Tumgik
#civiltà ottomana
gregor-samsung · 3 years
Text
“ Quando il 29 ottobre del 1923 Kemal Atatürk proclamò formalmente che il nostro paese era una repubblica, tutto cominciò lentamente a cambiare aspetto. Furono inviati ordini a Kuleli secondo i quali non si dovevano obbligare gli studenti ad andare in moschea. La religione doveva diventare una libera espressione. Così i bastoni furono temporaneamente abbandonati, e solo una manciata di ragazzi frequentava la moschea. Ma allora i bastoni furono tirati fuori un'altra volta per un uso assai diverso, perché i frequentatori della moschea spesso arrivavano tardi alle lezioni, e mentre prima il bastone si abbatteva sonoramente sulla schiena dei devoti riluttanti, poi cominciò un periodo folle nel quale si abbatteva sulla schiena degli scolari riluttanti. Atatürk e il suo governo decisero che religione e affari pubblici dovessero essere separati, e nella nuova Costituzione è scritto: «La lingua della Repubblica Turca è il turco e la sua capitale è Ankara». La precedente leggeva: «La religione della Turchia è l'Islam, la lingua è il turco e la capitale Ankara». Il cambiamento fu molto maggiore di quanto possa apparire a occhi europei. La religione da allora fu praticamente abolita e, benché le moschee rimanessero luoghi di culto, la gente non ebbe più il tempo di pregare le prescritte cinque volte al giorno... a parte i vecchi, e forse i malati che non avevano da espletare pubblici doveri. La maggior parte dei turchi non aveva semplicemente tempo. Il lavoro degli uffici pubblici non poteva più aspettare il tempo di preghiera dei funzionari. L'insegnamento religioso fu abolito in tutte le scuole, musulmane e cristiane, e gli appartenenti alle congregazioni non furono più autorizzati a mostrarsi in strada nelle vesti del loro particolare ordine religioso. Al giorno d'oggi, quando il muezzin chiama alla preghiera, sono pochi quelli che lo ascoltano, e ancora meno quelli che rispondono. Fu mutato anche il fine settimana, e adesso osserviamo il sabato e la domenica cristiani al posto del giovedì e del venerdì musulmani. La moschea di Kuleli fu abbandonata, e il suo posto fu occupato dalle sedie e dai tavoli rotti da riparare. La nostra uniforme cambiò, divenne quella blu-marina familiare dei cadetti di oggi, con la vivace striscia rossa lungo la cucitura dei pantaloni, e fu adottato un cappello con un piccolo accenno di visiera, perché il fez era stato abolito per legge. “
Irfan Orga, Una famiglia turca, postfazione di Ateş Orga, traduzione di Luca Merlini, Passigli Editori (collana Passigli Narrativa), Firenze, 2007; pp. 252-53.
[ Edizione originale: Portrait of a Turkish Family, Victor Gollancz Ltd., London 1950 ]
5 notes · View notes
istanbulperitaliani · 4 years
Text
Moschea Mimar Sinan
Tumblr media
Il 20 luglio del 2012 venne inaugurata la Moschea Mimar Sinan nel quartiere di Ataşehir. La moschea é grande 36mila m² di superficie ed é stata dedicata al celebre Mimar Sinan, il “Michelangelo d’Oriente”, amico di Palladio, massimo esponente dell’architettura ottomana e autore della Moschea di Solimano e di altri capolavori presenti qui ad Istanbul.
Progettata dallo studio di architettura Hassa, fondato nel 1983 dall’architetto Muharrem Hilmi Şenalp, la moschea collega la tradizione dello stile ottomano classico - l'apice dell'architettura religiosa della civiltà islamica - con la tecnologia moderna.
Tumblr media Tumblr media Tumblr media
Si presenta a pianta esagonale con 6 semicupole intorno alla grande cupola centrale (42m di diametro) sostenuta da 6 pilastri. Una soluzione nuova ed originale, mai adottata dall'architettura classica. Ogni aspetto é stato curato nei minimi dettagli: dagli elementi decorativi sopra le colonne del porticato esterno ai giganteschi lampadari presenti all'interno. 
Inoltre la moschea é parte di un grandissimo parco pubblico con grandi aree per picnic, fitness e giochi per bambini.
Tumblr media
La Moschea Mimar Sinan rispecchia pienamente la filosofia dei suoi progettisti da anni impegnati nella restaurazione, salvaguardia e riproposizione, in una chiave sobriamente moderna, dello stile ottomano classico. Un lavoro che non é una copia o un nostalgico omaggio ad un glorioso passato, ma un simbolo riconoscibile della cultura e dell’arte turca da tramettere e preservare.
