Tumgik
#metà uomo metà camino
pgfone · 2 months
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E piove....
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fiafico · 3 years
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Eclisse
L'intera storia è stata ispirata da questa splendida canzone, vi consiglio caldamente di ascoltarla: https://youtu.be/0iU5Snr_D44
•~•~•~•= Atto I =•~•~•~•
Sul calar della sera, quando il sole già si distendeva pigramente sull'orizzonte del mare e la bianca sagoma della luna emergeva dal cielo in fiamme, una donna senza nome, senza onore né virtù, cadde in ginocchio sul ciglio di una scogliera, le braccia spalancate e innalzate verso il cielo. Pregò il sole di risponderle, mentre la tenebra si allungava dietro di lei e le ombre si facevano più dense. La foresta alle sue spalle era animata dai suoni striduli e inquietanti della fauna notturna; un brivido per percorse la colonna vertebrale e poi le scapole. Ciononostante rimase lì, con le ginocchia nell'erba, a pregare. Poi improvvisamente ci fu calore, un immenso e bruciante calore proprio davanti a lei, oltre il bordo della scogliera, ma non osò alzare gli occhi dal terreno. Una voce risuonò nella sua mente, profonda, imperiosa...pericolosa. Le chiese cosa volesse, perché lo disturbasse in un momento come quello. <È per amore>, rispose lei, <Lo rivoglio indietro> <È la Luna che devi pregare per questo, non me> La donna scosse rapidamente la testa, tentando di calmare il tremore che le stava prendendo la voce. <Non c'è più tempo! Sta per abbandonarmi> <Dovresti davvero rivolgerti alla Luna, che non ha pretese. Io esigo un pagamento> <Qualunque cosa! Sono disposta a dare qualunque cosa> Ci fu uno scoppiettio improvviso, come fuoco che divora all'istante un ciocco rinsecchito, o una risata, difficile dirlo. Poi silenzio e quando la voce riprese a parlare, il suo tono era velato dalla più sottile e invisibile punta di rabbia. <Non mentire. Voi umani avete sempre qualcosa che non osereste mai cedere. Siete fatti di desideri e per natura peccate di egoismo, in continuazione. Che cos'è che sei disposta a sacrificare?> <Tutto! Basta che lui torni da me> <Sciocchezze! Non osare mentirmi, donna. Lo vedo nel tuo animo, vedo ciò a cui non rinunceresti mai con assoluta chiarezza> <Qualunque cosa!> <Allora dammelo, dammi l'unica cosa a cui sembri tenere nel tuo piccolo e insulso cuore. Dammi il tuo primo figlio quando nascerà> La donna si fermò, sentì di respirare aria gelida e le mani persero in un'istante il loro calore, nonostante sentisse quell'aura spaventosa bruciarle la pelle e le vesti. Esitò, combattuta.
Poi un'ombra le scivolò lentamente lungo il braccio e comprese di non avere davvero più tempo. La disperazione la vinse in breve tempo.
<Lo farò. Rinuncerò a mio figlio, al secondo, al terzo, a tutti loro, se questo renderà degna di considerazione la mia supplica> Seguì un silenzio così lungo che la donna ebbe paura di essere rimasta sola. Alzò velocemente la testa, ma gridò per il dolore quando si ritrovò accecata da una luce splendente oltre ogni immaginazione. Cadde all'indietro, ansimando e coprendosi gli occhi con le mani, piangendo e lamentandosi, pregando di non aver perso la vista. Poi sentì nuovamente la voce, ora priva di qualsiasi emozione. O forse era solo lei che non riusciva a concentrarsi su qualcosa di diverso dai suoi occhi brucianti. <Il patto è fatto. Ora va' e fa che non ti veda mai più, creatura senza cuore, se non il giorno in cui affiderai la tua prole a mani più capaci> Così disse e la donna, senza farselo ripetere due volte, scappò via, incespicando nella vegetazione oscura. Il Sole alzò lo sguardo e vide la Luna, sempre più visibile nel cielo buio. Stava lì, muta e attenta. Una gran seccatura. <Quanto hai visto?>, chiese. L'astro non rispose subito, poi ad un certo punto una voce maschile, piuttosto preoccupata, riempì i suoi pensieri. <Ne sei proprio sicuro, DIO? Avrei potuto accogliere io quella supplica se le avessi concesso ancora un po' di tempo> Quello non disse nulla, semplicemente fissò l'orizzonte e la minuscola porzione di Sole che ancora resisteva oltre la linea del mare. <Soffriranno>, disse ancora la pallida Luna. L'altro si spinse con leggerezza oltre la scogliera, lasciandosi cullare dal vento della montagna, mentre ancora fissava la spada di luce che divideva in due la superficie marina. <Nessuno può pretendere di avvicinarsi tanto al Sole e non scottarsi almeno un po', non è vero?> Poi si adagiò sull'orizzonte e si abbandonò al sonno, lasciando che la luna iniziasse il suo turno come custode dei desideri degli uomini.
