anitalianfrie · 8 months ago
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luca: "non voglio dilungarmi" no amore mio dilungati quanto vuoi starei ore a sentirti parlare della honda che perde il grip nell'entrata spiegami vita morte e miracoli della moto ogni singolo dettaglio
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sciatu · 3 years ago
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Briosce salata con formaggio e wurstel, peperonata, insalata di riso, braciole alla messinese con peperoncini arrosto, polpettine vegane, caponata, cous-cous, frittata di patate, olive passolute, spiedini di melone.
LA IENA
L’osservò staccarsi dal gruppo di amici con cui stava ed avvicinarsi al buffet prendendo un piatto ed osservando la distesa di pietanze che vi erano disposte. Distolse lo sguardo dalla ragazza e guardò lui che parlava con due suoi vecchi amici, sotto un olivo in un angolo del prato dove era stato organizzato il buffet. Era il momento migliore per avvicinarsi alla ragazza. Si avvicinò lentamente e preso un piatto incomincio a mettervi delle briosce salate, arrivando alle sue spalle con la massima casualità la sfiorò “Oh scusami – le disse quasi con noncuranza – ah ma ciao, non ti avevo riconosciuta” Mentì cercando dirlo con la massima spontaneità e cordialità. La ragazza si girò e appena capì chi era si irrigidì lanciandole uno sguardo gelido “Buonasera” Lei lasciò perdere la sua evidente ostilità e continuò sorridendo “Sei Monica, non è vero? Tuo padre mi parla sempre di te.” “Mio padre parla con tutti di me tranne che con me. Lei è la nuova donna di mio padre? Tutti son venuti a dirmi che c’era anche lei per vedere che effetto mi faceva, bontà loro” “E che effetto ti ha fatto?” “Nessuno. È lui che mi fa effetto! Lo guardi: elegante, con la cravatta che gli abbiamo regalato durante l’ultima festa del papà mentre va avanti e indietro tutto felice e sorridente per la sua nuova donna che si è scelto.” Dentro di lei l’anima le avvampò urlando “Se vuole la guerra l’avrà – penso, e a voce alta continuò - Non ha scelto una nuova donna, ha scelto una nuova vita. La cosa è sostanzialmente diversa. Forse io avrei potuto anche non esistere, ma lui avrebbe fatto la stessa scelta di andarsene per non restarsene chiuso dentro casa sua come un estraneo per tutto il resto della sua vita.” Prese una braciola e la morse con gusto “Probabilmente si, per questo non penso che possa prendermela ne con lei che è stata più un effetto che una causa, ne con i miei genitori. Erano al capolinea senza saperlo. Quello che mi da fastidio è che per anni non hanno neanche provato a ritrovarsi. Si sono lasciati andare alla deriva lontano l’uno dall’altro, senza preoccuparsi minimamente di volersi ritrovare, dimenticandosi di me e di quel disperato di mio fratello.” Lei mise una cucchiaiata di cous-cous nel piatto. “Si combatte per quello a cui si da valore. La vita non è un ristorante dove ordini ciò che vuoi e ti viene portato. La vita è un buffet dove tu prendi questo e quello pensando che sia buono. Invece a volte prendi quello che non ti piace e allora lo lasci nel piatto, metti il piatto in un angolo e ne prendi uno nuovo. È più semplice, ti permette di evitare domande, spiegazioni e guerre tra le pareti di casa. Molti sanno vivere i conflitti perché non gli importa di far del male a qualcuno. Altri preferiscono soffrire loro, piuttosto che dare dolore. Tuo padre è uno di questi. Per me è un suo pregio.” “Forse. Però io e mio fratello meritavamo di poter fare qualche domanda e di avere una minima spiegazione. Almeno il tentativo di discuterne insieme, anche se solo di facciata senza che ci cadesse tutto addosso dall’oggi al domani.” “Tu pensi che i tuoi genitori non ci abbiano provato? Quante volte è uscito con te per parlartene ela discussione è finita sull’università all’estero o sulle prossime vacanze? Quante volte lo ha fatto con tuo  fratello  per poi trovarsi a barattare un motorino per una misera promozione? Quante notti lui e tua madre hanno cercato di ritrovarsi scoprendosi invece sempre più distanti, sempre dalla parte opposta del letto. Non mi sarei messa con lui se  tuo padre non avesse capito che era inutile cercare di salvare il suo matrimonio ormai inghiottito dal nulla che era diventato. Ha avuto troppi Natali senza parole, troppe discussioni su cose senza importanza per credere ancora che fosse possibile una spiegazione, un chiarimento, un ricominciare in qualche modo o forma.” Monica l’osservò e prese una forchettata di cous-cous forse per pensare “Non credo che mio padre abbia cercato disperatamente una qualche discussione, forse quello che stava provando lo stava sconvolgendo e basta. Comunque, sono problemi loro. Mia madre gioca a “non è successo niente”!!  Lui – fece indicando con il mento suo padre – gioca a fare l’uomo rinato, il padre sempre complice e disponibile. A me e a mio fratello non ce ne frega niente se si sono lasciati. Sono già scomparsi da anni, in casa erano già fantasmi prima e adesso lo sono ancor di più. È di questo che non si stanno rendendo conto: prima si sono persi loro, ora stanno perdendo a noi. A casa c’è sempre stato troppo silenzio per accorgersi adesso che qualcuno ha sbagliato. Forse abbiamo sbagliato tutti, ma noi ragazzi non conoscevamo la vita e per noi è stato normale sbagliare perché non abbiamo esperienza. Loro sapevano, dovevano fare qualcosa quando erano ancora in tempo.” “Di fronte a queste cose siamo tutti incapaci di capire. Siamo tutti ciechi ed incapaci di vedere che stiamo appassendo l’uno di fronte l’altro. Alla fine, d’improvviso ci si accorge di non essere più una coppia e si corre il rischio di pensare solo a sé stessi. Tuo padre è dispiaciuto di questo e sta cercando di evitare problemi e difficoltà. Soprattutto, sta cercando di non perdere voi e di essere presente più che può” “Uno può essere presente quanto vuole, ma se non parla e comunica, resterà sempre invisibile. Comunque, ormai comi  veni si cunta ( Quello che accadrà lo sapremo solo dopo che è accaduto).” Prese un cucchiaio di caponata e un tovagliolo. “Buonasera – fece in tono superficiale – saluti il vecchio” E se ne andò verso i suoi amici con fare indifferente. “Piacere d’averti conosciuto” Le rispose in tono ironico, e tornò a occuparsi del suo piatto rimuginando quello che si erano detti Lui lasciò gli amici con cui stava parlando e la raggiunse “allora, hai conosciuto la iena?” Le chiese mentre prendeva un pezzo di frittata “È meno iena di quello che dicevi – fece lei continuando a guardare il suo piatto – è ancora disorientata.” “mi considera un vigliacco perché l’ho lasciata sola con la madre” “ti considera un punto di riferimento che non vuole esserlo più” “Questo non è vero” “Ne sei sicuro? L’hai evitata tutta la serata. Le hai detto appena ciao” “È sempre con i suoi amici, non mi considera neanche” “Ma ti sei mai preoccupato di conoscerli i suoi amici? Lei ha visto subito che hai la cravatta che ti hanno regalato alla festa del papà: secondo te è questo il non considerati?” Lui bevve un sorso “Vado?” chiese guardando la figlia “devi!” rispose lei. Si mosse aggirando l’ostacolo. Andò dalla padrona di casa per farle i complimenti e le chiese della figlia, quando lei gliela indicò nel gruppo dove stava Monica le chiese di accompagnarlo a salutarla. Arrivò cosi nel gruppo accompagnato da una figura neutra ma importante e si fece presentare a tutti chiedendo a chi conosceva dei genitori e a chi non conosceva dell’università che stavano frequentando. La serata continuò e lei lo perse di vista ritrovandolo più tardi per alcuni minuti subito rapita dalle amiche del poker per organizzare una prossima partita a Rometta. Ad un certo punto lui la chiamò “Devo andare, Monica mi ha chiesto se accompagno lei e una sua amica in un locale al faro” “Va bene, vengo anch’io così posso smettere di mangiare prima che arrivino i dolci: non so quanto ho mangiato: avrò messo due chili solo con l’insalata di riso” Incominciarono a salutare tutti e riuscirono dopo mezzora ad arrivare alla macchina. Le ragazze erano già li ad aspettare impazienti “Dai papà è già tardi – poi rivolgendosi all’amica – Serena, questa è Enrica, la nuova compagna di mio padre” “Piacere” Disse Serena gentile allungano una mano esile su cui era tatuato un serpente. Entrarono in macchina e partirono e Serena chiese a Monica se i loro amici erano già arrivati “Non lo so, ora gli mando un altro messaggio” Mentre l’amica era impegnata con il cellulare Serena incominciò a parlare “Ora voi due state insieme? Anche i miei non stanno più insieme. Ora ho una diecina di nuovi fratelli e sorelle, perché mio padre ha trovato una nuova donna con tre figli e mia madre un signore che ne ha due dal primo matrimonio e tre dal secondo. O viceversa? Non me lo ricordo mai! Ora sono sempre invitata a qualche festa e d’estate posso andare in una diecina di case al mare di qualche parente! Ci sono dei vantaggi, ad esempio non sei mai sola e ogni fine settimana hai una festa, un compleanno, un anniversario ed è tutto un casino “ Restò qualche secondo in silenzio per far prendere fiato ai pensieri che non riuscivano a seguire la mitragliata di parole. Poi, raggiunta finalmente da un pensiero sensato aggiunse “Però è triste che ad un certo punto tutto finisca – guardando il padre di Monica chiese – secondo te perché succede?” “Succede cosa?” Chiese lui che aveva smesso di seguirla appena aveva iniziato a parlare “Che due si vogliono bene e poi improvvisamente non si amano più” L’uomo fece una faccia sconcertata ma replicò “Ognuno ha i suoi motivi però vedi, chiediti che cos’è l’amore. L’amore non è desiderare, volere e quelle cose che scrivono nelle canzoni. L’amore è fare per chi ami quello che non faresti per nessun altro. Non è una cosa semplice e forse non è neanche naturale, per questo ci vuole impegno, motivazione, tempo, interesse, voglia e bisogno che chi ami sia parte della tua vita, dei tuoi pensieri, di quello che fai o fate. Invece, una volta insieme pensi che sia fatta, che ormai è tutto a posto, che non ci saranno difficoltà, incomprensioni che potranno separarvi e che l’amore che provavi quando volevi farla innamorare, sia lo stesso di ora che vivete la vita gomito a gomito. Per farla innamorare mostri solo il lato migliore che pensi di avere e lei ti mostra il suo lato più piacevole, senza spigoli ed ombre. Da sposati invece, la vita ti tira fuori il carattere i pregi ed i difetti: l’amore mostra il suo lato più vero e concreto. Lei incomincia a pensare alla casa, ai figli e al lavoro mentre tu ti concentri sulla carriera, sui viaggi d’affari, su tutto quello che pensi necessario per vivere, su i desideri che lei non può o no sa di dover soddisfare e un giorno, quando c’è qualche problema serio, o quando qualcuno torna a riempirti la vita, allora scopri che siete sulle sponde opposte di un burrone, divisi nei pensieri, nei progetti per il domani e nelle voglie di oggi. Allora o ti nascondi nell’ipocrisia e fai finta di niente tradendola ora con una, ora con l’altra, o scegli di trovare un'altra strada, un'altra opportunità e rincominci in modo più onesto, più maturo con te stesso, con chi hai amato, con i tuoi figli e con chi scegli di stare.” Serena aggrottò la fronte impegnata a capire le parole del padre di Monica, poi si voltò verso l’amica “Hai ragione, tuo padre è molto intelligente” Monica sorrise “Te l’avevo detto, no?” E guardò gli occhi di suo padre che l’osservavano nello specchietto retrovisore per scusarsi della banalità detta dall’amica. La mano sinistra di lei, si avvicino a quella di lui che era appoggiata sul cambio, l’avvolse e gliela strinse forte.
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k-erelle · 3 years ago
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VALENTINA
Era distesa sotto un albero. La brezza del lago faceva dondolare una corda spezzata legata a un ramo e le gonfiava la gonna. Era senza mutandine perché non pensava di rimanere a dormire in quel posto. Allargò le gambe per accogliere meglio l' aria. Il muso della cagnolina appoggiato sul suo ventre saliva e scendeva col suo respiro. Non ricordava più da quanto non si sentisse così bene.
Era uscita da sotto il letto che la nonna dell'uomo le aveva preparato per la notte. Aveva cominciato a correre per la stanza sbattendo il muso contro i mobili e le pareti. Era cieca. La sollevò. Il cuore le batteva forte. Tremava.
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Dalla finestra della sua camera vedeva tutti i giorni quell' uomo seduto sulla panchina nel giardino della clinica. La dottoressa gli si sedeva accanto e gli parlava. Poi con aria sconfitta appoggiava la testa sulla spalla di lui. L'uomo continuava a restare immobile.
Per sbaglio un giorno entrò in una stanza. Non dovevano averla sentita entrare perché la dottoressa continuava a stringere la mano dell'uomo seduto su un lettino per le visite. Si passava quella grossa mano sul viso , sul collo e infine se la infilò dentro il camice sui seni. L'uomo guardava il pavimento. Non era di questo mondo. Uscì senza far rumore.
- non è di questo mondo , le disse la dottoressa. Di più non riuscì a sapere sull' uomo. Le tolse le bende e guardò i polsi.
- Andrà tutto bene , disse la dottoressa.
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Passò tutta la notte ad abbracciare la tazza del bagno. Nei rari momenti in cui non correva a vomitare , vedeva la cagnolina cieca seguirla dappertutto. A modo suo , certo. Una volta , per starle dietro , prese in pieno lo stipite della porta del bagno. Rimase tramortita un attimo , poi si tirò su barcollante e corse nella direzione opposta picchiando contro il comodino. Scoppiò a ridere tenendosi la pancia dal dolore.
- non c'è , disse la nonna dell'uomo, fumando un sigaro .
- aspetterò , disse la donna.
- è andato nel bosco. Potrebbe tornare oggi o tra una settimana. E quando la vedrà la caccerà via come fa con tutti. Non aiuta nessuno. Risalga in macchina e torni a casa.
La donna congedò il suo autista. Avrebbe aspettato. Non era lì per essere guarita . Non credeva alle chiacchiere che giravano sull' uomo ricoverato nella sua stessa clinica. Voleva solo parlare , sedergli accanto e toccare la sua mano come ha visto fare alla dottoressa. Sentiva di essere simile a quell' uomo. Perduta e inutile. Ma no. La verità era che voleva rivedere per un'ultima volta il suo sorriso. Un giorno dalla finestra lo vide solo sempre sulla stessa panchina. Un uccellino gli volava intorno , gli sfiorava il viso , di sfuggita gli toccava il naso col becco. Era azzurro. E l'uomo sorrise all'uccellino e lei pianse perché era bellissimo , un corpo triste appeso nell'aria a un chiodo invisibile eppure meraviglioso.
- bevila finché è calda. Sono erbe che faranno passare la nausea, potrai dormire. Quanto sei bella! Non preoccuparti per i vestiti sporchi . Domani .
La luce del sole inondava la stanza. La cagnolina le leccava la faccia. Fece una doccia e infilò un vestito che la nonna dell'uomo aveva lasciato sul tavolo. Era della sua misura , era nero. Prese in braccio la cagnolina , la baciò e disse :
- ti chiamerò Valentina. Usciamo ora , Valentina , è una bella giornata. Oddio non ho le mutandine. Proprio come te. Senza mutande , che scostumate che siamo !
Valentina sollevò il muso dal suo ventre e annusò l'aria. La corda appesa oscillava forte. Si era alzato il vento. Lei si mise seduta per vedere dove stava scappando.
La chiamò molte volte ad alta voce. Dal fitto del bosco dove era entrata solo oscurità screziata dal verde tremolante delle foglie.
Ne aveva contati sette ma nessuno era Valentina. I cani si tuffarono in acqua. Poi uscì lui. Era completamente nudo, ricoperto di fango e sporcizia. Con la sua andatura barcollante le passò vicino . Non si accorse della sua presenza. Come se non esistesse. Si tuffò nel lago e raggiunse i suoi cani lontani.
Pianse. Non era dolore né gioia. Strappò da terra un filo d' erba e se lo mise in bocca. Restare seduta lì per sempre col vento a gonfiarle la gonna di un'altra donna e le sue gambe calde e un cane cieco col muso coperto di ferite perché non sa dove andare eppure ci va lo stesso.
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Uscì dall'acqua. Pulito , scintillante, la pelle graffiata da rovi e spine del bosco. Bellissimo. Le si piazzò davanti. Ora aveva il suo sesso a pochi centimetri dal viso. Lei scoppiò a ridere. Poi vide la cicatrice sul collo e quella testa che non la guardò neppure per un istante. Si sentiva invisibile. Non era triste.
I cani scuotevano il pelo e lui con loro. Miriadi di goccioline piene di luce. Si bagnò tutta. Non era felice ma neanche triste. L'uomo scomparve dentro la casa. Pianse . Le lacrime avevano un sapore diverso. Ancora è presto ma un giorno saprà che le lacrime più belle illuminano , bagnandolo, il sorriso di chi ha sofferto.
- quanto sei bella , disse la nonna dell'uomo mentre le pettinava i capelli.
- vorrei chiederle un favore. Posso portare con me la cagnolina cieca. Naturalmente pagando. Qualsiasi cifra , disse lei.
- non ci sono mai stati cani ciechi qua , mia cara.
L'autista la stava riportando a casa. L'uomo non l'aveva nemmeno salutata. La nonna invece le aveva regalato un mazzetto di fiori ed erbe aromatiche che la guardavano dal sedile. Li prese e li annusò. Un foglietto di carta le cadde tra le gambe. C'era scritto:
" Valentina . Che nome di merda per un cane"
- sta sorridendo signora , disse l' autista fissandola dallo specchietto retrovisore.
Lei guardò fuori dal finestrino. Era tutto buio
Kerelle
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gloriabourne · 5 years ago
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The one with the reunion in Naples
Non poteva negare di essere più felice di quanto lo fosse stato negli ultimi mesi.
Non poteva negarlo semplicemente perché gli si leggeva in faccia.
Non era solo il fatto di tornare finalmente a esibirsi su un palco. C'era molto di più e ormai Ermal sapeva perfettamente che chiunque se ne sarebbe accorto.
E non gli importava.
Era felice. Assurdamente felice. E non c'era niente di male nell'essere felice a causa di qualcuno, quindi non aveva intenzione di nasconderlo.
Il suo rapporto con Fabrizio lo aveva sempre reso felice.
Confuso, ma felice.
Non c'era mai stato nulla di definito tra loro, nessuna etichetta, nessun nomignolo sdolcinato. Non c'era stato niente, a parte i baci scambiati di nascosto e le notti passate insieme sotto le lenzuola.
Non avrebbero potuto sopportare una relazione con il peso di doversi nascondere e la distanza che tra loro era sempre troppo grande.
Così, fin dalla prima notte insieme trascorsa a Sanremo, avevano preso quel rapporto con leggerezza, godendosi gli attimi insieme e non pretendendo mai niente di più.
Ecco perché Ermal era così felice.
Perché anche prendendo il rapporto con leggerezza, aveva finito per innamorarsi. E non si può non essere felici quando si ha la possibilità di passare del tempo con l'uomo di cui si è innamorati.
La porta del camerino si spalancò mentre Ermal era davanti allo specchio a sistemarsi i capelli, ormai troppo lunghi e indomabili.
Il più giovane sollevò lo sguardo nello specchio vedendo Fabrizio che lo guardava attraverso il riflesso.
Aspettò che chiudesse la porta e lo fissò attraverso lo specchio mentre percorreva i pochi passi che li separavano, fino ad arrivare dietro di lui.
Nell'istante in cui Fabrizio gli circondò i fianchi con un braccio e appoggiò il mento sulla sua spalla, Ermal esalò un sospiro sollevato e si abbandonò completamente nel suo abbraccio.
"Mi sei mancato" mormorò Fabrizio contro il suo orecchio.
"Anche tu, Bizio. Ma ora siamo insieme."
"Già, ma per quanto? Un paio d'ore, e poi?"
Il tono di Fabrizio sembrava stanco, quasi scocciato. Ermal non lo aveva mai sentito così e per un attimo ebbe paura che quello fosse solo l'inizio di un discorso più grande, di una discussione in cui Fabrizio gli diceva quanto fosse insoddisfatto del loro rapporto e in cui gli spiegava per quale motivo fosse meglio per entrambi dare un taglio a ogni cosa.
Ebbe appena il tempo di pensarlo, che Fabrizio disse: "Non so se ce la faccio ancora in questo modo."
"Che vuoi dire?" chiese Ermal ancora tra le sue braccia, osservando il più grande attraverso il loro riflesso.
"Pensi che potremmo mai avere qualcosa di più? Qualcosa di un po' più stabile di qualche serata a un programma televisivo o qualche weekend uno a casa dell'altro?"
"È quello che vuoi?" disse Ermal con voce tremante.
Non era quello che si aspettava.
Tra i due era sempre sembrato lui quello più coinvolto in quella specie di relazione. Fabrizio sembrava semplicemente assecondare i suoi bisogni.
Ma quella confessione faceva intendere tutt'altro.
Fabrizio annuì con un cenno, poi nascose il viso nel collo di Ermal, preoccupato per come avrebbe reagito.
Ermal lo osservò per un attimo attraverso lo specchio.
Sembrava così piccolo e impaurito di fronte a quella confessione così grande.
Gli strinse la mano - ancora stretta sui suoi fianchi - e senza alcun dubbio nella voce disse: "E allora troveremo il modo di farla funzionare."
  La conversazione con Fabrizio aveva contribuito a rendere Ermal più felice di quanto lo fosse appena arrivato a Napoli. Cosa difficile da credere, visto che era euforico praticamente da quando aveva aperto gli occhi quella mattina.
Si sentiva finalmente bene, soprattutto perché sapeva che non sarebbe stata una sensazione temporanea, destinata a svanire al termine di quella serata.
Avevano deciso di provare ad avere di più, di impegnarsi per fare andare bene le cose ed Ermal era certo che ci sarebbero riusciti.
Uscì dal camerino con il cellulare in mano, pronto a metterlo in modalità silenziosa prima di salire sul palco.
Fabrizio era un po' più avanti, stava facendo un video piazzato davanti alla porta del bagno. Ermal sorrise ricordando quante volte si erano trovati in situazioni simili nel periodo dell'Eurovision: entrambi con il cellulare in mano, pronti a scattare una foto o a registrare un video insieme.
Cliccò velocemente sull'icona di Instagram sul suo cellulare e avviò una storia, mentre raggiungeva Fabrizio.
"Bizio, levati dal bagno delle donne. Dai, che non è rispettoso" disse spingendo il più grande lungo il corridoio.
Poi, completamente vittima di tutta la felicità che stava provando, esclamò: "Ho trovato Bizio!"
Era felice come un ragazzino innamorato, come un bambino la mattina di Natale. E vedere sé stesso così felice riflesso in quello schermo gli fece capire davvero quanto dovesse essere grato a Fabrizio per tutta quella felicità.
"Sei consapevole di cosa stiamo provocando, vero?" disse Fabrizio camminando lungo il corridoio, i telefoni ormai rimessi in tasca e un sorrisetto stampato in faccia.
Ermal annuì sorridendo.
Certo che ne era consapevole. Sapeva perfettamente cosa provocava ogni minima interazione tra lui e Fabrizio.
C'era stato un periodo in cui quasi era stato infastidito dalle reazioni dei fan. Era stato il periodo in cui le cose tra lui e Fabrizio avevano iniziato a prendere una piega diversa, il periodo in cui Ermal si era reso conto che la notte trascorsa insieme a Sanremo non era stata solo una casualità, un momento di debolezza passeggero. E rendendosi conto che qualunque cosa ci fosse stata tra loro continuava a esserci, aveva iniziato ad avere paura delle reazioni degli altri, arrivando a reagire male ogni volta che qualcuno parlava di lui e Fabrizio insieme.
Aveva avuto bisogno di un po' di tempo per riuscire e farsi scivolare addosso ogni cosa e, anzi, arrivare al punto di essere contento di condividere parte della sua felicità sui social.
Era per quello che qualche giorno prima non si era fatto scrupoli a commentare la foto di Fabrizio con il soprannome che solo lui usava, seguito da un cuore giallo e uno blu. Ed era per quello che non si era fatto scrupoli a registrare quelle storie insieme su Instagram.
"Non sembra che te ne importi. È una novità" lo prese in giro Fabrizio.
Ma effettivamente era davvero una novità che Ermal fosse così indifferente alle reazioni che sicuramente avrebbe causato tra i loro fan.
"In realtà, credo di aver capito che se noi siamo felici, i nostri fan saranno felici per noi. Quindi onestamente mi fa piacere far vedere quanto mi rendi felice" confessò Ermal.
Poi si fermò in mezzo al corridoio e, prendendo il cellulare, disse: "Anzi, vieni qua che facciamo una foto."
Fabrizio si avvicinò a lui mettendosi in posa, così vicino a Ermal da sentire il suo respiro tra i capelli e il battito del suo cuore, che sembrava volergli uscire dal petto.
C'era qualcosa di diverso quella sera. Era come se finalmente avessero imparato a vivere il loro rapporto con naturalezza, fregandosene di tutto il resto.
"Se ci scrivi sotto che hai rincontrato tuo fratello dopo tanto tempo, questa notte ti faccio dormire sul pavimento" scherzò Fabrizio, mentre vedeva Ermal digitare velocemente qualcosa.
"Sei tu che hai iniziato a chiamarmi fratello. Io mi sono solo adeguato" rispose. Poi voltò il telefono verso Fabrizio facendogli leggere la didascalia dell'immagine e disse: "Va bene?"
Fabrizio sorrise alla vista del suo soprannome seguito da un cuore rosso e annuì.
Andava più che bene ed era fin troppo, considerato quanto si fossero nascosti fino a quel momento.
"La metto anche su Twitter. Lì però ci aggiungo anche un finalmente prima del tuo nome. Su Twitter sono più esigenti" disse Ermal scherzando.
Fabrizio si perse a guardarlo mentre fissava concentrato lo schermo del suo cellulare.
Aveva sempre pensato che Ermal fosse bello, in ogni momento e in ogni circostanza, anche alle 3 del mattino e con i capelli arruffati. Ma Ermal felice era decisamente la sua versione preferita.
Illuminava ogni cosa con il suo sorriso e sapere di essere causa di quella felicità lo faceva stare bene.
"Cosa canti questa sera?" chiese appena Ermal smise di prestare attenzione al telefono.
"Mi avevano chiesto di cantare Amara terra mia ma ho preferito scegliere qualcos'altro" rispose Ermal.
Fabrizio lo guardò stupito. Ermal solitamente non perdeva mai l'occasione di cantare la canzone di Modugno che gli aveva portato fortuna alla serata delle cover del festival del 2017.
