia, fa una rapina, uccide nella fuga un poliziotto, nell’eremo della cella scova Dio, dopo la sua morte s’impalca la causa di beatificazione, postulata dai salesiani – diventa il romanzo di un ‘tipo’, esente da risposte e da assoluzioni, un crocevia con gli assoluti. “Jacques è il doppio – il conflitto tra realtà e illusione, delirio e ragione, un tipo che non ha mai paura degli estremismi e combatte la propria guerriglia fino a quando si ritrova vaneggiante all’altro lato della vita. Allora comincia il suo duro dibattersi fra il delitto, la purificazione, la giustizia e l’ingiustizia della pena”, scrive l’autrice, nella Nota introduttiva. E giunge al quarzo centrale: “La società ha partorito schiere di Jacques – ma il filo di questa vicenda ha dei nodi particolari, e uno – fondamentale – che si chiama ricerca della felicità”. Il romanzo mi sorprende per felicità di scrittura (incipit di perentoria riuscita: “La porta diede un colpo secco. Ed eccolo lì, il cortile. La bruma di un precoce autunno, in quell’ora antelucana, lo invadeva sino a farlo sembrare un imbuto, e i profili delle cose che c’erano dentro somigliavano ad arborescenze minerali”), apertura di sguardo, sagacia nell’uso delle fonti per far levitare la temperatura narrativa, grado d’intrusione nella vita altrui (il gorgoglio della psiche, quell’impasto russo che terrorizzava i gusti inglesi quando si trovarono in mano le prime traduzioni di Dostoevskij e Tolstoj). “Perseguitato da pensieri occulti, Jacques non parla più. Va e viene, rincasa tardissimo, non rincasa affatto. A letto, si adagia lateralmente su una sponda, rigido: sua moglie ne misura il respiro, a sua volta non osa muoversi, allungare una mano. Per evitare pietose, calcolate bugie, ha deciso di non chiedergli nulla circa i suoi progetti futuri”. Così, avvinto, mi avvicino a Curzia Ferrari. Poetessa – alcuni suoi libri, tra cui Lucertola e Pietra, sono editi da Aragno –, giornalista, scrittrice nota e letta in diversi Paesi, ha tradotto e raccontato i grandi poeti russi – da Anna Achmatova a Majakovskij, da Esenin a Viktor Sosnòra –; alla relazione con Salvatore Quasimodo ha dedicato un libro necessario, Dio del silenzio, apri la solitudine (Àncora, 2008). Qualcosa di inevitabile e di intoccato, un segreto che giace dietro i polmoni, la tana del ghepardo, è in questa storia di Jacques, di cui chiedo. (d.b.)
Storia di dissipazione e resurrezione, di un perduto che trova l’avvio alla vita santa, quella di Jacques Fesch, pare uscire da una trama di Dostoevskij. Come si è avvicinata a questo personaggio, come è nata l’idea del libro?
Ho spiegato nella nota iniziale il lungo percorso che ha fatto in me la storia di Jacques Fesch. L’idea del libro, archiviata da tempo per la pressione di altri lavori, è riaffiorata tre anni fa. Ma il “materiale” era già pronto, si trattava di organizzarlo anche alla luce di una rilettura dell’Opera di Jacques e degli scambi epistolari con il di lui figlio Gérard, che assai ha combattuto per il riconoscimento anagrafico. Il mio libro è guidato dall’introspezione del personaggio, tappa obbligata per chiunque si occupi di biografie. C’è una tale polifonicità e un gioco di scambi – in questa vicenda – che conducono a un’analisi non predeterminabile dell’uomo Jacques Fesch: per ciò le mie pagine restano aperte, si fermano alla terribile soglia del passaggio, rispettando un mistero di cui molti si sentono già padroni
Pare che la caduta, la colpa, il ravvedimento e infine la cella, cioè un luogo – fisico e del destino – senza via di uscita siano le condizioni ideali per affrontare Dio: può essere così?