La mia Vita a Istanbul: consigli e informazioni turistiche. Disponibile come GUIDA per delle ESCURSIONI in città. Scrivi una e-mail a: [email protected] Seguici anche su www.facebook.com/istanbulperitaliani
1 note · View note
Photo
Tumblr media
Nuovo post su https://is.gd/17NkJS
Due libri sulle bande musicali e della loro storia sociale di un fenomeno sociale
di Giuseppe Corvaglia
  Il 2018 ha visto l’uscita di due libri sulla banda davvero interessanti, uno di Emanuele Raganato (Le Bande Musicali – Storia sociale di un fenomeno globale – Edizioni Streetlib write) musicista, musicologo, didatta, esperto di sociologia, ed un altro di G.M. Paone e D. M. Andriulli (La banda come strumento formativo, educativo e sociale – Edizioni Efesto 2018), entrambe acquistabili su web.
Raganato parte tracciando, in maniera gradevole e completa, la storia della Banda, partendo dall’origine del nome, fino a tracciare una storia delle bande dagli albori delle civiltà in Italia e nel mondo.
Inizia con le ipotesi sul nome, che potrebbe risalire al termine gotico bandwa, che indicava un gruppo di suonatori eterogeneo che animava la vita delle cittadine e accompagnava i banditori, o a quei gruppi musicali militari che suonavano e accompagnavano i vessilli che distinguevano gli eserciti (bandiere, bande) o ancora alla fascia (banda) che indossavano i trombettieri che annunciavano il corteo regale (pensate ancora oggi alle processioni che con le bande annunciano l’arrivo del simulacro dei santi o alle parate o alle manifestazioni civili…).
Segue una classificazione, che si giova di proposte come la distinzione di Fulvio Creux, che le distingue in Bande amatoriali, più diffuse al centro nord, Bande ministeriali o bande militari ispirate alla struttura proposta da Vessella, e Bande da giro, tipiche del sud Italia, o come pure la distinzione delle bande pugliesi di Bianca Tragni, che le suddivide in bassa banda, o bassa musica, banda a servizio interno, simile alle bande amatoriali che limita la sua attività a livello locale, e banda da giro, fenomeno a parte perché erano e sono vere e proprie imprese che da maggio a ottobre suonavano per più di cento giornate e diventavano reddito per molti lavoratori della musica.
Interessante anche il riferimento al termine Concerto, molto usato per le Bande, che deriva dal latino “consertus”, letteralmente “legato insieme”, come lo sono gli strumenti di una formazione, e ad altri termini come Fanfara, formazione fatta di ottoni e percussioni di origine ottomana, e la distinzione in ambito anglosassone fra Brass-band inglesi, composte, come le fanfare, da ottoni e percussioni, e le Wind-band che avevano anche strumenti ad ancia, oltre ad altre interessanti notizie.
Raganato poi fa una analisi storica del fenomeno che parte dall’Egitto dei faraoni e nell’antica Grecia, dove l’uso primitivo di strumenti a fiato e di percussioni era legato principalmente a due ambiti. Quello militare e quello rituale–funebre, specie per i morti in battaglia, aspetti presenti in tutto il mondo antico fino all’Impero romano e che per certi aspetti ancora resistono.
Nel prosieguo del racconto riporta l’opinione di Vessella sulle bande musicali dei popoli barbari, essenzialmente formate da strumenti atti a creare un fragore assordante che incitasse i propri soldati e incutesse paura agli avversari.
Poi passa al Medioevo, dove gruppi musicali scandivano le diverse fasi dei tornei, ma accompagnavano pure i cortei regali, e delinea brevemente una figura importante per la musica popolare, quella del Menestrello (Minstrel), musicista, cantastorie, girovago, spesso autodidatta e senza formazione specifica a livello musicale, figura caratteristica di musica e cultura popolare che, come la banda, portava musica e poesia al popolo, ed era diversa da quella del Trovatore che era più colto, conosceva la letteratura e le tecniche di scrittura ed era bene inserito nelle corti dei nobili. La carrellata sul Medioevo si chiude citando pure le fanfar delle truppe turche.
Dopo questa disamina passa ad analizzare il percorso delle bande popolari in Italia, che prendono forma come tali nel XIX secolo, partendo dalle Bande militari, le più importanti, fino alle bande locali, piccole realtà, ma non meno significative. Artefici di queste bande locali erano sodalizi come le Società di Mutuo Soccorso, le Società Operaie, gli Oratori, specie quelli dei Salesiani, che erano luoghi di incontro, cultura e istruzione quando lo Stato non riusciva a garantire questo. Queste associazioni iniziarono a occuparsi, fra l’altro, della formazione musicale di bambini e degli adolescenti delle classi popolari.
La presenza delle bande era molto diffusa e determinante fu il ruolo educativo, fortemente moralizzante, della didattica musicale che interessò tutti i ceti sociali influenzandone pure i reciproci rapporti, un po’ come le associazioni di soccorso e volontariato che pure comprendevano diverse classi sociali che, nelle operazioni di soccorso, stavano fianco a fianco.