•~•~•~•= Atto II =•~•~•~•
Accadde durante una notte di primavera. Un pianto di bambino si levò da una bella casa in aperta campagna e la Luna, sentita la nuova voce, si inclinò per sbirciare tra le tende. Nella stanza illuminata da un camino pieno di legna scoppiettante la donna giaceva esausta in un letto morbido. Accanto a lei un uomo stringeva tra le braccia un neonato. I raggi pallidi non riuscirono a raggiungere il nuovo arrivato e così la Luna non poté vederlo. Tutto quello che fece fu controllare la stanza con attenzione fino al mattino. Quando le prime luci dell'alba proiettarono ombre sulla campagna, l'astro era già sprofondato in un sonno agitato.
Un mese più tardi accadde la tragedia. La Luna osservò impotente la lite sbocciare e poi degenerare attraverso le tende aperte. Il bambino stava nella culla, un dito puntato contro di lui, l'altra mano del genitore stringeva un coltello. L'uomo gridò ancora, facendo sempre la stessa domanda: come può mio figlio avere riccioli biondi e occhi azzurri? Effettivamente, neanche la luce lunare poteva schiarire abbastanza le ciocche castane di entrambi i genitori o illuminare i loro occhi scuri di blu. La donna stava piangendo, fissava il coltello, poi il marito, poi il bambino, e poi di nuovo il coltello. Farfugliava, inventava scuse, ma raramente la Luna aveva visto qualcuno di così poco credibile. Ed era lui di solito a essere testimone di tutti i segreti e le bugie troppo scottanti per essere confidati alla luce del giorno, per cui quello era tutto un dire. La tragedia accadde quando l'uomo si avventò sulla moglie. Non le diede neanche il tempo di gridare prima che lei cadesse in terra senza vita, un taglio profondo le squarciava la gola. Poi l'uomo, tremante e in lacrime, si girò di scatto verso il bambino. La Luna ringraziò il chiarore che già illuminava l'orizzonte. Appena il Sole fece capolino da dietro i dolci pendii la Luna gridò. Gridò così forte che persino le stelle la sentirono, nonostante fosse ormai praticamente scomparsa dal cielo albeggiante. <Il bambino!>
Un uomo correva senza fiato attraverso un bosco, il terreno era in salita e il peso tra le sue braccia gli rendeva ancora più difficile respirare. Raggiunse il bordo della scogliera quando il Sole era già sorto per metà. Lo vedeva all'orizzonte e la sua luce gli deriva gli occhi. Guardò per un'ultima volta il bambino che stringeva al petto: minuscolo, paffuto, bei ricci biondi come il grano e occhi grandi, blu come il cielo a mezzogiorno. Il piccolo lo guardava tranquillo, la testolina inclinata di lato come se non capisse realmente quello che stava accadendo. E come biasimarlo? Non era neanche riuscito a capire perché sua madre fosse improvvisamente caduta per terra. Così tanta innocenza, così tanta purezza. Ma era così sbagliato. <Figlio di un tradimento>, mormorò l'uomo. Tese il braccio in avanti, oltre il bordo. Il bambino stava in equilibrio nelle fasce. Il Sole splendeva all'orizzonte, il freddo vento della notte soffiava forte attorno a lui. Aprì le dita. Una freccia dorata gli trapassò il cranio. Il bambino cadde con un piccolo grido. L'uomo schizzò all'indietro e rotolò nell'erba. Grandi mani calde circondarono il corpicino sospeso oltre la scogliera. Le avide mani della morte reclamarono l'anima dell'uomo negli inferi. Una figura abbagliante fece alcuni passi sull'erba, facendola