"Non guardarmi così, tanto non te lo dico cosa canto. Lo vedrai."
"Non sarò qui quando canterai" gli ricordò Fabrizio.
In effetti secondo la scaletta Fabrizio avrebbe cantato a inizio serata e quindi lui ed Ermal avevano concordato di vedersi direttamente più tardi in albergo, dove Fabrizio lo avrebbe aspettato.
"In camera c'è il televisore. Accendi su Rai 1 e mi vedi" rispose Ermal con un'alzata di spalle.
La performance di quella sera era troppo importante, troppo personale per svelargli la sorpresa prima del tempo.
"Posso dirti solo una cosa" disse notando lo sguardo fintamente offeso di Fabrizio.
"Cosa?"
"Ricordati sempre che sei il mio punto fermo."
  Fabrizio non aveva capito cosa volesse dire la frase di Ermal.
O meglio, aveva capito il significato - era piuttosto ovvio - ma non aveva capito per quale motivo Ermal glielo avesse detto in quel momento.
Aveva anche provato a chiederglielo, ma Ermal aveva scosso la testa e aveva risposto: "Dopo capirai."
Ed effettivamente, quando il dopo era arrivato, aveva capito.
Ermal aveva cantato Almeno tu nell'universo e Fabrizio aveva seguito tutta l'esibizione sul televisore della loro camera d'albergo.
Gli si era stretto lo stomaco a vederlo così preso da quella canzone, così immerso in quelle parole. Gli si era bloccato il respiro quando alla fine della performance aveva visto i suoi occhi lucidi.
E il suo cuore aveva saltato un battito quando, sentendolo parlare con Bianca, aveva capito che per tutto il tempo Ermal aveva cantato per lui.
Aveva parlato di punti fermi, e finalmente Fabrizio aveva capito il perché di quella frase.
Era il suo punto fermo. Era il suo “almeno tu nell'universo”.
Afferrò il cellulare e cercò il numero di Ermal, avviando immediatamente la chiamata.
Ormai l'esibizione era finita, doveva essere sicuramente in camerino.
Il telefono suonò a vuoto per un po' prima che Fabrizio decidesse di riattaccare e inviargli un messaggio.
 Appena puoi chiamami. E muoviti a raggiungermi.
 Non vedeva l'ora di parlargli, di vederlo, di dirgli che ogni cosa di quella canzone la sentiva anche lui.
Che sarebbe sempre stato il punto fermo di Ermal, così come Ermal lo era per lui.
Passarono quasi venti minuti - durante i quali Fabrizio aveva quasi fatto un solco sul pavimento camminando avanti e indietro - quando finalmente Ermal lo richiamò.
"Ehi, finalmente!" disse Fabrizio rispondendo.
Ermal, dall'altra parte, sospirò. "Scusa. Riprendermi ha richiesto più tempo del previsto."
La sua voce era flebile e spezzata, aveva pianto.
"Che è successo?"
"È successo che ho deciso di cantare una delle più belle canzoni al mondo. E non mi sono accontentato di cantarla. L'ho interpretata, perché la sentivo talmente mia che non potevo cantarla e basta. Ed è stato troppo" spiegò Ermal.
"Hai pianto."
Non era una domanda. Conosceva Ermal troppo bene, non aveva bisogno di chiederglielo.
"Un po'."
Fabrizio rimase per un po' in silenzio, cercando di mettere in ordine i pensieri che gli vorticavano in testa.
Sentì Ermal ispirare rumorosamente, cercando di calmarsi dopo la crisi di pianto di qualche minuto prima.
Quando lo sentì finalmente più rilassato, si decise a dire: "Hai parlato di punti fermi prima di salire sul palco."
"Non volevo dirti che canzone avrei cantato, ma volevo che al momento dell'esibizione capissi che era per te."
"L'ho capito. Ma penso che ci sia molto di più dietro."
Ermal sorrise e annuì. "In effetti c'è."
C'erano un sacco di cose dietro quella canzone che Ermal non aveva mai tirato fuori e che ora invece sentiva di dover fare.
"Allora vieni in albergo. Non vedo l'ora di parlarne."
  Quando Fabrizio andò ad aprire la porta della camera e si trovò di fronte Ermal, non gli lasciò nemmeno il tempo di entrare.
Lo abbracciò sulla soglia, senza preoccuparsi che qualcuno potesse vederli.
Lo strinse a sé come non aveva mai fatto prima e sentì Ermal affondare il viso nel suo collo e respirare a fondo.
"Stai bene?" chiese in un sussurro, mentre erano ancora stretti l'uno all'altro.
"Sì, sto bene" rispose Ermal. Poi si scostò da lui e finalmente entrò in camera.
Si sfilò la giacca e la abbandonò sul bordo del letto, poi si passò una mano tra i capelli con un gesto svogliato.
Era stanco. Anzi, esausto.
Tutta la tensione accumulata nei giorni passati finalmente era scemata, lasciando solo una grande sensazione di stanchezza.
"Era una richiesta?" chiese Fabrizio all'improvviso, incapace di trattenersi ancora.
Doveva sapere cosa c'era davvero dietro quella canzone, quale fosse il vero significato che Ermal aveva scelto di attribuire alla sua esibizione di poco prima.
Ermal si voltò verso di lui comprendendo subito di cosa stesse parlando. "In parte. Una richiesta e forse qualche dubbio."
"Che vuoi dire?"
"In quella canzone c'ero io che ti chiedevo di essere il mio punto fermo, di restare con me nonostante tutto e tutti. E poi c'ero io che mi domandavo se sarò in grado di essere lo stesso per te."
Aveva scelto quella canzone perché la sentiva sua, in tutto e per tutto.
Ma quella sera, dopo che lui e Fabrizio avevano finalmente deciso di fare un passo avanti, se la sentiva cucita addosso più del solito.
Sentiva improvvisamente il bisogno di avere delle certezze, di chiedere a Fabrizio di stargli accanto davvero, di non abbandonarlo mai.
E allo stesso tempo si sentiva divorato dai dubbi, perché non era certo di poter dare a Fabrizio ciò che lui invece avrebbe preteso.
Ma Fabrizio, ancor una volta, era pronto a dissipare ogni dubbio è paura.
Raggiunse Ermal e gli prese il viso tra le mani, costringendolo a guardarlo.
Solo quando fu certo che gli occhi di Ermal - seppur leggermente lucidi e offuscati - fossero puntati sui suoi, disse: "Sei il mio punto fermo da quando ti ho conosciuto. Quello che c'è tra noi è il mio punto fermo. Noi siamo un punto fermo."
Ermal chiuse per un attimo le palpebre, costringendo una lacrima che fino a quel momento era rimasta intrappolata tra le sue ciglia a scendere lungo la sua guancia.
Fabrizio la asciugò via con il pollice, prima di aggiungere: "Sarò il tuo punto fermo fino a quando mi vorrai."
"Sempre, Bizio."
Il più grande lo guardò per un attimo, indeciso se rispondere con una battuta sul fatto che fosse improbabile riuscire a sopportarsi per sempre, oppure se dirgli semplicemente che era disposto a regalargli ogni minuto della sua vita.
Sotto lo sguardo lucido di Ermal, però, la risposta possibile poteva essere una sola.
"Allora sempre, Ermal."
"Come abbiamo fatto ad andare avanti così fino a oggi? A credere che ci sarebbe bastato vederci ogni tanto e avere un rapporto senza impegno?"
Fabrizio scosse la testa. Non aveva davvero idea di come avessero fatto.
Si amavano. Era palese ormai.
Quindi anche lui non poteva che chiedersi come avessero fatto a mantenere un rapporto simile per oltre due anni.
Inspiegabilmente ce l'avevano fatta, ma a un certo punto era diventato insostenibile.
Sarebbero crollati da lì a poco, ecco perché Fabrizio quel giorno aveva ceduto.
E vista la reazione di Ermal, era felice di averlo fatto. Se non altro avrebbero provato a portare avanti una relazione normale, ben diversa da ciò che avevano avuto fino a quel momento.
"Comunque, a prescindere dalla crisi che ti ha provocato quella canzone, hai cantato benissimo questa sera" disse Fabrizio dopo qualche attimo, cercando di alleggerire la tensione.
"Sì?"
Fabrizio annuì. "Perfetto. Non che avessi dei dubbi al riguardo..."
"Temevo di combinare un disastro, di rovinare una delle canzoni più belle che siano mai state scritte" confessò Ermal.
Ora che l'esibizione era passata e aveva confessato a Fabrizio le sue paure, si sentiva molto meglio.
Si era tolto un peso che lo tormentava da giorni e finalmente sentiva di poter respirare di nuovo.
"Sei stato bravissimo. Mia Martini sarebbe orgogliosa di te" disse Fabrizio con un sorriso.
Ermal sorrise a sua volta prima di buttarsi di nuovo tra le sue braccia.
Sarebbe stato difficile addormentarsi quella sera, con tutte quelle emozioni che ancora gli scorrevano dentro, ma con Fabrizio accanto non sarebbe stato un problema.
Finalmente si sentiva bene e nemmeno la prospettiva di una notte insonne sembrava spaventarlo.
Tutto era finalmente al posto giusto.
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un-ragazzo-usato · 5 years ago
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11 Aprile 2020 (quinta pagina)
Caro Diario,
Arrivati di nuovo a zia lisa ma questa volta leggermente più grande e senza sentimenti oltre la rabbia, inizia la terza media, alla carducci.
Ho riconosciuto qualche compagno delle elementari, almeno vedevo qualche volto familiare anche se tanto non ci parlavo, almeno così non dovevo fare nuove “conoscenze” e farmi prendere da altre persone per il culo.
Bhe qui conobbi Michelangelo e Gabriele, mi parlavano stranamente e mi volevano far giocare assieme a loro, solo che qualche volta mi insultavano come se erano superiori a me, io non rispondevo, perchè pensavo fosse normale come se si scherzasse ma non erano scherzi, ogni volta che finita la scuola mi invitava a casa sua gabriele, michelangelo saliva ma a me dicevano di rimanere sotto, perchè dovevano “sistemare” casa, in realtà è che non voleva farmi vedere dai suoi genitori, perchè ero trasandato, anche se mi lavavo avevo gli stessi vestiti, mia madre non mi comprava niente.
Il mio armadio era composto da 2 o 3 mutande, accompagnate da 2 magliette, un jeans ed una tuta, a scuola andavo con gli stessi indumenti, e non passò molto tempo che oltre agli insulti di loro due si aggiunse tutta la classe, tranne di un ragazzo Natanaele oppure ora in francese nathanael, perchè ora è in francia a seguire il suo sogno di suonare pianoforte, era molto bravo, nelle ore di musica si sentiva quanto era bravo, sapeva suonare molte canzoni con una pianola, incredibile, era il mio compagno di banco e non mi trattava con superficialità anzi mi parlava normalmente anche se ero trasandato, forse non lo notava oppure aveva visto dentro di me qualcosa che non capisco tutt’ora.
In classe sentivo bisbigliare il mio nome ogni volta durante la ricreazione, mi sentivo osservato e criticato, volevo urlargli contro cosa subivo ogni giorno da mia madre e cosa stavo passando, ma mi fermavo perchè tanto in fondo non mi importava, non erano miei amici, ero abituato a questa situazione e a me andava bene così.
Comunque durante l’anno circa dopo due mesi dall’inizio della scuola, incominciai ad andare al doposcuola, da una ragazza universitaria, molto carina, era pure dolce, migliorai i voti un pò, mi insegnò a ripetere seguendo uno schema logico e non a pappagallo come ho sempre fatto.
Il doposcuola iniziava alle 15:00 e la scuola finiva alle 13:15, in quel lasso di tempo non tornavo a casa a mangiare, mia madre si seccava a venirmi a prendere e fare avanti e indietro, quindi ogni giorno mi dava un euro per mangiare un pezzo di tavola calda e andavo nel bar sotto casa del doposcuola, alla cassiera dopo un pò di tempo iniziò anche a regalarmi uno o due pezzi, forse di tasca sua, penso che gli facevo pena vedermi lì ogni giorno ad aspettare 2 ore, e quando non andavo al bar e volevo dormire, mi nascondevo a vulcania e mi sdraiavo in una panchina, una volta si avvicinò un barbone e mi chiese se avevo una cartina, non sapevo cosa fossero vi giuro, all’inizio pensavo chiedesse una cartina dei calciatori panini, risposi di no a prescindere, non so chi era e non volevo parlare con lui, volevo continuare a dormire. 
Quando finivo al doposcuola verso le 18:00, certe volte mia madre non mi veniva a prendere quindi ero costretto a farmela a piedi, da catania a zia lisa, bhe d’altronde come ogni mattina, oppure certe volte riuscivo a prendere un bus che passava di lì e mi risparmiava un sacco di fatica.
Una sera che tornavo nel condominio si avvicinò un ragazzo, mi ricordavo di lui, abitava di sotto, ora non so, mi ricordo di lui perchè ogni domenica metteva canzoni napoletane e cantava a squarcia gola ahah, comunque mi disse se gli potevo dare una mano per una cosa che gli faceva prendere soldi senza fare niente, mi sembrava un ottima occasione per poter prendere qualcosina e mangiare un pò di più, pensavo solo a mangiare in quel tempo, nessun gioco, nessun amico con cui uscire, niente di niente, quindi volevo fare qualcosa e poi ha detto senza fare niente, caspita come ero curioso, il mio vicino di casa che mi chiedeva una mano? anche senza conoscermi bene, mi vedeva solo uscire di casa e tornare tardi.
Mi portò da un gruppo di ragazzi, mi presentai, ero nervosissimo, a prima vista erano zaurdissimi, parlavano solo il siciliano, ci credete che imparai il siciliano da loro? Comunque mi spiegarono cosa dovevo fare assieme al ragazzo, dovevo solo portare dei “pacchetti” dove dicevano loro, delle persone mi avrebbero pagato, non dovevo dire niente, e in questo ero molto bravo, d’altronde la mia vita è stata piena di bugie, e mi dissero ti daremo una parte di questa cifra, così potrai comprarti tutti i giochi che vuoi, non sapevo manco dove comprarli i giochi ma dissi di si, accettai l’offerta era come se per una volta la fortuna mi avesse visto, quasi ogni sera, tornato dal doposcuola andavo da questi ragazzi, mi facevano portare dei “pacchettini”, dopo aver inserito sul mio telefono la via da raggiungere, così col gps mi sarei sbrigato prima ad arrivare in quel punto, inoltre mi spiegavano chi dovessi aspettare, mi dicevano il colore del giubbotto e dei pantaloni della persona a cui avrei consegnato quel pacchetto, quando mi guardarono alcuni avevano la faccia sorpresa o stranita, come se non si aspettassero un ragazzino.
Quando mi davano i soldi in mano e caspita quanti soldi, non ne avevo mai visti così tanti, sopratutto per un pacchetto che non sapevo neanche cosa contenesse, ad oggi penso proprio che quello che portavo era della droga e anche pesante da quanti soldi mi davano, si parla di centinaia di euro se non anche di più a pezzi di 50, 20 caspita, certe volte pensavo di prendermi qualche soldino, però mi fermavo da questo impulso perchè sapevo che mi sarebbe finita molto male, anche perchè quando tornavo dalla consegna mi accorgevo che nascosto c’era sempre un ragazzo del gruppo, come se mi tenesse d’occhio.
Alla consegna mi davano 5 euro o certe volte 10, per me erano tantissimi, per la prima volta potevo prendermi da mangiare qualsiasi cosa senza limitarmi in quel cazzo di bar ero felicissimo . Tanto mia madre non si accorgeva di quanto avevo in tasca, non controllava mai il mio zaino (il tutto tra andata, consegna e pagamento durava 15/20 minuti) mi chiamavano con un soprannome i ragazzi, il corriere, mi sentivo speciale cazzo, quanto era bello, anche se oggi so che rischiavo il carcere e la morte forse, il cliente poteva sempre accoltellarmi e prendere tutto, d’altronde avevo 13 anni non sapevo manco come difendermi.
Tornando a casa, vedevo mia madre sempre al pc a giocare ai giochini di facebook, almeno quando non ero con lei il pomeriggio non andavo al bingo ad aspettarla. Certe volte anzi spesso e volentieri si arrabbiava per qualsiasi cosa e se la prendeva con me, ricordo che mi difendevo anche con la sedia, e lei mi rideva in faccia come se era divertita da quello che vedeva. Una sera mi svegliai, perchè stavo sognando che questa storia non sarebbe più finita, ero stanco, volevo farla finita, andai in cucina, presi un coltello enorme, come quelli che vendono coi set knife per cucina, e guardai mia madre pensando solo di accoltellarla mentre dormiva, avevo pensato ad un piano in 3 minuti, forse era pure un piano perfetto, che ora vi spiegherò, dopo averla accoltellata, avrei sminchiato la serratura facendo pensare ad uno scassinamento, messo qualcosa fuori posto, sparire per qualche giorno, far nascondere il coltello dai ragazzi per cui lavoravo e un giorno prima  di andare dalla polizia farmi picchiare da loro facendo pensare ad un rapimento, si forse nemmeno qualcuno di malato avrebbe pensato ad un piano così però non lo feci tornai in cucina e lo posai perchè se mi avrebbero preso, non avrei migliorato la mia situazione. Dopo qualche giorno da questo episodio pensai una volta di volermi suicidare, buttandomi dal balcone, abitavamo al terzo piano, non so se era sufficiente per morire, era un momento che avevo la testa vuota, non pensavo a niente guardavo dal balcone ,sopra ad una sedia, dritto, un passo bastava un passo ma fui interrotto dalla voce di mia madre che mi chiamava, mi sedetti immediatamente come se non fosse successo niente a guardare quel panorama di palazzi di cemento.
Ma tornando al discorso della scuola e tralasciando tutto questo per non dilungarmi troppo, l’anno stava finendo e quella del doposcuola mi "aiutava” a fare la tesina d’esame, cioè ha fatto tutto lei al pc, io ho solo cercato di studiare, e sempre alla fine dell’anno mi aspettò una sorpresa inaspettata, alla mia insaputa si stava muovendo qualcosa di grosso, qualcosa che ha cambiato la mia vita, il compagno di mia madre, ha contattato mio padre, forse per vendetta verso mia madre che l’ha lasciato o non so, sta di fatto che una volta me lo trovai davanti la scuola, assieme alla sua compagna, quanto ero felice di vederlo, non lo vedevo da anni cazzo, ci sedemmo al C&G per parlare, mi chiesero se volessi andare da loro, forse perchè avrei fatto 14 anni e potevo decidere da chi stare, comunque sta di fatto che prima degli esami scritti, io scappai di casa, ero partito la mattina per fare la prima parte degli esami scritti, dopo averli finiti dovevo andare dal doposcuola, la chiamai e gli dissi che non ci sarei andato perchè stavo andando a casa.
Non andai a casa, mi passò per la testa che volevo solo andare da mio padre e finire di vivere quell’inferno, mi feci catania -battiati a piedi, ricordavo ancora dove abitava, l’unica cosa buona che vedo in me tutt’ora è la memoria, penso che non scorderò mai qualsiasi cosa veda e senta, comunque arrivato a battiati, tutto sudato suonai a casa di mio padre, mi aprì giovanna, rimase a bocca aperta, chiamò mio padre e pure lui non fù da meno, mi feci una doccia, gli parlai di tutto quello che avevo passato e nel frattempo denunciammo la mia “scomparsa” ai carabinieri perchè su facebook c’era il mio annuncio della mia presunta scomparsa e l’ultimo posto dove mi avevano visto era vulcania, leggevo le chat in tempo reale di mia madre che usava il mio facebook dal suo pc e parlava con quella del doposcuola che gli diceva che le avrei chiamato dicendo che ero andato a casa e i post che stavano inviando i miei presunti “amici” “preoccupati” della mia scomparsa pezzi di merda fasulli.
I carabinieri dopo che avvertirono mia madre, ci dissero di andare dai carabinieri, davanti al palazzo di giustizia e di andarci assieme ad un avvocato, anche a lei raccontai tutto questo.
Arrivati sul posto, non so come, fu in meno di un secondo, attorno alla macchina di mio padre c’erano un sacco di agenti di polizia che volevano far scendere mio padre dalla macchina perchè mia madre aveva detto loro che mi aveva rapito, l’avvocato non ricordo cosa gli disse ma li fermò, e ci dirigemmo dal comando dei carabinieri, dove mi fecero rilasciare una “testimonianza” che fu storpiata dal collega di mia madre che faceva entra ed esci, lo scoprì dopo che l’avvocato mi chiese: “(nome mio) ma hai detto tutto?” ed io risposi ovviamente di si dato che stesi 2 ore a parlare, “lei mi fece vedere il foglio e mi disse, allora perchè qui c’è la tua firma su queste due riga?”
Oggi so come hanno fatto, perchè sotto a quel foglio che io firmai ce ne era un altro, ed essendo molto sottili non ci feci caso che erano due, e firmai quella falsa.
L’avvocato disse ai miei genitori che sicuramente c’era qualcosa che non andava e infatti era così.
Comunque quel foglio non contava così tanto ,perchè andai lo stesso da mio padre e successivamente fui ascoltato da altri avvocati e psicologi che confermarono quello che stavo dicendo, tolsero la patria potestà a mia madre e iniziai a vivere con mio padre.
E qui continuerò dopo
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jonitriantisvansicklei · 5 years ago
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I CONTABILI DELLE FOGLIE
(di Fiorenza Adriano).
Un fiume pulito e ricco di acque divideva fra loro due regni, entrambi belli, rigogliosi e verdi di prati e di boschi. Governavano i regni due sovrani orgogliosi delle loro terre prospere e fertili. I re erano amanti della pace e avevano consolidato fra di loro dei buoni rapporti. Ma re Bard si era innamorato della quercia di re Silvan e ne era invidioso.
Perché si può competere sulla ricchezza di un castello, sull'abilità nel costruire un ponte o sulla magnificenza di una festa, ma come si può andare alla pari con una quercia, che ha bisogno di secoli per diventare immensa e possente?
Collocata al centro di un prato proprio davanti al castello, la quercia di re Silvan era ammirata e famosa. Mai si era vista, a memoria d'uomo, una pianta così così grande e spesso il re ospitava sotto le sue fronde banchetti per i nobili, ma anche balli e canti del popolo.
Quando Bard veniva in visita, Silvan non mancava mai di accompagnarlo a cavallo e di fermarsi presso la quercia, fingendo di non notare la sofferenza di Bard, che tanto ci pativa.
Bard aveva uno scudiero che gli era gradito, un ragazzo bruno e intelligente, attento a tutto e di modi educati. A volte il re parlava un po' con lui, perché era tanto saggio da dargli anche qualche consiglio, essendo dotato di un buon senso popolano e semplice che spesso a corte mancava. Il ragazzo si chiamava Carl e nessuno come lui poteva dire al re se sarebbe piovuto il giorno dopo oppure no ed altre cose alquanto utili da sapere.
Un mattino il re si lasciò scappare un sospiro e manifestò a Carl il suo dispiacere: “Che cosa darei per avere una quercia grande come quella di re Silvan!” disse.
Carl aveva modi pacati ma cervello veloce e gli vennero in mente subito due cose: che in realtà Bard una quercia così grande ce l'aveva e che lui avrebbe saputo bene che cosa chiedere al re in cambio di questa quercia, ma si trattava di un dono talmente grande che era da pazzi chiederlo. Carl si era innamorato della figlia minore del re e non riusciva a togliersela dalla testa. La ragazza aveva lunghe trecce rosse e lo scudiero aveva incominciato ad ornare i cavalli con trecce simili, alla coda e alla criniera. Il re aveva gradito la cosa e non sospettava che Carl pensasse in realtà solo alle trecce di sua figlia.
Dopo la confidenza del re, Carl si prese un po' di tempo per riflettere. Poi disse: “Maestà, scusate il mio parlare, ma veramente voi dareste qualunque cosa in cambio di una quercia come quella di re Silvan?”
“Qualunque cosa che io potessi dare!” rispose il re.
“Maestà, io posso darvi questa quercia, ma il dono che vorrei chiedere in cambio è talmente grande e al di sopra di ogni giusta ragionevolezza che le mie labbra non osano esprimerlo.”
Il re rimase sbalordito. Guardò il ragazzo e disse: “Che storia è mai questa? Come puoi tu darmi una quercia e che cosa vorresti in cambio?”
Carl arrossì: “Maestà, la quercia è già vostra, da sempre, ma solo io conosco il luogo in cui si trova. Ed è vostro da sempre il dono che, se potessi osare, il mio cuore impudente vorrebbe chiedere.”
Il re era senza parole dallo stupore. Infine disse: “Dunque nel mio regno c'è una quercia grande come quella di re Silvan,? E tu sai dove si trova? Voglio andarla a vedere subito, e onorerò la mia parola, dandoti in cambio quello che vorrai.”
Partirono e Carl condusse il re lontano, verso un luogo in cui la vegetazione selvatica aveva da tempo reso un bosco inaccessibile. Lì giunti, non si riuscì però ad entrare perché i rami e le spine strappavano i vestiti e ferivano i cavalli.
Re Bard dovette frenare la sua impazienza e tornarono sul posto il giorno dopo, con alcuni uomini che aprirono loro un sentiero. Dopo ore di attesa, di lavoro e di lento procedere, riuscirono finalmente a raggiungere la quercia e per il re fu come raggiungere il suo cuore, la cosa più sognata.
Al centro di una radura si ergeva la quercia più maestosa, più massiccia e imponente che si potesse immaginare.
“Questa è più grande di quella di re Sivan!” esclamò il re che pareva impazzito dalla gioia e si era al momento dimenticato di quello che avrebbe potuto chiedere Carl in cambio.
Nei giorni seguenti a corte e in tutto il regno non si parlò di altro che della quercia. La gente del popolo si recò a vederla, il re trascinò sul posto tutti i ministri e i cortigiani e chiunque gli capitasse a tiro e tutti affermarono che la quercia era più grande di quella di re Silvan. Bard era felice, e ancora non gli veniva in mente che avrebbe dovuto fare un dono a Carl.
Se ne ricordò un mattino, vedendo che il ragazzo pareva triste e immerso nei suoi pensieri. Gli tornò in mente la sua promessa e rise, siccome era molto di buon umore: “Ragazzo, cosa temevi, che mi fossi dimenticato che ti devo qualcosa? Dimmi su dunque, che cosa vuoi?”
Carl si sentì avvampare e non riusciva a rispondere: “Maestà, non oso chiedere...”
“Basta! Ti ordino di parlare e di chiedermi quello che vuoi!”
“Maestà, io oso avere in mente una sola cosa da tempo ed è vostra figlia Carlotta” sbottò finalmente Carl
Fu il re adesso a sentirsi avvampare: “Mia figlia! Tu...mia figlia?”