Il ritrovarsi per le prove portava a creare rapporti umani solidi e inaspettati per le differenze sociali, ma anche a ricercare esperienze musicali nuove. Proprio questa voglia di novità portò le bande a rinnovare il repertorio, per cui si passò dal repertorio di marce militari e ballabili a un repertorio più colto, ma sempre popolare, come la musica lirica.
Nel Regno delle Due Sicilie le bande popolari erano caratterizzate da una base popolare imponente costituita da artigiani, bottegai, contadini, operai guidati da Capi-musica, provenienti dai ranghi più bassi dei corpi militari e da maestri formatisi negli ambienti religiosi o nei Conservatori napoletani.
Il sospetto che queste bande potessero essere conniventi con associazioni segrete eversive, specie dopo i moti del 1848, portò i Borboni a controllarle e a regolamentarle, cercando di inglobarle nella Pubblica Amministrazione.
Banda del Regno delle Due Sicilie
  Per questo un Decreto Regio stabiliva che tutte le bande dovevano essere censite, che non dovevano indossare uniformi di tipo militare o non autorizzate, che i musicisti dovevano essere inquadrati nel corpo della guardia urbana del proprio municipio e che il Capobanda doveva avere una patente di riconoscimento con l’elenco dettagliato di tutti i musicanti della sua formazione. Per usare una divisa la banda doveva presentare un figurino della stessa, che doveva essere approvato dall’autorità, e doveva disporre di un abito nero per le ritualità funebri, di una divisa di ordinanza e di una divisa da parata.
Con l’Unità d’Italia le bande militari furono unificate e molte Amministrazioni locali cercarono di dotarsi di una banda civica da gestire con le proprie risorse. I Sindaci, oltre a promuovere le bande, dovevano controllare la moralità dei musicanti.
Secondo il Ministero della Pubblica Istruzione nel 1872 in Italia erano attive 1927 formazioni, di cui nel Meridione 429 bande e 46 fanfare per un numero complessivo di 12.532 suonatori. In questo novero non c’erano le bande non istituzionalizzate.
Figurino per una banda municipale a Spongano di fine ‘800.
  Queste bande si esibivano nelle piazze e nelle ville comunali, spesso su strutture dette “Cassarmoniche”, che erano strutture in ferro o muratura a forma di padiglione o di pagoda che hanno dato origine alle attuali strutture mobili in legno che si montano in occasione delle feste patronali, strutture adorne di lampadine, ma spesso decorate con ritratti delle muse o dei musicisti come un teatro mobile.
Cassarmoniche a Trani nella villa comunale e ad Acquaviva delle Fonti
  Non manca in entrambe i libri il riferimento agli orfanotrofi, che si chiamavano Conservatori, che istruivano gli orfani alla musica e poi li indirizzavano ad arruolarsi nelle fanfare e nelle bande militari. Particolare a Lecce fu l’esperienza degli Spizziotti dell’Ospizio Garibaldi che formarono una banda benvoluta e apprezzata come i loro colleghi Martinitt a Milano.
La banda dei Martinitt – Museo dei Martinitt Milano
  Nel ventennio il fascismo cercò di accentrare e controllare tutto e le bande vennero inglobate nella Opera Nazionale del Dopolavoro (OND, 1925). Le bande che non si iscrivevano alla OND e i musicanti che non si tesseravano al Partito Fascista, non potevano suonare e al regime, che usava abbondantemente la propaganda; le bande servivano in molte occasioni (feste, adunate, manifestazioni…).
Con l’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla poi si avviò per i più giovani un programma di inquadramento musicale da affiancare all’attività sportiva e tanti ragazzi appresero i rudimenti della musica.
Nel dopoguerra si cercò di ricostruire l’Italia e riprese stimolo anche la ricostituzione delle bande. Si crearono nuovi complessi che richiamavano le jazz band, ma anche le bande tradizionali ripresero a suonare. Importante in questo periodo fu la fondazione dell’ ANBIMA (Associazione Nazionale Bande Italiane Musicali Autonome), animata da Lorenzo Semeraro, e il ricostituirsi di Associazioni culturali, chiuse dal Regime o inglobate nel Dopolavoro, che promossero l’istruzione musicale e la formazione di bande. Negli anni ’50 e ’60 le Amministrazioni locali cercarono di rilanciare il fenomeno inteso come momento di formazione culturale, istituendo corsi musicali popolari e vennero in questo supportate da ANBIMA che propose musicanti esperti, anche se non diplomati al Conservatorio, a cui venne riconosciuto un titolo dal Ministero della Pubblica Istruzione utilizzabile per insegnare in questi corsi ad orientamento bandistico che fornivano i mezzi per conoscere la musica e per farla concretamente. Così molti giovani tornarono ad essere istruiti alla pratica musicale e a sperimentare concretamente la musica suonando nelle bande (N.d’A. A Spongano in seguito a questi corsi furono in molti ad essere avviati alla musica e 10-15 ragazzi fecero l’esperienza della banda a giornata.)
