Tumgik
#colta
wally-b-feed · 2 years
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Anthony Fineran (B 1981), Tanda Colta Jimmy, 2023
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urbanhalifax · 2 years
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Joseph Howe AT Upgrades
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raspberrydraws · 6 months
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Late zosan posting
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deathshallbenomore · 2 years
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il grande problema dei podcast featuring gente romana è che in un buon 80% dei casi mi pare di sentir parlare tahir hussain anche se il tema è serissimo drammatico per niente divertente
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bateauivree · 2 months
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l'italiano è una lingua bellissima e incredibile, ma alcune persone proprio non la sanno parlare
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fridagentileschi · 9 months
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No, niente Wozniak o Steve Jobs, qui si parla dei VERI inventori del Personal Computer, qui si parla di una storia Italiana che cambiò il mondo.
Ivrea 1962, Il genio visionario Adriano OLIVETTI è già morto e la successione dell'azienda è affidata a suo figlio Roberto.
C'è però un ingegnere di nome Pier Giorgio Perotto, che ha un’idea geniale, degna del grande Adriano: costruire una macchina per elaborare dati che offra autonomia funzionale e che quindi abbia dimensioni ridotte per stare in ogni ufficio, programmabile, dotata di memoria, flessibile e semplice da usare.
Perotto crea un team di giovani Ingegneri: Giovanni De Sandre, Gastone Garziera, Giancarlo Toppiche, che lavora su questo progetto "IMPOSSIBILE" per l'epoca, considerando che sino ad allora i Computer erano grandi come stanze ed utilizzabili solo da esperti programmatori.
Dopo un anno dal lancio del progetto, il TEAM riesce a sviluppare un primo rudimentale prototipo rinominato "Perottina" ma purtroppo Olivetti, sprofonda in una crisi finanziaria profondissima, entrano nuovi soci e non capendo le potenzialità enormi che aveva il reparto Elettronico dell'azienda lo svendono all'americana General Electric con tutti i brevetti, al motto:
"Nessuna azienda Europea può entrare nel mercato dell'elettronica, non fa per noi, non siamo in grando, per quello ci sono gli americani"
Perotto però riesce a sottrarsi e sottrarre il suo TEAM al trasferimento, e prosegue, dimenticato dal resto dell'azienda che oramai si occupava d'altro, nel suo progetto visionario facendo progettare il Design della Macchina a Mario Bellini (designer famoso dell'epoca)
1965 New York. Il prototipo definitivo della Programma 101 è finalmente pronto ed in occasione del BEMA (salone delle macchine per l’automazione dell’ufficio), la fiera piu' importante dell'epoca, viene presentata al grande pubblico.
Il PRIMO PC ebbe un successo pazzesco, stavolta a giudicarlo non erano capi d'azienda (che poco capivano di elettronica) ma persone comuni, tutti si chiedevano dove fosse il cavo che collegasse quella bellissima macchina ad un "vero computer", nessuno poteva credere che era quello il computer stesso.
Il costo passò da 100000 dollari dell'epoca di un computer tradizionale a poco più di 3200 dollari, tutti ne volevano uno, anche la NASA ne acquistò diversi esemplari.
Purtroppo però In Olivetti, a parte il gruppetto di Perotto, non ci sono più i tecnici e ingegneri elettronici indispensabili sia per progettare ulteriori sviluppi del prodotto, sia per organizzare una rete commerciale in grado di vendere un prodotto ben diverso dalle macchine per scrivere o da calcolo.
L’Olivetti cerca di richiamare tecnici e ingegneri che sono finiti alla OGE (General Electric), dove lavorano per gli americani; ma i tempi non sono brevi, mentre l’industria americana, colta l’importanza delle novità introdotte dalla P101, non perde tempo per imboccare la stessa strada.
Il resto è storia.
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lory78blog · 3 months
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Speronella fior-cappuccio (non sono così colta, ho cercato il nome sul web 😅) rosa ecc... Tutte fotografate tra una goccia di pioggia e l'altra!
