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Issey Miyake - ISSEY MIYAKE INC.
Issey Miyake: un visionario alla costante ricerca dell'essenziale. #isseymiyake #maison #casadimoda #storiadellamoda #creatoredistile #creatoredimoda #fashion #moda #perfettamentechic
Issey Miyake, nome originale Miyake Kazumaru, è uno stilista giapponese noto per aver combinato elementi orientali e occidentali nelle sue realizzazioni. Popolare la linea di fragranze che include L’Eau d’Issey e i suoi capi di abbigliamento e mostre sono basati sulla tecnologia. Creatore di rara fedeltà alla purezza della propria visione di incontro delle suggestioni d’Oriente con l’audacia e…
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LE CASE DEI NONNI
La casa dove stavano i nonni è piena di cose che nelle case di oggi non esistono più: l’armadietto dei liquori da offrire agli ospiti, con le bottigliette di Sambuca, di Amaretto di Saronno, il Don Bairo, il Vov, l’Amaro Tonico di Camaldoli, il Marsala all’uovo, il Glen Grant, una grappa del Piave, il Ballantines, il liquore Biancosarti, l’Amaro Cora, il liquore San Cristoforo da dessert, un liquore greco, chissà come c’è finito. Tutti ancora sigillati. Regali, ricordi, pieghe del tempo. E poi gomitoli di lana, ferri per la maglia, ditali, aghi, scatole di latta riempite di bottoni. Un cassetto pieno di candele, quelle bianche e sottili. Quando saltava la luce, Elena le infilava in un bicchiere e le lasciava consumare. E poi ventagli a fiori, metri di stoffa colorata, mal tagliata, piegata, abbandonata sullo schienale di una sedia. L’asse da stiro, l’orologio a cucù che non funziona e i soprammobili di ceramica, bruttissimi, ognuno con la sua storia dimenticata o mai raccontata. C’è un mazzo di carte con gli angoli consumati dalle briscole e dai solitari che i nonni facevano in silenzio, sul tavolo da pranzo, chiedendosi dove fossero gli occhiali che indossavano già. Puzzano di plastica e tabacco. C’è la credenza con il servizio buono che non si usava mai, forse si teneva per Natale. C’è la vecchia radio che Dino portava nell'orto per ascoltare la Juve mentre zappava la terra. Sono convinto funzioni ancora, voglio provare, ma non lo farò. C’è un pacchetto di Nazionali senza filtro. In realtà non c’è, ma c’era sempre. Apro un carillon e parte una musica triste. Non esistono musiche felici per carillon. Se volessero dare forma alla tristezza, questa avrebbe la forma di un carillon. Lo ricordo stabile sopra al comò di mogano scuro, con lo schienale a specchio, tra l’odore di cappotti antichi, di cassapanche, di borotalco nella stanza da letto dei nonni che alle volte, col buio, faceva un po’ paura.
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« ancora qua? »
H: [...] « ma non voglio mi tratti come fai con tutti gli altri » andandosi a stringere nelle spalle, mostrando una cosa tutta nuova per lei: insicurezza « perché fai così? » e punterebbe gli occhioni sgranati in quelli altrui, alla ricerca di una giustificazione che possa al tempo stesso rassicurarla di essere ancora speciale. Per lui, per lo meno.
S: « io... » cosa? Niente, visto che la voce gli si spezza a metà in quel non saper minimamente gestire le emozioni durante la Piena « t-tuu... » ma ancora una volta gli tocca deglutire senza troppi risultati, visto che gli occhi man mano diventano più lucidi e come scivola una lacrima sulla guancia lui va a scostarla velocemente con un gesto brusco che quasi sembra voglia menarsi da solo, mentre il respiro diventa più veloce e irregolare « vaffanc*lo » sussurrato seppur sia chiaro che non venga rivolto ad Heaven ma piuttosto a sé stesso, a quella che lui vede come una debolezza, alle lacrime che vogliono uscire, quel nodo in gola, le emozioni ma soprattutto alla sua maledizione - della quale, per giunta, non riesce nemmeno a parlare. E a questo punto prende a muoversi, avvicinandosi ad un lavandino, i bottoni della camicia che vengono slacciati rivelando la canottiera che ha lì sotto, mentre una mano va a prendere un po` d`acqua, la schiena piegata e mentre la sinistra si regge al lavandino la destra butta in malo modo acqua sul suo viso, facendola finire un po` dappertutto.
H: Si scosta dalla porta solo per avvicinarsi a lui, di un passo al massimo, nel momento in cui quella lacrima gli riga la guancia, ma la mano altrui è più veloce di qualunque altra cosa avrebbe potuto fare lei. Nulla, probabilmente. Accoglie in silenzio anche quell’imprecazione, mentre le iridi chiare non lo lasciano neanche un secondo quando, letteralmente, scappa. E se Sebastian è rivolto verso il lavandino, lei si ferma appena dietro di lui, poggiando semplicemente la fronte sulla sua schiena piegata « calmati » un sussurro timido che probabilmente il Mannaro coglierà ugualmente, nonostante l’acqua che scorre dal rubinetto « non c’è bisogno di fare così » che, oltre a palesare la sua ignoranza in materia, vorrebbe anche essere una sorta di rassicurazione « abbiamo delle palline » babbanissime, ew « da lanciare alla Knox » espirando un accenno di divertimento al sol pensiero
« va tutto bene » adesso, contro la sua schiena, poggerebbe la guancia ed una mano, col palmo aperto. Non è un abbraccio. È una carezza. Avrà dei deficit evidenti nel farlo, ma vorrebbe solo infondergli un minimo di tranquillità.
S: Chinato sul rubinetto, la mano sinistra che mantiene la presa sullla ceramica mentre la destra va a prendere l`acqua e buttarsela contro il viso, sugli occhi ancora aperti e vigili, sulle guance ancora più calde di prima, sulla fronte contro la quale spiaccica la mano facendola finire nei capelli, passandosi le dita lì come se ciò potesse in qualche modo fargli da sollievo. E` ben concentrato su quei gesti che nemmeno se ne accorge dei passi che compie Heaven, avvicinandosi a lui; non che faccia nulla per scostarsi da quel tocco, spegne l`acqua ma non per questo solleva il capo, rimanendo chinato su questo. E pure se lei esprime ignoranza lui non va nemmeno a dibattere o sembrare contrariato, continua ad ignorarla provando solo tanta vergogna. Accenna un sorriso a quel tentare di consolarlo, un sorriso però ripieno di tanta tanta tristezza e una sorta di imbarazzo. E come un cucciolo ferito viene accarezzato, e lui va a sollevarsi lentamente dopo un momento più o meno lungo, girandosi verso Heaven senza andare a spezzare la vicinanza. Occhi e guance arrossate e il viso tutto bagnato. Sembra tipo uno scappato di casa, lì con la camicia aperta ma finalmente ha preso un po` di coraggio
« tu non sei come tutti gli altri »
H: Si solleva a sua volta quando lui si gira, piegando appena il viso in modo da poterlo guardare fisso negli occhi e dare anche modo a lui di cogliere quel naturale sorriso in cui le sue labbra vanno a piegarsi, in un moto dettato puramente dall’impulso, come reazione del tutto incontrollata a quella sua frase.
« Lo so » risponde di rimando, ritrovando quella sua sicurezza che, per qualche minuto, ha vacillato. Il suo tono, però, non è supponente, quanto più una mera conferma delle parole altrui. Come a dirgli che, se lo sa, è solo perché lui le ha dato modo di capirlo. Anche oggi. « Neanche tu lo sei » nonostante tutti i problemi che pensi di avere, diciamo.
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Il programma degli altri eventi:
3 SETTEMBRE | PARCO SCHUSTER
h. 17.00 // Laboratorio di Sartoria
h. 17.00 // Laboratorio di realizzazione in sughero di una “mini delegazione por la vida”
h. 17.30 // Laboratorio di Caracoles in ceramica
h. 17.30 // Presentazione di “IL BASSO” fanzine n. 7 #GiraZapatista Special Edition
h. 18.00 // Aggiornamento sulla GIRA ZAPATISTA e sulla chiamata al “CompArte y ConCiencias”
h. 19.00 // TEATRO // LIBRI : “La Scoria Infinita” di e con Arianna Gaudio
A SEGUIRE CENA E INIZIO CONCERTI
Intervento musicale dell’associazione Tra le Righe
Corrado Re
Stefania Placidi
Skasso
e con l’amichevole partecipazione di:
Daniele Silvestri
4 SETTEMBRE | PARCO SCHUSTER
h. 11.00 // Laboratorio Bimb* “Aria, Fuoco, Acqua, Terra”
h. 11.00 // LIBRI E DIBATTITI : Presentazione “i 300 mila Fiori di Genova”
h. 13.00 // MUSICA : Frente Murguero
PRANZO
h. 16.00 // LIBRI E DIBATTITI : “Inventare il Futuro”
h. 16.00 // TEATRO : “Il fabbro il ferroviere il bandito” a cura del collettivo teatrale macchia rossa
h. 16.30 // Laboratorio Bimb* “Radio Bambina”
h. 17.00 // LIBRI E DIBATTITI : “TEMA X” Quali giustizia sui nostri corpi?
h. 19.00 // TEATRO : “VIVA” a cura di Hijo Rojo Teatro
CENA E INIZIO CONCERTI
Work in Progress
Kaos for Cause
Ill Nano
Zion Train
5 SETTEMBRE | PARCO SCHUSTER
La Giornata del 5 Settembre sarà interamente accompagnata da interpreti LIS inclusi i concerti
h. 11.00 // LIBRI E DIBATTITI : Presentazione “Brigata Maddalena” Storie di Internazionaliste
h. 11.00 // LIBRI E DIBATTITI : “Siamo Ecosistema” Contro il capitale che brucia diritti sociali e ambientali
PRANZO
h. 16.00 // LIBRI E DIBATTITI : “Bisogni Speciali” riscriviamo le parole della disabilità
h. 17.00 // Laboratorio “Io Adotto Te” Dite la vostra che io ho detto la mia
h. 17.00 // TEATRO : “Trops” Lo sport da un altro punto di vista a cura di Giovanni Bonacci, Giacomo Bottoni, Matteo Cirillo, Simone Giacinti
h. 18.00 // TEATRO : “VIO-LENTI” a cura di Luca O’Zulu Persico dei 99 Posse e con Edo Notarloberti
h. 19.00 // Allenamento Aperto a cura della Palestra Popolare Indipendente La Popolare
h. 19.30 // MUSICA : La Titubanda Street Band
CENA E INIZIO CONCERTI
The Smell of Wild Wind
Banda Jorona
Los3Saltos
Talco
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Segnatevi una parola nuova, se già non la conoscete: neumorfismo, cioè la versione per gli anni Venti del millennio dello scheumorfismo. È la tendenza grafica del momento, quello che ha superato lo stile “material” tanto caro a Google e poi Microsoft, composto da blocchi di colori. Invece, Neumorfismo vuol dire tornare in maniera differente a disegnare una interfaccia utente con elementi scheumorfici.