La cosa era troppo enorme, inaudita. La mano gli corse istintivamente alla spada e Carl arretrò, spaventato. Fu un momento che parve eterno, poi il re si calmò e riuscì a pensare. Aveva avuto cinque figlie. Una l'aveva sposata al re di Francia, l'altra al re di Spagna, la terza al principe di Turlandia, la quarta al sultano dell' Impero dell' Asia. La minore non l'aveva ancora chiesta nessuno e non era una gran bellezza. Ma...una cosa simile, si poteva fare? Il re era vedovo e non avrebbe neppure dovuto consultarsi con la regina. Alla fine disse: “Manterrò la mia parola e avrai mia figlia, ma a due condizioni: che mia figlia sia contenta e che la mia quercia sia ufficialmente dichiarata da tutti più grande di quella di re Silavan! Intanto ti nomino marchese, così se dovrai sposare la principessa non sarà una cosa disonorevole per nessuno.”
Così Bard fu nominato marchese e gli fu assegnata una tenuta con una fattoria e dei campi, la tenuta di Pratobello.
La notizia della quercia arrivò alle orecchie di re Silvan che non ne fu contento e non gli giunse inaspettato l'invito di re Bard che lo pregava gentilmente di onorarlo della sua presenza per un banchetto. Ci andò, con tutta la sua corte, e già sapeva come sarebbe andata a finire. Erano gli ultimi giorni di maggio, il cielo era azzurro, la natura incantevole con la sua magnificenza di erbe e di fiori, e re Bard aggregò tutti i suoi ospiti in una carovana per andare a vedere la sua quercia. Quando re Silvan la vide ci rimase male e disse: “Caro Bard, si potrebbe dire che le nostre due querce paiono quasi gemelle, ma la mia è certamente più grande!”
Re Bard si oscurò, ribattendo: “Questo ancora non si sa, chi lo può dire, non le abbiamo ancora messe a confronto.”
Al nuovo scudiero del re scappò da ridere e nascose la faccia fingendo un colpo di tosse, pensando a come si potesse fare a mettere a confronto due querce lontane fra di loro.
“Alla base del tronco la mia misura tre uomini con le braccia allargate e un cavallo...”, insistette re Sivan.
“A parte che il cavallo non conta”, disse re Bard, “la base del tronco non è tutto, bisogna considerare l'altezza, l'ampiezza della chioma, il numero e la grandezza dei rami...”
Allo scudiero scappava sempre da ridere e dovette allontanarsi fingendo ancora di tossire. I due re, con l'appoggio delle rispettive corti, arrivarono alla conclusione che le due querce si dovessero misurare in qualche modo per stabilire una volta per tutte e di fronte al mondo quale fosse la più grande. Sul modo di misurarle non se ne veniva a capo.
I sovrani si erano infervorati e stavano perdendo il lume della ragione. Qualche ministro propose di convocare degli esperti e di lasciar fare a loro una valutazione. Ma chi erano questi esperti? Forse chi doveva acquistare un albero per farne una nave, o una casa, o legname da rivendere, e doveva decidere il prezzo da offrire in base al presunto volume dell'albero? Forse loro.
E nei giorni seguenti non si perse tempo e fu convocato addirittura il capomastro di un cantiere navale, che fu fatto venire da un regno abbastanza lontano che si affacciava sul mare, a spese equamente divise tra i due contendenti e sicuramente non di parte.
Il capomastro si studiò ben bene le due querce, con i due re ansiosamente al seguito. Alla fine concluse: “Difficile dire. Una valutazione esatta è impossibile. I due alberi paiono quasi gemelli e forse hanno la stessa età. Per poter dire con sicurezza quale sia il più poderoso, bisogna abbatterli, vedere così quanti anni hanno e poi pesare il legname. Solo così si potrà dire.”
A questo punto, la ragionevolezza se n'era andata da un pezzo dall'animo dei due regnanti e concordarono rabbiosamente: bisogna abbattere, e allora abbattiamo!
Lo scudiero non rise più, angosciato, torvo torvo, appena finito il suo servizio andò a trovare il marchese di Pratobello, cioè Carl, che era suo amico e che non si era affatto montato la testa con il suo marchesato. Gli riferì la faccenda e Carl ne fu alquanto turbato. C'era con lui la madre, già anziana, contadina che aveva vissuto fra i pascoli e i campi e conosceva il valore delle cose.
“I potenti non sanno amministrare i doni di Dio”, disse la donna. “Pensano solo a se stessi e distruggono con noncuranza quello che la terra ha impiegato secoli a realizzare. Carl, figlio mio, tu hai sempre avuto una testa fine e il re ti stima. Vai dunque a parlargli, fatti venire in mente qualcosa.!”
Carl andò dal re, pensando e pensando finché un'idea gli venne, alquanto bislacca e strana, ma sarebbe perlomeno servita a prendere tempo, in attesa che ai sovrani tornasse la ragione.
Il marchese si presentò al re e gli disse: “Maestà, abbattere le querce è un peccato! Io vi chiedo di ascoltare l'idea che mi è venuta, che potrebbe piacervi e forse risolvere la cosa.”
Il re gli disse di parlare e Carl proseguì: “ Arriverà l'autunno e le querce perderanno le foglie. Ad una ad una cadranno al suolo. Se un gruppo di contabili fosse sempre presente sul posto, se riuscissero a contarle tutte, alle fine la pianta che ne avrà perse di più potrà sicuramente essere considerata la più grande, non si può sbagliare.”
L'idea era talmente folle che al re piacque. Piacque pure a re Silvan e i due si trovarono d'accordo. I contabili dovevano essere stranieri, imparziali, e ci fu tempo fino all'autunno per cercarli e convocarli, a spese equamente divise tra i due sovrani. Vennero in tanti, perché ce ne volevano parecchi. Si fecero le cose per bene. Ogni contabile aveva, intorno all'albero, un suo pezzo di suolo ben delimitato e doveva contare, con l'aiuto di un ragazzino che faceva da supporto, le foglie che cadevano nel suo pezzo. Quando l'autunno incominciò a spogliare le piante i contabili furono al lavoro ed erano sette per ogni albero, seduti ad un tavolino, con la penna d'oca e un librone.
Naturalmente le foglie cadono anche di notte e questo complicava le cose. I più anziani lavoravano di giorno, i più giovani, con la vista più acuta, erano in servizio di notte. Sette contabili giovani davano il cambio ai sette più anziani, quando il sole volgeva al tramonto. Per avere illuminazione, c'erano uomini che reggevano ovunque torce e accendevano piccoli falò, mentre le donne portavano da mangiare e da bere. Insomma, fu un lavoro collettivo che non procedeva male e, per quanto assurdo, sembrava poter dare un buon risultato. Fu lungo, estenuante, faticoso per tutti, tranne che per le querce che dolcemente, senza alcuna premura, persero le loro foglie secondo i loro ritmi naturali e l'aiuto del vento che, per fortuna, non soffiò mai troppo forte.
Il tempo asciutto rese la faccenda possibile, ma un giorno Carl si presentò al re Bard e gli disse: “Fra tre giorni pioverà” e il re sapeva che, se lo diceva lui, era sicuro.
“Come faremo?”, si lamentò il re. “Contare le foglie sotto la pioggia, e specialmente di notte, sarà impossibile. Si spegneranno le torce, come faremo?”
Carl si era già preparato la risposta da dare al sovrano, in quanto aveva previsto la domanda. Disse: “Maestà, facciamo tessere delle tele, che saranno come le reti dei pescatori. Lasceranno passare l'acqua e tratterranno le foglie. Saranno posizionate attorno agli alberi ad una certa distanza da terra e dovrebbero essere efficaci.”
Così fu fatto, e allora tutte le donne a tessere, veloci. Intanto un messaggero portava a re Silvan le notizia e il re accoglieva la proposta e si adeguava facendo tessere a sua volta delle reti.
Piovve per due giorni e poi tornò il sereno. Le foglie sulle reti furono scrupolosamente contate e non se ne perse una. Si tornò a contare con i contabili. Per fortuna il lavoro ormai volgeva al termine, i rami erano quasi spogli. Gli ultimi giorni furono estenuanti e la tensione cresceva. Chi avrebbe vinto la gara, e con quali conseguenze? Naturalmente Carl sperava nella vittoria di Bard, per poter sposare la principessa, se lei l'avesse voluto, ma non era affatto sicuro di come sarebbero andate le cose.
Silvan annunciò di aver finito la conta. Due giorni dopo, anche Bard.
Si riunirono tutti nel castello di re Bard. I contabili chiesero tempo per trasformare in cifre tutti i segni di vario tipo che avevano sui loro fogli. Ci vollero ancora giorni e dovettero inventarsi dei numeri nuovi, siccome non ne conoscevano abbastanza. Si misero d'accordo e inventarono “il fascione”.
Finalmente, nella massima tensione possibile, davanti ai due re e alle loro corti, i rappresentanti dei due gruppi di contabili delle foglie diedero i loro numeri.
La quercia di re Bard: un fascione e tredicimila e otto foglie. La quercia di re Silvan: un fascione e tredicimila e nove foglie.
A re Bard si fermò il respiro, tutti vociarono, re Silvan esultò. Re Bard si rizzò sul trono e strillò: “Noi non accetteremo di perdere per una foglia! Sarà guerra, la decideremo con le armi!”
“No!” esclamò Carl facendosi avanti. “Ho qualcosa da dire! Stamattina sono passato sotto la nostra quercia e ho visto che su uno dei rami più alti, lassù in cima, c'è appesa ancora una foglia!”
Ci fu gran trambusto, corsero tutti a vedere e si, lassù, appena visibile tra i rami, era rimasta appesa una foglia. Carl respirò di sollievo: che cosa sarebbe successo se il vento l'avesse staccata prima che potessero vederla? Una guerra? Una guerra per una foglia?
A questo punto non c'erano dubbi sull'assoluta parità del verdetto. Le querce erano davvero gemelle, identiche nel numero di foglie.
I re si calmarono, ognuno si ritirò a casa sua e fu come se nulla fosse successo. Salve le querce, salva la gente, e la principessa?
Carl non ci sperava più, finché un giorno, e si era ormai in inverno e la neve copriva la terra, re Carl lo mandò a chiamare e gli disse: “Ho parlato con mia figlia e mi ha detto che è contenta. Questa primavera vi sposerete con la mia benedizione. Sono rinsavito, ho riflettuto e ho capito che le due querce gemelle sono un dono del cielo, che ci vuole fra di noi tutti fratelli. Mia figlia non potrebbe avere marito migliore di te, che hai sempre dimostrato sagacia e buon senso e inoltre sai quando pioverà e non è il caso di preparare banchetti all'aperto.”
Carl si inginocchiò, felice, ed esclamò: “Lunga vita al re, lunga vita alle querce!”
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yesisilviogarofaloposts · 5 years ago
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viaggio a corfu
giovani belli e attraenti alticci pazzi e pieni di aspettative l’alcool ci faceva sentire che avremo rivoltato l’isola cose folli sarebbero successe sbornie ragazze mazzate risate una due settimane da scorrribbandare come scunizzi in vacanza pronti a piombare su ogni pollastra che ci sarebbe capitata. in mente tutti quanti in due settimane la sfida una grande scopata io piccolo timido e indifeso non sapevo di essere il prescelto insieme a un altro dello compagnia gli altri affogati nelle sbronze piu colosali l’alcool sarebbe stato la loro amante peccato per loro loro sottofondo io il protagonista giornate di pura follia . arriviamo in una pensione una villa a due piani piena di camere vista spettacolare panorama mozzafiato tutto era iniziato ci riposiamo ci svegliamo io nudo con il cingillo al vento mi affaccio a quello spettacolo di mare e omaggio l’isola con un buongiorno mondo il mio amico apre gli occhi mi vede e ride che cazzo fai nudo alla finestra volevo una ragazza al risveglio no le tue natiche che svolazzano al mio cospetto mi hai traumatizzato ci vuole una sbornia corro vado a comprare quello che mi capita sotto tiro dal supermarket piu vicino torno ci riuniamo iniziamo abere brindisi cordiali  ci sfidiamo a poker chi perde beve si fa orario di pranzo una bidonata di pasta tampona la nostra fame galoppante  iniziano i gavettoni colpisco uno direttamente in faccia gli esplode l’acqua su tutta la sua faccia lui mi guarda incazzato te la faro pagare cazzo la sera si avvicina non aspettavamo di meglio le discoteche pullulano di ragazze e musica shiuma alcool e follia noi non attendavamo di meglio ancora un’altro giro di birre vado a comprarle torno arrivo qualcosa mi puzza di strano quello che si era incazzato aveva cagato in una bacinella e l’aveva nascosta nella stanza mi incazzo per poco finiamo a mazzate li volevo rovesciare la sua merda addosso unìaltro gavettone in piena faccia con i suoi ricordini che gli incipriano la faccia per poco parte il colpo mi bloccano la rissa è sedata ci facciamo una grande risata per poco volava merda su tutta la villa ,che avrebbe detto il padrone se avrebbe visto le pareti da bianche ad opere d’arte sul marroncino imbrattate come se un artista avesse voluto schizzare colori a cazzo di cane per dare un tocco di entusiasmo a questa vacanza che iniziava gia con questi buoni propositi. be ultimo giro ingollamo tutta la birra assetati come se fosse acqua nel deserto siamo pronti ci avviamo la prima serata riscaldamento quello piu sciolto e famelico il sottoscritto scherzo approccio e ciao gioia e cia bella baci baci vuoi ballare sempre rispettoso ma molto intraprendente l’alcool mi dava il giusto tono 4 serate passate tra discoteche sbornie e approcci falliti con le ragazze un po di strategia la discoteca che frequentavamo non era il posto giusto le ragazze se la tiravano noi ci avvicinamo loro si allontanavano noi non le cagavamo loro si allontanavano noi parlavamo tra di noi loro ci guardavano losco io ballavo e non me fregava niente mi divertivo aspettavo il momento buono ma cavolo sembrava che ogni maschio la dentro veniva infettato dalla peste bubbonica mentre le ragazze erano in quarantena la schiuma copriva le manate in culo e sulle tette per fortuna non capivano da dove arrivano le mani e gli schiaffi andavano su chi non c’entrava niente noi a morire dalle risate uno si è preso uno scuppolone in faccia che era segnato a vita un tatoo alla mike tyson a cinque dita e poi il caso ha fatto scoccare la scintilla. noi eravamo in preda alla figa io stavo tranquillo studiavo cercavo di rendermi conto qual era il posto giusto per rimorchiare un posto con musica bassa e possibilita di conversazione.avevamo adrenalina in corpo troppi soldi spesi volevamo iniziare a rubare una borsa qualcosa dal supermarket per risparmiare io feci la cazzata che mi permise di conoscere una sventola dalle mille e una notte o da mille notti solamente .stavamo nella solita discoteca ci eravamo organizzati per il colpaccio una borsetta io me ne stavo buono al bar a bere il mio vodka redbull azzo vedo due tipi con una ragazza la borsetta piccola sul bacone se lo faccio sono un coglione tac tutti e tre si girano scatta l’improvvisazione la prendo scompaio nella folla mi dileguo esco il mio amico mi segue il bodiguard li fa un cenno lui non capisce si prende un manrovescio un’altro mi segue io me ne accorgo sparisce la borsetta dalle mie mani lui mi prende ritorna siamofotografati non possiamo piu entrare sai che c’è le fighe sono d’oro voi c’avete le mani pesanti eun bene che abbia fatto sta cazzata ci leviamo da questo posto andiamo all’ old tree musica bassa poca gente si balla vedo quella seduta su uno sgabello io dico al mio amico invitiamole aballare per amor di di dio cicchetto siamo pronti balliamo fenomanale milanese piu grande non vi dico l’armamentario ci scambiamo il numero è fidanzata io le dico be se cerchi compagnia chiamami lei non ci contare  il lido è piccolo io ci incontreremo baci addio. il giorno dopo la vedo saluto mi fermo li non insisto il secondo giorno la fermo ci scherzo  a lei piace la stuzzico lei provocante asseconda attimi di rimorchio scappa e fuggi va avanti per un’altro e poi lei si fa sentire usciamo ho voglia di farmi un giro affitto una moto era la mia prima volta andavo una bomba la carico sul sellino nel viaggio le dico sai e la prima volta che porto un cinquantino lei scanta ma si tranquillizza ero lucido tranquillo e sicuro la porto su una spiaggia tranquilla bella come lei sabbia dorata come la sua pelle occhi verde acqua come il mare blu cristallino col fondale abissale lei nuota io distante le parlo poco le lascio spazio lei mi confida sei diverso mi lasci liberta non mi stai attaccato io be non siamo niente mi sto godendo la giornata e la compagnia schivo passiamo molto tempo in silenzio quel silenzio era mille parole era come se ci stessimo parlando con il corpo lei era sempre piu  a un passo dall’avvicinarsi io non facevo niente lasciavo che lei si decidesse . la giornata fini lei era stata bene mi disse non posso piu vederti sono fidanzata è sbagliato be allora dissi arriverderci sono stato bene anche io buona vacanza nessun cenno della minima importanza lei cresceva io non le davo soddisfazione io ero il cacciatore senza fare il minimo sforzo dissimulare un po tutto qui . la sera stessa conoscemmo delle toscane io avevo in mente lei una ninfomane di queste aveva in mente me mi prese andiamo a casa la portai controvoglia lei si denuda fa uno streep tees io guarda non se è la cosa giusta lei fanculo mi sbatte sul muro lo facciamo selvaggiamente senza pudore con rancore con sfogo con pulsazioni a ritmo veloce lento uno sbattimento non cedeva mai lei continuava non si fermava io non mi fermavo siamo andati avanti per un po avevo fatto un incontro di pugilato graffi schiaffi sangue sulla schiena cazzo una iena guarda si è fatto tardi lei sdraiata secondo giro io me la tiro guarda gia mi hai ridotto cosi che al secondo chiamiamo il pronto soccorso lei vabbe ce per un bel po io dai la serata e giovane andiamo dagli altri e poi facciamo direttamente in ospedale che se mi spezzo qualcosa almeno siamo gia sul posto mi faccio il gesso e sono piu protetto che con te del preservativo non mi fido . torniamo lei mi stava cercando la sventola dell’old tree io esco ci becchiamo tutto si ferma e lei mi dice senti ho ripensato a quello che ti ho detto mi sono sbagliata te lo volevo dire mi piaci piu del mio ragazzo io l’ho lasciato oggi vorrei che noi due passiamo le prossime giornate insieme se ti va io me la gioco l’ultima carta faccio una faccia sardonica  sospiro aspetto un momento e poi le dico guarda ormai è troppo tardi lei si blocca ghiacciata io mi godo quella faccia aspetto sorrido teneramente guarda che scherzo e poi la bacio stiamo li sulla spiaggia baciarci per mezzo ora lei andiamo a casa io si e no perche era complicato dirle guarda mi sono allenato gia un bel po con un’altra vabbe faccio andiamo ero contento non aspettavo di meglio ma ero un po stanco ma cavolo mai tirarsi indietro arriviamo.......lei bella ma passiva praticamente una bambola potevo farle cio che volevo passivo le sto dentro non facciamo sesso era diverso c’era passione lei geme io la guardo negli occhi lei nei miei le affero tutte due le mani e vado avanti lei inizia venire trema dalle gambe non ci fermiamo lei si gira un capolavoro ..... ho dormito con lei quella notte fra le sue braccia la mattina svegli abbiamo fatto colazione con le amiche poi siamo tornati in camera abbiamo giocato coccole cuscinate baci ci siamo guardati non si parlava molto ma i nostri corpi si attraevano era magnetismo .noi non parlavamo molto ma erano i nostri occhi a parlarsi le noste mani quando si afferravano le nostre labbra quando si bagnavano dei nostri baci lei veniva rimorchiata da altri ragazzi ma le piacevo io io ero presente mentre era rimorchiata non facevo niente lei tornava mi baciava mi abbracciava mi sorrideva era felice le davo liberta io mi fidavo e lei pure giocavamo ma i nostri corpi ogni sera erano insieme una cosa sola uno dentro l’altro occhi che ti entravano dentro parole non servivano io mi ricordo il suo sorriso quando tornava dall’essere rimorchiata mi baciava mi guardava intensamente provabilmente se non ce ne fossimo andati da quell’isola quel sogno non sarbbe mai finito
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In the Place of Kindred Souls.
(Inspired by this blessed post  by @lyasmind. Written under author permission. Thank you so much!)
Lo vedevo. Eravamo in quel posto senza nome dove si incontrano le anime affini. Un posto dove il tempo non esiste e ciò che accade trova un senso e un'appartenenza. Gli Dèi conoscono quel posto, così uno strano istinto indomabile mi aveva condotto fin là,...ma non pensavo di trovarvi anche lui. Ad aspettarmi.
Con quel suo sguardo gentile, quasi timido.Rimanemmo in silenzio, un silenzio che però diceva tutto, un silenzio dolce, leggero, eppure dolorosamente triste. Ed io ero stanco di soffrire.
In quell'aria ferma e sottile, in quella luce trasparente, delle immagini presero forma. Mi costrinsi a guardarle anche se facevano male. Facevano tremendamente male. Sapevo quanto avessero fatto soffire coloro che, su Midgard, avevano preso a cuore me e la mia storia. Ho udito ogni loro sfogo, ogni loro grido. Ho sentito la loro rabbia, visto le loro lacrime, provato il loro dolore,...maledicendo me stesso per non poterli aiutare.
Quelle immagini facevano male da morire. Erano state un pugno nello stomaco per chiunque le avesse guardate, una brutalità senza senso. Una violenza gratuita.
Avrei voluto mostrarmi, gridare a tutti di non disperarsi: io sono un Dio, vivo e vivrò in eterno, e ciò che avevano visto era solo mera finzione. Eppure quella mera finzione, quel fato tanto violento e immeritato che "loro" mi avevano riservato, aveva sconvolto e indignato tutti quanti. Che ora inneggiavano il mio nome, chiedendo a gran voce il mio ritorno. Senza sapere che, ad ogni modo, io ci sarò per sempre.
Comunque sia, eccolo là. Eccomi là. Thor, il mio amato e odiato fratello adottivo, a piangere e disperarsi sul mio corpo immobile. Il mio sacrificio per lui. Chissà se ne era valsa la pena...
Nascosi ogni mia emozione. Loki Dio dell'Inganno non mostra debolezza e non ostenta i suoi sentimenti. Una lezione imparata quasi da subito...
Inspirai profondamente e drizzai le spalle. Sapevo che lui era dietro di me: aveva visto anche lui quelle immagini tanto inquietanti, ed ora aspettava che fossi io il primo a parlare. Un discorso difficile, duro da affrontare, e soprattutto da accettare.
"E così..." dissi cercando di mantenere la mia voce ferma "...così immagino che sia questo il momento in cui dobbiamo dirci addio, dunque. Lo sapevamo fin dall'inizio che sarebbe finita così, non è vero?"
"Sì..." rispose una voce morbida alle mie spalle "Sì, e..."
Mi voltai a guardarlo, finalmente, e ancora una volta mi ritrovai a stupirmi di quanto lui mi assomigliasse...come se una potente magia, sconosciuta anche per me, avesse creato il mio gemello Terrestre.
"...e all' improvviso ricordo quando ti ho incontrato la prima volta."
Sorrisi. Anche io lo ricordavo. Non potevo non ricordarlo.
Era stato stupefacente incontrarlo, vederlo diventare me. Avevo deciso che mi piaceva, e vedere la mia faccia su qualcun altro risultava tremendamente divertente.
Si chiamava Tom, e all'epoca sembrava un ragazzino caduto dentro i vestiti di un adulto: il viso magro. gli zigomi affilati, gli occhi azzurri come il cielo senza nuvole di Asgard. E una risata che avrei presto imparato a conoscere,...e riconoscere tra mille altre.
Era bravo, dannatamente bravo. All'inizio avevo pensato di regalargli un soffio della mia magia, poi con stupore mi accorsi che non ne aveva bisogno. Perchè in un attimo mi aveva capito più di chiunque altro, e tutta la sua anima diventava la mia quando doveva indossare i miei panni e parlare come me.
Risi piano, avvicinandomi.
"Anche io lo ricordo, amico mio..." l'aria si mosse, tremolò davanti a lui, e quando si fermò io avevo di nuovo l'aspetto di quando tutto ebbe inizio. I capelli corti, lo sguardo arrabbiato e triste, il viso di un adolescente perduto, rotto per sempre.
"Quando ero così..." mormorai "Sembrano passati secoli, non trovi? Quando tutto ebbe inizio e io non ero altro che un pugno di rabbia, risentimento e ossa rotte. " sorrisi amaramente "Sei stato bravo, amico mio...non dimenticherò mai quei giorni."
Lo osservai. Avevo seguito la sua vita in silenzio e con attenzione, mentre intrecciava realtà e finzione. Lui giocava a fare me, mentre io lo osservavo con curiosità e alla fine con affetto. Lo avevo visto diventare popolare, avevo visto masse di gente acclamare il suo nome,...avevo visto il suo viso di eterno ragazzino arrossire di felicità e imbarazzo.
Lo avevo visto divertirsi, ridere, fare cose sciocche e prendersi in giro. Ed essere anche tremendamente serio.
Mi era piaciuto, Tom. Lui parlava di me nei termini giusti, era in grado di rendermi giustizia, mi capiva. Il che non vuol dire che mi giustificava. Capiva le mie emozioni, ed era importante.
Mi mise una mano sulla spalla, in un gesto di sincero affetto.
"E'...è un momento toccante...insomma, voglio dire,...se hai bisogno di una spalla per..."
Lo interruppi. No, Loki non mostra le sue emozioni. Loki deve nascondere. Loki deve andare oltre la sofferenza e la tristezza. Non sono abituato a mostrare la mia parte più emotiva, ma era inutile nasconderlo,...sì, quel momento toccava profondamente anche me. Stavo per perdere il mio migliore amico.
Ma l'istinto prevalse e mi comportai con compostezza, come avevo sempre fatto.
"No,...Loki non condivide le sue lacrime con i Terrestri..."
Per un momento mi vergognai di me stesso, imprecando tra me la freddezza che avevo imparato ad erigere tra me e gli altri. Un simpatico "dono" di mio padre.
Ma Tom si mostrò comprensivo ancora una volta verso di me, confermando ai miei occhi la brava persona che era, e che sarebbe sempre stata: comprensivo, dolce, gentile, educato.
"Okay..." disse semplicemente, sorridendo.
Distolsi per un attimo lo sguardo, mordendomi il labbro. Divento sempre nervoso quando devo dire o fare qualcosa di serio, che coinvolga i sentimenti. Miei o di altri.
"In verità..." iniziai a dire, ma la mia voce si sovrappose alla sua, con la stessa parola. Non mi stupii più del dovuto: eravamo due parti della stessa anima, era ovvio che potevamo sentire l'uno i pensieri dell'altro.
Tom annuì.
"Vai pure prima tu, Loki..."
Rimasi un attimo in silenzio, a cercare le parole adatte. Io, che ero maestro di eloquenza, modellatore di immagini, Linguadargento,...in quel momento sembravo un idiota dalla lingua annodata.