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kon-igi · 9 months
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8000 terroristi
su
22.185 vittime palestinesi (al 2 gennaio, sottostimate)
significa
14.000 vittime civili
su una popolazione di cui il 40% ha meno di 14 anni.
Quindi, anche se l'ONU nel diritto internazionale dà una definizione molto stringente di 'genocidio', direi che al netto dei numeri quello che stanno facendo gli assomiglia comunque molto.
Concludo ribadendo che una sofferenza subita in passato ti può dare la possibilità di comprendere meglio quella degli altri ma non è affatto detto che ti rende automaticamente una persona migliore.
Una possibilità evidentemente non colta.
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susieporta · 8 months
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[Lei s’innamorò come s’ innamorano sempre le donne intelligenti:
come un’ idiota]
La zia Daniela s’innamorò come s’innamorano sempre le donne intelligenti: come un’idiota. Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno, e aveva pensato: «Quest’uomo si crede Dio». Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani e di passioni sconosciute, si innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Góngora e di suor Juana Inés de la Cruz come chi risponde ad una filastrocca durante la ricreazione. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l’immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perché c’era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo per il sesso opposto e le sue ricchezze.
Ma quell’uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un’intelligenza abbagliante, una virtù angelica e un talento d’artista. Il suo cervello lo guardò in tanti modi che in capo a dodici giorni credette di conoscere cento uomini.
Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi tra i mortali, abbandonata con tutta se stessa ai desideri e alle stramberie di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegare il suo amore.
Un giorno così com’era venuto, se ne andò senza neppure salutare. Non ci fu allora in tutta l’intelligenza della zia Daniela una sola scintilla in grado di spiegarle ciò che era successo.
Ipnotizzata da un dolore senza nome né destino, diventò la più stupide delle stupide. Perderlo fu un dolore lungo come l’insonnia, una vecchiaia di secoli, l’inferno.
Per pochi giorni di luce, per un indizio, per gli occhi d’acciaio e di supplica che le aveva prestato una notte, la zia Daniela sotterrò la voglia di vivere e cominciò a perdere lo splendore della pelle, la forza delle gambe, l’intensità della fronte e delle viscere.
Nel giro di tre mesi divenne quasi cieca, le crebbe una gobba sulla schiena e dovette succedere qualcosa anche al suo termostato interno, perché, nonostante indossasse anche in pieno sole calze e cappotto, batteva i denti dal freddo come se vivesse al centro stesso dell’inverno. La portavano fuori a prendere aria come un canarino. Le mettevano accanto frutta e biscotti da becchettare, ma sua madre si portava via il piatto intatto mentre Daniela rimaneva muta, nonostante gli sforzi che tutti facevano per distrarla.
All’inizio la invitavano in strada, per vedere se, guardando i colombi e osservando la gente che andava e veniva, qualcosa in lei cominciasse a dare segni di attaccamento alla vita. Provarono di tutto. Sua madre se la portò in Spagna e le fece girare tutti i locali sivigliani di flamenco senza ottenere da lei nulla più di una lacrima, una sera in cui il cantante era allegro. La mattina seguente inviò un telegramma a suo marito:«Comincia a migliorare, ha pianto un secondo». Era diventata come un arbusto secco, andava dove la portavano e appena poteva si lasciava cadere sul letto come se avesse lavorato ventiquattr’ore di seguito in una piantagione di cotone. Alla fine non ebbe più forze che per gettarsi su una sedia a dire a sua madre:«Ti prego, andiamocene a casa».
Quando tornarono, la zia Daniela camminava a stento, e da allora non volle più alzarsi dal letto. Non voleva neppure lavarsi, né pettinarsi, né fare pipì. Un mattino non riuscì neppure ad aprire gli occhi.
«E’ morta!», sentì esclamare intorno a sé, e non trovò la forza di negarlo.