A partire dal 2007, quando arrivò iPhone con la sua interfaccia, si fece un gran parlare dello scheumorfismo, cioè il design di un oggetto che ha degli ornamenti che devono richiamare le caratteristiche di un altro oggetto. Ad esempio se prendete le vecchie Mini giardinetta, gli inserti in legno riproducevano le caratteristiche di carri in legno, oppure le pentole in ceramica con dei rivetti per far ricordare le pentole in metallo. In generale, nel design contemporaneo, gli oggetti con attributi scheurmorfici sono quelli più economici in plastica che simulano l’aspetto di oggetti in legno o metallo, che sarebbero più costosi.
Il ruolo degli oggetti per iOS
Veniamo al digitale e ad Apple. Lo scheumorfismo (la parola viene dal greco: σκεῦος (skéuos, contenitore o attrezzo) e μορφή (morphḗ, forma) è diventato un caso di successo nel mondo digitale. Steve Jobs e il papà di iOS, cioè Scott Forstall, avevano un grande apprezzamento per questo modo un po’ pacchiano di fare ad esempio una icona per i video fatta a forma di vecchio televisore, oppure quella della rubrica fatta in finto cuoio con tanto di trapunte. Un distacco forte dallo stile più sobrio dell’interfaccia del Mac, perché sostanzialmente lo scheumorfismo doveva comunicare l’idea tattile di oggetti veri, visto che poi l’iPhone frapponeva solo una superficie di vetro tra le dita degli utenti e il contenuto digitale dello schermo.
Lo scheumorfismo, per niente amato da Jony Ive, è andato in pensione nel 2012 quando il leggendario designer industriale ha preso il controllo anche del design di iOS e Scott Forstall è stato accompagnato alla porta dell’azienda. Da allora, da iOS 7 in poi (2013), c’è stata una deriva verso un tipo di design più “material”: icone piatte, colori forti, una nuova serie di animazioni compresa quella dello slide-to-unlock. Jony Ive descrisse la trasformazione come «Una bellezza profonda e duratura nella semplicità», ma le critiche sono state comunque numerose.
Il bisogno di cambiare
Arriviamo a oggi. Anche Ive è stato accompagnato alla porta (assieme a un tir di centinaia di milioni di dollari e con la certezza che la transizione avvenisse nel modo più discreto e meno visibile possibile, tant’è che ce ne siamo accorti tutti con un paio di anni di ritardo) e adesso la macchina del design di Apple è piena di volti nuovi. In questa epoca post-Camelot, dove non c’è più Re Artù-Jobs e non ci sono più i suoi cavalieri della Tavola Rotonda di livello C (tutto cambia, dopotutto), arriva la nuova rivoluzione. Bisogna opporsi? Bisogna assecondarla?
Vediamo un attimo com’è fatta. Il neomorfismo è la tendenza grafica che parte questa volta dal Mac, che dai tempi di OS X con Aqua ha avuto una interfaccia tendenzialmente “lucida” e un po’ caramellosa, mai scheumorfica. Adesso, assieme a iOS e iPadOS, c’è odore sempre più forte di neumorfismo.
Una pratica che è nata giusto ieri
Il concetto non è nuovo. Twitter è stato il suo campione, negli scorsi anni. È un linguaggio che mira a un tipo di differenziazione degli elementi che compongono l’interfaccia che non è venuto molto bene perché concentrato più sulla forma che non sulla usabilità. Cattivo design, secondo Ive, perché per lui e per Jobs il design è come funziona, non come è fatto un oggetto fisico o digitale che sia.
C’è tuttavia tantissimo potenziale ancora da portare fuori dal neomorfismo, e una “cattiva fama” che in realtà fa gioco ad Apple perché ha meno concorrenza in questo ambito visivo e quindi può differenziarsi di più. Gli elementi che caratterizzavano lo scheumorfismo erano gli attributi che imitavano visivamente oggetti reali: trame e tessuti, come il metallo spazzolato di un registratore digitale per una app audio o il feltro di un tavolo da poker per un gioco di carte.
Invece il neomorfismo se la gioca su un piano tridimensionale e utilizza soprattutto trasparenze e illuminazioni per rendere in maniera più realistica gli oggetti digitali, più che cercare di imitarne quelli fisici del mondo reale.
Cosa vuol dire neomorfismo in pratica
La simulazione delle luci e delle trasparenze nel neomorfismo è estremamente complessa e anche pesante da un punto di vista grafico, richiede processori dotati rispetto a quelli tradizionali di un tempo solo per visualizzare le icone o gli elementi di interfaccia statici. Non si tratta di oggetti 3D che si muovono, bensì di semplici rappresentazioni di oggetti digitali che però entrano in relazione l’uno con l’altro: un bottone sopra un certo tipo di finestra di dialogo si illumina in un modo, fa ombra in un altro rispetto allo stesso bottone in un altro contesto. E questo tipo di posizionamento e rappresentazione tridimensionale impatta lo stato del bottone e il fatto di poterlo usare o le conseguenze. In pratica, fa espandere e porta all’ennesima potenza l’interfaccia fatta di più piani sovrapposti, questo si un vecchio pallino di Jony Ive.
Il design neomorfico arriva dopo una decina di anni di design flat e material, con colori compatti, pile di elementi, layers, pagine, è “digitally native”, adatto a una intera generazione di persone che non ha avuto identità o rapporti con interfacce precedenti. Quella del Flat è stata una strada di modernità. Quella del design neomorfico è una via di novità che fa muovere e rende le interfacce utenti più tridimensionali, moderne, accattivanti e capaci di gestire contesti più complessi.
Nel mondo iOS
Implementare il neomorfismo può andare in due modi: introdurre semplicemente un po’ di ombre, luminescenze, trasparenze e qualche oggetto 3D. Oppure, come sta facendo Apple, andare oltre l’aspetto semplicemente visivo ed esplorare invece i modi con cui rendere più facili e comprensibili azioni più complesse, aggiungendo non solo bellezza ma anche layer di complessità in modo semplice, restituendo la fisicità meccanica dell’interazione con il computer, da tasca o da tavolo che sia.
Il neomorfismo è relativamente nuovo e ha avuto una partenza goffa, e tutt’ora, da quello che abbiamo visto con l’interfaccia soprattutto di iOS 14 la parte migliore sono le nuove forme di interazione e anche l’entrata di pannelli, widget, cartelle dinamiche, bottoni e schermate di confronto e controllo. Invece è più debole, almeno per chi scrive, la parte delle icone, che si portano ancora dietro una identità antiquata (guardate le nuove icone di Foto o di App Store, ad esempio).
Nel mondo Mac
Nel mondo di macOS 11 Big Sur invece la transizione è più di impatto anche perché deve aiutare il nuovo sistema operativo a staccarsi da una traduzione consolidata negli ultimi anni e incamminarsi verso una convergenza di modalità di utilizzo che dia continuità a chi usa Mac e iPhone-iPad. Per questo soprattutto le app Catalyst ma anche i controlli e le modalità di interazione, l’entrata in scena dei widget e mille altre cose incluso il Dock tondeggiante con le nuove icone smussate, parlano tutti una lingua più nuova di prima e per molti aspetti neomorficamente più gradevole. Staremo a vedere, nell’uso concreto, come questo si tradurrà dal punto di vista del gradimento degli utenti. La rivoluzione, comunque, è in marcia anche nell’interfaccia utente.