Raganato ricorda come le bande riprendono il loro ruolo con successo grazie anche a valenti direttori dal gusto e dalla cultura musicale raffinata come Ligonzo, Lufrano, Centofanti e tanti altri.
Negli anni ’70 molti musicanti studiano al Conservatorio e possono ambire a qualcosa di più, per cui si indirizzano o verso le bande militari o verso l’insegnamento nella scuola. Resistono le Bande da Giro, che impegnano i lavoratori per 100 giorni all’anno, ma si cominciano a formare Bande a giornata che si spostano lo stesso per tutto il Meridione, ma fanno una stagione meno impegnativa, intorno alle 50 giornate all’anno, mantenendo una struttura che si ispira a quella delle bande da Giro, con un organico più contenuto, ma un repertorio classico di marce e fantasie d’opera con un occhio anche alla musica moderna (Canzonieri vari).
L’altro libro, di Gregorio M. Paone e Donato M. Andriulli (La banda come strumento formativo, educativo e sociale Edizioni Efesto 2018), è meno analitico sull’excursus storico, ma pone di più l’accento sulla funzione sociale e pedagogica della banda.
Per sottolineare quanto le bande siano state importanti per fare musica, per farla conoscere e farla apprezzare, cita il metodo Orff nel quale il bambino impara la musica creandola assieme agli altri, prima con piccoli e semplici strumenti a percussione e poi approcciandosi a uno strumento vero e proprio, che può suonare in gruppo, misurandosi in una esperienza formidabile. Questo metodo didattico considera la pratica di uno strumento essenziale per l’apprendimento e ci introduce a quella che oggi, sempre più spesso, è la pratica nelle Scuole secondarie di primo grado dove, alla normale educazione musicale, si associa l’esperienza pratica supplementare con uno strumento. Viene, però, posto pure l’accento sulla banda come esperienza di vita, spendibile in tutti i campi della vita stessa, e sulla necessità di educare all’ascolto, perché solo ascoltando si può raggiungere una consapevolezza che porta a migliorare l’esecuzione. L’ascolto degli altri consente poi ad ognuno di collocarsi nella giusta dimensione ed essere parte di una esecuzione perfetta.
Nella musica d’insieme, che sia l’orchestra, una fanfara, un quartetto d’archi, un gruppo rock o la banda, ascoltarsi è essenziale. Chi suona deve saper ascoltare la propria voce e la voce degli altri, ma l’ascolto globale e analitico serve anche ad ognuno di apprezzare un brano che è sempre il contributo di più voci.
Per gli autori l’essere parte di una banda è una esperienza di vita che ti porta, già in giovane età, a maturare, a mettere in pratica la teoria, ad adattarti al rispetto delle regole e a misurarti con le difficoltà vere, al fianco di persone più esperte che ti possono guidare.
Una parte del libro è dedicata al Maestro Direttore che, specie nelle piccole realtà, era una specie di Capobanda con competenza per scrivere le parti e indirizzare i bandisti, ma con il tempo, evolvendosi la tecnica degli strumenti, la competenza dei singoli musicisti, la loro scolarizzazione e i gusti del pubblico, il suo ruolo è cambiato e ha dovuto avvicinarsi sempre più alla figura del Direttore d’orchestra.
In effetti, il Maestro, che è anche concertatore della banda, non deve tenere solo il tempo dei pezzi suonati, ma deve comunicare emozioni, interpretare la pagina stampata, ispirare i musicisti e il pubblico.
Questo hanno saputo fare i grandi Maestri del passato (Piantoni, Ernesto e Gennaro Abbate, Falcicchio…) e del passato recente (Ligonzo, Lufrano, Centofanti…), ma anche del presente (Samale, Schirinzi, Pescetti, Guerrieri, Donateo…) e non a caso molti dei nomi citati sono stati anche Direttori d’orchestra.
Quando il Maestro tocca le corde giuste, dirigendo i musicisti, nessuno resiste e si crea una sintonia che ammalia il cuore di chi ascolta e di chi suona e lo cattura per dargli balsamo di piacere.
Questa maestria i musicisti, allievi e non, la apprezzano e sarà una lezione che li guiderà nella vita.