Qualcuno suggerì a sua madre che un tale comportamento fosse un ricatto, un modo di vendicarsi degli altri, una posa da bambina viziata che, se di colpo avesse perso la tranquillità di una casa sua e la pappa pronta, si sarebbe data da fare per guarire da un giorno all’altro. Sua madre fece lo sforzo di crederci e seguì il consiglio di abbandonarla sul portone della cattedrale. La lasciarono lì una notte con la speranza di vederla tornare, affamata e furiosa, com’era stata un tempo. La terza notte la raccolsero dal portone e la portarono in ospedale tra le lacrime di tutta la famiglia.
All’ospedale andò a farle visita la sua amica Elidé, una giovane dalla pelle luminosa che parlava senza posa e che sosteneva di saper curare il mal d’amore. Chiese che le permettessero di prendersi cura dell’anima e dello stomaco di quella naufraga. Era una creatura allegra e attiva. Ascoltarono il suo parere. Secondo lei, l’errore nella cura della sua intelligente amica consisteva nel consiglio di dimenticare. Dimenticare era una cosa impossibile. Quel che bisognava fare era imbrigliare i suoi ricordi perché non la uccidessero, perché la obbligassero a continuare a vivere.
I genitori ascoltarono la ragazza con la stessa indifferenza che ormai suscitava in loro qualsiasi tentativo di curare la figlia. Davano per scontato che non sarebbe servito a nulla, ma autorizzarono il tentativo come se non avessero ancora perso la speranza, che ormai avevano perso.
Le misero a dormire nella stessa stanza. Passando davanti a quella porta, in qualsiasi momento, si udiva l’infaticabile voce di Elidé parlare dell’argomento con la stessa ostinazione con la quale un medico veglia un moribondo. Non stava zitta un minuto. Non le dava tregua. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra.
«Come hai detto che erano le sue mani?», chiedeva.
Se la zia Daniela non rispondeva, Elidé l’attaccava su un altro fronte.
«Aveva gli occhi verdi? Castani? Grandi?».
«Piccoli», rispose la zia Daniela, aprendo bocca per la prima volta dopo un mese.
«Piccoli e torbidi?», domandò Elidé.
«Piccoli e fieri», rispose la zia Daniela, e ricadde nel suo mutismo per un altro mese.
«Era sicuramente del Leone. Sono così, i Leoni», diceva la sua amica tirando fuori un libro sui segni zodiacali. Le leggeva tutte le nefandezze che un Leone può commettere. «E poi sono bugiardi. Ma tu non devi lasciarti andare, sei un Toro: sono forti le donne del Toro».
«Di bugie sì che ne ha dette», le rispose Daniela una sera.
«Quali? Non te ne scordare! Perché il mondo non è tanto grande da non incontrarlo mai più, e allora gli ricorderai le sue parole: una per una, quelle che ti ha detto e quelle che ha fatto dire a te».
«Non voglio umiliarmi».
«Sarai tu a umiliare lui. Sarebbe troppo facile, seminare parole e poi filarsela».
«Le sue parole mi hanno illuminata!», lo difese la zia Daniela.
«Si vede, come ti hanno illuminata!», diceva la sua amica, arrivate a questo punto.
Dopo tre mesi ininterrotti di parole la fece mangiare come Dio comanda. Non si rese neppure conto di come fosse successo. L’aveva portata a fare una passeggiata in giardino. Teneva sottobraccio una cesta con frutta, pane, burro, formaggio e tè. Stese una tovaglia sull’erba, tirò fuori la roba e continuò a parlare mettendosi a mangiare senza offrirle nulla.
«Gli piaceva l’uva», disse l’ammalata.
«Capisco che ti manchi».
«Sì» disse la zia Daniela, portandosi alla bocca un grappolo d’uva. «Baciava divinamente. E aveva la pelle morbida, sulla schiena e sulla pancia».
«E com’era… sai di che cosa parlo», disse l’amica, come se avesse sempre saputo che cosa la torturava.