"Io...io ho creato questo...come lo chiami tu? Pudding? E' questo il suo nome su Midgard? Ho fatto questo pudding per te."
Davanti ai suoi occhi stupiti, tra le mie mani comparve un piccolo vasetto dorato. Glielo porsi.
"Il più delle volte non comprendo voi, gente Terrestre, ma...credo che questo possa piacerti. Ho cantato delle benedizioni su di esso. Le migliori"
Lui sembrava felice. Stringeva il vasetto come fosse il tesoro più prezioso al mondo, i suoi occhi azzurri scintillanti di gioia.
"Grazie!" esclamò come un bambino il giorno del suo compleanno.
Non avevo finito. Veniva la parte peggiore, quella della tristezza.
"Nascondi, Loki,...nascondi, non lasciare che sappia..."
No, basta nascondere, basta fingere! Non con Tom...
"Perchè...perchè dopo di me incontrerai altre persone sul tuo cammino, e io voglio...vorrei..."
L'aria brillò intorno a me, e io tornai ad assumere il mio aspetto più recente: i capelli neri lunghi sulle spalle, la tuta di pelle color petrolio, le alte polsiere scure, i paramani bordati di giallo.
Un'ombra di dolore dovette apparire sul mio viso, perchè Tom mi si avvicinò con fare rassicurante.
"E' vero, Loki, ma..."
Mi guardò dritto negli occhi e io per la prima volta in tutto quel tempo mi accorsi di quanto fosse cambiato, cresciuto, maturato.
Non aveva più il volto liscio da ragazzino, non era più magro, quasi spigoloso. Aveva i capelli più lunghi, ora, e folte onde di un biondo rossiccio incorniciavano il viso di un uomo. Portava la barba, occhiali dalla montatura nera e il suo fisico era quello di sempre, solo più definito.
Mentre io e Tom intrecciavamo le nostre vite, e lui raccontava la mia tragedia, io ero rimasto un Dio immortale e lui era divenuto un uomo. Sotto i miei occhi.
Un uomo adulto, riflessivo, calmo,..ma con ancora quel sorriso che incantava il mondo e lo sguardo dolce di una persona buona.
Perso nelle mie considerazioni non mi ero accorto che stava continuando a parlare.
"Quello che dici è vero, ma...ma non ti ringrazierò mai abbastanza per tutti i fantastici, indimenticabili anni che abbiamo trascorso insieme. Così,...ascoltami, Loki, voglio che tu tenga bene a mente queste parole, una volta che ci saremo separati."
Mi mise le sue mani sulle spalle, la sua voce divenne un sussurro morbido, le sue parole una carezza alla mia anima già dolorante. Avevo perso tanto, avevo perso tutto,...ora stavo per perdere anche lui.
"Tu meriti di essere amato, Loki. Meriti di essere amato da tutti. E sì, hai ragione...incontrerò altre persone ma nessuna di queste potrà mai prendere il tuo posto."
un brivido mi corse per la schiena nell'udire quella frase. Era vero? O era piuttosto una frase di circostanza, di quelle che si dicono solo per fare bella figura?
Conoscevo Tom...e non era il tipo che se la cavava con vuote frasi fatte.
Era vero, allora.
Sorrisi lievemente.
Di colpo mi ritrovai a stringere in mano qualcosa di piccolo e freddo. Guardai, e con grande sorpresa capii che stavo tenendo in mano una chiave. Una piccola chiave d'oro: aveva l'impugnatura tonda come una moneta, e sopra era incisa una piccola faccina con un ghigno soddisfatto e sarcastico. Come se avesse appena combinato un tiro mancino e se la stesse spassando. Portava un elmo con lunghe corna ricurve.
"Tienila, è tua." disse Tom "Ogni volta che sentirai la mia mancanza dovrai solo aprire questa porta. Qui."
Puntò l'indice al suo petto e all'improvviso, la magia imprevedibile di quel luogo fuori dal Tempo e dallo Spazio, mi mostrò una luce soffusa,...lì, dove Tom teneva il suo indice,...sul petto. Una luce tenue, soffusa, calda e pulsante. Rassicurante. Di un tenue colore rosa.
Guardarla mi faceva sentire al sicuro come se vedessi un luogo familiare e conosciuto. Un luogo dove ero stato felice.
"Conosci già la strada..."
Il cuore di Tom.
Sì, conoscevo già la strada.
Sapevo che il cuore di Tom era un cuore grande e colmo di affetto,...ed era abbastanza da darne anche a me. Tom mi aveva voluto bene fin dall'inizio, mi aveva preso, mi aveva tenuto stretto, fatto crescere, mi aveva dato quella luce che tutti avevano voluto negarmi. Mi aveva amato e difeso.
Sì, la conoscevo bene, la strada per il cuore di Tom. In quel momento capii che non l'avrei mai perso, che avrei sempre avuto un posto a cui appartenere.
Che io e Tom non ci saremmo mai separati, in realtà, nè ci saremmo mai detti realmente addio.
Perchè due parti della stessa anima non possono separarsi, possono solo guardarsi e sapere che nulla finisce per sempre.
Guardai la faccetta ghignante sulla chiave e risi.
"Non sapevo che anche tu conoscessi la magia tanto bene, Tom..."
La faccina ghignante. Loki, Dio dell'Inganno. Sarcastico e tagliente...arrogante, pieno di fascino e carisma. Bellissimo e splendente. Denigrato e amato alla follia. Sminuito eppure in grado di oscurare tanti eroi sfacciatamente buoni e perfetti. Loki.
Lo riconoscevo, quel ghigno, fatto con pochi, semplici tratti. Efficaci e buffi come il disegno di un bambino. Tom...  
"E questo coso sarei io?" esclamai, cercando di apparire costernato.
Lui ridacchiò. Sapeva perfettamente che stavo fingendo, con lui i miei trucchetti non funzionavano. Mai.
Allora risi anche io: con Tom potevo permettermi di lasciarmi andare e sorridere. Inspirai profondamente.
"Grazie, Tom."
Sapeva cosa volevo dire, cosa c'era dentro a quel "grazie". Era un "grazie" per tutto quello che era stato per me, per ciò che aveva detto e ciò che aveva fatto.
Grazie Tom.
Mi ritrovai stretto in un abbraccio pieno di calore, le braccia di Tom mi tenevano come se non volessero più lasciarmi. Come se volesse in qualche modo assorbire un soffio del mio spirito il più a lungo possibile.
L'abbraccio di un fratello.
Dell'unica persona, aldilà di mia madre, che mi aveva capito e voluto. Voluto per davvero.
"No..." lo udii sussurrare piano, la voce rotta dalle lacrime "Grazie a te, Loki."
Allora lo abbracciai anche io,...forte e stretto. Poggiai d'istinto la fronte sulla sua spalla, qualcosa velò la mia vista e mi lasciai andare. Tom mi abbracciò ancora più stretto.
Perchè là, nel Luogo delle Anime Affini, non c'è tempo, non ci sono addii, nè separazioni. Solo anime che si ritrovano e tornano ad appartenersi per sempre.
Perchè Loki appartiene a Tom.
E Tom è parte di me.
"Grazie, Tom."
"No, grazie a te, Loki..."
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leggende · 7 years ago
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Una bambina è seduta nella sua stanza. I suoi capelli marroni, disordinati, erano raccolti in piccole trecce e gli occhi nocciola fissavano la porta. Abbracciò la sua giraffa di peluche vicino al suo piccolo corpo, e ascoltò attentamente le forti urla di suo padre e di sua madre. "Perché ho avuto dei figli maledetti!" Urlò una voce forte e pesante. "Non sanno fare altro che combinare pasticci, fare capricci e disegnare sulle pareti!!!” La madre della ragazza lo interrompeva, gridando con tutta la sua rabbia "Sono BAMBINI, David. È normale che facciano queste cose!" "Fanculo, Marybeth! Piantala con queste cazzo di scuse! Ne ho abbastanza di loro!" "E cosa avresti intenzione di fare?!" La bambina sentì passi pesanti venire verso la sua stanza, e abbracciò forte la sua giraffa di peluche. La porta si aprì violentemente, e sulla soglia apparve la sagoma robusta del padre, arrabbiato, e in sovrappeso. In una delle due mani teneva un grosso libro di testo. "David, smettila!!!" urlò la madre. Ma il padre ignorò le grida imploranti di sua moglie. Afferrò la bambina per il colletto, lei urlava e scalciava, tremante di paura. Il padre sollevò con fatica il pesantissimo libro… "Questo è per il disegno sulle mie cazzo di pareti, piccola cagna…” Anni dopo… Natalie aveva ormai 9 anni. Stava per raggiungere la fase della pubertà... Come al solito, era seduta nella sua stanza, col suo viso paffuto, a guardare la TV. La sua famiglia stava affrontando da tempo la crisi economica, e nell'altra stanza il padre stava sbraitando riguardo qualche faccenda finanziaria di cui a lei non poteva importare di meno… Natalie sgranocchiava dei popcorn, niente di meglio per godersi gli spettacoli in TV. Era anche presa da un disegno. L'immagine era un po' sanguinaria, ma le piaceva disegnare il sangue, le dava una strana soddisfazione. La vita era stata un grosso problema per lei… nonostante la sua giovane età, Natalie era stata sempre sottoposta al duro lavoro, ecco perché adesso era in grado di fare più cose allo stesso tempo. L’Arte era il suo talento e passione. Era il suo modo per sfuggire dalla realtà, ogni volta che qualcosa di brutto la assaliva, o semplicemente quando era annoiata. Improvvisamente sentì chiudersi la porta, e guardò alla sua sinistra. C'era il fratello Lucas lì, aveva 14 anni all'epoca. "Che cosa c'è?" gli chiese. Poteva ancora sentire le urla del padre… "Papà ti spaventa?" chiese lui a sua volta, emettendo una risatina. "Assolutamente no. Ormai  penso che ci siamo entrambi abituati." Ci fu una lunga pausa. "Allora, perché sei qui?" Il fratello giocherellava con le maniche e si irrigidiva di tanto in tanto… sembrava nervoso. "Devo chiederti una cosa." Lei aggrottò la fronte, sempre più impaziente con il fratello e fu costretta a interrompere il suo film e il suo disegno. "Che cosa?" "Hai detto che volevi essere forte, e crescere come una vera adolescente, giusto?..." Lei annuì. "Beh, io ho una proposta... Sai cosa... quello che i ragazzi e le ragazze fanno insieme qualche volta, vero?" Il giorno dopo a scuola, Natalie non emise suoni. Non parlò per l'intera giornata. Nessuno avrebbe potuto capire. Nessuno doveva sapere. E così, nessuno avrebbe saputo. Il suo insegnante si era accorto delle sue espressioni perplesse, ma lei lo respinse, facendo finta di non capire la lezione. Natalie si sentiva immersa in un forte dolore. Spaventata, appena ritornata a casa, si incamminò verso la sua stanza e rimase lì. Ma nel corso della giornata, ricevette un'altra visita da suo fratello. Nessuno doveva sapere. Fino a quando un giorno, a scuola, sentì il bisogno di confidarsi… Anche se non erano sue amiche, dentro di sé sentiva che doveva farlo. Si avvicinò al gruppo di ragazze che di tanto in tanto vedeva nel corridoio. Sembravano belle ragazze, e loro e Natalie avevano occasionalmente parlato... "Hey... Mia..." Mia guardò Natalie, con  faccia seria. "Sì?" "Io... ho davvero bisogno di parlarti di una cosa." "Beh, sento che sei l’unica persona di cui mi posso fidare…” Mia e le sue amiche avevano degli sguardi un po’ perplessi, ma solo per un momento… Natalie non lo sapeva ancora, ma tutto ciò che quelle ragazze volevano era conoscere chiacchiere e pettegolezzi. "Va bene, ti puoi fidare di noi. Che succede?" Non ci volle che un giorno... Appena il giorno dopo, Natalie divenne l'oggetto di commenti infiniti sui siti di social network, come Facebook. Una volta, qualcuno la chiamò addirittura “zoccola”. E a mensa, i bocconi dei loro pasti diventavano proiettili da lancio, diretti verso i suoi capelli. Sarebbe stato l'ultimo dei suoi problemi, ma Natalie aveva solo 9 anni e non poteva evitare di essere turbata da queste cose, e tanto. Ma come abbiamo detto lei non fece mai parola di queste cose con nessuno… tenne sempre tutto dentro di sé…avrebbe tenuto tutto dentro, convinta che fosse per il suo bene. Non avrebbe permesso che il dolore si prendesse la parte migliore di lei. Erano le 03:00, e stava ancora studiando a quell'ora. La madre l'avrebbe ammazzata. Natalie aveva 16 anni. Ora era al Liceo e aveva addirittura un ruolo d'onore per i suoi insegnanti. Per una volta nella sua vita, si sentiva tranquilla e felice. Anche se, come al solito, c'erano momenti in cui finiva per fare "l'eremita" nella sua stanza, nascondendosi lontano da suo padre che ancora amava urlare continuamente di economia, di denaro e di politica… tutte quelle stronzate che lei e il suo povero udito non potevano più sopportare. Cominciò a sentire gli occhi appesantirsi. Aveva un compito su cui lavorare quella notte, ma non le importava più. Tutto ciò che voleva ora era… dormire un po’. Chiuse il suo portatile, e dopo che i suoi occhi si abituarono un po' al buio, vide la sua vecchia, logora giraffa di pezza, abbandonata in un angolo. La fissò per un tempo che le sembrò infinito, nel silenzio più totale. Ricordi passarono per la sua mente stanca, sentì le lacrime arrivare agli occhi. Ma in fretta, sbatté le palpebre, cercando di non piangere, con tutte e sue forze. "Basta interruzioni” pensò tra sé. Ma continuava a fissare il pupazzo. "Che cazzo hai da guardare?" disse all'oggetto. Ma lui continuava a fissarla con quegli occhi piccoli e lucenti, morbidi, neri. Lei scosse la testa e si alzò. Guardò tristemente il piccolo giocattolo, e delicatamente lo prese in braccio. Lo cullava, e gli parlava a bassa voce. "M-mi dispiace... " Lacrime bagnavano il suo viso. Strinse la piccola giraffa a sé, accarezzando il suo pelo ormai ruvido… e lentamente si addormentò. Venne svegliata dalle urla di sua madre. Aprì stancamente uno dei suoi occhi. "Non posso credere di aver dimenticato di portare via il portatile da qui!!! L'hai usato per tutta la notte, non è vero!?” Natalie sospirò e premette il viso sul cuscino più che poteva, stringeva vicino a sé la sua giraffa. Sua madre sospirò  e uscì. Natalie fece una doccia, si lavò i denti, fece colazione. Poi si vestì. Mise una felpa grigio-blu con cappuccio, con pelliccia all'interno. Non era la sua preferita, ma era l'unica che avrebbe potuto portare a scuola, visto che gli altri vestiti erano a lavare. Indossò jeans neri e degli stivali sottili "alla moda". Poi finalmente scese giù per le scale per andare a scuola. Saltò in macchina, e sua madre iniziò a guidare verso la scuola. Ma a causa della mancanza di sonno, Natalie mise la testa contro il finestrino e chiuse gli occhi. I suoi sogni, o meglio i suoi incubi, continuavano a tormentarla, con i ricordi della violenza subita da bambina, vividi come se quella violenza stesse continuando ad accadere ancora. E in secondo luogo, i ricordi dell'abuso sessuale da parte suo fratello Lucas, durato per 4 anni prima che avesse il coraggio di girarsi contro di lui. Ancora addormentata, Natalie si contorse piangendo. Ma sua madre non se ne accorse. Sua madre non si accorgeva mai di nulla. Ancora una volta fu risvegliata dal tono seccato della madre: "Siamo arrivati". Guardò stanca la grande insegna della scuola: "Istituto di Walkerville – Collegio delle Belle Arti". Sospirò stancamente e uscì, mettendo il suo zaino sulla spalla. "Ci vediamo. " disse chiudendo la portiera della macchina. Entrò a scuola, e dopo aver chiacchierato con alcuni compagni si diresse al suo armadietto, al terzo piano. Afferrò i suoi libri, e prima che i cinque minuti a disposizione finissero, corse in classe. La sua insegnante di inglese fastidiosamente sbatté la mano sul banco di Natalie. "Dov'è il suo compito, signorina Ouellette?" Natalie deglutì. "Io -ehm, l’ho dimenticato a casa. Mi dispiace signorina Homenuik." Lei ringhiò e si alzò. "Il suo tempo è scaduto, signorina Ouellette. Lei mi delude." Natalie rimase un attimo confusa. Non sapeva perché, ma quelle parole si sciolsero in lei. Ignorò la sgridata da parte della professoressa e tornò ad ascoltare la lezione cercando disperatamente di non addormentarsi. Più tardi quel giorno, mentre si dirigeva al suo armadietto per la quarta ora, il suo ragazzo, Chris, si avvicinò a lei. "Ehi... ti va se parliamo dopo la scuola?” Lei sorrise, amava parlare con Chris. Anche se stranamente lei non sospettava nulla. Era sempre stato un ragazzo dolce, lui. Durante la sua lezione di francese, Natalie non prestò attenzione. Si mise solo a scarabocchiare sul quaderno… l’arte era la sua passione. Sangue, sangue e ancora sangue… persone accoltellate, coltelli insanguinati, immagini macabre. Altri avrebbero considerato inquietante che lei disegnasse queste cose, ma stranamente pensava che fosse normale. "Miss Ouellette?" Rapidamente coprì lo scarabocchio e si rivolse rapidamente verso l’insegnante di francese. “Sì, Mr. LeVasseur?" "Mostrami il tuo lavoro." Lei esitante spostò il braccio, per mostrare l'immagine di una persona qualunque accoltellata da un folle. Il professore la guardò perplesso. Lei sorrise nervosamente. "Cancella tutto, e inizia il tuo lavoro" disse con voce stranamente calma. Si allontanò, e lei sospirò cancellando il disegno. L'insegnante la guardò ancora: “Signorina Ouellette..." Lei lo fissò. "Il suo tempo è quasi scaduto. Le suggerisco di fare il lavoro adesso". Lei ringhiò al rimprovero dell'insegnante. Sembrava che fosse sempre stato contro di lei. Ma in verità, a lei non importava più del suo lavoro. Dopo la lezione, si incamminò fuori dalla scuola per trovare il suo ragazzo, con cui si era data appuntamento. Lei sorrise e si avvicinò. Ma mentre si avvicinava sempre di più, il suo sorriso lentamente si spense… "Chris, cosa c'è che non va? Di cosa volevi parlarmi?" Sospirò. "Natalie, penso che sia ora che noi... dovremmo iniziare a vedere altre persone." Sentì il cuore in pausa. "Ma… perché?" Lui la guardò con sguardo severo. "È per i tuoi disegni. Penso che ci sia davvero qualcosa che non va in te. E la cosa peggiore è che non mi dici perché ti stai comportando così… mi fa sentire irresponsabile. Se solo... no… non ce la faccio più… Mi dispiace." E si allontanò. Natalie sbatté le mani sullo specchio del bagno di casa. Fissò nello specchio il suo movimento continuo degli occhi. "Io non sento il dolore come gli altri… io sono forte!” Prese un ago e un filo nero in mano. "È inutile, non aiuta." Provava una strana sensazione nel suo subconscio. Ridacchiò. "No... lo lo sto facendo perché lo voglio." Sollevò l'ago col filo, e sorrise. "Il tempo è scaduto." Pezzo dopo pezzo, taglio dopo taglio. Anche se il dolore in realtà era insopportabile… lei non piangeva. Ormai non c'erano più lacrime da versare. Il sorriso si era stampato sulla sua faccia. Il sangue fuoriusciva… scorreva e bagnava il lavandino. Quando ebbe finito, si alzò e ammirò la sua opera. Accarezzò i punti orrendi ai lati della bocca, che formavano un lungo e orrendo sorriso. Sentì il sangue caldo sulle dita… lo leccò delicatamente, gustandolo con piacere… Si fermò quando vide il  riflesso di sua madre sullo specchio… si voltò bruscamente. Vide gli occhi disperati della madre sul viso pallido che guardava le dita della figlia insanguinate… Natalie sentì improvvisamente il dolore e iniziò a piangere… "Mamma…" Non si era mai sentita così confusa… ma cosa aveva appena fatto? Sua madre aveva prenotato una terapia per lei. Natalie non voleva togliere la cucitura dal suo volto, per timore del dolore.  Decise di portare il cappuccio per non permettere a nessuno di vedere. Natalie si sedette sul sedile di cuoio e fissò la donna bionda di fronte a lei in silenzio. "Il tuo nome è Natalie, vero?" "Sono Debera. Ed io sono qui per aiutarti. Ora dimmi, quali sono stati i tuoi problemi di recente?" Natalie la fissò. "Il tempo." Debera le rivolse uno sguardo confuso. “Come cara?” Natalie stingeva forte le sue mani sul duro sedile. "Tutto. Tutto vive attraverso esso, procedendo lentamente con la vita, che viene controllata da esso solo per essere torturata senza fine, fino a quando non si capisce di non avere più uno scopo. Quel cerchio… non rallenta, non accelera… Sì… è molto violento. Fa vivere attraverso la tortura più, e più volte, incapace di avanzare, a partire da esso." Natalie davvero non aveva idea di quello che aveva appena detto... Si sentiva come se non fosse più se stessa. Questo potrebbe essere a causa di... tutte quelle cose orribili che aveva vissuto?  No, era impossibile. Ma per qualche strana ragione, a lei... è piaciuto. La terapeuta si avvicinò. "Tesoro, voglio che tu mi dica che cosa ti è successo." Natalie ancora la fissava. Ci fu una lunga pausa. Lei sorrise leggermente, e le sue cuciture si aprirono… Debera si infastidì  “Non posso aiutarti se non mi dici cosa c'è che non va, Natalie." Le sue dita cominciarono a strappare la pelle dura della sedia. "Natalie non è più qui." Con questo, gli occhi di Debera si spalancarono. Si alzò. "Torno subito. Per favore, resta qui." Uscì, lasciando sola Natalie. Forse… lei non era più sana di mente.                                                         “Sono obbligata a darvi una verità orribile…” Natalie, in quella stanza deserta e buia non si mosse. Sedeva perfettamente immobile, perfettamente silenziosa e perfettamente calma in quella sedia. E dopo un po', poté finalmente uscire, felice di andarsene… ma lei notò le espressioni dei genitori. Anche suo padre aveva una strana espressione sul suo volto rattristato. La sua confusione aumentò, non c’erano parole, e li seguì fino alla macchina. Lungo la strada che riportava a casa. Quella notte, sentì una voce che parlava in sogno. Sembrava se stessa, facendo eco nell'oscurità eterna. "Il tuo tempo è scaduto." Si risvegliò completamente sudata. Non era a casa. Lei non era in macchina. Lei era in un letto… un letto bianco in una stanza bianca. Guardò al suo fianco, era collegata ad un monitor cardiaco. Si alzò, ma i suoi piedi rimasero incollati a terra. Venne presa dal panico. Ha iniziato a lottare, ma si fermò sentendo una porta alla sua sinistra aprirsi. Un uomo in camice bianco la guardò, con le mani dietro la schiena. Sembrava uno scienziato... "Devi essere molto confusa in questo momento, posso immaginare. Ma io sono qui solo per aiutarti. I tuoi genitori hanno deciso di firmare un contratto per sottoporti ad alcuni farmaci mentali per aiutare il suo stato d’animo" Aprì la bocca per protestare, ma è stata rapidamente messo a tacere." Non hai bisogno di preoccuparti. Tornerai alla normalità in poco tempo. Basta cercare di rilassarsi" Si avvicinò, lei cercò di spostarlo via, ma non ci riuscì a causa delle cinghie di cuoio intorno ai polsi e alle gambe. L’uomo prese una maschera, e la mise sulla sua bocca e sul naso. Lei ostinatamente cercò di farla saltare via, ma sotto l’effetto di quella specie di gas, lentamente chiuse gli occhi. E improvvisamente si svegliò. Non riusciva a capire cosa diavolo stesse vedendo. Sembrava l’avessero riempita di iniezioni, la sua pelle era stata completamente sfregata… si sentiva stordita, ma era consapevole di quello che era successo. Adesso capiva cos'era il dolore… si era svegliata nel bel mezzo di un’operazione chirurgica… Vide i medici al lavoro, poteva sentire il dolore, il suo cervello si era risvegliato completamente. La sua frequenza cardiaca sul monitor iniziò ad accelerare, i medici si agitarono. Iniziarono a urlare, non si riusciva a capire cosa  stavano  dicendo, ma lei sentì improvvisamente una scarica di adrenalina. Cominciò a scuotersi violentemente. Uno dei medici cercava di tenerla giù, ma era inutile… il suo stato mentale si era risvegliato… completamente diverso, era completamente cambiata. I medici indietreggiarono. Si sedette sul bordo del letto ora, strappò via la maschera e i collegamenti dalle sue braccia. Si alzò, e cominciò ad agitarsi, sembrava come impazzita, inciampava, si sbatteva contro le pareti… la sua vista era sfocata. Rideva forte. Ma improvvisamente, sentì un dolore lancinante al petto. Si mise la mano sul cuore, e cadde in ginocchio. Tossì sangue, e cadde per terra… tutto era diventato nero. Si svegliò lentamente… era intontita. Era di nuovo sul letto e il dottore sedeva vicino a lei. "Qualcosa è andato terribilmente storto..." Non sapeva perché, ma si sentiva un enorme odio nei confronti del medico. Lei distolse lo sguardo. "Non dovevi svegliarti, ti stavamo dando le dosi per il tuo stato mentale. Non sapevo di come ci si sarebbe risentito... Ma l’abbiamo scoperto." Si fermò per un attimo, prese un piccolo specchio, senza guardarla. "È capitato di avere un effetto sul tuo aspetto." Natalie si guardò allo specchio, ed i suoi occhi si spalancarono. I suoi occhi... Erano... completamente verdi. Notò di avere ancora la sua cucitura sui lati della bocca. Ma per qualche strana ragione, non poteva fare a meno di sentirsi… felice. Il suo battito cardiaco iniziò ad aumentare di nuovo. "Hahaahhahaaaaahahaaaa..." Il dottore sembrava in stato di shock, ritrovandosela improvvisamente in piedi sopra di lui. "Dottore..." disse lei, ancora ridacchiando. Tremava leggermente, per la pressione che emetteva il collegamento del monitor cardiaco "S-Sì ?" "Il tuo tempo è scaduto." Un forte grido rimbombò nei corridoi deserti dell’ ospedale. Due guardie di sicurezza si precipitarono nella stanza, sfondando la porta. Sangue. è stata la prima cosa che videro. Sangue sulle pareti, sul letto, sul pavimento. Inferno, anche sul soffitto. Il dottore era legato sul letto… la sua spina dorsale era completamente spezzata, e adesso giaceva nel letto, completamente ripiegato come se fosse un panino. il sangue fuoriusciva dagli occhi, dal naso, dalla bocca, quasi da ogni parte del corpo. E lì, in un angolo, c’era l’assassino, Natalie. Immobile, in piedi davanti al muro, su cui stava scritto col sangue: “Il tuo tempo è scaduto.” Natalie si voltò lentamente, per guardare le guardie… sul suo volto stava cucito un enorme agghiacciante sorriso. "Ciao amici... volete sapere come si gioca? Ha... hahah... hahahha..." Le guardie tirarono rapidamente fuori le pistole, ma Natalie schivava agilmente i loro proiettili. Natalie afferrò un enorme coltello dalla sua tasca, e colpì una delle guardie proprio nella pancia. Lo stomaco scivolò immediatamente fuori accompagnato da un’enorme quantità di sangue, e la guardia si accasciò a terra. Natalie inspirò profondamente, gustando con piacere il delizioso odore della morte. Il collega terrorizzato lasciò cadere la pistola e indietreggiò. Natalie lentamente si avvicinò a lui, e mise la punta del coltello sul suo petto. "Il tuo tempo è scaduto." Lentamente fece scivolare il coltello fino all'intestino… tutti gli organi si rovesciarono a terra e l’uomo crollò lentamente accasciandosi, fra il sangue e i suoi organi. La mamma di Natalie stava tranquillamente dormendo con suo marito, ignorando quel che potevano fare alla sua amata figlia… Si svegliò al bussare della porta, e lei, intontita per il sonno, si alzò e uscì dalla camera da letto. Fuori pioveva a dirotto, un enorme e assordante tuono rimbombò per tutta la casa. Camminò fino alla porta d’ingresso, ma si fermò quando stava per aprire la maniglia… Dietro la porta... c’era, una debole, folle risatina. La pioggia e i tuoni sembravano essere sempre più sinistri ogni secondo che passava… Marybeth premette l'orecchio contro la porta, e ascoltò attentamente… "Ciao, mamma." Natalie sfondò la porta, con i suoi due coltelli stretti nelle mani. Sua madre saltò all'indietro, colpendo la testa contro l'attaccapanni. Un gancio le aveva rotto il cranio e sanguinava violentemente dalla parte posteriore della testa… Marybeth giaceva a terra paralizzata, ma ancora cosciente. Natalie torreggiava su di lei, ma lentamente si inginocchiò per soddisfare i suoi sensi, e mostrò alla madre le sue due lame, coperte di sangue denso. "Ho sofferto, mamma..." Fece scorrere la punta del coltello sulla guancia. Natalie inclinò la testa. "Sei stata debole... non hai fatto niente." Natalie afferrò la madre e la poggiò dolcemente alla parete. Si sedette sopra di lei, e i respiri della madre cominciarono a farsi sempre più pesanti. Natalie sapeva di non avere molto tempo. Aprì con forza la sua cassa toracica, raggiunse e afferrò il cuore della madre, lo prese delicatamente in mano. E all'improvviso lo strappò fuori, il sangue schizzò dappertutto. Lei e la madre si fissarono negli occhi per tutto il tempo fino a quando, lentamente, Marybeth morì. "Sogni d'oro..." Sussurrò Natalie al cadavere. "Il tuo tempo è scaduto." Mise il cuore in bocca alla madre, dopo averlo fatto scivolare sulle proprie guance. Ma Natalie non aveva ancora finito. David, il padre di Natalie, era ancora sveglio, aspettando il ritorno della moglie. Ma quando I suoi occhi cominciarono ad abituarsi all'oscurità, improvvisamente si accorse di Natalie in piedi sul letto sorridendo follemente con i suoi occhi verde incandescente nel buio. Era ricoperta di sangue... "Oh caro papà… mamma se ne è andata… Adesso chi porterà i soldi? Hahahaahah..." Afferrò il padre per il collo. "Erano tutto ciò a cui tenevi.” Suo padre, però, abituato a picchiare i suoi figli, l'afferrò per il collo, e la gettò a terra e iniziò a calpestarla fino a quando lei non incominciò a sputare sangue. "Non ci si sente bene papà?” Lei tossì altro sangue. "Perché non lo hai fatto tanti anni fa? Ahahahahahah." "TU NON SEI MIA FIGLIA!" Il sorriso di Natalie si fece più ampio, i suoi occhi verdi diventavano sempre più ardenti, quasi rossi, come il sangue che le colava giù dalla bocca. "Hai ragione, non lo sono" Gli fece lo sgambetto facendolo cadere violentemente a terra, Natalie si alzò col coltello stretto nella sua mano. "Si dice che più sono grandi il colosso d'argilla." Mentre il padre era senza fiato, Natalie afferrò un cuscino e glielo ficcò in faccia. Iniziò così a calpestare il suo volto, sempre più forte, si sentivano i colpi pesanti atterrare sulla sua faccia. Quando Natalie tirò via il cuscino, il viso del padre era orribilmente mutilato, urlava e piangeva dal dolore. "Cosa c’è papà? Troppo dolore per te?” Decisa lo accoltellò due volte allo stomaco… subito dopo riuscì a staccare due sostegni pesanti del letto e lì legò alle proprie gambe. "Hai bisogno di questi…" Natalie ridacchiò, e si alzò con i pali fissati sulle due gambe. Iniziò a camminare e  il peso del suo corpo sui pesanti sostegni del letto lentamente cominciarono a spremere le viscere del padre che si sentivano dentro il suo corpo. Ma Natalie iniziò a perdere la pazienza. “PERCHÉ NON MUORI?!” Ringhiò, e iniziò a calpestare più forte. All'improvviso, gli organi di David scoppiarono fuori dalla sua bocca. Natalie annuì soddisfatta e si diresse fuori dalla camera. Di David non restò altro che una carcassa di organi. Infine… venne la sua parte preferita. Natalie si dirigeva tranquillamente nella stanza dei fratelli, e silenziosamente aprì la porta. Il sangue colava dal suo coltello, e nella vecchia stanza, rimbombava debolmente il ticchettio delle gocce di sangue sul pavimento di legno. Suo fratello non era a letto… si era nascosto da qualche parte… "Oh, caro fratellino… vieni qui… voglio solo divertirmi… ahahahah…” Ma Natalie non si azzardò a fare un passo. Doveva percepire ogni minimo movimento, ogni minimo respiro, doveva annusare l’aria con concentrazione… Più ascoltava, e finalmente notò qualcosa… un debolissimo respiro. Cadde a terra. Suo fratello era dietro di lei, con una mazza da baseball. Guardava la sorella con rabbia. Natalie cercò di alzarsi lentamente ma lui la colpì ancora, e ancora, e ancora. “MAMMA HA SEMPRE FATTO DI TE LA MIGLIORE! SEI UNA STRONZA!” Lui la colpì duramente per l'ultima volta, prima di prendere un attimo di respiro. Natalie sanguinava molto e i suoi occhi verdi incandescenti si stavano spegnendo lentamente nel buio. Si sentiva debole, e guardò il soffitto. Ricordò i giorni che aveva trascorso qui dentro, per essere solo torturata, per 4 infiniti anni… guardava quel maledettissimo soffitto. Una sensazione oscura si accese improvvisamente in lei. Si alzò in piedi ridendo follemente. Suo fratello la colpì di nuovo, ma lo bloccò coi suoi coltelli. "Va all'inferno, fratello.” Con una grande spinta, fece volare suo fratello sul letto. Natalie lo afferrò e lo sbatté al muro, e affondò i suoi due coltelli nelle due braccia del fratellino per tenerlo inchiodato al muro. "Vediamo che cosa possiamo usare qui..." Iniziò a camminare per la stanza, e sorrise quando vide un semplice coltello da burro. Si chinò e lo raccolse. "Si dice che gli occhi sono gli organi più morbidi del corpo..." Natalie leccò il coltello. Il povero fratellino la guardò con orrore, cercando di lottare, ma Natalie iniziò a scavare nei suoi occhi. Il fratellino gridava più forte che poteva, ma venne subito zittito con un panno legato alla bocca. Egli non poteva più vedere nulla… il dolore era insopportabile. Il sangue fuoriusciva violentemente dalle sue orbite. Avrebbe voluto piangere, ma non ne era capace. "Hmm..." Ricominciò a camminare per la stanza, e afferrò un paio di forbici. Si avvicinò "Penso che sia necessario tagliare, fratello." pugnalò con le forbici il suo intestino e lui pianse un grido soffocato di insopportabile dolore. Lo trattava come un manichino da arti e mestieri, tagliando la sua pelle come se fosse carta. Natalie prese il suo intestino e sorrise. "Sai cosa mi piace? Fare disegni con i maccheroni". Iniziò a tagliare il suo intestino "Questi potrebbero essere un po' troppo grandi da mettere su un piatto… però…" Il fratello sputava schiuma dalla bocca ed era costretto ad inghiottire continuamente sangue a causa della benda sulla bocca. "Buono vero?" Lei leccò il sangue dalle sue dita. "Cosa fratellino? Certo che mi piace!" Puntò alle dita dei piedi e cominciò a strapparle fuori con le forbici… Una per una... Dopo un po' la gola del fratellino era ormai cruda… Successivamente, Natalie lavorò sulle dita delle mani, e cominciò a strapparle lentamente ad una ad una. Il suo orgoglio diventava sempre più forte. Il fratellino soffocava nel suo stesso sangue. Natalie tirò giù il panno, e una gran cascata di sangue fuoriuscì dalla bocca del fratello che girò la testa di lato e vomitò violentemente. "Tranquillo fratellino…” disse accarezzandogli la testa. "Tieni, mangia questo, ti sentirai meglio."  Gli Infilò un dito in bocca, e il povero fratellino soffocava… e lentamente morì. "Il vostro tempo è scaduto." La ragazza, una volta conosciuta come Natalie, tornò per l’ultima volta nella sua stanza. Fissò in un angolo, e vide la sua giraffa di peluche. Si inginocchiò, e la fissò. Poi, senza una parola, si rialzò, e si diresse verso il bagno. Fissando se stessa, coperta di sangue, sentì un ticchettio debole. Guardò al piano di sotto, e vide un orologio da taschino. Fissò le sue mani, ascoltando il ticchettio per quello che sembrò un tempo infinito. Tirò fuori uno dei suoi coltelli ormai rossi, che gocciolavano pesantemente sul pavimento. "… Il tempo fa vivere attraverso la tortura…"  Disse, portando lentamente il coltello vicino al suo occhio. "… lentamente, procedendo con la vita, che viene torturata da esso…" Iniziò a scavare lentamente nel suo occhio, e la visione del suo occhio sinistro diventava sempre più sfocata, e soprattutto… rossa. "…fino a quando non si scopre di non avere più uno scopo…"  Sentì il suo occhio staccarsi lentamente, il sangue colava sul lavandino. "… quel cerchio…" Sentì il suo occhio penzolare sul viso, e un dolore acuto attraversava il suo cervello. "… Il tempo non accelera, non rallenta… sì, è molto violento…"  Afferrò il cordone del suo occhio, lo strappò violentemente, e lo scaraventò sul lavandino. "… E ti fa vivere attraverso la tortura più, e più volte…" Avvicinò l’orologio al suo occhio. "… incapace di avanzare a partire da esso."  L'orologio sembrava corrispondere perfettamente con la forma del buco nel suo cranio. La giovane ragazza di 16 anni, una volta conosciuta come Natalie, si allontanò dalla sua casa, in fiamme. Le fiamme inghiottirono tutto… … all'interno della sua camera, la sua giraffa ardeva lentamente, assieme alle carcasse della sua famiglia. Alcuni dicono, che lei viva ancora. Il tempo delle sue vittime è scaduto. Noi, ci lasciamo coccolare dalle coperte… facciamo sogni tranquilli… ClockWork è lì, che ci guarda. Si sente un ticchettio… … lei è lì. … si sa, il Tempo è scaduto ...
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giancarlonicoli · 4 years ago
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30 giu 2020 19:11
EH LA MADONNA, POZZETTO FA 80! – ''IL FILM PIU’ BRUTTO? QUELLI CON PAOLO VILLAGGIO ERANO LONTANI DA ME. NERI PARENTI MI HA PURE TRAVESTITO DA BIMBO, COL PANNOLONE, MI SONO UN PO' VERGOGNATO" - "L’UMORISMO MIO E DI COCHI ERA SCUOLA MILANESE, PRIVO DI VOLGARITA'. QUELLO ROMANO ERA PIÙ BARZELLETTE E SESSO. MI SPIACE SOLO CHE AL CINEMA HANNO VINTO LORO” – "VORREI SOGNARE MIA MOGLIE, NON E' MAI SUCCESSO..." – VIDEO
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CANDIDA MORVILLO per il Corriere della Sera
Renato Pozzetto, a 80 anni, la vita l'è ancora bella?
«Ho qualche acciacco, ma sì. Ho passato il lockdown a Milano: coi due figli e i cinque nipoti abitiamo nello stesso palazzo. Ora, sono sfollato a Laveno, nella mia casa sul lago Maggiore. Sto qua, seguo la Locanda Pozzetto e il 14 luglio festeggeremo assieme il compleanno. Qui ho i primi ricordi, papà ci portò a Gemonio durante la guerra».
Quali i primi ricordi?
«C'era così poco da fare e io e Cochi ci annoiavamo così tanto che cercavamo di essere simpatici: il nostro umorismo e il nostro duo nascono così».
Enrico Beruschi, che era alle medie con lei e alle superiori con Cochi, racconta di scherzi pestiferi a scuola.
«Solo una volta, tolsi una sedia a una suora. Papà me ne ha dette e me ne ha date».
Beruschi sostiene che lei riempì d'acqua e pesci rossi le bocce dei lampadari. «Be' lo spirito era quello».
Il cabaret come arriva?
«A Milano, per mancanza di fondi, andavamo all'Osteria dell'Oca d'oro in Porta Romana, piena di artisti, con Piero Manzoni, Lucio Fontana... noi cantavamo canzoni popolari e approfittavamo del vino che girava. Poi, vicino, apre il Cab 64, dove incontriamo: Giorgio Gaber che ci insegna a suonare la chitarra, più a Cochi, che era bravino; Enzo Jannacci, con cui scriviamo le prime cose, tipo la gallina l'è intelligente; Dario Fo che veniva a darci il suo parere; Bruno Lauzi e tutti i futuri nostri amici».
L'ingresso al Derby?
«Eravamo Jannacci, Felice Andreasi, Lino Toffolo, Bruno Lauzi e io e Cochi e ci battezzammo Gruppo Motore, per l'energia sprigionata».
La sua prima serata vera?
«Non me la ricordo: ero in giro per osterie dai 16 anni. Potevo fare l'alba perché, nel dopoguerra, a geometra, s' andava di pomeriggio».
I suoi che dicevano che stava in giro di notte?
«Sapevano che passavo la vita con Cochi, vedevano che Andreasi e Jannacci non erano permale. Eppure, mio padre non era mai uscito la sera, mai andato al bar, andava solo a messa la domenica. Una mattina, quando faceva il pendolare con Milano, ho sentito che mi dava un bacio nel sonno. Non m' aveva mai baciato. Mi è piaciuto moltissimo e ho voluto convincermi che lo facesse ogni mattina».
E lei i suoi figli li baciava?
«Sì, mamma mia».
E i nipoti?
«Li vedo tanto, ma mi filano poco. Sono educati, ma indipendenti».
Ma sanno chi è?
«Sì, ma non chiedono niente. Sono lontano dalla moda oggi, non un esempio invidiabile ai loro occhi».
Eppure, lei fu modernissimo. Con Cochi, avete inventato il nonsense e per alcuni il filo di un linguaggio che va da Piero Manzoni a voi.
«Nessuno pensava di diventare artista, tutto nasceva ridendo in osteria. Quando Piero fece la Merda d'artista, la madre era disperata. Lo ricordo fare la Linea Infinita : su un chilometro di bobina di carta del Corriere aveva tracciato questo segno lungo...».
Dopo il successo di Canzonissima, l'Italia si divise fra chi vi capiva e chi no.
«Eravamo nuovi, imprevedibili, parlavamo ai giovani».
Uno psicologo scrisse che vi guardavano in 22 milioni perché eravate l'antidoto ai tempi bui del terrorismo.
«Be', c'era stato il '68, ma non ci spaccavamo la testa per raccontare chissà che».
Jacopo Fo racconta che il vostro «bene, bravo, 7+» era un modo per dire «chi mi capisce è con me». Quasi un grammelot in scala.
«Era come una stonatura. Con Dario Fo passavo le ferie a Cesenatico, un promotore del posto ci invitava tutti gratis».
C'è anche chi ha visto in lei tutta una poetica della campagna contro la città.
«Mah... Forse quando ho fatto in tv Il poeta e il contadino o al cinema Il ragazzo di campagna . Di recente, volevo fare un film su un contadino che va sul tetto con prato del Bosco Verticale a Milano, ed essendo un grattacielo solo di miliardari, vende latte che costa come champagne».
Il suo «taac» come nasce?
«Al bar, un cliente parlava e ci puntava il dito in gola, in faccia. Ne ho fatto un "taac" e l'ho usato per dire: fatto!».
Qual è la battuta che più ricordano i suoi fan?
«Eh la madonna!».
Ha fatto 140 film, com' è cominciata?
«Mi portano Amare Ofelia , Jannacci disse che era una boiata, a me sembrò carino, ma dovevo farlo da solo, chiesi il permesso a Cochi. Vinsi il Nastro d'Argento».
Era vietato ai minori di 14 anni e la si vedeva nudo.
«Era roba che ora vedi la domenica mattina dopo la messa del papa. Io e Cochi non siamo mai stati volgari».
Eravate di scuola milanese, quella romana era più barzellette e sesso.
«Mi spiace solo che al cinema hanno vinto loro».
Davvero dopo quel film mandò mille lire al Derby poi incorniciate «in pagamento delle sue bevute»? «Ma no. Nel libro sul Derby, ognuno raccontava la propria bugia.
A me chiesero tre righe e io mandai tre righe».
Tre linee alla Manzoni?
«Esatto».
Fra '74 e '79, girò 23 film.
«Tanti avrei potuto non farli, ma andavano bene e io non avevo mai visto una lira».
Il film più bello?
« Oh Serafina , di Lattuada e Sono fotogenico , di Risi».
Il più brutto?
«Brutto no, ma quelli all'ultimo con Paolo Villaggio erano troppo lontani da me. Neri Parenti mi ha pure travestito da bimbo, col pannolone, mi sono un po' vergognato».
Il cinema spezzò il duo.
«Ma io e Cochi non abbiamo mai litigato, ci vediamo sempre. Se, come pare, darò una mano al Lirico di Milano, spero ci riuniremo. Per anni, non ci distinguevano. Nacque la mia Francesca e l'infermiera gridò in sala parto: è nata la figlia di Cochi e Renato».
Come ha conosciuto sua moglie?
«Sul lago, stessa compagnia, a 16 anni. Era molto spiritosa. È stato un grande amore, durato fino a 10 anni fa, quando è mancata. Non era affascinata dal cinema e questo mi ha aiutato. Non è mai voluta venire a Roma».
Non era gelosa di attrici bellissime come Edwige Fenech, Ornella Muti?
«Non ero Mastroianni. Quando Marcello veniva a Laveno a trovarmi, uscivamo col motoscafo Riva e le donne lo acclamavano dalla strada».
Momenti di crisi?
«Quando s' ammalò mia moglie. Nel lavoro puoi star fermo, ma non è una malattia che ti arriva fra capo e collo».
Cochi sostiene che fa sogni che lo fanno ridere pure nel sonno. E lei?
«Vorrei sognare mia moglie, non è mai successo».
Ama essere intervistato?
«A volte, nei teatri, m' intervistano e, quando mandano un pezzo di film, la gente ride in modo sfrenato e io ci resto male come se avessi un concorrente più bravo di me».
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ovidchandler · 4 years ago
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23:21 1/6 Sophia_Maffett cercatore (#5)(Domenica 31-05 | TRIBUNA 2 | ore 18 passate) Ma la cercatrice non era in volo, forse per sua fortuna dato che rischiava un blocco, mentre i settimini cercavano indizi si era acquattata sulla tribuna, e dopo aver sbirciato appena si attendeva l`arrivo del bolide che però... Non arriva e i due ragazzi la vedranno spuntare da dietro la tribuna stessa con un espressione confusa e interrogativa mentre gli occhi azzurri intercettano la figura di OVID che dopo aver controllato il bolide sembra intenzionato a lanciarsi addosso a lei di tutta carriera... Occhi sgranati e mani che schizzano verso l`alto, si sta forse arrendendo? «Aaaaah!!» grida divertita a gran voce verso il battitore. «Pietà, Parlé!» aggiunge quindi sperando di poter così calmare la foga della ricerca dei due settimini, prima che la blocchino, leghino o peggio. «Wohooo!» esclama quindi con entusiasmo «siete arrivati alla fine del percorso!» come se fosse effettivamente un`impresa sorprendente. Balzarebbe quindi indietro, dato che per l`occasione ha pure tolto gli stivali di volo, posati sempre sulle stesse tribune, poco lontano. Questo le permette di essere un poco più aggraziata nel saltellare in giro. «E ora il vostro premio...» dice quindi in tono un po` più vellutato. E infatti eccola prendere quella che sembra una grande coperta e fare una sorta di piroetta avvolgendosi dentro mentre rivolge uno sguardo ammiccante verso IRIS sollevando le sopracciglia un paio di volte per poi sghignazzare divertita. Un altra piroetta e la stessa coperta viene distesa sugli spalti. Poi eccola continuare, con un sinuoso movimento dei fianchi seguendo una musica che sente solo lei a fare un po` la sua danza che non è esattamente proprio coordinata ma molto free stile se vogliamo dirla tutta. Fa ondeggiare la treccia quindi mentre muovendo le spalle si china in avanti a recuperare una seconda coperta, sorridendo a OVID e facendo poi anche cenno con il ditino ai settimini volanti di unirsi a lei. Sexy? Insomma, seh, a livello Muffin... intanto ben quattro coperte mono-persona vengono stese sugli spalti dalla danzante cercatrice e, una volta unite, formano il disegno di un campo da Quidditch visto dall`alto che, si colora dei colori corvonero e riempie di piccoli fuochi d`artificio e coretti da stadio che inneggiano ai bronzoblu! La ragazza si mette accanto quindi sorridendo «c`è ne è una per ognuno di voi» dice ai ragazzi del settimo, portandosi le mani dietro la schiena e con un po` di fiatone dopo la danza, si sistema una ciocca di capelli «è un pensiero da parte nostra per farvi sapere che vi saremo sempre accanto, e che tutta la squadra vi abbraccia quando vi ci avvolgerete» quindi guarda il campo animato e tifosamente festante «e anche che beh, quando siete tutti insieme siete una forza e uno spettacolo!» sorride e quindi attende che anche il resto della squadra si faccia presso agli spalti per completare la festa. Esultando con dei saltellini e le mani in alto ogni volta che qualcuno arriva sugli spalti «Comunque ho avuto davvero paura con quel blocco!» esclama sgranando gli occhi contenta di vedere LUKE e LANCE ancora interi, che vengono accolti festosamente come gli altri.
23:23 1/6 Lance_Cornwell cacciatore (#2)( Domenica 31 maggio , ore 18 | Campo da Quidditch ) Quegli incanti lanciati a tradimento lo colgono di sorpresa, sorpresa che rimarrà immortalata "per sempre" nel suo volto o almeno fino alla fine dell`incanto. Una volta libero farebbe un breve zig zag con la scopa come ad assicurarsi che tutto sia come prima. «Hey questo e` fallo e poi che esempio date? Avrei capito una Bolidata ma questo!» esclamerebbe in direzione dei SETTIMINI con finto tono accusatorio. Spingendo sulle staffe segue i SETTIMINI, che sembrano particolarmente agitati nel loro avvicinarsi a PHIA. «Fermi fermi! L`indizio non e` dentro Phia! Non smontatela!» gli urlerebbe divertito per poi aggiungere alla sua descrizione: «potete avvolgerci quello che volete! Ospiti, gufi, ammiragli, inoltre possono essere usate come bandiere, per asciugare, per coprire coperte piu` brutte» sciorina «ma soprattuto potete usarle come tabellone di gioco per giocare a Qudditch con Chartànimus levitanti!» direbbe allegro scendendo dalla scopa ed avvicinandosi alle coperte.
23:32 1/6 William_Dent battitore (#11)(31/5, ore 18, Sin1->Tribuna2) Esulta tra sé e sé quando il bolide si dirige esattamente nella direzione in cui aveva inteso spedirlo, ed è rapido a riabbassarsi sulla scopa per accelerare, volando verso la tribuna accanto a LANCE e REBECCA finalmente liberati. Ridendo di tutto cuore, sfreccia sopra la tribuna per poi frenare ed invertire rapidamente la direzione con una derapata secca e decisa, e con molta più calma andare ad atterrare sulla tribuna, non lontano dal regalo che tutti insieme hanno fatto ai settimini. Ed alza la bacchetta in aria, per unirsi ai fuochi d`artificio made in Atelier Maffet con un tonante «Exco flagrantis!», per colorare l`aria con una serie di stelle filanti color bronzo e blu che piovono sui presenti, una girandola scintillante negli stessi colori che rotea sopra alle loro teste per qualche secondo prima di sparire in uno scoppiettio allegro, liberando coriandoli ed altre stelle filanti. Rinfodera la bacchetta osservando con un sorrisetto di sottecchi la reazione dei settimini. La sinistra che si salda stretta sulla scopa in resta mentre si prepara ad assorbire l`impatto emotivo dei loro animi.
23:34 1/6 Rebecca_Knight cacciatore (#19)(31.05| Ore 18| Campo da Quidditch) Una volta terminato il tentativo di back balai wall, la terzina gira la scopa per volare verso la tribuna da cui è saltata fuori SOPHIA e giunta dagli ALTRI ascolta le parole dell`AMMIRAGLIO e il resocoto dettagliato di LANCE, a cui riserva un sorriso dolce, prima di concentrarsi sui SETTIMINI: «Speriamo che vi piaccia e che vi ricordi di noi, ad agosto come tra molti anni.» Ed eccola che passa lo sguardo sui compagni più grandi, soffermandosi in particolare su OVID ed IRIS. Gli occhi si fanno un po` umidi, ma per ora sembra riuscire ad evitare di piangere, mentre li osserva con un gran sorriso. «Grazie per tutto quello che ci avete insegnato!» aggiunge con tono deciso, ma un po` più basso.