Sono stati elevati agli altari eremiti, trappisti, persone vissute tra la gente come Madre Cabrini… Per Jacques, siamo sempre al discorso dell’analisi della persona. Un giovane ricco, non credente, incline a indubbi disturbi mentali considerati stranezze, che concepisce il sogno delirante della grande fuga e si ritrova in pochi metri cubi d’aria a fare i conti con il proprio fallimento, con i mali fisici, e infine con la morte, non ci consente di entrare con certezza nel suo apparato psichico. Jacques cercava la felicità. I suoi scritti, specie gli ultimi, lasciano intendere che l’abbia trovata nella fede, e l’abbia trovata così tenacemente da desiderare di non uscire più di prigione, altrimenti sarebbe ridiventato l’uomo di prima… Come a dire che il mondo lo avrebbe risucchiato? E allora?
La biografia/romanzo è scritta con straordinaria finezza: mi domandi quali siano le sue fonti narrative, le letture di cui si è nutrita per approdare a questa lingua.
Il linguaggio, più appare liberamente creativo, più è frutto di una grande disciplina. Ho letto di tutto, dall’adolescenza, da quando ho cominciato ad alfabetare; ma lo stile me lo sono fatta da sola lavorando sul peso della parola e sul concetto socratico che non esiste una verità bell’e pronta all’interno della parola. Al contrario, bisogna trovarla secondo la sua disposizione nel testo.
Qual è, dalla mole di testimonianze relative a Fesch, quella che più la ha sorpresa? Le chiedo, poi, di estrarre una frase emblematica di Fesch che a suo avviso ne distingue il percorso esistenziale. 
Non mi lascio sorprendere facilmente. E poi le cose che si sono dette sul caso Fesch sono sempre le medesime. Più interessante la scrittura di Jacques, che è variegata, ricchissima (anche se ripetitiva), ora piena di slanci e invocazioni, ora di arditezze trattenute. Ha scritto così tanto, poveretto, in quei terribili anni di detenzione, da sentir sciogliersi il braccio, come ha confessato. Difficile estrarre una frase emblematica del suo percorso spirituale, ce ne sono troppe. Non è da prendere alla leggera la ripetuta affermazione di avere ricevuto le Grazie della sua morte. Di contro c’è una lettera alla suocera del 26 aprile 1957 che può sembrare banale ed è invece un grido di vita. In essa Jacques scrive: “C’è un fossato tra coloro che sono “fuori” e quelli che sono “dentro”. Insomma, anche senza logica e psicologia il tuo cuore di madre giunge molto bene a capire di che cosa si tratta… Ho fame di carne, vorrei trovarmi in un bosco con un montone intero allo spiedo; penso che lo mangerei tutto, e per digerirlo prenderei una gran coppa di crema al cioccolato. Vedi, mi fa soffrire più la privazione della carne, che non tutte le ghigliottine del mondo!”. Non mi inoltro nella simbologia della carne, considerata come avversaria dello spirito dai Padri della Chiesa, da Giovanni, da Paolo, poi riscattata, almeno in parte, dall’umanesimo… Qui colpisce la disperazione del detenuto d’essere sottratto alle funzioni vitali, fisiche, di una normale quotidianità.
Curzia Ferrari ha scritto “I giorni di Jacques. La breve storia di Jacques Fesch, un assassino candidato agli altari” per le Edizioni Ares
Allargo lo spettro e approfitto per chiedere di lei. Che maestro è stato Salvatore Quasimodo? Su di lui, come intellettuale e poeta, non mi sembra si parli abbastanza, risolto (o quasi) nella traduzione dei Lirici – e lì minimizzato, ad esempio, nella lettura obliqua di Sanguineti. Mi accenni a un dettaglio che ne possa simboleggiare la statura umana. 