La seconda parte del libro declina in pratica quanto descritto, cioè come la banda sia uno strumento formativo, educativo, e sociale riportando l’esperienza dell’Orchestra giovanile “P. Ragone” di Laureana di Borrello e il lavoro del Maestro Managò che, in una realtà sociale divisa dalle faide, trova nella musica un momento edificante che unisce tutti i giovani a dispetto delle inimicizie e del clima ostile. Questo sforzo sarà ripagato non solo per il risultato artistico, che porterà il giovane Concerto in tutta Italia, ma anche per i riconoscimenti ottenuti. Primo fra tutti l’interessamento di Riccardo Muti che riconosce nel lavoro del Maestro Managò, di tutti gli altri maestri di trincea e dei giovani musicisti l’impegno a costruire cultura, pace, godimento, umanità nel quotidiano e nel concreto, invitando una di queste bande, la giovane banda di Delianuova , ad aprire il Ravenna Festival nel 2006 dirigendola lui stesso.
La banda di Delianuova col Maestro Muti al Ravennafestival
  Banda P.Ragone di Laureana di Borrello
  Libri di nicchia forse, ma sicuramente letture interessanti e facilmente reperibili nei siti del web.
  Siti da consultare sull’argomento
http://www.collezionespada.it/greci1.htm
http://www.salentoinlinea.it/index.php?option=com_content&view=article&id=3649:la-banda-qernesto-e-gennaro-abbateq-citta-di-squinzano-una-tradizione-lunga-135-anni&catid=77&Itemid=689
https://www.youtube.com/watch?v=ranv_CdQZL4
0 notes
tmnotizie · 6 years
Link
URBINO – A Urbino il 21 dicembre 2017 alle ore 15 nella  Sala degli Incisori  del Collegio Raffaello (Piazza della Repubblica), Vittorio Sgarbi, Maria Rosaria Valazzi e Alessandro Marchi presenteranno il libro “Storie della Vrana” di David Alberto Murolo. Il volume tratta le vicende ambientate fra il Quattrocento al Seicento di quattro grandi personaggi originari di un antico borgo dalmata, che hanno rappresentato momenti fondamentali per l’identità artistica e culturale dell’Adriatico e dell’intero Mediterraneo.
La pubblicazione offre un’inedita ricerca storica e biografica  su Luciano Laurana, Francesco Laurana, Giovanni Vrana e Yusuf Maskovic, personaggi il cui operato ha avuto riflessi significativi sulla cultura delle Marche e della Serenissima. In particolare,  l’Architetto umanista Luciano Laurana ebbe un ruolo importante nella costruzione del Palazzo Ducale di Urbino,  oltre che per il  rifacimento delle Rocche di Senigallia e Pesaro.
L’autore, David Alberto Murolo, è docente a contratto di Cinema, TV e Arte contemporanea in varie università, esperto in nuove tecnologie e marketing per i beni culturali. Il libro ha il patrocinio dell’Ambasciata della Repubblica Croata in Italia, del Consiglio Regionale delle Marche e del Consiglio Regionale del Veneto.
In tanti conoscono l’opera di Luciano Laurana, ma molti di meno rammentano oggi quanto fecero gli altri tre protagonisti del libro di Murolo. Attraverso il volume si scopre quindi la caratura di Francesco Laurana, il quale produsse un nuovo stile nella scultura umanistica attraverso dei celebri busti, come quello di Battista Sforza, moglie di Federico da Montefeltro. I lavori dell’artista dalmata oggi si trovano nei musei di tutto il mondo.Interessanti le storie di Giovanni Vrana, Ammiraglio della flotta veneta nella Battaglia di Lepanto e Yusuf Maskovic ammiraglio della flotta ottomana a Creta, ultimo avamposto veneto nel XVII sec. Due figure simili per le umili origini, e contrapposti a distanza di un secolo uno dall’altro, nella lunga guerra tra Venezia e Istanbul.
David Alberto Murolo recupera storie che un secolo dopo l’altro narrano di destini incrociati, opposti e paralleli, segnati dall’arte e dalla fede, dall’ambizione e dal potere, da commerci e battaglie, da avventure e idee che ancora oggi testimoniano delle sorti di civiltà diverse, accomunate da un solo mare.