Ovid Chandler battitore (#8)(31/5, ore 18, campo Quidditch) Ovid blocca il bolide che sembra però intonso e il suo sguardo confuso intercetta PHIA che compare dalla TRIBUNA 2. Capisce immediatamente come le due cose fossero collegate e come WILL abbia spedito il bolide proprio lì, altro che non essere capace a indirizzare il bolide e tutte quelle scene che ha fatto prima. Sorride divertito e sta per mettersi a inseguire PHIA quando la ragazza invoca il sacrosanto Parlé. Scoppia a ridere e alza la sinistra in aria posando per un secondo la destra sul cuore prima di tornare a tenere il manico. Osserva incuriosito i movimenti di PHIA che si avvolge in quelle coperte con movimenti ammiccanti (?). Scoppia definitivamente a ridere quando vede quel ditino che fa loro cenno di avvicinarsi ed esegue trovandosi proprio sopra quel tappeto di coperte che insieme formano il campo. Il sorriso che si aggrappa al suo volto non è solo divertito, ma dolce e melanconico come  non è davvero facile vederlo. Sorride puntando gli occhi su PHIA e scendendo dalla scopa sulle tribune, tra le stelle filanti, la raggiunge per prenderla in braccio a tradimento e farle fare un giro intero stringendola all’altezza della vita. [grazie] le dice solo alla fine prima di abbracciarla. E forse è anche peggio del blocco. Passa poi a WILL che incredibilmente abbraccia, in maniera maschile e breve, ma è comunque un abbraccio. Presa ugualmente morbida per BECK senza giri a meno che non sia lei a chiederlo e due strette e pacche maschili per i CACCIATORI [Mi raccomando voi due] tenete alto l’onore della squadra.
23:46 1/6 Luke_Pyrangelus cacciatore (#10)( Domenica 31 maggio , ore 18 | Campo da Quidditch ) L`Aresto Momentum di OVID era sicuramente inaspettato, infatti Luke rimane bloccato, mentre il settimino controlla la sua scopa. Ovviamente non ci trova nulla, perchè l`indizio è legato a quella di LANCE. Subito dopo averlo trovato, grazie all`aiuto di BECKS, il settimino mette fine all`incnto precedente, liberando Luke. «Ma...» osserva i due SETTIMINI con uno sguardo stupito e sorpreso, che nasconde però un sorrisetto divertito. Li osserva, mentre si muovono per tutto il campo alla ricerca dei vari indizi. Finalmente trovano il famoso "tesoro" di cui si parlava, facendo creare sulle labra del secondino un piccolo sorriso. «Grazie a voi ragazzi ... grazie di tutto!»afferma felice verso i due SETTIMINI. Stringe la mano a OVID e si becca la pacca sulla spalla e alle sue parole risponde con un occhiolino amichevole e un cenno della testa. Saluta anche IRIS, in qualunque maniera lei desideri, per poi prendere un bel respiro e fare un passo in dietro.
23:49 1/6 Iris_Jefferson cacciatore (#17)(31/5, ore 18, campo Quidditch) Iris è buona e cara, ma le sue minacce hanno trovato la parola fine quando arrivano alla fine di quel percorso, caccia all tesoro, senza esclusione di colpi. «Stiamo giocando ad una caccia noi, mica a quidditch. Voi non potete fare falli. noi sì.» E farebbe anche una linguaccia divertita a LANCE, per poi fargli l’occhiolino, avviando la propria scopa verso la figura di PHIA, vedendola ballare con la coperta. «Phia, ci iscriviamo insieme ad un corso di ballo del ventre questa estate, che ne dici?» ridacchia, ancora non ci sta capendo poi molto, avvicinandosi agli spalti, scendendo dalla scopa tra le gradinate, quando osserva il campo sulle coperte gli occhi iniziando a lacrimarsi, e sente un friccichio formarsi sul naso: significa che sta sta per piangere e non c’è modo di fermarlo. Guarda OVID, che potrà facilmente leggere il viso della compagna, occhi lucidi, e guance rosse, che in un attimo iniziano a rigarsi di lacrime. «Ragazzi non avete idea di quanto mi mancherete l’anno prossimo. » riesce a dire con la vocina un pochino spezzata, è diventata in un attimo dalla cacciatrice agguerrita con la bacchetta in mano a una bambolina piccola piccola che piange, commossa, Tirando pian piano TUTTI, indistintamente, partendo da Ovid e Phia, in un grosso abbraccio di gruppo. «Rendeteci fieri, e abbiate cura del nostro stormo…» sussurra, stringendo più che può ognuno di loro, piangendo come una fontana. Chiudete le tube please.
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intotheclash · 7 years ago
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Finalmente ce l’avevo fatta! Era stata un'ammazzatura, ma ce l'avevo fatta. Maledissi non una, ma cento volte quella mia linguaccia che finiva sempre per mettermi nei casini: con mio padre, con mia madre, con i miei amici, persino con mia sorella, che non parlava quasi mai. Mi facevano male le gambe, le braccia, le spalle, tutto mi doleva, ma soprattutto le palle. Quelle si che erano il nido del dolore, a forza di sfregare tra loro, sempre in piedi sui pedali. E con quel carico a rimorchio. I quattro chilometri di strada asfaltata erano stati terribili, ma il mezzo chilometro di sterrato mi aveva finito. L'ottava fatica di Ercole. Altro che ammazzare tori con le mani, o leoni a randellate.
"Meno male! Quasi non mi sento più il culo!" Esclamò Bomba, scendendo dalla bici.
"Con tutta quella ciccia, il sellino ti si sarà infilato di certo su per il buco!" Gli urlò contro Tonino, con un ghigno ben stampato su quella sua faccia piatta e lentigginosa.
Subito si levò un coro di urla e risate sguaiate.
"Ehi Pietruccio, ce l'avevi il cartello per i carichi sporgenti?" Chiese il Tasso. E via, ancora una raffica di risate e pacche sulle spalle.
"Ridete, ridete, intanto io il mio turno l'ho fatto! Vedremo al ritorno quanta voglia di ridere vi sarà rimasta. Tutta salita, brutti coglioni che non siete altro! E il panettone ve lo cicate voi!"
"A me fa schifo il panettone!" Esclamò contrariato Schizzo.
Come al solito non aveva capito un cazzo. Tre quarti del tempo abitava in un mondo tutto suo e quando rimetteva piede nel nostro, era come se fosse appena arrivato. Come cavolo poteva aver capito ciò che ci eravamo detti quando lui era via? Ridemmo tutti quanti, Bomba compreso, anche se il panettone in questione era lui. Placatosi lo scoppio di ilarità, fu ancora il Tasso a parlare.
"Comunque Pietro, il panettone non se lo mangia nessuno. Abbiamo deciso che il ritorno se lo fa a piedi. Dopo tutto è colpa sua se non ha preso la bicicletta!"
Cominciavo ad incazzarmi. Un patto è un patto e va sempre rispettato. Altrimenti sei fuori da tutto.
"Non fate gli stronzi!" Sibilai cattivo, "Se provate a fare una porcata del genere, vi butto le bici nel fiume!"
"La mia no, Pietro, io non c'entro! A me non tocca trasportarlo!" Fece Schizzo allarmato.
"Tranquillo Schizzo," Intervenne Tonino,"però ricorda, Pietro, che se non va a piedi, bisogna, per forza, passare al piano B. E la colpa sarà soltanto tua!"
"Ma che cazzo vai dicendo? Di cosa sarei colpevole?"
"Del fatto che, per non portarlo, abbiamo deciso che ora, Bomba, lo affoghiamo!"
Dopo di che si alzarono in piedi tutti e quattro e ci saltarono addosso urlando come scimmie ubriache. Mi stavano prendendo per il culo! Quei figli di puttana mi avevano preso per il culo e io ci ero cascato come l'ultimo dei fessi. Ma anche loro avevano fatto uno sbaglio grosso come una casa. Ma di quelli che te ne rendi conto soltanto quando è troppo tardi per tornare indietro. Bomba non era solo il più grosso di noi, ma anche il più forte. Immensamente più forte. Fu così che, nel bel mezzo della cruenta lotta, afferrò il povero Tonino con tutte e due le sue potenti braccia e lo scaraventò nel fiume con tutti i vestiti indosso. Seguì un istante di sgomento, le cose avevano preso una piega inaspettata, subito dopo partirono dirompenti le risate. Tonino riemerse dall'acqua, che gli arrivava alla cintola, sputò fuori quella che gli era entrata in bocca, rimasta aperta per tutto il volo, e diede sfogo alla rabbia e alla frustrazione:"Brutta palla di lardo! Stupido ciccione figlio di puttana! Adesso esco e ti faccio vedere io cosa ti succede!"
Incrociai gli sguardi degli altri e vidi la stessa idea nei loro occhi illuminati. Allora dissi:"Adesso esci e che cosa? Meglio che resti dove sei. Perché saremo noi a venire dentro!"
E ci tuffammo anche noi completamente vestiti. Era uno di quei piccoli gesti che tendevano a cementare un'amicizia. Anche se, nel nostro caso, non credo ce ne fosse bisogno, ma faceva comunque piacere.
Sguazzammo nell'acqua giallognola del Tevere come tortellini nel brodo del sabato. La similitudine era lampante. Appartenevamo tutti a famiglie piuttosto povere. Dignitose, credo, ma povere. E il sabato era il giorno dei tortellini. Non tutti i sabato. E non molti tortellini a testa, ma, per la legge di compensazione, nel brodo avremmo anche potuto affogare. Dopo un'oretta di schiamazzi, tuffi, battaglie e quant'altro, uscimmo distrutti dall'acqua e ci gettammo esausti sulla rena della riva. Ci togliemmo tutti i vestiti, tanto li non passava mai un cazzo di nessuno, e li appoggiammo ad asciugare sui rovi e sui rami più bassi dei pioppi. Ci avrebbe pensato il sole.
"Questa si che è vita!" Sospirò a bassa voce il Tasso, rotolandosi nella sabbia.
"Ma guardati! Sembri una fettina panata gigante!" Disse Schizzo con aria schifata.
"Senti chi parla! Ma voi vi siete visti? Anche voi sembrate fettine panate. Meno Bomba. Lui non sembra una fettina panata. Sembra l'intera mucca panata!" Replicò il Tasso tutto felice.
Ridemmo tutti di gusto e saltammo addosso a Bomba che, in quella occasione, fortunatamente, si limitò a sopportarci senza reagire. Terminata l'incruenta lotta, ritornammo a crogiolarci al caldo di quel benevolo sole di un pomeriggio senza nubi dell'estate del millenovecentosettantadue. Sei piccoli, grandi amici, circondati da una natura materna che, nostro malgrado, non sarebbe rimasta incontaminata a lungo. E neanche noi.
"Certo che è proprio una goduria! Sembra di essere a Rimini!" Dissi sottovoce, mentre giocherellavo distrattamente con quel poco pisello che possedevo a quell'età.
"Fico Rimini!" Commentò d'impulso Sergetto.
"Che cazzo è Rimini?" Chiese invece Bomba.
"E' una città dove ci sta il mare più bello d'Italia. E ci stanno pure certe fighe!"
"E tu che ne sai? Ci sei mai stato?" Domandò Tonino. Più interessato alle fighe, che al mare.
"No che non ci sono mai stato! Non fare lo stupido, lo sai che non ci sono mai stato!"
"E allora come fai a saperlo?"
"A sapere cosa?"
"Del mare! E delle fighe!"
"Ho visto due cartoline che hanno spedito a casa gli amici di mia sorella. C'era un mare azzurro come...come non so cosa. E certe chiappe di culo che non vi dico!"
"Sei un cazzaro di prima categoria!" Mi accusò il Tasso sogghignando.
"Allora domani frego le cartoline a mia sorella e ve le faccio vedere, se non ci credete! Stronzi!"
"Senti, Pietro, ma tu ci sei mai stato al mare?" Chiese Bomba, mentre tentava di togliersi un po' di rena di dosso.
La domanda oggi sembrerebbe assurda, ma allora era più che legittima. Infatti, di tutti e sei, solo io e Schizzo ci eravamo stati, con esiti diversamente disastrosi.
"Certo che ci sono stato!"
"E com'era?"
"Com'era? Com'è, vorrai dire Bomba. Mica è morto il mare!"
"Vabbè, hai capito, allora dimmi com'è?"
Avrei voluto, ma non potevo mentire ai miei migliori amici, così:"Una cagata!" Esclamai, mentre con la mente correvo a quell'unico, maledetto giorno in cui i miei mi avevano portato al mare.
Era successo l'anno prima. Il ricordo ancora mi bruciava. Per anni, mia madre, tutte le estati, ad Agosto, quando mio padre era in ferie, aveva insistito per farsi portare al mare, ma non c'era mai stato verso di spuntarla. Come ho già detto, il mio vecchio era un camionista, tutta la vita su e giù per l'Italia col culo schiacciato sul sedile della cabina. Va da se che, di domenica, o durante le ferie, guai a parlargli di motori e di strade. Iniziava a bestemmiare come un turco e non la finivi più. Iniziava in sordina, sottovoce, poi un po' più forte, alla fine si lasciava prendere la mano e andava a finire che tutto il vicinato era costretto ad ascoltare le sue pittoresche lodi al Signore.
"Mi avete rotto i coglioni co' 'sto mare!" Diceva, "Mi spacco il culo per voi tutto l'anno su quella merda di camion e, quando finalmente ho un minimo di riposo, voi pretendete che salga sull'auto per scarrozzarvi dove vi fa comodo? Ma che razza di cervello bacato avete? Non se ne parla nemmeno!" Non se ne parla nemmeno era l'epitaffio. Tutte le volte. Quindi, figurarsi il nostro stupore quando, una mattina, alle sette in punto, il vecchio ci buttò tutti e tre giù dal letto, annunciandoci la lieta novella:" Sveglia poltroni! Preparatevi, oggi si va al mare!" Ricordo che tra lo stupore e la felicità ci fu una bella lotta. Eravamo rimasti tutti senza parole. La prima a riaversi fu mia madre, che obiettò:" Ma come faremo per il pranzo? Certo che sei sempre il solito! Non potevi dircelo ieri sera? Avremmo avuto tutto il tempo per prepararci, sant'Iddio!"
Lui la guardò per un istante, fece la faccia più sbalordita di cui fosse capace e rispose:" Ma come? Sono anni che scassi con il mare e oggi che mi sono deciso, crei tutti questi problemi? E poi ve l'ho detto stamattina perché ieri sera non ne avevo voglia. Oggi si! Allora? Cosa dobbiamo fare? Andiamo o no?" "Andiamo! Andiamo!" Gridammo entusiasti io e mia sorella. Ci infilammo di corsa i costumi sotto ai pochi vestiti, mia madre preparò in fretta i panini e li mise in una cesta di vimini con la frutta e le bottiglie d'acqua. Eravamo pronti. L'avventura poteva cominciare. E, Cristo, se fu un'avventura. E chi se la scorda più! Ci impiegammo ben tre ore per coprire i novanta chilometri che ci separavano dalla costa. Una volta arrivati a Tarquinia, mio padre strabuzzò gli occhi e disse imprecando:"Madonna, che casino! Ma da dove salta fuori tutta questa cazzo di gente? No, qui non ci possiamo davvero fermare. Grasso che cola se ce ne tocca un secchio a testa di acqua salata." "Allora cosa vorresti fare?" Domandò preoccupata mia madre. "Tranquilla donna! Ora te lo cerca il tuo bel maritino un posticino tranquillo per farti il bagnetto!" E lo cercò davvero. Eccome se lo cercò. Gli ci volle un'ora e mezza, ma alla fine lo trovò. Arrestò l'auto in quello che, probabilmente, era il posto più brutto del Tirreno. Infatti non c'era anima viva. Nessuno tranne noi. Niente persone, niente bar, niente ombrelloni, nemmeno sabbia. Solo sassi. Sassi enormi che partivano da dove avevamo lasciato la macchina, fino ad arrivare per diversi metri dentro l'acqua. Acqua che io e mia sorella facemmo giusto in tempo ad assaggiare. Neanche la maglietta riuscii a togliermi. Riuscimmo a bagnarci solo per metà, perché da lì a dieci minuti, nostro padre fischiò e ci fece uscire. Con quel suo tono perentorio che non ammetteva repliche, disse:"Su, venite fuori ragazzi. Basta bagni per oggi. Ora si pranza e si torna a casa. Che non ho voglia di beccarmi tutto il traffico del ritorno." Mia madre era nera di rabbia, a me veniva quasi da piangere, pure a mia sorella, ma non ci fu niente da fare. Quella, per fortuna, fu l'unica volta che ci portò al mare.
A Schizzo andò ancora peggio. Molto peggio. Lui neanche ci voleva andare al mare. I suoi ce lo mandarono per forza. In colonia. A Montalto di Castro, per quindici giorni filati. Quindici giorni che lui, naturalmente, non fece mai. La notte del secondo giorno scappò via scalzo, con indosso soltanto il costume e una canottiera a righe bianche e rosse. La mattina seguente, i responsabili della colonia, resisi conto dell'accaduto, telefonarono subito ai suoi genitori, che, tra una bestemmia e l'altra, dovettero montare sulla loro seicento per andare a ripescare il proprio figliolo così lontano da casa. Lo trovarono verso le quattro del pomeriggio, che vagava senza meta sulla Statale Aurelia. Fortuna che, quel giorno, c'era poco traffico. Appena gli fu accanto, il padre inchiodò l'auto, scese come una furia e gli diede un fracco di botte senza proferire verbo. Schizzo le prese tutte. Non tentò di schivare neanche un colpo. Ma non versò una lacrima che fosse una. Anzi, quando il padre si stancò di colpirlo, lui, con tutta la rabbiosa calma che possedeva, promise che, se lo avessero lasciato ancora li, sarebbe scappato la sera stessa. Naturalmente si guadagnò una seconda razione di legnate, seduta stante.
Schizzo aveva molti difetti, ma manteneva sempre le promesse fatte. Fu così che, nonostante le difficoltà oggettive e la sorveglianza raddoppiata, quella stessa notte se la svignò di nuovo. Portò a lungo i segni neri e bluastri della fibbia della cintura di quell'avvinazzato di suo padre, ma vinse lui. I suoi dovevano decidere se ammazzarlo di botte lì, sul posto, o riportarselo a casa impotenti. In verità ci pensarono su piuttosto a lungo, ma alla fine decisero che sarebbe stato meglio per tutti riportarlo a casa. Negli anni a venire, quando sentivo dire che al mare bisognava stare attenti, che era pericoloso, io pensavo sempre a Schizzo.
"Ehi, Pietruccio, ci sei ancora?"
La voce di Tonino proveniva da una zona remota della mia testa, ma ebbe comunque la forza di trascinarmi indietro.
"Certo che ci sono! Stavo pensando!"
"E a cosa? Alle chiappe di culo sulle cartoline?" Disse il Tasso, guardandomi con malizia esagerata l'uccello.
Cavolo! Mi era venuto duro! Di sicuro avevo continuato distrattamente a toccarmi, mentre ero perso nel fondo dei miei pensieri.
"Ci hai fatto preoccupare! Ti abbiamo parlato tre, o quattro volte, ma tu niente, Dove cazzo stavi col cervello? Sembravi Schizzo!"
"Io lo odio il mare! Con tutte le mie forze lo odio!" Disse Schizzo, a riprova che la similitudine era perfetta.
Lo fissammo per un istante e scoppiammo a ridere. Povero Schizzo, tutti eravamo a conoscenza della sua disavventura e ci venne subito in mente. E non solo noi, i suoi amici, la conoscevamo, l'intero paese ne era al corrente. D'altra parte, è risaputo, in un piccolo centro funziona così: tutti sanno tutto di tutti. Capita anche che sappiano molto di più. Sanno cose che non sono mai accadute e che, con molte probabilità, non accadranno mai, eppure le sanno, C'è sempre qualcuno che le sa. Qualcuno che le sa e qualcun'altro che glielo ha detto.
Iniziammo a lanciare sassi nel fiume, cercando di colpire tutto ciò che galleggiava.
"Facciamo una gara!" Propose bomba, lanciandone uno ben oltre l'altra riva.
"Che tipo di gara?" Chiesi
"A chi va più lontano!"
"Che cazzo di gara è? Tanto lo sappiamo che vinci tu! Non hai un braccio, ma una catapulta!"
"Facciamo la gara di seghe! A chi viene prima!" Propose Tonino, come alternativa.
Perché no? Eravamo nudi come vermi, l'attrezzatura era in bella mostra e la voglia non mancava mai.
"Va bene, però Sergetto è fuori e fa da giudice. Con lui non si può gareggiare, è svelto come un fulmine!"
"Col cazzo che sono fuori! Voglio giocare anch'io!" Protestò ferocemente Sergetto. Anche perché quella era l'unica gara in cui ci passava la biada a tutti.
"Io non voglio farla!" Si lamentò Schizzo, arrossendo.
"Perché non ti si rizza!" Lo punzecchiò il Tasso
"Certo che mi si rizza! Ed è pure più lungo del tuo! Non mi va e basta!"
"Non ti si rizza! Non ti si rizza!" Lo sfottemmo in coro, girandogli intorno.
"Andate tutti a fare in culo! Portatemi qui le vostre sorelle e vedrete se mi si rizza!"
"Allora fai il giudice di gara. Come a Giochi senza Frontiere." Disse Tonino.
"Mi sa che tu non ci stai con la testa. Secondo te io sto qui a guardare che vi fate le seghe?"
"Che male c'è?"
"C'è che mi fate schifo! Ecco cosa c'è." Concluse Schizzo, tuffandosi in acqua.
Non ci restava che iniziare la gara. Anche senza giudice. Tanto l'esito era scontato. Ci mettemmo in fila, spalla contro spalla: pronti? Via! Partimmo a razzo, mezza lingua di fuori, che, in quelle occasioni, sembrava aiutasse e la mano che andava su e giù come il pistone di una Ferrari. Non ci fu nulla da fare, quel coniglio arrapato di Sergetto trionfò in meno di un minuto. Lo odiavamo per questo. E lo invidiavamo anche. Solo qualche anno dopo ci saremmo ricreduti, felici che quel primato fosse tutto suo. Dopo un po', anche io, Tonino e Bomba tagliammo faticosamente il traguardo. Il Tasso era rimasto indietro. Terribilmente indietro, lui non arrivava mai. Mentre si accaniva a testa bassa sul pezzo, lo incitavamo e lo prendevamo per il culo contemporaneamente. Gli ci volle una mezz'ora buona, per arrivare felice e sudato alla bramata meta e noi lo portammo in trionfo come un vincitore. E lo era davvero. Anche questo lo avremmo capito più tardi, insieme alle nostre donne. "Beati gli ultimi, che saranno i primi", in questo campo specifico, forse solo in questo, valeva per davvero.
Terminate le solenni celebrazioni, saltammo nel fiume e raggiungemmo Schizzo, che, nel frattempo, stava cercando di far navigare un vecchio tronco marcio recuperato dalla riva. Ci sistemammo tutti su quella sottospecie di maleodorante zattera e ci lasciammo cullare da quell'indolente corrente. Gli uccelli si fermavano a guardarci stupiti e il sole martellava la nostra pelle senza troppa cattiveria.
"Certo che, a noi ragazzini, di "fregnacce" ce ne raccontano tante." Disse Tonino, con lo sguardo perso da qualche parte sulle canne dell'altra sponda.
"Hai fatto la scoperta dell'acqua calda." Risposi, cercando di capire cosa stesse guardando.
"No, dico: a parte Babbo Natale, la Befana, come nascono i bambini, quella che se ti fai le seghe diventi cieco è proprio la stronzata più grossa che abbia mai sentito."
"Bene, bravo! Ma ora che cavolo c'entra?"
"Ci stavo pensando prima. Mentre stavamo facendo la gara. Ho guardato prima Schizzo, poi noi, poi ancora lui che era l'unico a non gareggiare."
"E allora?"
"Allora ho pensato che non solo quella storia è una palla gigantesca, ma che, forse, è vero l'esatto contrario. Che diventa cieco proprio chi non si fa le seghe!"
Ridemmo felici per la scoperta. Sembrava chiaro che avesse ragione Tonino. Non c'erano santi. E quando se ne fosse convinto anche Schizzo, di sicuro non avrebbe disertato una gara.
"Ehi, guardate laggiù!" Urlò improvvisamente Sergetto.
Ci voltammo di scatto, tutti insieme. A quell'età la curiosità è vorace come una belva feroce digiuna da settimane. Un branco di mucche pezzate, bianche, nere e marroni, stava placidamente guadando il fiume su in una secca; forse in cerca di pascoli migliori.
"Stanno attraversando il fiume! Il nostro fiume!" Aggiunse, facendosi torvo in viso.
"Addirittura nostro!" Commentai sarcastico.
"Certo che è nostro. Qui ci veniamo solo noi. Così ci sporcano l'acqua, bestiacce maledette!"
"Ma che cazzo dici? Come fanno a sporcarci l'acqua se sono più a valle? Certo che ne spari di palloni!"
"Non me ne frega niente! Questo fiume è nostro e io qui non ce le voglio! Andiamo a prenderle a sassate!"
Seguì un coro di: andiamo! andiamo!, ma io rimasi in silenzio. Ero perplesso. Mi piaceva lanciare sassi e avevo anche una bella mira. Certo, non lanciavo lontano come Bomba, ma ero molto più preciso. Però non mi piaceva colpire gli animali, mi facevano pena, tutto qui. Facevo un'eccezione soltanto per quei schifosi ratti di fogna che, ogni tanto, incontravi per le vie del paese e per le odiate vipere. Ma era un altro discorso. Decisi di passare la mano. Nuotai fino a riva e mi sdraiai su uno dei tanti massi levigati che sbucavano prepotenti dalla vegetazione e mi misi ad osservare in disparte la spedizione punitiva. I miei amici arrivarono, con passo lesto, ad una decina di metri dalla mandria, poi diedero inizio ad una fitta sassaiola. Le povere bestie furono colpite a raffica, anche se diedero l'impressione di non curarsene troppo. Insomma, sembrava non considerassero le sassate più fastidiose delle centinaia di punture di mosche e tafani che subivano in continuazione. tuttavia la cosa non mi piaceva lo stesso. Decisi di alzarmi ed andare a porre fine a quello stupido gesto. Non feci in tempo. Dalla riva opposta partì, come un proiettile, un pezzo bello grosso di legno marcio e, per quanto lo trovassi impossibile, arrivò dalla nostra parte ed andò a schiantarsi contro il povero Bomba che cadde al suolo come un sacco di patate. In quell'attimo si fermò il mondo. Lo stupore si poteva tagliare con la motosega, tanto era presente. A farci uscire da quella fase di stallo fu un sasso. Un sasso lanciato dallo stesso punto di prima. Sasso che, con altrettanta forza e precisione, andò a colpire Sergetto proprio in mezzo alla testa. Lui lanciò un urlo disumano e, subito dopo, come a fargli compagnia, anche una gran bestemmiona. Rimase immobile, con le mani in testa, per un tempo indefinibile, gridando:"Non ci vedo più! Non ci vedo più!"
Fummo azzannati dalla paura, paralizzati, ma, per fortuna, subito dopo tornò a vederci. anche se quello che vide peggiorò la situazione. Si portò la mano destra davanti agli occhi e constatò, con la paura che gli si allargava in faccia, che era sporca di sangue. Del suo sangue. A quel punto le lacrime tracimarono dagli occhi e si trasformarono ben presto in un fiume in piena. Fu così che la paura si trasformò in rabbia e i miei amici iniziarono a lanciare tutto ciò che capitava loro a tiro verso il punto in cui aveva avuto origine il fuoco nemico. Io me ne rimasi ancora in disparte. Ancora dovevo capire.