Quasimodo è stato mio compagno di vita e di dialogo. Quando lo conobbi, avevo già una personalità formata, un amore sviscerato per Majakovskij (cui in seguito avrei dedicato un romanzo biografico, contravvenendo al fatto che un autore non deve mai amare i propri personaggi!) e due rubriche d’arte su importanti periodici, “La Fiera Letteraria” e “Critica Sociale”. Scrivevo poesie, e quando gliele presentai ne ebbi una bacchettata molto utile. “C’è dentro una forza: – disse – ma butta via tutto e ricomincia da capo”. Era un uomo intransigente nel lavoro, e fragile sul piano umano.  Il suo credo politico è stato contrabbandato e male utilizzato. Ne ho scritto nel volume “Dio del silenzio, apri la solitudine”, riconosciuto come il testo più importante, insieme ai ‘Meridiani’, che sia uscito dopo la sua morte. Maurizio Costanzo lo ha definito “un libro giustizialista”. Per la verità, in quelle pagine, spulciando vecchi documenti e facendo leva su ricordi personali, io ho indagato la sua tormentata vicenda interiore. La critica, per colpe varie e non facilmente attribuibili, oggi si occupa poco di lui. Del resto già Contini nel 1968 tentava timidamente quella svalorizzazione che altri fecero. In Quasimodo c’è una linea di demarcazione traumatica fra il Novecento e il Novecento sociale, post-bellico; e forse questo gli ha nociuto.
Vorrei domandarle, infine, dei russi, che ha tradotto e di cui ha scritto. Che cosa la ha catturata di quella letteratura, quale poeta di quella stagione irrimediabile e irripetibile le è stato più congeniale e intimo, e perché?
Il filo che mi lega alla cultura russa mi fa pensare che qualche mio lontano antenato sia nato in un’izba invece che in un cascinale padano. Dalla prima volta che andai in URSS, come inviata di “Gente”, che negli anni settanta-ottanta era un settimanale serio, mi trovai subito a casa (anche se non erano rose e fiori…)  Fu in quel periodo che portai in Italia il samizadt di Viktor Sosnòra, un poeta pietroburghese sorvegliato dal regime, oggi un classico. Avevo già tradotto testi di cubofuturisti, ma il linguaggio di Sosnòra fu uno scoglio. Ne scrissero la presentazione in volume Diego Fabbri e Giancarlo Vigorelli. A Mosca conobbi personaggi storici, come Lilia Brik, ormai vecchissima, e lo studioso Vasilij Katanian, suo terzo marito. Incontrai il burattinaio più famoso del mondo, Sergej Obraztsov. Imparai che cos’è il culto del teatro e il peso della letteratura sulla vita quotidiana. Anche una persona di livello medio-basso cita l’Achmatova quasi fosse una vicina di casa. Dicono che la cultura abbia una sua bandiera, diversa da quella nazionale – quale essa sia. Sventola idealmente sulle carceri per le quali tutti gli uomini di pensiero sono passati, al tempo degli zar e durante il regime sovietico. Oggi, come ben si sa, la Russia è globalizzata, ma fino a qualche tempo fa, bastava uscire un po’ di chilometri dalle grandi città e si ritrovava ancora l’aria agreste e sacrale di Esenin e dei poeti contadini.
Qual è il libro che ha formato il suo carattere letterario, quale quello che consiglierebbe a un liceale, oggi, per avviarsi all’avventura del leggere?
Impossibile rispondere. A prescindere da Dostoevskij e da “I promessi sposi” che la scuola ci ha fatto odiare e per conto mio ho riletto non so quante volte, incoraggerei alla lettura comunque. Confrontando i testi più disparati si impara a dubitare, a discernere, a pensare. La formazione avviene così. Fuori da scompartimenti stagni che limitino la ricerca. E nella logica della propria curiosità. A suo tempo mi colpì “Il libro di Giobbe” rivisitato da Guido Ceronetti. Ci insegna la Sapienza del pazientare.
*In copertina: Jacques Fesch (1930-1957) appena arrestato
L'articolo “Quasimodo mi disse, c’è forza nelle sue poesie, ma butti via tutto…”: dialogo con Curzia Ferrari, tra Jacques Fesch, l’amore sviscerato per Majakovskij e il rapporto con il Premio Nobel proviene da Pangea.
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