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Il fumo della sigaretta si incastrava fra le sue palpebre e le lenti spesse degli occhiali, impedendogli di sollevare le ciglia durante ogni tiro. Le labbra si allontanavano dal filtro, la nuvola grigia si diradava e si disperdeva nello spazio angusto del locale, dove solo un letto a una piazza e mezzo ne rendeva comprensibile l’utilità. Con gesti lenti e composti le dita logorate nelle quali stringeva la sigaretta si avvicinarono al posacenere, prima di la-sciare cadere il mozzicone all’interno del piattino di ceramica scura. La musica dei locali situati lungo la via, sotto casa sua, giungeva come un sussurro lontano alle sue orecchie, senza che egli vi prestasse davvero attenzione. Era abituato a quell’ambiente, alla luce accecante che filtrava dalle tende troppo chiare durante il tardo pomeriggio, il caldo asfissiante e i rumori che dall’esterno riuscivano a raggiungerlo, nonostante lui si sentisse così lontano da tutto ciò che concretamente lo circondava. Non aveva animali e non aveva mai sentito la necessità di ave-re compagnia. Gli piaceva la sua routine, e soprattutto gli piaceva la libertà che aveva ottenuto una volta trasferitosi da solo. I suoi occhi scorsero lungo le finestre del vecchio palazzo dalla vernice scrostata di fronte al suo. Attraverso due lastre di vetro notò una figura femminile muoversi con grazia disarmante men-tre sistemava i prodotti appena comprati nel frigorifero e nella dispensa. Quei gesti, così abituali e casalinghi, lo fecero tornare a delle memorie antiche, le quali erano rimaste chiuse nella sua mente per anni. «Agata, sono a casa!» Le sue parole rimbalzavano fra le pareti guscio d’uovo mentre lui apriva la porta, la valigia in una ma-no, il cellulare nell’altra. La camicia cominciava a stringergli la pancia, la stoffa tirava e i bottoni parevano dover saltare da un momento all’altro. Si incamminava lungo il corridoio, nel frattempo si toglieva l’impermeabile grigio e le scarpe scamosciate. Il cappello era l’ultimo accessorio di cui si liberava: aveva l’impressione che gli donasse un tocco più serio. Raggiungeva l’arco che divideva il corridoio dalla cucina e la vedeva: i capelli ricci e biondi raccolti in una crocchia spettinata sulla nuca erano coperti da un panno rosso e bianco, le buste della spesa tutte attorno a lei. Quando alzava gli occhi dai vari cassetti e li incrociava con i suoi, un sorriso si apriva sul suo volto. Allora si alzava dalle ginocchia sulle quali era appoggiata, si lisciava la stoffa della gonna e scavalcava le borse per arrivare a stampargli un bacio fugace sulle labbra. Lui, poi, si accasciava sulla sua poltrona e leggeva il giornale, o meglio, fingeva di leggerlo. Le notizie del mondo al di fuori dal suo non lo avevano mai toccato più di tanto. Agata, nel frattempo, finiva di sistemare gli acquisti settimanali, per poi cominciare a preparare cena e apparecchiare la tavola. Le piaceva coccolare il suo uomo con pietanze accattivanti ed esotiche, nonostante lui sembrasse quasi non fare caso all’impegno che lei ci metteva. La donna del palazzo di fianco scostò le tende e uscì sul piccolo balcone ad innaffiare le pianticelle, le quali crescevano nei vasi appesi alla ringhiera in ferro battuto. Aveva l’aria pensierosa, gli occhi persi nel vuoto, le mani pallide. Lui non ricordava di averla mai vista prima, ammettendo a sé stesso che una così, sicuramente non l’avrebbe dimenticata. Una fitta al cuore lo sorprese mentre quel pensiero fugace faceva capolino nella sua mente. Erano parecchi anni che non gli succedeva: si infilò entrambe le mani, che ancora odoravano di tabacco e catrame, nei capelli brizzolati, le lenti degli occhiali si appanarono laddove sfioravano il suo naso. Decise che un caffè e una seconda sigaretta l’avrebbero calmato, quindi si alzò dalla poltrona di stoffa e, senza staccare lo sguardo dalla finestra e dalla donna dall’altra parte del vicolo, si diresse in cucina. La macchina produceva una sostanza che poco aveva a che fare con una vera tazza di caffè italiano, ma lui ormai ne era abituato. Il sole del tardo mattino scaldava le strade, facendo risalire il calore dall’asfalto fino ai volti degli sconosciuti che camminavano frettolosi sotto di loro. Chi guardava l’orologio, chi si abbuffava con un panino durante la pausa pranzo troppo breve per un lavoro troppo poco pagato, chi, principalmente bambini, giocava a pallone senza prestare attenzione ai veicoli che passavano lungo la strada. All’improvviso si sentì sopraffare da quella vista, da tutte quelle persone. Il mondo gli sembrava troppo grande, e lui era decisamente troppo piccolo. La morsa allo stomaco che lo perseguitava ogni volta che i suoi pensieri si azzardavano in quella direzione lo sopraffece, e si sentì costretto ad abbandonare la poltrona ingiallita su cui aveva passato buona parte di quella mattinata. *** Il sole estivo era ormai alto in cielo, mezzogiorno era passato, anche se non avrebbe saputo dire da quanto. Il tempo era sfuggente, e lui troppo pigro per cercare di rincorrerlo. Lo sguardo che fino a poche ore prima si era perso nelle curve della ragazza al balcone ora era vacuo mentre guardava il foglio bianco da-vanti a sé. La mano gli tremava, come se non fosse stato più in grado di reggere il peso della penna a sfera, e sapeva che non era per via dell’età. Nonostante i suoi quarantasette anni e un pacchetto e mezzo di sigarette al giorno, il suo fisico reggeva bene alle perturbazioni alle quali la vita lo aveva sottoposto — e lo sottoponeva ancora. Erano anni, però, che la sedia in pelle scura di fronte alla scrivania, anch’essa dai toni rigorosamente cupi, era rimasta vuota, quasi abbandonata. Il plico di fogli, quelli che adesso stava accarezzando con le sue dita tozze e ruvide, immobile. Il portapenne, perché mai si sarebbe sognato di comprarsi uno di quei dannati affari ultramoderni dei quali non capiva assolutamente niente. La scrittura era sempre stata una cosa sacra, per lui, il suo mezzo per scappare, per allontanarsi da tutto e da tutti. Le sue gambe nude e lisce erano allungate sulla sabbia, e Agata non si curava dei granelli che le si appiccicavano insieme alla salsedine lungo i polpacci, le cosce, le natiche. La sua pelle era incredibilmente chiara, le vene ne decoravano la superficie sui polsi e sul collo dei piedi. Lui sapeva che se non si fosse messa immediatamente la crema solare, Agata si sarebbe scottata tutta la schiena, siccome si ostinava a stendere il proprio telo da bagno non sotto l’ombrellone, bensì esposto completamente al sole. Il rito era sempre lo stesso: Lui apriva l’ombrellone e sistemava la sedia all’ombra, lei si sistemava al sole, lui le faceva la ramanzina, lei sbuffava, gli schioccava un bacio sulle labbra, uno sul naso, poi faceva comunque di testa sua. Come poteva arrabbiarsi, però, quando quegli occhi languidi inchiodavano i suoi, togliendogli il respiro? «Ti guardano tutti se fai così.» La rimproverava quando lei si stendeva a pancia sotto, i seni premuti contro la sabbia calda, e si slacciava i nastri della parte superiore del bikini. «Chi vuoi che mi guardi, oltre a te?» Lo prendeva in giro lei, ogni volta, con quella voce dolce e tagliente al medesimo tempo, cosa che rendeva pressoché impossibile capire quando stesse scherzando e quando fosse seria. Ad ogni modo il reggiseno rimaneva slacciato, la pelle candida esposta al sole, lo spazio all’ombra accanto a lui, vuoto. Il foglio rimaneva bianco, e la pelle di Agata si dissolveva nella sua mente. La tazza di caffè si era svuotata, nel frattempo, e sul fondo lo zucchero depositato aveva assunto un colore ambrato. Non aveva voglia di uscire di casa, ma ancor meno di rimanere seduto sul divano la cui stoffa di un colore difficilmente definibile era logora e puzzava di fumo, caffè e vino andato a male. Le sue gambe si distesero e gli imposero di mettersi in posizione eretta. Si chinò per infilarsi e allacciarsi le scarpe. Tracce di terra e fango segnavano gli anni che quelle calzature avevano vissuto in suo possesso. Una mano si allungò e afferrò il pomello, permettendo alla serratura di aprirsi e lasciare che lui si affacciasse al pianerottolo.
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Un cuore artificiale io vorrei, nessun suono, non questo pianoforte pieno di violini, non questo slancio che nasconde sotto ali così immense, non quei sogni, nessun suono, meccanismo meccanico perfetto, spietato ed infallibile, robottino di ceramica a comando, non provare nulla, ritrovarsi la distanza necessaria perché neppure mi sfiori il sentimento, l’amore straziato dal lirismo, nessun suono, nessun volo verso l’alto alla ricerca di bellezza, non dolcezza, non dolore, non speranza, non la rabbia, non la delicata voglia delle braccia che ti tengono per sempre, nessun suono, non cadere per l’affanno di trovare della luce laggiù in fondo, nessun suono, non questo pianoforte pieno di violini, non questo slancio che nasconde sotto ali così immense, non quei sogni, nessun suono. Un cuore artificiale io vorrei, ferro duro sotto il petto, guerriera che non soffre nella lotta, questa tregua, questa anestesia grandissima, questa corsa in mezzo al sangue senza lacrime, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica. Dai prova a ferirmi, io non sento, non ci sono, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica. Dai prova a ferirmi, colpisci con potenza, fammi fuori, urlami qualcosa di terribile, sbranami, dai sbranami, io non sento, non ci sono, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica.
Ho questo cuore, ho questo cuore difettoso, questo cuore mostruoso, questo cuore spaventato, questo cuore che chiede, questo cuore che cerca l’amore, lui cerca l’amore, lui cerca la vittoria, lui mi vuole presente, lui vuole vincere, lui vuole essere orgoglioso di me, lui mi vuole applaudire, lui mi vuole vedere combattere, lui mi vuole vedere gioire, lui vuole esultare, lui vuole la mia tenerezza, lui vuole essere amato, lui vuole essere protetto, lui è mio figlio. Madre del mio cuore, madre temibilissima, madre fragile, madre che vacilla, madre che sbaglia, madre che soffre, madre cattiva, madre dolce, madre instabile, madre generosa, madre afflitta, madre felice, madre egoista, madre spaventata, madre folle, madre sola, madre feroce, madre buona, madre vanitosa, madre insicura, madre ridicola, madre irresponsabile, madre giocosa, madre potente, madre libera, madre carnefice, madre incosciente, madre bambina, madre coraggiosa, madre dentro le sue stanze, madre che scrive, madre che crede, madre che grida, madre senza una madre, madre di un cuore.
Questa bambina che ero, e poi all’asilo nei giochi, lontana dalle loro risate, in disparte, contro il muretto, osservavo. Dimmi dov’era allora il mio cuore, come funzionava. Un cuore piccolo incastrato dentro la carne come un giocattolo perso in mezzo alla terra, sepolto. Questa bambina osservante, immobile verso la gioia degli altri, come sentiva la vita, come vedeva. Bambini che si rincorrevano, la loro gioia, l’istinto, rotolarsi per terra, animali, questo vedeva, animali sopra la polvere, i denti lucenti come lame pulite, figli degli ippopotami, figli di un sole cocente. Ricordo le scale, mia madre vicino, ciò che pensavo, sei anni appena, un desiderio soltanto, mai l’abbandono da lei, mai questo strazio del cuore. Indivisibile da quella forma di donna ai miei occhi grandiosa, monumento d’amore, estremo bisogno di quella presenza, nient’altro, nessuno, vuoto incolmabile, vuoto incolmabile, nient’altro, nessuno. Un corridoio con in fondo la luce, lì ho trascorso l’infanzia, come ora, un corridoio con in fondo la luce, lì mi sono nascosta. Un corridoio con in fondo la luce, ancora pensieri, ancora mia madre, ancora vedevo il muretto, io ferma a osservare bambini come ippopotami bruciati dal sole, ancora non comprendevo le grida, la felicità che provavano sbattendosi contro in quei giochi di lotta, ancora rimanevo distante a osservare nessuno. L’infanzia, droga potentissima, stato di grazia, un buco profondo è rimasto quando ti ho perso, un buco profondo in cui mi sono nascosta, corridoio con in fondo la luce, nuovo ventre di donna in cui trattenermi per sempre, laggiù, in mezzo alla terra, sepolta. Ricordo le bambole, il tappeto della mia camera, io che m’improvvisavo un’adulta, la partoriente del mostro di plastica, che la cullavo, sgridavo, che la legavo al mio collo, l’infanzia. L’infanzia ha un cuore piccolo così veloce, che scappa, è un volo continuo, continue prove rivolte verso l’azzurro, più in alto, slancio che non controlli, sempre in te, sempre altrove, sempre provare, mai fermarsi, sempre un corridoio con in fondo la luce. Madre mia, madre mai persa, se tu sapessi cosa ho sentito crescendo, diventavo te stessa e morivo, un corridoio con in fondo la luce, un corridoio con in fondo il tuo viso, un corridoio con in fondo nessuno.
Me stessa, stesso cuore che divarica gli anni, lui, il mio passante nel corpo, la carne come una strada in penombra, la vita. Giorni continui, ripetizioni di luce, la notte, poi l’alba, poi il resto, poi dopo il tramonto, me stessa. Diventavo qualcosa, modificata bambina nella statura che cresce, il cambiamento del viso, la bocca, lo sguardo, il sorriso diverso, le gambe, cambiare del tutto, e poi ripetere "io sono un maschio". Il rifiuto della femmina addosso, no, non per me, un altro sesso dicevo, come il fratello, come quello più piccolo, "io sono un maschio". Nessuna gonna, non una spilla, capelli corti, maglietta con i bottoni contro alla gola, abbracciare il respiro, spezzarlo, "io sono un maschio", la crisi.