0 notes
ourvaticancity-blog · 7 years
Text
Il malessere per una Chiesa che idolatra l’accoglienza
Il capo redattore delle pagine culturali di Valeurs actuelles ha scritto un libro difficile e polemico, da cattolico: Chiesa e immigrazione. Il grande malessere. Il papa e il suicidio della civiltà europea. Perché vuole evitare “che non si possa dire che il giorno in cui gli europei avranno voluto salvare il loro continente dal suicidio abbiano trovato sul loro cammino un ostacolo insormontabile: la Chiesa cattolica”. di Marco Tosatti (02-03-2017) Laurent Dandrieu, capo redattore delle pagine culturali di Valeurs actuelles ha scritto un libro difficile e polemico. L’ha scritto da cristiano e da cattolico, e già dal titolo: Chiesa e immigrazione. Il grande malessere. Il papa e il suicidio della civiltà europea, si capisce che non intende usare i guanti di velluto. Ma l’ha fatto per aprire un dibattito serrato all’interno del mondo cattolico “su un soggetto essenziale ma troppo spesso occultato da una falsa concezione dell’obbedienza e della lealtà”. "Perché vuole evitare una possibilità reale: “Che non si possa dire che il giorno in cui gli europei avranno voluto salvare il loro continente dal suicidio abbiano trovato sul loro cammino un ostacolo insormontabile: la Chiesa cattolica”. Non solo quella, in verità, perché non poche delle storiche confessioni protestanti, per quanto in via di progressiva sparizione, da un punto di vista numerico, sono spesso sulla stessa lunghezza d’onda. Ma Dandrieu è cattolico e giustamente gli interessa la Chiesa di Roma; e pensa, e cerca di dimostrarlo con questo libro, a cui auguriamo una traduzione italiana, perché ovviamente l’argomento riguarda anche noi, e forse più di altri, che “questo universalismo che spinge l’amore dell’Altro fino al disprezzo dei propri, non è più conforme al vero spirito cattolico di quanto non lo sia alla natura umana”." Non ci sono dubbi sul fatto che il Pontefice regnante abbia premuto, e tenga il piede premuto, sull’acceleratore dell’immigrazionismo, fino a che il tema ha assunto un tono ossessivo, nella sua predicazione. Tanto da far titolare così un capitolo: “Da Lepanto a Lesbo, la Chiesa in un’idolatria dell’accoglienza?”. Lepanto, ovviamente, è il ricordo della battaglia navale che fermò l’espansione ottomana e musulmana verso Occidente, evitando, insieme alla battagli di Vienna, che oggi ci rivolgiamo tutti alla Mecca, nelle nostre preghiere. Lesbo, invece, ricorda la visita compiuta dal Papa ai campi di immigranti. "Dandrieu afferma che è naturalmente più facile seguire le emozioni e situarsi nel campo di chi propugna la generosità senza condizioni. Ma vede, e denuncia, tutta una serie di menzogne e di ipocrisie, e scrive “che il discorso di un papa, quando tocca questioni così eminentemente politiche, non può senza una certa malafede fingere di tenersi a una dimensione puramente umanitaria e caritativa”, come se non ci fossero ricadute di tipo politico; e che questo appello “non può essere percepito dagli europei come una condanna almeno implicita, e spesso esplicita, di coloro che vogliono lottare, in nome della sopravvivenza dell’Europa, contro questa invasione migratoria”." Dandrieu sottolinea che è irresponsabile fingere di credere che con un po’ di buona volontà si riuscirà a integrare nelle società europee un afflusso senza precedenti di migranti dalla cultura e religione diversa, quando “la realtà prova ogni giorno di più che abbiamo fallito nell’integrare le ondate precedenti di immigrazione”. Non ci si deve stupire allora che “cresca l’incomprensione da vari mesi fra una gerarchia ecclesiale che sembra… abbandonata alla sola logica dell’accoglienza” e i fedeli a cui questa posizione spesso non sembra all’altezza della complessità del caso. Un malessere crescente, secondo l’autore, fra una Chiesa che sembra affrontare il problema solo dal punto di vista dei migranti e i cattolici europei choccati dal fatto che la loro Chiesa, “per una forma di preferenza per i lontani a scapito dei vicini, si disinteressi della loro sorte e di quella dei loro figli”. Dandrieu rimprovera al Pontefice in questo senso “il ricorso a una retorica dell’emozione simile a quella di cui fa uso e abuso il sistema mediatico al servizio del pensiero dominante per meglio neutralizzare il pensiero critico”. Ma in particolare fa notare che nel discorso giustissimo di difesa dei popoli e delle culture indigene dell’America, dell’Asia e dell’Africa mancano gli europei “che con il ritardo ahimè sovente caratteristico delle analisi storiche della Chiesa, e la sua specificità sudamericana, sembra ancora considerare come popoli dominanti e oppressori”. "È