«Non te lo dico», rispose Daniela ridendo per la prima volta dopo mesi. Mangiò poi pane e burro, formaggio e tè.
«Bello?», chiese Elidé.
«Sì», rispose l’ammalata, ricominciando a essere se stessa.
Una sera scesero a cena. La zia Daniela indossava un vestito nuovo e aveva i capelli lucidi e puliti, finalmente liberi dalla treccia polverosa che non si era pettinata per tanto tempo.
Venti giorni più tardi, le due ragazze avevano ripassato tutti i ricordi da cima a fondo, fino a renderli banali. Tutto ciò che la zia Daniela aveva cercato di dimenticare, sforzandosi di non pensarci, a furia di ripeterlo divenne per lei indegno di ricordo. Castigò il suo buon senso sentendosi raccontare una dopo l’altra le centoventimila sciocchezze che l’avevano resa felice e disgraziata.
«Ormai non desidero più neppure vendicarmi», disse un mattino a Elidé. «Sono stufa marcia di questa storia».
«Come? Non mi ridiventare intelligente, adesso», disse Elidé. «Questa è sempre stata una questione di ragione offuscata: non vorrai trasformarla in qualcosa di lucido? Non sprecarla, ci manca la parte migliore: dobbiamo ancora andare a cercare quell’uomo in Europa e in Africa, in Sudamerica e in India, dobbiamo trovarlo e fare un baccano tale da giustificare i nostri viaggi. Dobbiamo ancora visitare la Galleria Pitti, vedere Firenze, innamorarci a Venezia, gettare una moneta nella Fontana di Trevi. Non vogliamo inseguire quell’uomo che ti ha fatto innamorare come un’imbecille e poi se n’è andato?».
Avevamo progettato di girare il mondo in cerca del colpevole, e questa storia che la vendetta non fosse più imprescindibile nella cura della sua amica era stata un brutto colpo per Elidé. Dovevano perdersi per l’India e il Marocco, la Bolivia e il Congo, Vienna e soprattutto l’Italia. Non aveva mai pensato di trasformarla in un essere razionale dopo averla vista paralizzata e quasi pazza quattro mesi prima.
«Dobbiamo andare a cercarlo. Non mi diventare intelligente prima del tempo», le diceva.
«E’ arrivato ieri», le rispose la zia Daniela un giorno.
«Come lo sai?»
«L’ho visto. Ha bussato al mio balcone come una volta».
«E che cosa hai provato?»
«Niente».
«E che cosa ti ha detto?»
«Tutto».
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho chiuso la finestra».
«E adesso?», domandò la terapista.
«Gli assenti si sbagliano sempre».
Ángeles Mastretta
[racconto tratto dal libro “Donne dagli occhi grandi”]
*traduzione di Gina Maneri
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ma-pi-ma · 10 days
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Un morso a una mela appena colta
è come assaporare la stessa essenza dell'autunno.
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umi-no-onnanoko · 2 months
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Sarebbe bello tornare ai tempi in cui ancora si aveva la pazienza ed il romanticismo necessari per corteggiare, quando ancora si sapeva il significato della parola ed il modo giusto per farlo senza diventare volgari oppure oggettificati.
Quando si intingeva la penna nel calamaio, si prendevano carta e penna, ci si sedeva allo scrittorio, al tavolino o si cercava una superficie piana, alla luce del sole, al lume di una candela o al bagliore fioco di una lampada.
Si scrivevano le proprie giornate, sensazioni e sentimenti, si affidavano alle pagine, al profumi con con si profumava la carta, al colore dell'inchiostro, alla ruvidezza della carta da lettere scelta, alla busta e poi ai postini il compito di recapitare quel piccolo scorcio di noi e si attendeva trepidanti la consegna della missiva e la risposta della persona cara.
Si aprivano le buste con emozione, con cura le si conservava e le si leggeva e rileggeva fino talvolta a sgualcirle.