Suonavo, pianoforte a otto anni, un ragazzino a guardarmi, l’amore, non doveva sapere che ero una donna, non mettevo gli anelli, lui che osservava le mie dita sui tasti, pensami come te, questo volevo, pensami un maschio, innamorati. I capelli cortissimi, pantaloni pieni di scacchi, nessun orpello, nulla che mi tradisse, camuffavo la voce perché non sentisse quel tono da femmina, quale spavento sapesse, "io sono un maschio", innamorati., "io sono un maschio", innamorati. E poi le suore alla scuola, elementari grandiose, quel banco, le penne sui fogli, imparare le lettere, entrare nel mondo fantastico in cui parli in silenzio, "io sono un maschio", innamorati. Nelle mattine del glicine appeso nei ferri, il cortile con gli altri compagni, le suore col velo, quelle apparizioni funeree, bellissime, l’alfabeto dovunque, riempire i quaderni, inventare la vita, la mia, tutta diversa, tutta magnifica, io l’archeologa che trovava i tesori, io l’avventuriera senza paura, io che raccontavo bugie per andarmene, diventare mai nata, sempre nel ventre, sempre scavare, sempre tesori, sepolta. Mi sono vista, un filmino che ha fatto mio padre, c’è solo il mio viso, la culla, sei mesi, occhi enormi sgranati verso il soffitto, lo smarrimento negli occhi, paura tremenda negli occhi, vergogna enorme negli occhi, nessuno. Ancora le suore, la chiesa d’estate, l’incenso nell’aria, candele accese in fila come donnine in attesa, Dio quel grandioso strumento che sovrastava il silenzio dei marmi, un sole scagliato contro la pace, il rumore di un credo che iniziava a riempirmi, quel suono sbattente che il cuore prendeva succhiando, credimi sempre, nello sconforto, ti penso. Mi sono vista, un filmino che ha fatto mio padre, c’è solo il mio viso, la culla, sei mesi, occhi enormi sgranati verso il soffitto, lo smarrimento negli occhi, paura tremenda negli occhi, vergogna enorme negli occhi, nessuno. Mi sono vista, un filmino che ha fatto mio padre, una culla, io dentro, quegli occhi, nessuno.
Cuore mio prova a tenermi, questo ti chiedo, diventa una culla, un terremoto di estrema dolcezza, un vento leggero che mi sollevi più in alto, verso il divino, dove finisce la luce, sopra la voce di Dio, nella sua bocca, diventa un canto, musica che mi sconvolga, protegga, per sempre. Io resto immobile, aspetto che il miracolo avvenga, un cuore come una culla, un cuore che la natura ribalta, un vento leggero che mi sollevi più in alto, verso il divino, dentro la luce, un Dio che protegga, per sempre. Cuore mio, figlio che il dolore hai raccolto, tu sai cos’è successo, dov’ero quando ti ho fatto, prova ad odiarmi. Per questi sbagli che si ripetono, per non apprendere l’arte della lucidità senza punte, che non ferisce, non si conficca dentro di te, nella tua morbida carne. Come posso capire il movimento da farsi per schivare la morte di ogni gioia possibile, quanto devo studiare per non ucciderti ogni volta che incontro nessuno. L’abilità della danza, questo mi serve, trasformarmi in equilibrista sporca di grazia, una fune sottile nel cielo immobile, il vento a sorreggermi, ballare con furia abbracciando la follia che mantengo a distanza, questo vorrei, perdere ogni controllo, questo vorrei, perdere la lucidità che posseggo, questo vorrei, ingoiare e sputare la mente, questo vorrei, diventare magnifica. Una foto soltanto nel cortile del glicine appeso nei ferri, gli alunni in fila, io in mezzo agli altri nell’ultimo giorno, un ombra nel grembiule bianco al posto del corpo, nient’altro, nessuno. Quinta elementare dell’abbandono, sapere che domani è la fine, non più quella suora vicino, lei di cui ero l’orgoglio, lei per cui ero qualcuno, lei che sapeva dov’ero, lei che capiva la forza, lei che non avrei più rivisto. Suora tu non lo sai cos’hai fatto, ancora ci penso, io dovrei dirtelo, per me è stato tutto incontrarti, per me è stato nascere, uscire da dentro il mio stomaco, per me è stato scriverti. Dammi la forza di crescere anche senza di te, di lottare con questo spavento, con i demoni che non m’abbandonano, con il buio che continua a cercarmi, con la solitudine che già sento mentre ti perdo. Non scrivo più, questo ho pensato, ora senza di lei a cosa mi serve, ora senza di lei solo il silenzio. Isabella con i vestiti da maschio, mettiti una gonna mi ha detto, prima di lasciarla nel cortile l’abbraccio, il suo velo come capelli in cotone nerissimi, mettiti una gonna mi ha detto, questo il regalo prima d’andarsene e poi nient’atro, nessuno, vuoto incolmabile, vuoto incolmabile, nient’altro, nessuno.
Un cuore artificiale io vorrei, nessun suono, non questo pianoforte pieno di violini, non questo slancio che nasconde sotto ali così immense, non quei sogni, nessun suono, meccanismo meccanico perfetto, spietato ed infallibile, robottino di ceramica a comando, non provare nulla, ritrovarsi la distanza necessaria perché neppure mi sfiori il sentimento, l’amore straziato dal lirismo, nessun suono, nessun volo verso l’alto alla ricerca di bellezza, non dolcezza, non dolore, non speranza, non la rabbia, non la delicata voglia delle braccia che ti tengono per sempre, nessun suono, non cadere per l’affanno di trovare della luce laggiù in fondo, nessun suono, non questo pianoforte pieno di violini, non questo slancio che nasconde sotto ali così immense, non quei sogni, nessun suono. Un cuore artificiale io vorrei, ferro duro sotto il petto, guerriera che non soffre nella lotta, questa tregua, questa anestesia grandissima, questa corsa in mezzo al sangue senza lacrime, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica. Dai prova a ferirmi, io non sento, non ci sono, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica. Dai prova a ferirmi, colpisci con potenza, fammi fuori, urlami qualcosa di terribile, sbranami, dai sbranami, io non sento, non ci sono, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica.
È nella perdita dell’infanzia che ho ritrovato me stessa, l’ho fatto per ritornarci. È stato un istante, un millimetro che si gira di scatto, ho perso l’incanto per poi riprenderlo subito. Un’infanzia feroce che guardo con uno specchietto, quante volte l’ho fatto, un rettangolo in mano cercando il riflesso, stesa nel letto, in penombra, sdoppiare la faccia alla bambina che finge di essere morta, la solitudine. Rumori e fantasmi si muovono nelle mie stanze di notte, allora mi sveglio, vengo da te e provo a scriverti, così io ti parlo, voce che si trasforma in inchiostro per non sentirmi, per ascoltare altre voci che stanno arrivando. Solo nel buio io vedo le parole, solo negli atroci silenzi, solo quando il dolore viene a trovarmi, con lui davanti io ti cerco. Il dolore ha occhi che non finiscono, cosa ne sanno loro, quelli che giudicano, gli sciacalli fuori dalle finestre, così com’è successo all’uomo elefante, gente che ride digrignando le ossa, che si diverte del mostro da solo dentro la stanza, l’uomo che costruiva un castello di carta sognando sua madre, quella foto nel palmo, bastardi. Avrei voluto esserci quando è successo, quando sono entrati dentro il suo regno per uccidere il loro spavento, avrei voluto prenderli a calci, massacragli con un ferro la testa, avrei voluto sventrarli, il loro sangue per quello scempio della purezza, avrei voluto salvarlo. Enorme e straordinaria bellezza deforme, punizione divina per il prescelto con la testa reclina verso un concluso tramonto, cosa capiscono le piccole bestie con il buio dovunque, sotto la terra, da sotto la terra sporgono gli occhi. Un giorno avrò membra di ferro, un cuore d’acciaio, diventerò una piccola fessura nell’aria.
Cosa posso io, nell’attesa una prigione di parole, cosa posso io, dove scappare, salire, verticali che il cielo attraversano, cosa posso io, solo restare in queste stanze presenti che osservano sedie diventare le braccia, le braccia di altri, sconosciuti mai presi, non l’incontro, non quello, sedie che tengono in vita l’ombra di una mano che sul vetro si sposta, i disegni, vorticosi ricami su carta, filo d’inchiostro che sbatte sui fogli come il vento sulle finestre di notte, allora e così io rimango. Ascoltami, quasi fosse possibile, ascoltami, quasi arrivasse la voce, ascoltami, non posso altro, parlarti, solo questo posso, nell’attesa una prigione di parole. Piccole bambine accese negli angoli, il dolore ha questi occhi che non finiscono, con loro io vedo il presente e i ricordi. Mia nonna dentro la macchina, i suoi capelli sopra la strada, lei immobile contro la vita, i suoi colori sotto la terra come giocattoli persi in mezzo alla polvere. Nel salotto dei soprammobili lucidi io la ricordo, quel tempio che curava come una serra cercandosi, una foto soltanto, lei che si muove là dentro, che pulisce i suoi sogni. Mi hanno parlato delle tue grida, di una vasca da bagno, dell’acqua gelida in cui t’immergevano per nascondere la loro vergogna, ti credevano pazza, figlia di nobili che mischiavano il sangue, ti mettevano dentro quel ventre in ceramica cercando di farti rinascere. Avrei voluto sollevarti la testa, fare ciò che nessuno ha mai fatto, tenere nelle mie mani il coraggio che nascondevi dentro i capelli. L’incomprensione, c’era questo negli urli, la noncuranza di quegli ignari passanti che hai avuto al tuo fianco per sempre, anche per te io abbasso la testa sui fogli, per sollevare la tua, per parlarti. Sedie che tengono in vita l’ombra di una mano che sul vetro si sposta, i disegni, vorticosi ricami su carta, filo d’inchiostro che sbatte sui fogli come il vento sulle finestre di notte, allora e così io rimango. Dio, mia madre, una suora, mia nonna, queste le persone importanti, nient’altro, nessuno, vuoto incolmabile, vuoto incolmabile, nient’altro nessuno. Sollevare le braccia stesa nel letto, crocefissa postura del corpo, lo sguardo a centrare il soffitto, e poi dopo i fantasmi che passano davanti alla porta, movimenti che spostano l’aria di una solitudine immensa, questo io sono, il ricordo degli altri.