la “strana islamofilia della Chiesa” che fra le altre cose preoccupa l’autore a cui sembra che troppi nella Chiesa “non vedano il pericolo di un’invasione araba e musulmana che metterebbe in pericolo quel miracolo venuto da Atene e da Roma, e che è stato seminato fino a Parigi per far sbocciare la civiltà più irraggiante che la terra abbia conosciuto”. Ricorda che nell’insegnamento e nell’esperienza della Chiesa accoglienza, e difesa della Patria e dei valori dei popoli si sono sempre equilibrati, grazie alla saggezza e alla lungimiranza dei Pontefici: “La politica della Chiesa in materia di immigrazione non è sopportabile, perché mette i Paesi d’Europa in grave pericolo di essere sommersi e di perdita della loro identità culturale e religiosa”; e a partire da Tommaso d’Aquino, per giungere fino a S. Giovanni Paolo II è in contrasto con la tradizione del pensiero cattolico." Un capitolo molto interessante è dedicato alla possibilità o meno di non essere d’accordo con il Pontefice e su quali argomenti, e in base alla loro formulazione. Fermo restando che l’infallibilità pontificia è limitata a un settore ben preciso, e tenendo presente che per un cattolico comunque sono dovuti al papa attenzione e rispetto, Dandrieu sottolinea che non poche volte decisioni e prese di posizione politiche dei pontefici si sono rivelate sbagliate, anche a scapito dei cattolici dei Paesi coinvolti. E che quindi anche in questo caso ci si può trovare di fronte a un errore di valutazione storica. Non solo per il continente: l’ultimo capitolo di questo libro si intitola: “Suicidio dell’Europa, suicidio della Chiesa: come il cattolicesimo si taglia via dalle popolazioni europee”. (fonte: lanuovabq.it)
0 notes
gregor-samsung · 3 years
Text
“ Yasemin e io stavamo giocando da soli nella nostra sala da pranzo. Stavamo giocando al vecchio gioco di "marito e moglie", e stavo orgogliosamente tornando dal "lavoro" salutandola con un bacio appassionato quando un secco schiaffo sul mio didietro pose fine al gioco. Inci ci aveva scoperti ed era andata a informare mia madre la quale, verosimilmente vergognandosi profondamente, mi chiuse in camera mia e scortò una piangente Yasemin a casa. Sembra che le due signore abbiano in seguito parlato a lungo e ponderosamente, informando poi i rispettivi mariti di quel fatto increscioso, e il risultato fu che io e Yasemin fummo separati e ci fu proibito di giocare ancora insieme. Così Nuri ebbe di nuovo la sorella a casa. Li vedevo giocare assieme nel loro giardino e, se Yasemin mi scorgeva, faceva un piccolo, prezioso movimento di complicità con la testa, ignorando i miei sorrisi concilianti. Da allora la mia vita fu piena di risentimento. Ero molto offeso e perplesso per la reazione dei miei genitori al fatto di aver baciato Yasemin, e arrabbiato perché nessuno voleva darmi una qualche ragionevole spiegazione sul perché non avrei dovuto baciarla. Divenni improvvisamente intrattabile sia a casa che a scuola, dove ero scortese con i professori, che subito riferirono il mio comportamento a mio padre. Una sera a cena rifiutai di mangiare e chiesi che Inci mi servisse il dolce come primo piatto. Al suo rifiuto le morsi una mano e, pur sapendo i guai che sarebbero seguiti a questo comportamento, aggiunsi l'insulto all'offesa pizzicandola forte. Lei urlò di dolore e si precipitò a raccontarlo a mia madre. Mio padre ne fu furioso. Mi picchiò con un bastone e poi mi mandò in camera mia senza mangiare. Una volta in camera presi a calci tutti i mobili con rabbia nella speranza di danneggiarli. Tentati di utilizzare qualcuna delle maledizioni che avevo imparato dagli altri ragazzi della scuola aspettandomi quasi che la casa crollasse su di me con l'ira di Dio. Dato che niente accadeva, pronunciai quelle parole con maggiore intensità, gridandole nella stanza vuota mentre, per colmo di disgrazia, potevo scorgere Yasemin e Nuri che, incuranti della mia miseria, giocavano nel loro giardino. Avevo così fame che mi veniva da piangere. Dopo che Inci e Mehmet si furono addormentati considerai l'idea di osare scendere al pianterreno e saccheggiare la dispensa. Tuttavia, prima che potessi raccogliere il coraggio sufficiente, la nonna irruppe furtivamente nella camera con una fetta di pane, del formaggio bianco e un bicchiere di latte. Mangiai voracemente, e lei mi sussurrò di essere stata incapace di sopportare il pensiero della mia fame, ma di non dire alla mamma che mi aveva portato qualcosa. Promisi con fervore e poi me ne andai a letto. “
Irfan Orga, Una famiglia turca, postfazione di Ateş Orga, traduzione di Luca Merlini, Passigli Editori (collana Passigli Narrativa), Firenze, 2007; pp. 66-67.