Si raccoglievano sassolini di fiori dai campi e li si portava alla propria bella affinché ne apprezzasse il profumo ed i colori, vi si adornasse i capelli o li inserisse in un vaso.
Lavorando a maglia si creavano sciarpe, maglioni, calzini da regalare al proprio innamorato per tenerlo bene al caldo nei periodi invernali.
Conservare i soldi per comprare qualche dolce speciale, frutto, libro da portare come presente.
Si divideva la frutta colta da un giardino, la stessa coperta o lo stesso ombrello durante i tragitti delle passeggiate.
Si aspettavano treni, navi, aerei per rivedersi dopo periodi in cui si era stati lontani e ci si amava anche senza nulla, senza soldi, senza auto, senza telefono, senza un tetto; si lavorava insieme per ottenerli e non importava altro che ci fosse l'altra persona.
Sarebbe bello tornare a regalare amore invece che cellulari, coprirsi con lo stesso ombrello invece che con due differenti, tenersi per mano invece che averle occupate a messaggiare.
Tornarsi a vivere e scoprire, vedersi mutare con il tempo e le stagioni, sarebbe bello tornare ad essere umani.
-umi-no-onnanoko ( @umi-no-onnanoko )
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t-annhauser · 17 days
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Con la storia di ieri ho esaurito gli argomenti, è stato il canto del cigno, il mio ultimo exploit (dal lat. explicĭtum, compiere, portare a termine). Potrei per esempio leggere le vostre storie, ed è proprio quello che farò, me ne starò zitto zitto in disparte per un po' e intanto andrò avanti coi miei piccoli progetti. L'ispirazione non va stuzzicata, l'ispirazione va aspettata, colta al volo sul momento, sennò poi diventa legnosa, dura come il pane vecchio (pan poss, dicevano dalle mie parti). Può essere fra un giorno o fra sei mesi, non lo so. Addio.
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angela-miccioli · 8 months
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"Non innamorarti di una donna che legge, di una donna che sente troppo, di una donna che scrive.
Non innamorarti di una donna colta, maga, delirante, pazza.
Non innamorarti di una donna che pensa, che sa di sapere e che, inoltre, è capace di volare, di una donna che ha fede in se stessa.
Non innamorarti di una donna che ama la poesia (sono loro le più pericolose), o di una donna capace di restare mezz’ora davanti a un quadro o che non sa vivere senza la musica.
Non innamorarti di una donna intensa, ludica, lucida, ribelle, irriverente.
Che non ti capiti mai di innamorarti di una donna così.
Perché quando ti innamori di una donna del genere, che rimanga con te oppure no,che ti ami o no, da una donna così, non si torna indietro.
Mai...."
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occhietti · 7 days
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Quando ti diranno che sei pazza ricorda che il quindici o il sedici novembre, è nata Giovanna de Castilla, una regina che non è mai stata pazza. Mai.
Giovanna è stata sposata per sedici anni con un ragazzo che chiamavano il bello, anche se non lo era. (Secondo i ritratti, era piuttosto brutto) Il tipo ha approfittato fin dal primo giorno di tutte le signore della corte. Giovanna si arrabbiava logicamente, perché esigeva un rispetto che a lei non veniva concesso. Né come donna, né come regina, né come moglie. E per questo la chiamavano pazza.
Quando suo marito è morto, Giovanna ha rivendicato il trono di regina di Castiglia che a lei era destinato.
Re Ferdinando, suo stesso padre, non voleva che Giovanna regnasse. Così decise che era pazza. E l'ha rinchiusa. Giovanna, inoltre, era ancora giovane e molto bella. Il re temeva che si sarebbe risposata e avrebbe potuto contare su un uomo che la sostenesse nella lotta per il trono. Meglio rinchiusa.
Quando suo figlio Carlos andò a visitarla, dicono che lei "le ha ceduto graziosamente" il potere. Bugia. Carlos l'ha costretta a firmare e l'ha lasciata lì: rinchiusa. Giovanna era una donna colta, che parlava latino e scriveva poesia. Ma la storia l'ha chiamata Giovanna la pazza e non Giovanna la Prigioniera.