Finalmente riuscimmo a vederlo. Dapprima solo una sagoma oscura tra i fitti cespugli dell'argine, poi, piano, piano, venne fuori la forma di un ragazzino, più o meno della nostra età, scalzo, con i pantaloncini corti e a torso nudo. Non sembrava affatto impaurito. Non fosse altro che per la differenza numerica. E, con nostro grande stupore, ce lo dimostrò pure. Saltò in groppa ad una delle mucche e ci raggiunse attraversando il fiume.
"Certo che ne ha di coraggio!" Pensai.
Fu Tonino a parlare:"Guarda come cazzo lo hai conciato! Gli hai rotto la testa, brutto figlio di puttana!" E gli mostrò, come prova, la zucca di Sergetto che ancora frignava.
Gli aveva detto proprio figlio di puttana! Era l'offesa mortale! Quella che necessariamente significava: cazzotti! Poteva passare solo tra amici stretti e detta per scherzo; ma urlata in quel modo ad uno sconosciuto! Nessuno di mia conoscenza avrebbe lasciato correre. Era la regola. Anche a costo di prenderle. Era una questione di onore. Eppure il nuovo arrivato sembrò non dargli peso. Rimase lì, immobile come un masso. Non era minimamente turbato. forse perché, nudi come eravamo, facevamo più ridere che spavento.
"Avete iniziato voi." Si limitò a dire. Con un tono così calmo che faceva quasi paura.
" Anche a me potevi rompere la testa, brutto stronzo di un matto!" Rincarò la dose Bomba.
"Avete iniziato voi." Disse ancora.
Era il turno del Tasso. Ma lui era uomo d'azione, non di parola, fece l'unica cosa che era capace di fare, caricò a testa bassa il nuovo arrivato, menando pugni all'impazzata e sbuffando vapore come un toro nell'arena. Il ragazzino con i calzoncini non mosse un muscolo. Attese la carica con le braccia conserte, quando il Tasso gli era praticamente addosso, veloce come il demonio scartò di lato e con uno sgambetto lo fece finire lungo disteso nel fiume.
Non potevo più aspettare, dovevo intervenire. Tra i miei amici, ero io il più bravo a fare a pugni, toccava a me condurre le danze. Certo, l'avversario sembrava una brutta bestia, anche troppo brutta, ma dovevo farlo, non potevo rimetterci la faccia. "Adesso basta, vuoi fare a botte? fallo con me!" Dissi.
I miei amici si fecero da parte ridacchiando nervosamente e urlarono in faccia al mio nemico:"Ora sono cazzi tuoi, stronzetto!"
Non è che io ne fossi troppo convinto, ma, come si dice, il tifo aiuta sempre.
"Non mi batto con te." Disse quello, sempre con quel tono gelido.
"Meno male" Pensai. Ma "Perché no? Hai paura?" Mi sentii dire.
"Non ho paura, è che tu sei l'unico che ha lasciato in pace le mie mucche. Non mi batto con te."
Aveva ragione, per Dio! E anche per fortuna! Avevo lasciato in pace le sue mucche! Feci qualche passo avanti e mi presentai:"Io mi chiamo Pietro, e tu?"
Quello mi fissò per un attimo, fece una smorfia che somigliava vagamente ad un mezzo sorriso, si voltò è ritornò nel nulla da dove era venuto.
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hessathaliaarcher-blog · 6 years ago
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        –––––  𝐂𝐇𝐑𝐈𝐒𝐓𝐌𝐀𝐒 𝐄𝐕𝐄  –––––               People like us we don’t need that much         just someone that starts the spark in our                     𝒃𝒐𝒏𝒇𝒊𝒓𝒆 𝒉𝒆𝒂𝒓𝒕𝒔.   25 Dicembre 2018; giunta la mezzanotte, aveva portato con sé l'arrivo del Natale. L'avrebbero passato in famiglia, durante il giorno. Durante la sera avevano scelto di stare da soli, vedere arrivare il 25 Dicembre senza nessun altro. L'appartamento a Londra di Hessa era molto accogliente e l'avevano reso un po' più Natalizio, vedeva la neve cadere all'esterno delle finestre e sentiva più lo spirito aumentare. Avevano passato la serata a cenare e chiacchierare, finché Joseph non aveva preso una sedia per osservare l'esterno innevato della casa, con Hessa seduta sulle gambe. Passò una mano sulla schiena di Hessa, per farla sollevare e poi risedere da sola, mentre Joseph s'incamminò verso la valigia, per prendere i due regali. Uno lo nascose dentro la tasca, l'altro dietro la schiena.  «È il nostro primo Natale insieme, non sei emozionata? Io sì, parecchio. Non è il primo che passo da fidanzato, ma è il tuo primo, sì. Volevo che fosse speciale.» Sì inginocchiò con entrambe le gambe vicino a Hessa, cercando le sue labbra per un casto bacio.  «Buon Natale, amore.» Le mostrò una scatola, che le passò tra le mani, in attesa che lo scartasse. Una custodia conteneva il loro futuro, le loro certezze. Due chiavi.  «Una appartiene alla casa in Egitto, l'altra del vigneto in Toscana. Ho le stesse copie delle case... ed appartengono a noi. Cioè, il vigneto appartiene alla famiglia McLean. E tu ne fai parte, ne devi avere una copia; è casa nostra.»   Decidere di passare la vigilia da soli era stata la scelta migliore che avessero potuto fare. Hessa era molto in ansia per il pranzo del giorno successivo, principalmente perché si sarebbe dovuta occupare lei della cucina e sperare solo, incrociando le dita, che i loro genitori potessero andare d'accordo. Era un passo davvero importante per la loro relazione e per questo motivo rilassarsi un po' da soli, la sera prima, era doveroso. Era tranquillamente e comodamente appisolata contro la spalla di Joseph, quasi sul punto di crollare davvero addormentata tanto era la sensazione di relax e calore in quel momento, e infatti quando l'uomo le chiese di sollevarsi Hessa arricciò il naso scontenta, ma non protestò in altro modo. Lo guardò tornare da lei pochi istanti dopo e con un sorriso sulle labbra accolse il piccolo bacio che le venne regalato, nonostante fosse di breve durata. Rimase poi in religioso silenzio durante le sue parole, avvertendo il cuore battere sempre più velocemente nel petto, e quando prese tra le mani la scatolina e rivelò le due chiavi si morse il labbro inferiore, tuffandosi in pochi istanti tra le sue braccia alla ricerca di un po' di calore, tenendoci a comunicargli in quel modo tutta la gioia che due semplici oggetti erano in grado di trasferirle.  «Sono così... felice, Jo. E lo dico davvero. Essere qui con te è tutto ciò che desidero. Passare il Natale insieme è... emozionante, è la mia prima volta che lo passo sai... in compagnia, e intendo dire con un compagno, e sono ancora più felice che tu sia il primo, e sarai anche l'ultimo. L'unico con cui passerò ogni mio Natale. Ti amo. E ho anche io i tuoi regali... da andare a prendere.»   Primo e ultimo. Joseph non poteva credere di aver avuto tanta fortuna; eppure, pareva quasi triste che Hessa non avesse mai assaporato quel calore, di passare il Natale con un compagno. Il primo regalo era andato piuttosto bene, il secondo lo metteva in agitazione. Lo toccò dentro la tasca ma non ebbe il coraggio di darlo; lo lasciò lì, in attesa del momento più giusto.  «Un regalo che lo riguarda il letto, vero?» Alleggerì l'aria con una mezza battuta maliziosa, premendo nuovamente le labbra su quelle di Hessa per catturare nuovamente il sapore. Doveva; il momento più giusto non esisteva, doveva.  «Ho... ho un altro regalo, per te.» Balbettò un po', nervoso. Forse non era stata un'idea meravigliosa; probabilmente lo avrebbe preso per matto, o forse non avrebbe apprezzato. O s'aspettava qualcos'altro. Troppe incertezze in quel momento, si pentì di aver detto che ci fosse un altro regalo. Doveva tenerlo nascosto, lo sapeva! Sospirò, prendendo un po' di coraggio, e infilò nuovamente la mano dentro la tasca, ed il regalo si rivelò essere un anello. In ginocchio sul pavimento, sapeva quasi di proposta, ed invece...  «N-no, non voglio chiederti di sposarmi adesso o... così. Non è nemmeno un anello d'oro, è argento; e nessun diamante, vedi? No, è lontano dalla mia idea di anello di fidanzamento. Non è ancora giunto il momento. Eppure, voglio qualcosa che indichi che tu appartieni a qualcuno. E non mi basta una collana o un bracciale, credo che un anello possa fare più effetto, no!? Voglio che lo indossi ogni giorno con la consapevolezza che appartieni a qualcuno.» Avvicinò l'anello al dito, la mano tremante. Se faceva così per un semplice anello, non immaginava quando le avrebbe chiesto di sposarlo. Incatenò il proprio sguardo a quello suo, così serio come non lo è mai stato.  «Vuoi essere mia?»   Non ebbe il tempo di avviarsi verso la camera da letto per recuperare il suo di regalo che venne fermata da quella semplice frase da lui pronunciata. Lo avvertì fin dalla prima frase che c'era qualcosa che lo preoccupava, era bastato udire il tono con cui le aveva annunciato il secondo regalo. Si voltò a guardarlo giusto in tempo per vederlo inginocchiarsi e avvertì un vuoto nel petto. Uno di quelli positivi, quelli che ti fanno fermare il cuore e poi iniziare a farlo battere tanto velocemente da sembrare di poterlo far uscire da un momento all'altro. Non disse niente, non perché non volesse ma perché quello non era il suo momento per parlare, e quando l'anello d'argento fece il suo ingresso nella stanza Hessa si lasciò scappare un sorriso seguito da un piccolo singhiozzo che subito andò a frenare, portandosi una mano sulla bocca. Non servì a molto però, tentare di trattenersi. Ogni singola parola da lui pronunciata successivamente andò a contribuire al fiume di lacrime che senza sosta iniziarono a fuoriuscire dai suoi occhi. Eppure Hessa era così concentrata su di lui e su quello che stava confessando che non sembrava minimamente turbata dalla vista appannata e dal viso ormai completamente zuppo. E se fino a quel momento si era sentita sul punto di scoppiare l'ultima domanda le aprì una voragine nel petto, facendola crollare in ginocchio alla sua stessa altezza, sentendo il bisogno di distruggere quella lontananza fisica creatasi per condividere un momento tanto importante. Entrambe le mani andarono ad afferrare il suo volto e subito si sporse per premere le labbra contro le sue. Si rese per fortuna subito conto di non aver risposto e quindi, tra un bacio e l'altro, gli mormorò una tempesta di "sì" che non sembravano voler avere mai fine.  «Sono tua, voglio essere tua... tutta tua... ti amo, ti amo, ti amo.»   Ci sarebbero state altre due occasioni nel quale Joseph avrebbe infilato l'anello al suo dito; due occasioni ben più importanti e, allo stesso tempo, questa prima volta non aveva nulla da invidiare alle future. Non serviva una proposta o un matrimonio per creare un legame, e Joseph lo aveva capito dal primo momento in cui s'erano messi insieme. Se la proposta a Liz era servita per renderlo più sicuro del loro rapporto, con Hessa si sentiva sicuro anche senza una proposta; era un semplice anello che avrebbe mostrato di chi apparteneva. All'interno vi era la data in cui lei, più convinta che mai, aveva ammesso di volere un futuro con lui: 19 Luglio 2018. E ad accompagnare la data, una piccola J, che voleva essere un segno alla persona a cui apparteneva. Infilò l'anello al dito, sentendo un brivido lungo la schiena al gesto, e circondò poi i fianchi con le braccia, per stringerla in un caloroso abbraccio mentre premeva ripetutamente le labbra alle sue.  «La tua sola esistenza nella mia vita mi rende l'uomo più felice. Ti amo, Hessa Archer. Ne sono sicuro, che il nostro è uno di quei amori che non possono terminare. Nessuna donna mi saprebbe accettare come sono, con il mio carattere spesso di merda e i miei difetti che superano i pregi.» Lo ammise con tanta sincerità; pressò nuovamente le labbra alle sue, in un bacio più lungo dei precedenti. Sfiorò con la lingua le labbra della fidanzata per richiedere l'accesso e, ottenuto questo, penetrò all'interno per poter incontrare la compagna e giocare insieme in un gioco passionale, sensuale.   Osservò con attenzione l'anello e sorrise tanto apertamente da credere che avrebbe finito col farsi del male alla faccia. Perse quasi un battito quando le venne infilato al dito ed evitò di respirare chissà per quanti istanti, avendo paura di rovinare quel silenzio sacro sceso durante uno dei momenti forse più significativi della loro storia fino a quel punto. Lo guardò negli occhi per tutti i successivi minuti, mentre le parlava, mentre avvicinava le labbra alle sue fino a farle incontrare. Hessa provava spesso imbarazzo nello sguardo degli altri, ma non con Joseph. C'era così tanta intimità tra loro che non aveva mai sentito il bisogno di sfuggire ad un suo sguardo o abbassarlo per vergogna.  «Ti amo, Joseph. Quelli che tu chiami difetti sono pregi per me, sono le cose belle che possiedi e che mi hanno fatta innamorare di te. Due persone si amano non perché perfette o uguali, ma perché riescono ad accettare e andare oltre i difetti degli altri, no? E i nostri, in qualche modo, si incastrano perfettamente tra loro.» La mano con adesso l'anello andò a poggiarsi contro la sua guancia, come volergli far sentire il gelido argento contro la pelle e renderlo più consapevole di quel legame che secondo lei non si sarebbe mai potuto distruggere. Socchiuse alla fine gli occhi, abbandonandosi al contatto con la sua lingua che la fece sospirare dal piacere.   Rendere giustizia ad un amore come il loro non era nemmeno così semplice; esprimere un sentimento così intenso era difficoltoso, con un gesto quanto a parole. Non sapeva come condividere con lei quell'amore senza sembrare banale. Sapeva che ci avrebbe provato ogni giorno della loro vita. Assaporò quel bacio dal sapore di un futuro condiviso; una certezza che diveniva sempre più forte con il passare del tempo. Rabbrividì al freddo metallo dell'anello contro la pelle ruvida della guancia, ma ciò intensificò anche il bacio che approfondì esplorando la cavità orale della fidanzata con la lingua, tra le carezze delle labbra che danzavano insieme, premute contro, strette come in un intimo abbraccio. Le distaccò quando avvertì che avrebbe potuto perdere il controllo; una parte di sé voleva spogliarla di ogni strato e fare l'amore. Come ogni notte, con il corpo o con uno sguardo. Un desiderio incontrollato che non riusciva ad assopire, che lo rendeva schiavo di una passione immensa che sfogavano egregiamente. Fare l'amore con Hessa; nella sua mente, ogni giorno, non vi era altro che il pensiero di tornare da lei e rifare l'amore una, dieci o cento volte.  «Hai dei regali per me?» Chiese, ad un sospiro di distanza. Sentiva l'aria calda sbattere contro le labbra, la pelle sfiorata ad ogni parola pronunciata.    «Ho dei regali per te.» Sussurrò boccheggiando contro la sua bocca, ancora attratta dal suo sapore, da quel tepore che la stava dolcemente cullando e al tempo stesso attivando. Non le piaceva quella lontananza e avrebbe con piacere passato i successivi minuti ancora attaccata alla sua bocca, ma si rese conto che adesso era il suo turno. Non era certa che i regali che aveva preso per lui gli sarebbero piaciuti, a confronto nulla sarebbe stato bello e significativo come ciò che lui le aveva donato, ma aveva fatto del suo meglio per non deluderlo. Un po' agitata si tirò in piedi e dopo aver lasciato le sue mani si diresse nella camera da letto così da poter recuperare i pacchetti che aveva preparato per lui. Tornò in salotto, sotto quel piccolo albero di Natale che avevano arrangiato, e si morse con violenza le labbra mentre, con le mani un po' tremanti, gli passava la prima busta. All'interno vi era un album, una raccolta di tutte le loro foto che si erano scattati dal primo giorno che si erano rivisti fino ad allora. Rimase in attesa della reazione, piantando un'unghia nel palmo della mano.   Accarezzò il ciondolo a mezzo cuore sul polso, con scritta la data del loro anniversario. Un regalo di Hessa di qualche mese prima, che non aveva mai tolto da quel momento. I regali del compleanno, quelli di ogni anniversario, li aveva conservati con cura poiché preziosi. Osservò l'anello al dito di Hessa, pensò che fosse il regalo più importante; più di un arco artigianale con scritto le sue iniziali, o di un bracciale d'oro, o di qualunque altra cosa le avesse regalato. Chiunque avesse poggiato lo sguardo su Hessa, avrebbe visto l'anello, segno di appartenenza a qualcuno. L'attese, nervoso e curioso; e se non fosse stato all'altezza? Le fece un sorriso quando la vide sedere di nuovo ed afferrò il pacco, scartando e prendendo in mano un album di fotografie, dalla prima foto scattata all'ultima. Sei sei mesi, quasi sette, tra quali cinque come coppia. Si soffermò sulla prima fotografia, scattata a letto dopo un appuntamento. Mai condivisa perché non potevano, era rimasta un loro segreto. Afferrò la mano di Hessa, posando un bacio sull'anello, e pressò la mano contro la propria guancia, osservandola con gli occhi un po' lucidi.  «Conservo ogni attimo di noi nella mia testa; ogni tuo sguardo, ogni tua parola. È tutto qui, e non se ne va. Le fotografie sono la prova fisica di ciò che io ricordo perfettamente, ed ogni cazzo di minuto ti ho amata.»   Quella sua espressione le riscaldò il cuore, e se possibile l'emozionò più di quanto già non fosse. Carezzò dolcemente la sua guancia e ancora una volta si sporse per fare in modo che le labbra si unissero tra loro, anche solo per un istante.  «Sono tutte qui, Jo... tutte le foto che appenderemo nella nostra nuova casa. Anzi, sono solo una parte di tutte quelle che spargeremo per casa.» Poggiò la fronte contro la sua, ricercando con l'altra mano una delle sue per far intrecciare tra loro le dita.  «Ogni ricordo viene conservato gelosamente nella mia mente, dal primo all'ultimo. Ma voglio comunque immortalarli, i momenti più belli, e conservarli perché sono la rappresentazione scritta della nostra storia, e quando li ripercorreremo potremo viaggiare con la memoria e rivivere ogni momento di noi. Tutte le pagine dalla metà in poi sono vuote amore, questo è solo uno dei tanti album che voglio compilare con te.» Si separò da lui poco dopo, sorridendogli debolmente.  «C'è un altro regalo, ma devi chiudere gli occhi per questo.» Sussurrò e si voltò per prendere il pacco che avevo lasciato dietro di sé. Vi erano dei buchi ovunque, per aria, e quando glielo avvicinò lo sentì muovere e sorrise. Si morse il labbro e attese che venisse aperto per rivelargli il piccolo criceto che gli aveva preso.  «Ricordi il racconto del criceto che si lancia dal balcone? Volevo rimediare...»   [...]                   _ ₂₄|₁₂|₂₀₁₈ _
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gloriabourne · 5 years ago
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The one where Fabrizio meet Silvia
(questa fanfiction è collegata a The one with the jacket, ma credo sia comprensibile anche senza aver letto la parte precedente)
    Quando Silvia si era svegliata quella mattina, le era sembrata una giornata come tante altre.
Aveva coccolato un po' Nike prima di uscire, aveva registrato qualche storia su Instagram andando al lavoro ed era entrata negli studi radiofonici con il sorriso sulle labbra, come tutti gli altri giorni.
Ma appena arrivata in studio, era cambiato tutto.
Attorno al solito tavolo dello studio in cui lei e Katia conducevano il loro programma, c'erano tre sedie e non due come al solito.
Aggrottò la fronte confusa e poi disse: "Abbiamo qualche ospite di cui mi sono dimenticata?"
Katia sbuffò mentre si avvicinava a Silvia e rispose: "Non siamo noi ad averlo dimenticato. Sono quelli ai piani alti che dimenticano di dirci le cose."
Silvia sospirò. Non era la prima volta che si ritrovava a dover gestire un'intervista con un ospite inatteso, ma era pur sempre una scocciatura dover improvvisare delle domande con il rischio di chiedere la cosa sbagliata.
"Chi abbiamo?" chiese togliendosi il giubbotto e appoggiandolo sullo schienale della sedia.
"Fabrizio Moro."
Silvia si immobilizzò, sentendo per un attimo il sangue raggelarsi nelle vene.
Non aveva nulla contro Fabrizio, anzi lo reputava un ottimo artista. Ma, anche se quello doveva essere un incontro di lavoro, Silvia era consapevole che nessuno dei due avrebbe potuto evitare di sentirsi in imbarazzo.
C'erano delle implicazioni personali di mezzo, questioni che in un certo senso li accomunavano e allo stesso tempo li dividevano, e Silvia non aveva idea di come avrebbe potuto affrontare quell'intervista senza sembrare impacciata.
  Come previsto, Silvia non era l'unica a essere imbarazzata per la situazione.
Da quando Fabrizio aveva messo piede nello studio, non aveva detto nulla di più dello stretto necessario, rispondendo alle domande che gli venivano fatte senza dilungarsi troppo.
Per tutta la durata dell'intervista, era stata più che altro Katia a parlare - cosa di cui Silvia le era profondamente grata - togliendo così un po' di imbarazzo a entrambi e alleggerendo la tensione.
Nonostante tutto, però, non era semplicemente per nessuno dei due stare lì, seduti l'uno accanto all'altra.
Silvia non riusciva a fare a meno di pensare che il posto che per nove anni era stato suo, ora apparteneva a Fabrizio. Tutte le cose che Ermal aveva fatto con lei, ora le faceva con Fabrizio.
E Fabrizio, allo stesso modo, non poteva evitare di pensare che quella accanto a lui era la donna che lo aveva preceduto, la persona che Ermal aveva amato per quasi un decennio.
"Silvia, sei silenziosa oggi!" disse Katia a un certo punto, cercando di coinvolgere la collega nella conversazione.
Fabrizio si voltò verso Silvia, aspettandosi una domanda da parte sua, ma lei si limitò a dire: "Stai facendo un ottimo lavoro, non mi sembrava carino interrompere."
Katia le lanciò un'occhiata incerta, consapevole che in realtà ci fosse molto di più dietro quella risposta, poi disse: "La nostra Silvia evidentemente vuole lasciarmi sola oggi. Allora, Fabrizio, stavamo dicendo..."
Silvia trattenne a stento un sospiro di sollievo mentre Katia riprendeva le redini della trasmissione.
Non era certa di riuscire a mantenere la professionalità necessaria con Fabrizio. Proprio non ce la faceva! Non riusciva a non pensare al fatto che quell'uomo fosse il nuovo fidanzato del suo ex.
Qualche attimo dopo, sentì Katia dire: "Fabrizio, grazie per essere stato con noi. Spero che tornerai a trovarci."
"Grazie a voi per avermi ospitato qui" rispose Fabrizio, rivolgendo lo sguardo però solo verso Katia.
A quel punto Silvia, per mantenere almeno una parvenza di normalità, disse: "Noi ovviamente torniamo domani alla solita ora. Adesso vi lasciamo con l'ultimo singolo di Fabrizio Moro, Ho bisogno di credere."
Le prime note della canzone risuonarono nello studio, mentre Silvia si toglieva le cuffie e le appoggiava al tavolo.
Katia e Fabrizio fecero lo stesso un attimo dopo e, mentre Katia continuava a parlare con il loro ospite, Silvia uscì velocemente dallo studio.
Non poteva restare dentro quella stanza un minuto di più.
Non era gelosa, né tanto meno arrabbiata per la presenza di Fabrizio. Come aveva detto a Ermal qualche giorno prima, era felice per loro. Vedeva dai loro sguardi, dai loro gesti quanto fossero innamorati l'uno dell'altro e lei voleva solo che Ermal fosse felice.
Eppure si sentiva strana, come se una mano invisibile le stesse stritolando lo stomaco.
Rimase per qualche minuto appoggiata al muro del corridoio, con gli occhi chiusi e una mano premuta sul petto, cercando di recuperare fiato e di ignorare quella sensazione sgradevole che si era impossessata di lei.
"Tutto bene?"
Silvia spalancò gli occhi sentendo la voce di Fabrizio terribilmente vicina.
Il cantautore se ne stava davanti a lei e la osservava leggermente confuso e preoccupato.
"Sì, tutto bene, grazie" mormorò Silvia.
Fabrizio annuì e fece per allontanarsi, per poi cambiare idea all'ultimo momento.
Ritornò davanti a lei e, vagamente indeciso, disse: "So che è stato un po' imbarazzante prima. Avrei voluto evitarlo, ma purtroppo questo tipo di decisioni non spettano a me."
"Lo so, non preoccuparti. Ti capisco."
"È per questo che hai 'sta faccia da funerale?"
Silvia si lasciò sfuggire un sorriso. Chissà che espressione aveva se Fabrizio le stava dicendo una cosa del genere.
"Scusa, è che non avevo proprio idea di come comportarmi. Sai, dopo che Ermal mi ha detto di voi, le cose sono diventate un po' strane. Lo sospettavo da un po', ma incontrarti ora che ne ho la certezza è un po' più difficile" spiegò lei.
Fabrizio sospirò e si appoggiò alla parete opposta, rimanendo di fronte a Silvia. "Ermal mi ha detto che avete parlato al matrimonio di Dino. Mi è sembrato strano che tra tutte le persone che conosce, lui avesse deciso di dirlo proprio a te."
"Siamo ancora amici" replicò lei, vagamente infastidita. Le sembrava che Fabrizio stesse insinuando che lei ed Ermal non avessero diritto di raccontarsi cose della loro vita privata.
"Lo so. Ma tu come ti sentiresti se il tuo fidanzato si confidasse con la sua ex? E non una ex qualsiasi, ma una con cui ha condiviso quasi dieci anni della sua vita."
Lei non rispose.
Non poteva immaginare come si sentisse Fabrizio. Lei non aveva mai dovuto fare i conti con un fidanzato che si portava dietro gli strascichi di una relazione importante, come quella che avevano avuto lei ed Ermal.
"Credo che una parte di me sarà sempre un po' gelosa di te e del rapporto che hai con Ermal. So che state cercando di restare amici e io non voglio mettermi in mezzo. Non sono il tipo di persona che vieta al proprio fidanzato di uscire con un'amica. Però non è semplice stare al mio posto" disse Fabrizio, ammettendo una debolezza che non era riuscito ad ammettere nemmeno ad Ermal.
Era sincero. Non avrebbe mai impedito a Ermal di frequentare Silvia, se era quello che voleva.
Ma allo stesso tempo, non poteva negare che la cosa lo turbasse e che più di tutto lo turbasse il non poterne parlare con Ermal. Sapeva che se lo avesse fatto, Ermal avrebbe rinunciato a qualsiasi rapporto potesse ancora avere con Silvia.