Vi ho scritto una lettera, il cielo non c’era, la pioggia cadendo l’aveva sepolto, una sciabola in mezzo alle dita, per ore siete tornate a guardarmi. Vi scrivo una lettera, ogni sera lo faccio, mi sveglio alla mattina per questo, per ritrovarvi. Accendo la musica nelle mie stanze, preparo l’incontro per poi lasciarvi in mezzo alla folla che lentamente si ferma davanti al mio tavolo, e vedo tutto mentre racconto, un cortile con il glicine appeso nei ferri, la donna con il velo come capelli in cotone nerissimi, grandioso abbandono, il secondo dopo quello del parto, il primo delle figure femminili importanti. Avevo pensato alla fine quando ti ho visto lasciarmi, invece poi la gonna l’ho messa, avevo pensato che non avrei mai più scritto quando ti ho visto lasciarmi, invece anche per te abbasso la testa sui fogli, una prigione piena di parole, un corridoio con in fondo la luce, un corridoio con in fondo nessuno.
Cuore mio prova a tenermi, questo ti chiedo, diventa una culla, un terremoto di estrema dolcezza, un vento leggero che mi sollevi più in alto, verso il divino, dove finisce la luce, sopra la voce di Dio, nella sua bocca, diventa un canto, musica che mi sconvolga, protegga, per sempre. Io resto immobile, aspetto che il miracolo avvenga, un cuore come una culla, un cuore che la natura ribalta, un vento leggero che mi sollevi più in alto, verso il divino, dentro la luce, un Dio che protegga, per sempre. Cuore mio, figlio che il dolore hai raccolto, tu sai cos’è successo, dov’ero quando ti ho fatto, prova ad odiarmi. Per questi sbagli che si ripetono, per non apprendere l’arte della lucidità senza punte, che non ferisce, non si conficca dentro di te, nella tua morbida carne. Come posso capire il movimento da farsi per schivare la morte di ogni gioia possibile, quanto devo studiare per non ucciderti ogni volta che incontro nessuno. L’abilità della danza, questo mi serve, trasformarmi in equilibrista sporca di grazia, una fune sottile nel cielo immobile, il vento a sorreggermi, ballare con furia abbracciando la follia che mantengo a distanza, questo vorrei, perdere ogni controllo, questo vorrei, perdere la lucidità che posseggo, questo vorrei, ingoiare e sputare la mente, questo vorrei, diventare magnifica. Ho questo cuore, ho questo cuore difettoso, questo cuore mostruoso, questo cuore spaventato, questo cuore che chiede, questo cuore che cerca l’amore, lui cerca l’amore, lui cerca la vittoria, lui mi vuole presente, lui vuole vincere, lui vuole essere orgoglioso di me, lui mi vuole applaudire, lui mi vuole vedere combattere, lui mi vuole vedere gioire, lui vuole esultare, lui vuole la mia tenerezza, lui vuole essere amato, lui vuole essere protetto, lui è mio figlio. Madre del mio cuore, madre temibilissima, madre fragile, madre che vacilla, madre che sbaglia, madre che soffre, madre cattiva, madre dolce, madre instabile, madre generosa, madre afflitta, madre felice, madre egoista, madre spaventata, madre folle, madre sola, madre feroce, madre buona, madre vanitosa, madre insicura, madre ridicola, madre irresponsabile, madre giocosa, madre potente, madre libera, madre carnefice, madre incosciente, madre bambina, madre coraggiosa, madre dentro le sue stanze, madre che scrive, madre che crede, madre che grida, madre senza una madre, madre di un cuore.
Un cuore artificiale io vorrei, nessun suono, non questo pianoforte pieno di violini, non questo slancio che nasconde sotto ali così immense, non quei sogni, nessun suono, meccanismo meccanico perfetto, spietato ed infallibile, robottino di ceramica a comando, non provare nulla, ritrovarsi la distanza necessaria perché neppure mi sfiori il sentimento, l’amore straziato dal lirismo, nessun suono, nessun volo verso l’alto alla ricerca di bellezza, non dolcezza, non dolore, non speranza, non la rabbia, non la delicata voglia delle braccia che ti tengono per sempre, nessun suono, non cadere per l’affanno di trovare della luce laggiù in fondo, nessun suono, non questo pianoforte pieno di violini, non questo slancio che nasconde sotto ali così immense, non quei sogni, nessun suono. Un cuore artificiale io vorrei, ferro duro sotto il petto, guerriera che non soffre nella lotta, questa tregua, questa anestesia grandissima, questa corsa in mezzo al sangue senza lacrime, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica. Dai prova a ferirmi, io non sento, non ci sono, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica. Dai prova a ferirmi, colpisci con potenza, fammi fuori, urlami qualcosa di terribile, sbranami, dai sbranami, io non sento, non ci sono, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica.
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Donne!!!! È arrivato l’arrotino…ahem no…è tornata la Bidler a proporrvi un possibile corso! 🤩🤗😅 Corso sui bottoni (ma le tecniche utilizzate possono essere anche applicate a orecchini, spille, bijoux ecc) in cui facciamo anche un ripasso sulle basi tra cottura, differenza tra le varie paste e useremo varie tecniche Corso rivolto a tutti, adatto anche ai principianti Si svolgerà a Mozzate (CO) un sabato pomeriggio di Marzo (data ancora da definirsi) Contattatemi se siete interessate/i e vi aggiornerò #polymerclaytutorials #polymerclay #fimo #myfimo #pastafimo #pastamodellabile #pastasintetica #ceramica #ceramicasintetica #cernit #bijoux #corsicreativi #leilabidler https://www.instagram.com/p/CZzyi91sxaY/?utm_medium=tumblr
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Eccole le collane "Smile"!!🙂 Ma torniamo un po' indietro nel tempo....nel 2017 ho comprato del lino bianco e presa dalla voglia di fare qualcosa di diverso ho provato a fare la tintura in casa e dare una tonalità di azzurro al filo.🐟 Così seguendo le istruzioni prese su internet ho fatto questo esperimento! 😀 Nella seconda foto vedete il risultato che mi è sembrato anche discreto devo dire! Sono nate delle sciarpette estive davvero graziose e qualche collana. Se scendete nel feed intorno al 2017 trovate le creazioni che ho realizzato. 🌸 In questi giorni ritrovando questi gomitoli e lasciandomi ispirare dalle amiche che hanno apprezzato questo modello, ho deciso di proporlo abbinandolo ai bottoni in ceramica Raku 🌺 realizzati dalla mia amica @anna_gallerani_rakulab Le collane sono già su Etsy se volete dare un' occhiata trovate il Link IN 🌼BIO 🌼 Della serie impara l'arte e mettila da parte😄 🍀 #artisanbohemianjewelry #handmadeinitaly #jewellerygram #jewellerydesign #supportsmallbusiness #italianbrand #stylishjewelry #stylishlook #bohemianhandmade #summerjewelry #macramenecklace #rakuflower #flowernecklace #summernecklace #candynecklace #etsynecklace https://www.instagram.com/p/CNH5FKfBqdB/?igshid=1wzpeel1ez44l
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Con dei comuni mestoli di legno, che si utilizzano in cucina è possibile realizzare dei simpaticissimi pensierini, perfetti anche per decorare la vostra casa. Ecco qualche straordinaria idea.
1.Decorazione da appendere
Con una targa in legno, delle posate sempre di legno, dei fiorellini di stoffa, dei nastri di raso e dei gancini metallici, potrete creare una fantastica decorazione per la vostra casa.
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2.Mestoli fioriti
La primavera si sta avvicinando e con dei mestoli di legno, da dipingere con dei colori vivaci e con dei fiorellini finti, è possibile creare una bellissima idea regalo.
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3.Composizione regalo
Mestoli di legno, fiocchetti di stoffa colorati, stuzzicadenti per dolci, una brocca di ceramica ed una piantina di fiori colorati sono questi gli occorrenti che servono per creare questa magnifica composizione regalo.
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4.Dal legno alla ceramica: idea numero 1
Con i cucchiai di legno si possono realizzare svariate composizioni che prevedono l’utilizzo di comune spago ma anche di decorazioni fatte in ceramica. In questo caso è stata creata una composizione da appendere ad una parete.
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5.Dal legno alla ceramica: idea numero 2
Veramente molto originali questi cucchiai di legno, dipinti con una vernice scura e decorati con delle decorazioni in ceramica.
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6.Dal legno alla ceramica: idea numero 3
Una gallina di ceramica con le sue uova sono perfette per rendere unica una composizione.
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7.Decorazione super primaverile
Farfalle colorate, fiorellini finti di carta e di stoffa, nastri di rafia e perline colorate, è tutto quello che occorre per decorare dei mestoli di legno in occasione dell’arrivo della primavera.
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8.Decorazioni dipinte: idea numero 1
Siete bravi a disegnare, allora potete optare per disegnare e poi dipingere con dei colori per il legno, qualche immagine direttamente sul mestolo di legno. In questo caso sui mestoli sono stati disegnati dei fiorellini, delle api e degli uccellini. Veramente molto belli.
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9.Decorazioni dipinte: idea numero 2
Ecco qualche altra variante di cosa si può disegnare sui mestoli di legno. Gli animali disegnati sui mestoli in questa immagine sembrano quasi tridimensionali.
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10.Decorazioni dipinte: idea numero 3
Un tenero coniglietto è il disegno perfetto da realizzare se si vuole fare un dono a Pasqua.
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11.Decorazioni dipinte: idea numero 4
Questa simpatica paperella con le zampe ancora nell’acqua è stata disegnata con dei pennarelli specifici. Veramente molto bella.
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12.Cucchiai simpatici
Per rendere più originale l’idea regalo, potete optare per disegnare con un pennarello nero indelebile delle faccine simpatiche.
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13. Piante disegnate
Sempre utilizzando un pennarello indelebile, potete disegnare sui cucchiai di legno delle piante. Un regalo perfetto per chi ha il “pollice verde”.
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14.Una famiglia di cucchiai di legno
Questa originale famiglia, composta da una mamma, un papà e tre figlie è stata realizzata con dei cucchiai di legno di forme diverse.
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15. Strani personaggi: idea numero 1
Una coppia un pò strana in stile hippy è stata ricreata con dei cucchiai di legno, della lana colorata, dei ritagli di stoffa e delle perline colorate. Davvero unici.
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16.Strani personaggi: idea numero 2
Questa coppietta è davvero molto simpatica, anche in questo caso sono stati usati dei cucchiai di legno, della lana colorata, della stoffa colorata e sono stati aggiunti bottoni, nastri di stoffa e del feltro colorato.
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17.Cucchiai cuochi: idea numero 1
Per decorare la cucina o per fare un dono ad un cuoco provetto, potete realizzare dei cucchiai che ricordano dei cuochi. A questi sono stati aggiunti dei cappellini di stoffa proprio come quelli degli chef.