Giovanna de Castilla è una delle tante donne alle quali la storia ha negato la sua vera voce.
La prossima volta che ti chiamano pazza pensa che pazza è la prima cosa che viene detta a una donna quando la si vuole mettere a tacere.
Dobbiamo essere belle, libere…
e pazze.
- Autore sconosciuto
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nineteeneighty4 · 21 days
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Forse sono leggermente insofferente. Sarà il caldo , la tristezza tipica del post vacanza , l’anno difficile , la morte di mia madre , l’ansia per il rientro , lo sfratto alle porte , sarà la vita , l’universo , tutto quanto ma è come se la mia soglia di sopportazione fosse giunta al limite. Non lo faccio neanche apposta , è che certi discorsi -così come alcuni sguardi indagatori , bigotti , invadenti , insopportabilmente banali , scontati o costruiti - non li reggo. Poco fa ,infatti ,ne ho combinata un’altra delle mie insolite. La signora che ha acquistato casa un bel po’ di anni fa si è messa a parlare del marito - morto l’anno scorso a causa di un tumore - e di quanto e come le persone si comportino male certe volte senza rendersene conto. Poi , a mo’ di frecciatina implicita ,ha voluto sottolineare il fatto che non mi fossi fatta viva subito, post mortem di lui , per farle le condoglianze. Non l’ha dichiarato esplicitamente ma il senso era “ G ci teneva tantissimo a te. Non faceva altro che nominarti. Ogni estate mi faceva una testa così su quanto fossi dolce , delicata , colta. Ti ha invitato a casa un sacco di volte , ricordi? . Eh ma lui era come sappiamo,il bene sapeva dimostrarlo”. Lo scrivo qui perché sono stufa dell’apparenza. Ne ho fin su i capelli dei chiacchiericci di quartiere. Mentre la signora parlava elogiando il marito avrei voluto disintegrarle la memoria , rompere tutti i bei ricordi che aveva con e di lui , farle leggere i messaggi che io e mia madre commentammo con “Che schifo” perché non potevamo credere che un vecchio di sessant’anni ci stesse provando con una di trent’anni più giovane. Mi avrebbe rallegrato come non mai risponderle che il marito tanto gentile e tanto onesto pareva. E che il fatto di parlare costantemente di me o di invitarmi a casa quando lei non c’era per quei caffè allo schifo che teneva in corpo, erano cosa nota ormai ma ho sospirato come un’anima in pena,divagando con la mente su certe frasi a doppio senso , su delle battutine squallide che facevano ridere soltanto lui. E quell’ insistenza poi…Quel mettersi sull’ uscio di casa solo per farsi notare fino ad avere la faccia tosta di dirmi “Guarda che io sono capace anche con le ragazze ,eh. Sono sempre stato un bell’uomo “. Quella voglia matta e improvvisa di tirargli un pugno in faccia davanti a tutti quanti, moglie compresa e quella rabbia che conosco soltanto io. Quel nervosismo che mi sale dell’anima quando mi ammazzano la poesia toccandomi le cose , provando a sfiorarmi o a trascinarmi nella merda delle loro vite. Con questi pensieri in mente, ovvio che l’idea di partecipare al funerale non mi abbia proprio sfiorata. Certo che mi è sembrato giusto non aggiungere niente.
“ Mi aspettavo un messaggio , anche se poi ci siamo viste di persona e ti sei spiegata. Il tuo comportamento mi ha sorpresa ,tutto qui.” Ho anche provato a fingere, sforzandomi di trovare le giuste parole, tuttavia quel che sono riuscita a mettere su carta è stato questo:
Il nulla.
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allaazz2024 · 28 days
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Un'ora trascorsa a parlare con una persona colta e intelligente. La spensieratezza può equivalere a un'intera vita trascorsa a parlare con persone che pensano solo al cibo, alle loro tasche e alla loro metà.
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