[ Edizione originale: Portrait of a Turkish Family, Victor Gollancz Ltd., London 1950 ]
3 notes · View notes
gregor-samsung · 4 years
Text
“ In fondo alla stradina dove fummo costretti a passare c'era un negozio, avevo capito che si trattava di un caffè. Forse la rissa con le spade era finita ancor prima di iniziare. Una folla entrò urlando - dapprima credetti che lo saccheggiassero - e distruggendo il caffè. Prima portarono fuori le tazzine, i bricchi, i bicchieri, i tavolini perché, alla luce delle fiaccole, noi curiosi vedessimo e ci servisse da lezione, poi li ruppero davanti agli occhi di tutti. Picchiarono un po' un uomo che cercò di fermarli, e che poi riuscì a liberarsi. All'inizio pensai che ce l'avessero solo con il caffè, come dicevano. Raccontavano dei danni del caffè, di quanto facesse male agli occhi, allo stomaco, di come annebbiasse il cervello e facesse deviare l'uomo dalla retta via, dicevano che era un veleno europeo, e che il Profeta Maometto si era rifiutato di berlo anche se Satana travestito da bella donna gliel'aveva offerto. Sembrava una divertente lezione nel pieno della notte e, una volta a casa, pensavo di rimproverare Nesim dicendogli: «Non bere quel veleno». Lì attorno c'erano molte locande e caravanserragli economici, e presto si radunarono parecchi fannulloni distratti entrati in città clandestinamente senza essere registrati, incoraggiando i nemici del caffè. In quel momento, capii che si trattava degli uomini del famoso predicatore di Erzurum, Maestro Nusret. Voleva ripulire i nidi del vino e della prostituzione, i caffè, e punire coloro che erano usciti dalla via del Profeta Maometto, che coltivavano la danza del ventre e la musica, sostenendo che fossero riti da convento derviscio. Bestemmiarono contro i nemici della religione, contro chi lavora per Satana, gli idolatri, gli atei e coloro che disegnano. Solo allora ricordai che in questo caffè si appendevano disegni alle pareti e si malignava in modo impertinente sul Maestro di Erzurum. Uscì un servo con il volto coperto di sangue, pensai che stesse per crollare a terra, ma con la manica della camicia si pulì il sangue dalla fronte e dalle guance, si unì a noi e cominciò a contemplare l'assalto. “
Orhan Pamuk, Il mio nome è rosso, (traduzione di Marta Bertolini e Şemsa Gezgin), Einaudi (collana Super ET), 2007; p. 373.
[ Edizione originale: Benim adım Kırmızı, İletişim Yayınları, Istanbul, 1998 ]
2 notes · View notes
tmnotizie · 6 years
Link
URBINO – A Urbino giovedì 21 dicembre alle ore 15 nella Sala degli Incisori  del Collegio Raffaello (Piazza della Repubblica), Vittorio Sgarbi, Maria Rosaria Valazzi e Alessandro Marchi presenteranno il libro “Storie della Vrana” di David Alberto Murolo. Il volume tratta le vicende ambientate fra il Quattrocento al Seicento di quattro grandi personaggi originari di un antico borgo dalmata, che hanno rappresentato momenti fondamentali per l’identità artistica e culturale dell’Adriatico e dell’intero Mediterraneo.
La pubblicazione offre un’inedita ricerca storica e biografica  su Luciano Laurana, Francesco Laurana, Giovanni Vrana e Yusuf Maskovic, personaggi il cui operato ha avuto riflessi significativi sulla cultura delle Marche e della Serenissima. In particolare,  l’Architetto umanista Luciano Laurana ebbe un ruolo importante nella costruzione del Palazzo Ducale di Urbino,  oltre che per il  rifacimento delle Rocche di Senigallia e Pesaro.
L’autore, David Alberto Murolo, è docente a contratto di Cinema, TV e Arte contemporanea in varie università, esperto in nuove tecnologie e marketing per i beni culturali. Il libro ha il patrocinio dell’Ambasciata della Repubblica Croata in Italia, del Consiglio Regionale delle Marche e del Consiglio Regionale del Veneto.
In tanti conoscono l’opera di Luciano Laurana, ma molti di meno rammentano oggi quanto fecero gli altri tre protagonisti del libro di Murolo. Attraverso il volume si scopre quindi la caratura di Francesco Laurana, il quale produsse un nuovo stile nella scultura umanistica attraverso dei celebri busti, come quello di Battista Sforza, moglie di Federico da Montefeltro.
I lavori dell’artista dalmata oggi si trovano nei musei di tutto il mondo.Interessanti le storie di Giovanni Vrana, Ammiraglio della flotta veneta nella Battaglia di Lepanto e Yusuf Maskovic ammiraglio della flotta ottomana a Creta, ultimo avamposto veneto nel XVII sec. Due figure simili per le umili origini, e contrapposti a distanza di un secolo uno dall’altro, nella lunga guerra tra Venezia e Istanbul.
David Alberto Murolo recupera storie che un secolo dopo l’altro narrano di destini incrociati, opposti e paralleli, segnati dall’arte e dalla fede, dall’ambizione e dal potere, da commerci e battaglie, da avventure e idee che ancora oggi testimoniano delle sorti di civiltà diverse, accomunate da un solo mare.
Maria Rosaria Valazzi
The post Urbino: Vittorio Sgarbi, Maria Rosaria Valazzi e Alessandro Marchi presentano il libro di David Alberto Murolo appeared first on TM notizie - ultime notizie di OGGI, cronaca, sport.
0 notes