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18.Cucchiai cuochi: idea numero 2
Ecco una variante per realizzare dei cucchiai cuochi. In questo caso le due faccine sono fatte con il feltro. Molto belli.
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19. Cucchiaio porta liste: idea numero 1
Molto utile in cucina è questo lavoretto realizzato con un cucchiaio di legno, del cartoncino colorato ed un porta liste in legno.
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20.Cucchiaio porta liste: idea numero 2
Questo porta liste è stato creato, invece con un pezzo di legno circolare a cui è stato incollato un block notes. Il pezzetto di legno a sua volta è stato incollato sul cucchiaio di legno.
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21. Animaletti: idea numero 1
Una rana tutta verde, un pulcino giallo ed un pesciolino azzurro, questi tre animaletti sono stati creati con dei cucchiai di legno e decorati con feltro ed occhietti adesivi.
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22.Animaletti: idea numero 2
Non solo animaletti ma anche un simpatico pirata, si può realizzare con i cucchiai di legno.
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23.Animaletti: idea numero 3
I tre porcellini ed il feroce lupo sono stati realizzati con dei cucchiai di legno, dipinti con dei colori acrilici e decorati con bottoni, cartoncini e fiocchetti. Sono davvero molto bello.
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Buona creatività a tutti!
Nguồn: https://www.pianetadonne.blog/molto-piu-di-20-lavoretti-da-realizzare-con-i-mestoli-in-legno-idee-da-cui-prendere-spunto/ Xem thêm tại: https://thuthu220100.blogspot.com https://hocnauan.edu.vn Xem thêm tại: https://thuthu220100.tumblr.com https://hocnauan.edu.vn
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Soltanto attenendoci al corso prescritto dal tempo possiamo percorrere rapidamente gli immensi spazi che ci separano gli uni dagli altri. Senza dubbio, disse Austerlitz dopo qualche istante, il rapporto fra spazio e tempo, così come ne facciamo esperienza noi viaggiando, ha ancor oggi qualcosa di illusionistico e illusorio, ed è anche per questo che ogni qualvolta ritorniamo da un viaggio, non sappiamo mai con certezza se davvero siamo stati via. __________ Dall'esempio di simili opere di fortificazione più o meno così Austerlitz concluse, alzandosi dal tavolo e mettendosi lo zaino in spalla, le osservazioni fatte allora sullo Handschoenmarkt di Anversa - possiamo facilmente vedere come noi, a differenza degli uccelli che per millenni costruiscono sempre lo stesso nido, siamo inclini a spingere le nostre imprese ben oltre ogni ragionevole limite. Prima o poi, disse ancora, bisognerebbe catalogare i nostri edifici, ordinandoli secondo le dimensioni: si scoprirebbe subito che a prometterci almeno un barlume di pace sono proprio quelli collocati al di sotto delle normali dimensioni dell'architettura domestica - la capanna, l'eremo, le quattro mura del guardiano delle chiuse, la specola di un belvedere, la casetta dei bambini in giardino -, mentre di un edificio enorme, come ad esempio del Palazzo di giustizia di Bruxelles, su quello che una volta era il colle della forca, nessuno potrebbe sostenere a mente fredda che è di suo gradimento. Nel miglio dei casi lo si guarda meravigliati, e questa meraviglia è una forma preliminare di terrore, perché naturalmente qualcosa ci dice che gli edifici sovradimensionati gettano già in anticipo l'ombra della loro distruzione e, sin dall'inizio, sono concepiti in vista della loro futura esistenza di rovine. __________ Perfino adesso che sto cercando di ricordare, che ho ripreso in mano la pianta granchiforme di Breendonk e nella didascalia leggo le parole Ex ufficio, Tipografia, Baracche, Sala Jacques Ochs, Cella d'isolamento, Obitorio, Reliquiario e Museo , l'oscurità non si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di quanto poco riusciamo a trattenere, di quante cose cadono incessantemente nell'oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno... __________ A differenza di Elias, il quale stabiliva sempre un collegamento tra malattia e morte da una parte e prova, giusta punizione e colpa dall'altra, Evan raccontava di morti che, colpiti anzitempo dal destino, sapevano di essere stati defraudati di ciò che spettava loro e cercavano quindi di ritornare in vita. Chi aveva occhio per queste cose, non di rado riusciva a vederli. A tutta prima sembravano persone normali, ma se li si fissava con particolare attenzione, i loro volti sparivano o tremolavano un poco ai bordi. Inoltre, erano quasi sempre di una spanna più piccoli di quanto non fossero da vivi, perché l'esperienza della morte, sosteneva Evan, ci rimpicciolisce, esattamente come una stoffa nuova, quando la si lava per la prima volta, si restringe. __________ Alla parete, sopra il basso banco da lavoro di Evan, disse Auterlitz, pendeva da un gancio il drappo nero portato via dal nonno al feretro quando le figure imbacuccate che lo trasportavano erano passate davanti a lui, ed è certamente stato Evan, disse ancora Austerlitz, a raccontarmi che è un simile velo di seta, e nulla di più, a separarci dall'aldilà. __________ Perfino quando in direzione Penrith-Smith, uomo particolarmente bonario, doveva far assaggiare la bacchetta a uno di noi per via di qualche episodio che gli era giunto all'orecchio, si aveva quasi l'impressione che la vittima concedesse temporaneamente all'esecutore della pena un privilegio che in realtà spettava soltanto alla vittima stessa, destinataria della punizione. __________ Allora, a tredici anni, non ero certo in grado di capirlo, oggi però mi rendo conto che l'infelicità accumulatasi in lui aveva distrutto la sua fede proprio nel momento in cui ne avrebbe avuto più bisogno. Quando d'estate tornai di nuovo a casa, già da settimane non era più in grado di assolvere al suo ufficio di predicatore. Un'unica volta salì ancora sul pulpito. Aprì la Bibbia e, con voce rotta e come se lo facesse soltanto per sé, lesse un versetto dal Libro delle Lamentazioni: He has made me dwell in darkness as those who have benne long dead. La predica che doveva seguire, Elias non la tenne più. Restò lì fermo per qualche tempo a guardare oltre le teste della sua comunità paralizzata dal terrore, con gli occhi immoti di un cieco, così mi parve. Poi ridiscese lentamente dal pulpito e uscì dalla casa del culto. __________ Far visita a uno dei miei conoscenti, in ogni caso poco numerosi, oppure frequentare gente, nel normale senso dell'espressione, era ormai impossibile per me. Mi faceva orrore, disse Austerlitz, dover ascoltare qualcuno e, ancor più, essere io stesso a parlare, e procedendo in tal modo le cose, capii a poco a poco in quale isolamento io vivessi e avessi sempre vissuto, tra la gente del Galles non meno che tra gli Inglesi e i Francesi. Non mi è mai accaduto di pensare alla mia vera origine, disse Austerlitz. Né mai mi sono sentito parte di una classe, di una categoria professionale o di una confessione religiosa. Fra gli artisti e gli intellettuali mi trovavo non meno a disagio che nella vita borghese, e stringere un'amicizia personale già da lungo tempo era un'impresa superiore alle mie forze. Appena conoscevo qualcuno, subito pensavo di essermi consentito un'eccessiva confidenza; appena qualcuno si rivolgeva a me, io cominciavo a prenderne le distanze. Se in generale qualcosa mi legava ancora agli uomini, erano in definitiva soltanto certe forme di cortesia, da me addirittura esasperate, il cui fine - come oggi so, disse Austerlitz - era non l'omaggio all'interlocutore del momento, ma la possibilità di sottrarmi alla consapevolezza di essere sempre vissuto - per quanto indietro riuscissi a risalire con il pensiero - in uno stato di assoluta disperazione. __________ Quanto ai primi tempi trascorsi a Bala sotto la tutela dei coniugi Elias, non sarei più in grado di ricostruirli. Dei nuovi abiti, che mi resero assai infelice, di questo mi rammento, così come dell'inesplicabile scomparsa dello zainetto verde, e di recente ho avuto addirittura l'impressione di ricordare ancora qualcosa dell'atrofizzarsi in me della lingua materna, del suo echeggiare mese dopo mese sempre più fievole e rimasto dentro di me, penso, per qualche tempo almeno, come una sorta di raschiare o batter colpi prodotto da un'entità prigioniera che sempre, quando le si vuol prestare attenzione, si arresta e tace per lo spavento. __________ A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l'impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d'animo, e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l'aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce. Per quanto mi è dato risalire indietro col pensiero, disse Austerlitz, mi son sempre sentito come privo di un posto nella realtà, come se non esistessi affatto, e mai questa sensazione è stata così forte in me quanto quella sera nella Šporkova, mentre il paggio della regina delle rose mi trafiggeva con lo sguardo. __________ Particolarmente inquietanti mi parvero però le porte e i portoni di Terezìn, che sbarravano tutti l'accesso, come credetti di avvertire, a uno oscurità non ancora violata, nella quale - così pensai, disse Austerlitz - nulla più si muoveva tranne l'intonaco che si sfalda dalle pareti e i ragni che secernono i loro fili, corrono sulle assi con le loro zampette veloci o restano sospesi alle tele in fiduciosa attesa. __________ Che cosa significavano la tovaglia di pizzo bianco, quella dei giorni di festa, appesa allo schienale dell'ottomana, e la poltrona da salotto con la sua fodera di broccato stinto? Quale segreto nascondevano i tre mortai in ottone di varia grandezza che evocavano responsi oracolari, oppure le coppe di cristallo, i vasi di ceramica e le brocche di terracotta, il cartellone pubblicitario di lamiera che recava la scritta Theresienstadter Wasser, lo scrigno con le conchiglie, l'organetto in miniatura, i fermacarte sferici, nelle cui bocche di vetro galleggiavano favolosi fiori subacquei, il modellino di una nave, una specie di corvetta a vele gonfie, la casacca del costume locale, in una leggera stoffa estiva di lino chiaro, i bottoni di corno di cervo, l'enorme copricapo degli ufficiali russi e la relativa uniforme olivastra con le spalline dorate, la canna da pesca, il carniere, il ventaglio giapponese, il paesaggio infinito, dipinto con lievi pennellate intorno a un paralume, e nel quale un corso d'acqua scorreva placido, non si sa se in Boemia o in Brasile? E poi, in una teca non più grande di una scatola da scarpe, quello scoiattolo impagliato, e in certi punti già roso dalle tarme, che a cavalluccio su un ramo mozzo teneva implacabilmente fisso su di me il bottone vitreo del suo occhio e il cui nome ceco - veverka - mi tornò alla memoria da lontano, come quello di un amico da tanto tempo dimenticato. Che cosa poteva significare - così mi domandavo, disse Austerlitz - quel fiume che non ha né sorgente né foce, ma rifluisce costantemente in se medesimo, oppure veverka, quello scoiattolo sempre fermo nella stessa posizione, o ancora il gruppo in porcellana color avorio raffigurante un eroe a cavallo che, in groppa al suo destriero ritto sulle zampe posteriori, si piega all'indietro per sollevare con il braccio sinistra un'innocente creatura femminile, priva ormai anche dell'ultima speranza, e salvarla così da una sciagura non rivelata all'osservatore, ma senza dubbio spaventevole? Altrettanto fuori dal tempo, come quell'attimo salvifico, sospeso nell'eternità e che continua ad aver luogo qui e ora, erano tutti i ninnoli, gli attrezzi e i souvenir arenatisi nel bazar di Terezìn, i quali, per una serie di coincidenze imperscrutabili, erano sopravvissuti ai loro antichi proprietari e scampati al processo della distruzione, sicché ora in mezzo a essi io riuscivo a cogliere solo indistintamente e con fatica la mia ombra. __________ Tutto questo adesso lo capivo, e nel contempo non lo capivo: ogni particolare che, mentre visitavo il museo da una sala all'altra e poi di nuovo all'indietro, si dischiudeva davanti a me - davanti a colui che, come temevo, era rimasto nell'ignoranza per propria colpa - superava infatti di gran lunga la mia capacità di comprensione. __________ Alla fine, disse Austerlitz, quando la ricamatrice si avvicinò per avvisarmi che era ormai ora di chiudere, stavo leggendo per l'ennesima volta su una didascalia che a metà dicembre del 1942, dunque proprio nei giorni in cui Agàta arrivò a Terezìn, erano recluse nel ghetto, su una superficie edificata di un chilometro quadrato al massimo, circa sessantamila persone, e poco dopo, quando mi ritrovai di nuovo fuori sulla piazza deserta, sentii con inequivocabile certezza che quelle persone non erano state condotte via, ma vivevano ancora, stipate nelle case, nei sotterranei e nei solai, salivano e scendevano senza posa le scale, guardavano fuori dalle finestre, si muovevano in gran numero per le strade e i vicoli e, in silenziosa adunata, occupavano addirittura l'intero spazio fra cielo e terra che una pioggia sottile tratteggiava di grigio. __________ A quell'epoca le miniere - così lessi mentre sedevo davanti alla fortezza di Breendonk - erano già state nella maggio parte dismesse, comprese le due più grandi, la Kimberley Mine e la De Beers Mine, e poiché mancavano di recinzione era possibile spingersi - se si aveva il coraggio di farlo - sino al limite più avanzato di quelle enormi cave e guardar giù in un abisso di migliaia e migliaia di piedi. Davvero orrido, scrive Jacobson, era vedere che a un passo dal terreno solido si spalancava un simile vuoto, comprendere che non vi era transizione alcuna, ma solo quella linea di confine, da un lato la vita nella sua ovvietà e dall'altro, di questa vita, l'inimmaginabile antitesi. L'abisso, che nessun raggio di luce riesce ad attingere, è l'immagine impiegata da Jacobson per indicare la storia remota e sommersa della sua famiglia e del suo popolo che di laggiù, ne è ben consapevole, mai potranno risalire in superficie.