Fabrizio ne era certo, sapeva che Ermal avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. E non voleva che lui si privasse di un'amicizia solo per farlo stare più tranquillo.
"Conosco Ermal da tanto tempo e posso assicurarti che, anche se capisco cosa provi, non hai niente di cui preoccuparti" disse Silvia.
Fabrizio sospirò ma non disse nulla.
"Ho visto il suo sguardo mentre parlava con te al telefono, il giorno del matrimonio. Poche volte l'ho visto felice come in quel momento. E, se la cosa può farti stare più tranquillo, io voglio solo che sia felice e non ho intenzione di allontanarlo da te. Tu lo rendi felice come io non ho mai saputo fare" aggiunse, cercando di rassicurare Fabrizio.
Lui sorrise, sentendosi effettivamente più tranquillo.
Non avrebbe mai pensato che proprio la ex fidanzata di Ermal avrebbe potuto rassicurarlo in quel modo.
Però, lo aveva fatto. Stentava a crederci ma era così.
  Aveva impiegato tutto il pomeriggio per decidersi a chiamare Ermal.
Non gli aveva detto che sarebbe stato ospite nel programma di Silvia ed era certo che non gli fosse giunta voce di quell'intervista, preso com'era a fare il turista a Creta.
Però sentiva il bisogno - quasi il dovere - di dirglielo.
Non che ci fosse qualcosa di male o di strano in ciò che era successo quella mattina, nulla che in realtà valesse la pena di essere raccontato, eppure Fabrizio si sentiva nervoso all'idea di tenere nascosta una cosa simile a Ermal. E si sentiva ancora più nervoso all'idea di parlargliene.
Così ci aveva pensato per tutto il pomeriggio, cercando di decidere quali fossero le parole più giuste da utilizzare oppure se fosse il caso di non utilizzare parole per nulla e di non dirgli niente.
Alla fine aveva deciso di dirgli semplicemente ciò che era successo, niente di più e niente di meno. Anche se era consapevole che non sarebbe stato facile, che la sua voce sarebbe stata tremante e che avrebbe faticato a trovare le parole.
Avviò la videochiamata e si sistemò meglio contro la testiera del letto mentre aspettava che Ermal rispondesse.
"Bizio!" rispose Ermal entusiasta.
Sorrideva con gli occhi, oltre che con le labbra, e dietro di lui si vedeva il mare.
"Ti disturbo?" chiese Fabrizio.
"Assolutamente no! Come stai?" chiese Ermal, passandosi una mano tra i capelli e spostandoli all'indietro.
"Bene. Tu? Che hai fatto oggi?"
Ermal iniziò a raccontare la sua giornata, mentre camminava sorridendo per le vie della città e ogni tanto si fermava per far vedere a Fabrizio il panorama dietro di lui.
Fabrizio lo ascoltò attentamente, rapito dall'entusiasmo con cui Ermal raccontava ciò che aveva fatto quel giorno.
Era una delle cose che amava di più di lui, quel suo raccontare con gioia ed entusiasmo anche le cose più banali.
"E tu invece? Hai fatto qualcosa di interessante oggi?" chiese Ermal al termine del suo racconto.
Fabrizio sospirò. Era arrivato il momento di dirglielo, non poteva più rimandare.
"Ho fatto un'intervista in radio, questa mattina. A R101."
Ermal rimase in silenzio per qualche secondo.
Era una radio importante, piena di speaker e di trasmissioni diverse, eppure il tono di Fabrizio gli aveva già detto indirettamente in quale programma era stato ospitato.
"Eri al programma di Silvia?" chiese qualche attimo dopo.
Fabrizio annuì con un cenno, poi disse: "In realtà, lei non ha parlato molto durante il programma. È stato un po' imbarazzante per entrambi."
"Mi dispiace, Bizio" rispose Ermal.
In quel momento avrebbe voluto essere insieme a lui, sdraiato sul suo stesso letto, con le braccia attorno al suo corpo e le labbra premute sulle sue, con la sola intenzione di farlo smettere di pensare a quella giornata. Ma purtroppo non era così.
"Tranquillo, è tutto ok. Abbiamo parlato un po' dopo il programma."
"Ah, sì?" chiese Ermal stupito.
Sapeva benissimo che Fabrizio era sempre stato un po' geloso di Silvia, anche se aveva sempre cercato di nasconderlo.
"Sì, beh, eravamo entrambi un po' tesi e in quel momento nessun altro avrebbe capito come ci sentivamo. Parlarne tra noi è stata la cosa migliore" disse Fabrizio.
Ermal sorrise. "Molto maturo da parte vostra."
"Avevi dubbi?" chiese Fabrizio fingendosi offeso.
"Qualcuno, in effetti" scherzò Ermal, provocando una smorfia sul volto di Fabrizio.
"Quando torni, ti faccio vedere io..."
"Ah, sì? Che mi fai vedere?" chiese Ermal, con il tono improvvisamente più basso e lo sguardo lucido.
Fabrizio scoppiò a ridere. "Sicuramente non quello, visto che non fai altro che prendermi in giro."
Ermal si unì alla sua risata, constando forse per la prima volta quanto fosse contagiosa.
Gli piaceva ridere con Fabrizio, forse più di ogni altra cosa. Lo rendeva felice il solo sentire quel suono uscire dalla sua bocca, anche se a dividerli c'era lo schermo di un telefono.
"Ti amo. Lo sai, vero?" disse Ermal a un certo punto.
Quei momenti, quelli in cui si trovavano lontani, erano quelli in cui aveva la sensazione di non riuscire a dimostrare abbastanza i suoi sentimenti a Fabrizio. Come se la distanza accentuasse ogni cosa e rendesse tutto più difficile.
"Certo che lo so, Ermal. Ti amo anch'io" rispose Fabrizio sorridendo. "Però questo non cambia le cose. Quando torni, sicuramente non ti faccio vedere quello che pensi tu!"
Ermal scoppiò a ridere di nuovo.
Se anche solo un anno prima gli avessero detto che Fabrizio lo avrebbe reso così felice, avrebbe stentato a crederci.
Certo, fin dal loro primo incontro aveva capito che sarebbe stata una persona importante nella sua vita, ma non avrebbe mai creduto fino a quel punto.
Non avrebbe mai pensato che Fabrizio che sarebbe diventato l'unica persona al mondo con cui avrebbe voluto trascorrere il resto della vita, l'unica persona al mondo in grado di risollevargli il morale e di farlo ridere di cuore, in grado di sopportarlo nei momenti difficili e supportarlo nelle cose belle.
E invece era successo.
Fabrizio era diventato quella persona in così poco tempo che Ermal quasi non se n'era accorto e si era appropriato di un posto che Silvia in realtà non aveva mai avuto, perché Ermal ne era certo: per quanto avesse amato Silvia, ciò che provava per Fabrizio era qualcosa di diverso.
Era qualcosa di più, qualcosa che andava oltre l'amore. Qualcosa che nemmeno lui riusciva a spiegare.
Qualcosa di cui, ormai, non poteva più fare a meno.
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lasigarettamaifumata · 7 years ago
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Cara signora, Io non lo so cosa spinge due persone ad amarsi, mi creda, sono arrivata alla conclusione che l'amarsi a volte sia troppo doloroso per una ragazza della mia età, eppure non riesco a farne almeno, un po' come la sigaretta dopo il caffè, sai che ti stai uccidendo ma non puoi evitare. Forse lei non lo sa quanto sia difficile amarsi ai giorni d'oggi, trovare per strada due persone che si tengono per mano invece che tenere i cellulari tra le dita è difficile. Mi sono innamorata di sua figlia, ne sono innamorata pazza dal primo momento che l'ho vista, io non lo so come funzionano queste cose, so solo che quando ci siamo guardate ho capito perché fino a quel momento tutta la mia vita non fosse andata per il verso giusto. Ho imparato a conoscere sua figlia pian piano, mi ha raccontato di quanto amasse il concetto 'famiglia' e mi sentivo piccola ogni volta che vedevo il rapporto che aveva in casa, perché io in casa mia un rapporto non l'ho mai avuto, le dicevo che era fortunata, glielo ripetevo ogni volta e quando mi chiedeva perché io non avessi un rapporto con mia madre mi vergognavo, perché non sapevo come dirle che mia madre a modo suo mi voleva bene ma mi voleva come voleva lei e io non sono stata capace di soddisfare le aspettative che mia madre avesse su di me, mi sono trovata a scegliere, o scelgo di essere felice per quello che sono, o scelgo di essere un qualcuno che non mi appartiene. Sono stata per un ragazzo di 6 anni più grande per due anni e mezzo, con lui stavo bene, non mi faceva mancare nulla, i miei l'adoravano e mia madre se poteva all'epoca organizzava già il nostro matrimonio. Poi sono cresciuta, mi sono guardata allo specchio e ho visto tutto ciò che la società voleva, tutto ciò che mia madre voleva, una ragazza carina, con un fidanzato, con dei voti decenti a scuola e infelice. Ho odiato mia madre, quando rivelai a mia madre che mi piaceva una ragazza mi rinchiusero in casa e mi tolsero il cellulare e io non capivo perché.. non riuscivo a capire perché preferisse vedermi piangere tutte le notti piuttosto che lasciarmi stare bene.. Non capivo perché parlava di 'contagio' quando io parlavo di 'stare bene'. Mio padre ad oggi mi ripete spesso che i genitori possono sbagliare e che a volte a noi figli sta perdonare, ma io non riesco a perdonarla, mia madre, la donna che dovrebbe amarmi di più al mondo preferiva vedermi stare male, preferiva scomunicarmi come figlia. Mi cucinavo da sola, ho dovuto imparare a fare una lavatrice, io in quella casa non esistevo, ero un velo bianco. Eppure mi sentiva piangere, eppure mi guardava quando le sere salivo sul tetto di casa e ci restavo per un po'. Non lo nego, ho pensato di togliermi la vita a volte, potete giudicarci come volete, ma mi creda signora per una ragazzina di 16 anni, vedere che una madre preferisce la sua felicità alla tua, è straziante. L'unica persona con cui volevo stare, con cui ero felice non mi permettevano di vederla e io iniziai a non parlare più, a chiudermi, mi sentivo un mostro perché mi ci hanno fatto sentire tale. Iniziai a pensare di stare facendo qualcosa di sbagliato, un qualcosa di scorretto che però.. a me faceva bene.. così più volte ho pensato di farla finita. Il dolore aumentava, volevo la mia ragazza, volevo un suo abbraccio, volevo qualcuno che mi dicesse 'Basta che sei felice', perché a me quel 'basta che sei felice' nessuno me l'ha mai detto? Ad oggi, in casa mia mi è concesso dire 'esco con un amica, lei non sa quanto vorrei poter perdonare mia madre, lei non lo sa come ci sentiamo noi ragazzi quando sentiamo il peso della diversità sulle spalle. Io non ero diversa, non mi consideravo diversa, ero una ragazza che stava amando, indipendentemente da chi amavo, non mi consideravo per niente diversa, eppure la mia famiglia mi ci ha fatto sentire e non poco. Non si tratta di qualcosa che io posso evitare, se fumavo e mia madre mi guardava storto capivo il perché, perché era sbagliato. Ma se amo una ragazza e tu mi guardi nello stesso modo, io il perché non l'ho capisco, perché io non mi sento sbagliata ma tu così mi ci fai sentire.. Io amo sua figlia. E mi creda signora se potessi le darei un mondo migliore, le darei tutta la felicità di cui ha bisogno.. Non le farei mai del male, mai.. Vederla stare male a causa mia mi lacera il cuore.. Io non le chiedo chissà cosa.. Mi dia una possibilità.. una sola e misera possibilità.. Sua figlia con me sta bene.. Sorride.. Perché non riesce a vederlo? perché nessuno vede mai quanto bene fai alle persone? Non voglio nulla di eclatante.. Ma lasciatemela sentire.. Io ho bisogno di sentire che lei stia bene come lei ha bisogno di sentire che io sto bene.. Lasciatemi prendere un caffè con lei allo stesso tavolo.. Farei di tutto.. Di tutto per avere la possibilità di avere una opportunità.. Perché io l'ho vista felice con me.. E io per una volta nella mia vita mi sono sentita al mio posto con lei. Mi dica dove ho sbagliato, mi dica dove posso recuperare, mi dica che vuole che faccia.. Io ho bisogno di lei come lei ha bisogno di me.. Non voglio perderla.. So quanto male le farebbe e quanto male farebbe a me.. Siamo persone.. Siamo due persone che si amano.. E vederla piangere.. La notte si alza e piange, perché si chiede cosa abbia fatto di male, perché mamma non le dice 'basta che sei felice' lo so.. Lo so perché l'ho vissuto anch'io.. E io ad oggi sono cresciuta senza una mamma che mi abbia detto quelle quattro parole e non voglio che lei cresca come me.. Perché so quanto male fa guardare in faccia mia madre e rivedere tutto quello che mi ha fatto passare.. Per favore.. Mi dia la possibilità di dimostrare che ci tengo davvero.. che con me lei sta bene.. Non si tratta di essere di colore, trans,gay, lesbica, down o eterosessuale. Siamo tutti esseri umani che cercando di essere felici.. Ci dia la possibilità anche a noi di essere felici, solo questo.
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giangig-blog · 8 years ago
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La storia della principessa che non era una principessa
Quella che andrete a leggere è una storia che parla di una ragazza che credeva di essere una principessa, ma che in realtà non lo era per niente.
No...non è una metafora. E' una vera e propria considerazione.
Era il periodo della mia depressione mascherata (per chi non lo sapesse la "depressione mascherata" è un tipo di depressione con sintomi cognitivi e comportamentali. In poche parole ero depresso e riuscivo a sopportarlo. Io stesso ho tratto questa diagnosi dopo aver terminato i miei studi amatoriali su un libro di psicologia preso in prestito dalla biblioteca pubblica).
Lavoravo nel mio negozio che stava andando veramente a puttane. Probabilmente era colpa mia perchè non sapevo gestire gli affari o forse era anche colpa di quel bar che aveva aperto all'inizio della strada e che mi aveva fregato i pochi clienti che avevo. O forse era colpa della sfortuna.
Fatto sta che gli affari andavano male, io pensavo spesso al suicidio e stavo cercando un modo come un altro per uscire da questa situazione.
Un giorno, un tizio, un panzone alto con pochi capelli in testa e un naso rosso dovuto al freddo o all'acol (una versione stupida di Jerry Scotti con meno capelli e più pancia. Non che Jerry Scotti mi stia particolarmente simpatico, ma a mia nonna piaceva) entrò nel mio negozio dicendo che voleva vendere i nostri prodotti nella sua gelateria.
Dissi: "Perfetto, comprali".
Ma la sua idea non combaciava con la mia.
In realtà lui voleva che ci mettessimo in società insieme, che producessi le cibarie nel mio negozio e che poi io stesso le vendessi in un piccolo reparto che stava costruendo appositamente nella sua gelateria.
La cosa oltre che essere complessa, non mi entusiasmava per niente.
Mi viene difficile lavorare con me stesso, figuriamoci con un altro essere umano che respira e parla.
Dissi "no, grazie".
Ma il panzone insistette e volle assaggiare i prodotti che mio padre produceva con le sue delicate e tozze mani da montatore di finestre.
Venne un giorno a pranzo e ordinò diverse pietanze.
Le mangiò con foga e sembravano piacergli anche.
Beveva e ingurgitava cibo come un facocero invitato a cena dalla suocera che ha preparato le lasagne calde con besciamella e ragù.
Quando finì di divorare il tavolino dove era seduto e i piatti di plastica dove gli avevo servito il cibo, disse: "Mmmh...si...buono" fece una piccola pausa "Ma forse me l'hai servito troppo freddo...e non avevi la schiena abbastanza dritta quando giravi per i tavoli...e sinceramente non dovresti stare fermo a non fare niente quando non hai niente da fare...è poco professionale".
Non sono uno che prende con gran entusiasmo i consigli altrui.
Disse tutte cose tecnicamente giuste o almeno credo, ma lo disse con un tono altezzoso, saccente, con la puzza sotto il naso, quasi regale. Si sentiva sicuramente un re in quel momento perchè aveva a che fare con un ragazzino di "Fondo delle pulci" che cercava di non affogare nella merda.
Di solito si comportano così le persone che dal niente si sono arricchite e si sentono i padroni del mondo per quel piccolo colpo di culo o bravura che hanno avuto.
Questo tizio era tipo 4 volte più grosso di me sia in larghezza che in altezza, ma con un aplomb che mi appartiene, dal basso della mia statura modesta, gli sbraitati gentilemente nel viso di togliersi dalle palle e di non farsi mai più vedere.
Questo grassone uscì tutto attezzoso, come se le sue scuregge profumassero di fiori invece che di merda, uralndomi contro: "TU NON TI RENDI CONTO DI CHI HAI TRATTATO MALE...IO SONO IL RE DEL GELATO!!"
Tra le dita della mano quella che preferisco è il dito medio, allora lo mostrai al panzone, sempre con molto rispetto. A me il gelato non piace neanche.
Quella sera stessa andai a bere al pub con un mio amico e gli raccontai la storia del panzone altezzoso. Lui mi diede ragione, ma non seguiva molto il mio discorso, probabilmente perchè era già ubriaco nel momento in cui esponevo i fatti. Per non essere da meno mi ubriacai anche io.
Bevvi 3/4 pinte di Guinness e cominciai a essere brillo.
Vicino al nostro tavolo sedevano 2 ragazze.
Una di loro mi era familiare.
Si chiamava Bice, era la sorella di un coglione che forse conoscevo o che forse pensavo di conoscere, ma in realtà non ci eravamo neanche mai presentati.
Comunque sia era una strafica.
Il mio amico era perso di lei. Ci sbavava dietro da anni, ma per mancanza di coraggio e di spina dorsale non ci aveva mai provato.
Era una classica fighetta a cui piaceva atteggiarsi alla Sexandthecity, ma che in realtà era cresciuta nel quartiere in cui le prostitute cinesi battevano per strada per pochi soldi.
Insieme a lei c'era un'altra fighettina castana con qualche colpo di sole, la faccia da stronza e la puzza sotto al naso.
Il mio amico ordinò uno shot di rum, lo bevve per darsi coraggio e iniziò timidamente a parlare con Bice.
La ragazza si dimostrò amichevole con lui, probabilmente perchè aveva bevuto parecchio. Poche volte ho visto quella ragazza sobria o non fatta.
I due cominciarono a ridacchiare come ragazzine adolescenti e io continuai a bere.
L'altra ragazza che era seduta al tavolo con Bice cominciò a tirarmi occhiatacce stizzite. Visto che il mio amico le aveva rubato la compagnia e lei ora beveva da sola, si aspettava che le andassi a parlare.
Non ne avevo voglia, la depressione mi bloccava nei momenti delle relazioni sociali,  soprattutto con gli estranei, ma l'alcol allo stesso tempo li sbloccava.
Allora mi avvicinai e iniziammo a parlare.
Quella tizia si chiamava Giulia...o almeno credo, non me lo ricordo precisamente.
In realtà era davvero una bella ragazza.
Aveva un non so che di familiare, ma non mi fermai molto a pensarci. Aveva gli occhi nocciola, il naso all'insù e i modi di fare eleganti. Aveva anche un bel culo per la cronaca.
Parlammo, parlammo, parlammo. In realtà lei parlava, parlava, parlava e io ascoltavo.
Più o meno è sempre così che funziona con le ragazze.
Gli argomenti di cui volle argomentare furono: i suoi studi universitari in non so cosa, la sua casa con piscina nella zona ricca della città, i suoi 3 cani di razza piccola che abbaivano quando vedevano un cinese, quindi abbaiavano in continuazione (non avete idea di quanti cinesi ci siano nella mia città) e la monotona e noiosa vita notturna che Prato offre.
Non come quella fiorentina, secondo il suo parere.
Annuivo e bevevo interperrito.
Intanto il mio amico e Bice continuavano a ridacchiare e tocchicchiarsi.
Ero felice per lui, ma Giulia non era molto entusiasta della mia compagnia. Mentre parlava gesticolava con le mani come fanno le principesse e sorseggiava quell'intruglio di alcol e succo di frutta che aveva ordinato...beh come una principessa.
Chi si sente nobile, ma non lo è, mi è sempre stato sulle palle.
Capisco il principe Carlo che si atteggia perchè è un principe, ma Camilla non ha molto diritto di essere altezzosa.
All'improvviso Bice si alzò in piedi entusiasta, facendo cadere la sedia su cui era seduta e con non molta lucidità urlò: "Andiamo a finire la serata nella tua piscina Giulia!!"
E tirò un piccolo urlettino gioioso tipo: "UUUUH".
Il mio amico felice come una pasqua accettò subito l'invito, anche se Giulia non sembrava contenta di averci nella sua reggia, ma alla fine si decise e ci permise di andare da lei.
Arrivammo a casa di questa tizia.
Devo dire che era una casa con i controcazzi. Era grossa, molto grossa. Probabilmente vivevano in 27 in quella dimora. In realtà Giulia viveva con i genitori ed era figlia unica. Era la principessa di quel castello. Disse che i suoi genitori erano usciti quella sera e che sarebbero tornarti l'indomani mattina. Mi disse anche che avevano una donna delle pulizie ed un giardiniere, ma che non vivevano lì. La cosa non poteva interessarmi minimamente, ma feci un cenno approvatorio.
Arrivati sul bordo piscina Bice urlacchiò: "TUFFIAMOCI UUUUH" e si tuffò vestita così com'era. Non che avesse molto addosso. Una camicetta leggera blu e degli short di jeans.
Il mio amico mi guardò e disse: "Io non posso tuffarmi..."
"Perchè?" chiesi "Hai le tue cose?" ridacchiai.
"No stupido...non mi sono depilato..."
Lo guardai stranito.
"Facevi più bella figura ad ammettere che eri in meustro. Tuffati coglione che ti sta aspettando quella".
Bice stava salutando con la manina da dentro la piscina.
La camicetta che indossava si era bagnata tutta e ora le si vedevano i capezzoli.
Io e il mio amico ci guardammo. Lui si tolse i vestiti, li piego e li poso su una sdraio.
Rimase in mutande e si tuffò. Io rimasi sul bordo a guardarli.
Giulia mi si avvicino e mi chiese: "Vuoi una birra?"
"Si grazie tesoro"
"Vieni con me, andiamo in cucina"
Andammo in cucina e quella stanza era grossa, troppo grossa.
Era cinque volte più grande di quella del mio negozio.
La ragazza disse: "Quì è dove Consuelo, la mia cuoca, passa la maggior parte della sua giornata. Io non mangio molto, devo mantenere la linea...ma anche il mio papà è molto bravo a cucinare!"
Mi porse la birra e tirai una sorsata.
"Vieni ci spostiamo nel salone" la principessa mi prese per mano.
Anche il salone era troppo grosso, aveva un sacco di quadri appesi sulle pareti, un televisore enorme e quattro o cinque divani sparsi in qua e là.
Ai proprietari doveva piacere la comodità.
"Questa Tv ha la hometheather" disse fiera del suo televisore come se l'avesse costruito lei. A casa mia, in cucina, il telecomando della tv era rotto e quindi eravamo costretti a guardare sempre Rai3 e su Rai3, almeno che tu non abbia novant'anni, non c'è niente di interessante.
Ci sedemmo su uno di questi divani. Era comodo.
Cercavo di bere la mia birra, ma Giulia mi guardava fisso mentre con la mano si teneva la testa.
La guardai.
"Sei mai stato a Parigi?" chiese con aria sognante.
"No, ma ho una zia che abita in Svizzera"
"Io vado a Parigi tutte le estati...la adoro...è il top del top" proseguì nei suoi sogni.
"Ti va di scopare?" le chiesi senza molto tatto.
"Ma ti sembrano domande da fare a una come me??" si alzò in piedi inorridita dalla mia richiesta.
"Lo devo prendere come un no?"
Mi guardò dritto negli occhi. Mi tolse la birra di mano e mi si avventò addosso.
Beh potete immaginare cosa fecimo...scopammo...non sto molto a spiegarvi il come.
Il procedimento più o meno è sempre il solito. Ci baciamo, lei si spoglia, io mi spoglio, io gliela lecco, lei me lo ciuccia, ecc... Non ho molta fantasia in ambito sessuale.
Devo dire che Giulia si atteggiava a principessina, ma una principessina porca.
Mentre lei era messa a quattro zampe e io con una mano le tiravo da dietro la coda dei capelli e con l'altra tiravo schiaffi a quel bel culo, sentimmo la porta di casa aprirsi.
Mi girai di scatto verso il rumore e sulla soglia del salone vidi in piedi un uomo alto, grosso e mezzo pelato.
Aveva qualcosa di familiare quel tizio. L'avevo già visto da qualche parte, ma la poca lucidità dovuta all'alcol non mi aiutava a fare chiarezza.
Finchè due neuroni del mio cervello non si incontrarono in quella landa desolata della mia mente e si conessero insieme.
Quel panzone con pochi capelli, che vagamente mi ricordava Jerry Scotti, era il Re del gelato!
Giulia urlò imbarazzata mentre era ancora a 4 zampe e con ancora il mio coso dentro di lei: "Papà!".
Mi voltai verso la ragazza, riguardai il panzone, riguardai la ragazza e riguardai un'altra volta il panzone. Riguardai Giulia e le dissi: "Allora tu sei la principessa del gelato!!"
Il panzone diventò paonazzo: "Tu..."
Comincio a correre verso di me sbraitando: "IO TI UCCIDO!!"
Spinsi via la ragazza e corsi in direzione della cucina.
Correvo nudo per quella casa enorme, con l'erezione ancora attiva e senza neanche sapere dove andare, mentre il panzone era ancora alle mie calcagna furente e paonazzo.
Trovai una via di fuga che dava verso l'esterno.
Riuscii ad arrivare in piscina e vidi il mio amico che stava pomiciando con Bice.
Cominciai a correre intorno alla piscina e il panzone a inseguirmi urlando.
I due piccioncini non si era accorti di niente e Giulia, che ci aveva raggiunto, supplicava di fermarci.
Il panzone era grosso, ma veloce. Io ero stanco e ubriaco.
Mi aveva quasi in pugno, ma per mia fortuna, mentre cercò di allungare una mano nel tentativo di afferrarmi, il piede gli scivolò su una piccola pozzanghera di acqua e cloro.
Perse l'equilibrio e cadde in piscina.
Io mi fermai piegandomi in avanti per riprendere fiato e il mio amico e Bice finalmente si staccarono per vedere cose fosse accaduto.
Colsi l'attimo, corsi di nuovo dentro, presi i miei vestiti e uscii fuori dalla porta sempre nudo e sempre correndo.
Morale della storia: Non fate mai incazzare un panzone mezzo pelato che è riuscito a conquistare un titolo nobiliare vendendo gelato.
O per lo meno, non scopategli la figlia.
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