W.G. Sebald, Austerlitz
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. ─ ᴄᴜʀʀᴇɴᴛ ᴍᴏᴏᴅ #sᴛᴀʏᴛᴜɴᴇᴅ @ cameronboyle ⟡ monologue Il tratto elegante e spigoloso accompagna le lettere che risaltano sul pallido foglio, stonando all'interno di un registro sudicio e logorato dagli anni. Il motel fuori città non è più frequentato come un tempo, è lasciato andare all'incuria di un proprietario ormai stanco e sconfitto da una vita che non ha retto i suoi lenti cambiamenti, abbandonandolo a favore delle menti con forte spirito d'adattamento. « Non posso. Dovrà aspettare suo cugino » Tutte scuse che lo scozzese mette a tacere con una mazzetta, consapevole di essere agli occhi dell'uomo una fonte di guadagno inaspettato. Inutile girarci intorno, inutile battersi contro chi ha già deciso cosa ricavare e la poca pazienza mista all'incessante scorrere delle lancette portano Cameron a mettere un punto alla tacita contrattazione iniziata alla prima parola pronunciata.
La chiave che stringe contro il palmo è arrugginita sui bordi, scrostata la patina argentata, l'arancione della ruggine si scurisce all'ombra del portico che ripercorre. 107. Alistair non è in camera, gli è stato assicurato da chi si è venduto per cinquanta dollari, altri spiccioli da sprecare in una macchinetta che ha imparato a giocare con la superficiale mente umana. La serratura scatta, il pugno che si chiude intorno al pomello fa forza e – come gli è stato spiegato – solleva la porta quel tanto che basta per sentire lo scricchiolio delle cerniere d'acciaio che si distendono e il legno graffiare sulle piastrelle di ceramica che hanno perso il luccichio dell'ultimo strato di colore.
Dentro, fuori, non fa alcuna differenza. Le basse temperature lo portano a stringersi nella giacca che lo veste. La luce della lampadina sul comodino è attraversata da un tremito, sembra vibrare in un basso ronzio persistente. Alcune maglie occupano la scrivania, sacchetti di carta, una bottiglia di whisky e un panino lasciato a metà. Puzza di chiuso, quella della muffa stuzzica l'olfatto e lo porta ad arricciare il naso. L'umidità è calata lungo le pareti, scrostandone la chiara facciata e raggrinzendo la pittura che le colora. Lo spazio stretto si affaccia su una sola finestra che da sulla strada, le imposte sono però sigillate dalle spesse tende e nella fioca luce non fatica a riconoscere il corpo addormentato sul letto. Non si stupisce. In fondo ha fortemente dubitato dalla sincerità del vecchio custode. « 'Fanculo. » Le labbra si distendono in una linea, il respiro pesante dell'altro lo tranquillizza e ne approfitta per guardarsi intorno, scavare in quei diari e documenti sparsi sul tavolo, lasciati incustoditi sotto i vestiti sporchi. « Che cazzo stai combinando, Alistair? » Il sussurro rompe il silenzio mentre cerca di ricollegare appunti che non trovano senso. Riconosce qualche articolo di giornale, quasi si ritrova a dover fare un collage sulla parete per giungere al nocciolo della questione, potrebbe davvero provarci ma conosce tanto bene suo cugino da saperlo attento ai dettagli e la sua memoria una custode ben più sicura di un pezzo di carta lasciato al tavolo. È certo di non giungere ad alcuna conclusione senza i punti fissi di una storia già avviata. « E va bene. Vediamo di capire qualcosa. » Sfila la giacca pesante e sui gomiti arrotola la camicia bianca. Il bagno che si apre è ingiallito dallo sporco. Abituato a tutt'altro, Cameron impreca a voce alta, senza la paura di essere scoperto. Afferra il secchio da sotto il lavandino e lo riempie d'acqua fredda. « “Se la montagna non viene a Maometto, Maometto va alla montagna.” » Borbotta prima di tirare la secchiata sul letto. « BUONGIORNO, PRINCIPESSA! Il sole splende alto nel cielo e gli uccellini cinguettano. » Non si risparmia nella brutalità di quel risveglio. « Ammetto che tutto mi aspettavo tranne che questo, Alistair. » Allarga le braccia, lasciando cadere a terra il secchio che si schianta in un tonfo sordo e rotola su se stesso. « Porca puttana, ma che cazzo ti dice il cervello? » « ALT! Non parlare molto, stai appestando una stanza con la puzza di alcol. Dio, ma che hai bevuto? E ce ne vuole per superare il tanfo di questa bettola. » Tirate le tende, apre la finestra per un cambio d’aria dopo aver sfiorato i bottoni di un sistema di areazione ormai fuori uso, forse mai funzionante. « Vuoi allora dirmi di più riguardo a questa storia? » « Devo parlare o no? » Il tono pregno di un sarcasmo pungente abbandona le labbra del cinquantenne alle prese con gli ultimi ricordi di una serata ormai passata. La sua mano si allunga e la sigaretta che intrappola tra i denti vuole essere un diversivo all’alcol che nella giornata la sostituirà per gli effetti immediati. Alistair, il grande lupo di mare, alle prese con una vita sulla terraferma. Strano, innaturale per l’uomo che ha conosciuto. « Sì? No? Va bene, oggi non ti va di scherzare. Neanche a me, a dire il vero. Era whisky quello che ho bevuto, l’ho preso in prestito al minimarket qui di fianco. Georgie – il cassiere – ha una scorta niente male e non credo che il tutto sia regolare, non lo so... » Assume un’aria pensierosa, si disperde in un discorso che non segue un filo logico, rimanda il momento mentre si appesantisce il peso di una verità che tiene stretta. Perché? « Lo sapevi che dopo tanto tempo in mare rischi di avere le allucinazioni? No? Te lo dico io o almeno è questo che mi hanno detto loro, i dottori. Sono sempre stato bravo a raccontare storie, anche a te raccontavo tante palle però non sono neanche il tipo che riesce a sognare Moby Dick in mezzo alle onde o non starei qui. Molto probabilmente il mio culo poggerebbe su una comoda poltrona come quella che hai nel tuo ufficio, con un gatto del cazzo a sedermi sulle gambe e sporcarmi con i suoi peli. » Cameron si guarda intorno e tira un respiro tra i denti, la sedia che trascina sul pavimento stride e tace quando gli fa da seduta. I gomiti poggiano sullo schienale, a cavalcioni siede e si arma della pazienza di cui necessita, non lo deve a nessuno se non a Deana. « Alistair arriva al dunque, non ho tutto il giorno. » « Allora non rompermi il cazzo. » Diretto, senza mezzi termini. « ...Sto contando fino a cento per non alzarmi e andare via. Mi stai facendo sudare e tutto perché non ti decidi a parlare. » « Vuoi anche dei popcorn merdosi? Così sgranocchi qualcosa mentre ti parlo. » Spegne la sigaretta ora e si alza, fa avanti e indietro mentre infila la maglia bianca e recupera da terra una seconda bottiglia di whisky. « Ho perso la vita dietro un branco di pecore ammaestrate. Oh, che belle quelle medagliette del cazzo appuntate sulla giacca. Special Boat Service. Pronunciarlo mi metteva i brividi, era pura eccitazione. Ideali per cui lottare, una patria da difendere... Un credo. Sì, è un credo quello che ho sposato anni fa. Ho riposto la mia fiducia in qualcosa di astratto, il mio lavoro, e ci ho costruito intorno una vita, rinunciando a tanto. Sono sceso a compromessi col Diavolo pur di occupare una posizione a cui ho sempre tenuto. Ho lottato per e con la mia squadra, i miei fratelli. E... Per cosa, Cameron? Perché ad un certo punto la mia mente non regge il lavoro, lo stress. Ci credi? Perché io ancora non ci credo. Non riesco a metabolizzare. » « Alistair... Ascoltami, te lo spiegherò con calma o almeno ci proverò. Queste perizie giungono da persone competenti, dopo tanti anni non potrebbero etichettarti come “psicologicamente instabile” se non lo sei. Mettono da parte una grande risorsa perché? Capisci che– » « Perché io so troppe cose! Perché neanche tu ci arrivi? Io. So. Troppe. Cose. E stanno cercando di allontanare una minaccia. La mia morte potrebbe fare scalpore tra le amicizie che ho coltivato. È sotto i tuoi occhi come in un fottutissimo film. » « Arrenditi all’evidenza allora. Non puoi fare niente. Sei tu contro un sistema antico. Questa è la vita vera, appunto. Non siamo in un film e non puoi lasciarti trascinare sul fondo. » « Ci sono già. » « Risali. Trova il modo. Non sappiamo niente di te, non l'abbiamo mai saputo e non abbiamo fatto domande perché non potevamo, perché TU ci hai sempre detto di non chiedere. Sei il primo a conoscere il regolamento. Non cadere nella trappola mortale che TU hai aiutato a costruire. Hai scelto una vita difficile, tanti meriti! Sei coraggioso. Ma hai lottato per chi è pronto ad affogarti sul fondo del mare e perché? Perché sai troppo. » Lo raggiunge a piccoli passi misurati, le mani poggiano sulle sue spalle. Lo conosce e scopre uno strano luccichio sul fondo delle iridi chiare. « Non ti fermerai, vero? » « No. » « Attento a quello che fai. »
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Capispalla sartoriali prodotti in Sardegna | Etica e Sostenibilità | Alipinta Creazioni
Usa e getta” o “Fatto bene”? Noi abbiamo scelto la seconda filosofia, quella che ci appartiene. Quella del sapere artigiano del nostro paese che è ricercato e imitato (ma senza successo) in tutto il mondo. Ricerchiamo anche nei dettagli l'unicità e la qualità. Nella foto un bel ricordo dei nostri primi bottoni realizzati dal laboratorio di ceramica @giampaolomameli. Alipinta. Tu, come sei Oggi alle ore 20 è stata inviata la nostra prima Newsletter! Oltre a darvi il benvenuto abbiamo iniziato a parlare di tessuti naturali e certificazioni sostenibili... ISCRIVITI anche tu per ricevere la nostra MINI-GUIDA. Scopri Alipinta e le nostre creazioni sul sito alipinta.it #newsletter #tessuti #sostenibilità #sartoriaitaliana #madeinitaly #sartoriale #giacchetta #sardegna #spolverino #personalizzato #madeinsardegna #onlineshop #prodottosardo #naturale Read the full article
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Taller Marmo Resort 2019: il culto dell’estate
“La collezione è una dedica d’amore all’estate, alle feste in spiaggia, all’abbronzatura, al profumo di creme solari, al tempo libero e alla spensieratezza”. Così Yago Goicoechea e Riccardo Audisio raccontano la loro collezione Resort 2019.
Ecco in cinque punti la nuova collezione di Taller Marmo:
L’ispirazione: il culto del Sole. “Fotografie patinate, dove le donne possenti di Helmut Newton dominano la Costa Azzurra, ispirano la collezione insieme alle Instamatic di Antonio Lopez che catturano la vita notturna degli anni Settanta; è di ispirazione anche anche il film ultra-chic “La Piscine”, di produzione italo-francese che ha tra i suoi interpreti Alain Delon e Romy Schneider”;
Le forme: kaftani, tuniche, abiti lunghi o – a contrasto – mini – poi abiti a palloncino, camicie oversize, gonne a sirena;
I materiali: i tessuti selezionati dal duo sono preziosi, dai mattelassè dai motivi corallo ai jacquard ricamati con lurex iridescente, passando per taffetà di seta, popeline di cotone a righe e tessuti croccanti. Tra i dettagli, spiccano catene dorate, fibbie smaltate e bottoni in ceramica dipinti a mano;
I colori: la palette cromatica abbraccia toni accesi come il giallo, il turchese e il fucsia mescolati a blu notte, tabacco e khaki;
La produzione: fieramente e completamente Made in Italy.
Leggete qui l’intervista al duo, che dopo gli studi all’Istituto Marangoni ha deciso di dare vita al marchio il cui nome significa “Laboratorio del Marmo”.
Qui invece la collezione Primavera/Estate 2018 da sfoggiare subito
L'articolo Taller Marmo Resort 2019: il culto dell’estate sembra essere il primo su Vogue.it.
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Dal David punk all’autoproduzione, un racconto di formazione
Ci sono storie che iniziano con “ogni volta”, si chiamano percorsi!
Ogni volta, oltre ad essere una delle più belle canzoni di Vasco Rossi, è anche un’espressione che presuppone il ripetersi di qualcosa. Ogni volta che fai qualcosa vuol dire che quella cosa l’hai già fatta, per intendersi. Per non proseguire nei ragionamenti astratti, che poi finiscono nella deriva dei pensieri farneticanti, l’ogni volta cui mi riferisco è quello dei nostri plurimi inizi. La storia di Officine Gualandi è intrisa di tanti avvii, partenze, cominciamenti, come dir si voglia, a volte lenti e pausati, altre volte super sprintosi.
Eppure ci sarebbe un incipit più tradizionale, ma bisogna andare molto a ritroso!
C’era una volta, in un quartiere di nome Monte Mario, quadrante nord-ovest di Roma, una piccola associazione culturale dove, da sempre, avvenivano (e continuano ad avvenire) scambi culturali, seminari, cene multietniche, rassegne di cinema d’autore, gruppi di acquisto solidale, incontri, discussioni sui temi più disparati e dove Graziella per tanti anni ha lavorato la ceramica.
Correva l’anno 2001. In questo minuscolo laboratorio, senza saperlo ancora, abbiamo posto le basi di Officine Gualandi. Graziella era una piccolissima signora ribelle che passava l’inverno a modellare minuziose casette porta-vaso piene di tegole e finestre. Con lei abbiamo scoperto la ceramica, quella pasta morbida e così apparentemente ingovernabile. Per Renato si è aperto un mondo fatto di forni, smalti, engobbi che in tutti questi anni si è arricchito di esperienze, tecniche, abilità, competenze. Graziella diceva sempre che con la ceramica è questione di empatia, se non gli stai simpatico la devi lasciar stare. Poi metteva il filtro di plastica alla sigaretta e usciva a fumare.
Sulle prime hanno preso vita una serie interminabile di sculture, contenitori, statuette, draghi, samurai. La cosa più bella è sicuramente rimasta una testa di David versione oltraggiosamente punk. Sperimentazioni, prototipi, pezzi scoppiati, pezzi regalati. Abbiamo faticato, preso cantonate, imparato, frequentato corsi, fatto domande, osservato gli altri, letto e riletto.
Nasceva così Officine Gualandi
Le cose ad un certo punto hanno iniziato a combaciare: gli studi di design di Renato con un materiale sempiterno e affascinante come la ceramica; il disegno con la modellazione 3d; la manualità con la vocazione a sperimentare. I primi progetti davvero nostri? La Collana Bottoni e il primo appendiabito Pendo decorato a mano. Inutile dire che fu amore a prima vista! E’ il 2012. Renato e Simone (Tania arriva dopo) diventano Officine Gualandi. In quel momento iniziava il lavoro duro, fatto di domeniche confuse per lunedì, di litigate, di cocenti delusioni. Abbiamo capito che produrre un oggetto non basta, lo devi saper proporre, fotografare, descrivere e infine vendere. Nulla di scontato, niente di banale, tanto ancora da imparare.
Da quel momento ad oggi ci sono stati un’infilata di avvenimenti che nella mia immaginazione hanno occupato ogni volta una loro posizione involontariamente classificata come “inizio”. Eppure, ogni ripartenza non avviene mai dallo stesso punto. Non avviene nemmeno da dove si lascia. C’è sempre un pezzetto di strada in più che si compie, perché anche le fermate aggiungono qualcosa, forse più dei momenti di slancio. Aveva ragione Troisi a dire che non si ricomincia sempre da zero! A ripercorrerli con la mente a ritroso questi anni sono stati l’insieme di tanti piccoli tratti di strada fatti di lavoro, gioia, fatica, entusiasmo, pentimenti, prove, tentativi, conquiste, soddisfazioni, sogni. Ogni volta un pezzettino, ogni volta un po’ più avanti. E’ così che in fondo abbiamo forgiato il nostro percorso.
C o n t i n u i t à, come un mantra
Nonostante l’evoluzione avvenuta in tutto questo tempo, abbiamo ancora tantissime cose da capire e da migliorare, tanti obiettivi da raggiungere. Tolti gli incidenti di percorso estranei alla nostra volontà forse abbiamo pericolosamente esagerato in discontinuità. Come a lezione di ballo, tre passi avanti e uno indietro. Per cui ti muovi, magari anche bene sul momento, ma sempre sul posto.
Parola d’ordine di questo nuovo anno allora sarà CONTINUITA’, prima di tutto. Perché oggi, quando abbiamo fra le mani una nostra collana o una lampada, sappiamo che dovrà vedersela con un numero smisurato di altre collane e lampade disponibili ovunque: online, nei megastore, nei negozi o nei mercati. Sappiamo sarà difficilissimo essere scelti ma non possiamo più ignorare che questi oggetti per noi ormai hanno un cuore, il nostro.
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Tovaglietta di juta fai da te: un regalo in occasione di Sant' Anna!
Bastano un pezzo di tela di juta (anche un sacco riciclato) e un po’ di perline colorate (o bottoni) per disegnare una o più tovagliette per la tavola.
Scegliete le perline che preferite: di legno, conchiglie, in ceramica o in vetro. In alternativa sono perfetti i bottoni: sceglieteli in dimensioni simili.
Scegliete un filo di cotone grosso in un colore acceso e procedete così.
Decidete il formato della tovaglietta e tagliate il pezzo di juta con le forbici. Rimuovere una decina di fili dalle due estremità corte del rettangolo per creare una frangia sufficiente.
Usate uno dei fili che avete tolto per legare le piccole frange. In questo caso sono stati uniti in gruppi di 12.
Nei due lati lunghi della tovaglietta creare una cucitura per evitare la sfilacciatura. Usando un cotone colorato fare un punto croce in un angolo e continuare senza tirare troppo il filo per evitare di arricciare il bordo della tovaglietta.
Cucire le perline nel lato corto, appena sotto la frangia. Potete usare un filo di colore della juta o i fili stessi precedentemente sfilati. Fissare ogni perla con un piccolo punto sotto. Creare una seconda fila di perle o bottoni.
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