ingiallire leggermente. Il Sole guardò il bambino nelle sue mani, così piccolo da entrare nei suoi palmi uniti, così simile a lui da spaventarlo. Gli stessi capelli, la stessa pelle chiara, lo stesso sguardo profondo. Rimase a fissarlo in preda all'incertezza per più tempo del previsto, ma si riscosse quando la creaturina gli afferrò un pollice e iniziò a stringerlo tra le sue manine, piegandolo in varie posizioni. Il sentimento che fiorì dentro di lui lo lasciò senza parole. Un calore che non gli apparteneva gli incendiò il petto e sentì l'ebbrezza della vera felicità annebbiare la sua mente e offuscare il suo giudizio. Il bambino rise mentre provava a mordergli sperimentalmente il dito. Non aveva pensato a questo quando aveva esaudito la preghiera di quella donna, non si era immaginato in questo ruolo. Il piccolo mise da parte il pollice e si rivolse direttamente a lui, e poi, sorprendendolo come mai nulla prima di quel momento aveva fatto, gli sorrise. A quel punto DIO pensò davvero di aver perso la testa, ma se la ricompensa per quella follia era un tale, autentico amore, allora forse avrebbe potuto rischiare di allontanarsi un po' dalla retta via. Rivolse lo sguardo all'orizzonte e, vedendo il cerchio brillante ergersi sul mare, si volse di nuovo verso il bambino. Lo sistemò ben bene nelle coperte per proteggerlo dal freddo, poi se lo portò al petto e lo strinse forte. Una sola lacrima di gioia cadde sull'erba mentre sorrideva. <Ciao, Giorno>, disse e pensò che dal quel momento il mondo fosse diventato un posto più luminoso.
•~•~•~•= Atto III =•~•~•~•
Un uomo camminava canticchiando nella campagna, un bambino di poco più di un anno sonnecchiava sereno tra le sue braccia. L'alone pallido e delicato che circondava l'uomo sembrava non disturbare il suo sonno. La Luna sorrise. Cullò ancora il piccolo, cantando una ninna-nanna di cui neanche lui ricordava bene tutte le parole. Ma il suono era piacevole e questo bastava. Alzò lo sguardo verso il cielo puntellato di stelle e le sue vesti candide si mossero nel venticello caldo dell'estate. Presto il Sole sarebbe sorto e Giorno si sarebbe svegliato. <Jonathan> Una voce lo chiamò e non ebbe bisogno di girarsi per sapere chi era. <DIO>, mormorò, <È un po' presto, non trovi?> <Come sta?> Jonathan sorrise. Non era ancora riuscito a trovare le parole giuste per descrivere quanto fosse contento di quella situazione. Il suo cuore vibrava di felicità e sapeva che era lo stesso per la stella del giorno. <Tutto bene, è con me dopotutto. Se continuerai a essere così protettivo con lui, temo che presto o tardi comincerà ad odiarti> Il silenzio che seguì poteva solo essere un segno della preoccupazione dell'altro dopo aver udito quelle parole. Allora Jonathan si voltò, allungò una mano e la posò sulla spalla del Sole, stringendo delicatamente. La sua espressione insicura lo turbò più del necessario. <Va bene, stavo solo scherzando. Stai andando bemissimo> <Lo pensi davvero?> La Luna annuì con convinzione. <Certo. Lui è felice, noi siamo felici. Non vedo lati negativi in tutta questa storia> DIO non sembrava convinto. Girò la testa di lato e lasciò che il suo sguardo vagasse sui profili delle case in lontananza. <Io...spero solo di non aver commesso un errore> Jonathan stava per rispondere, ma Giorno lo batté sul tempo. Il piccolo, svegliatosi probabilmente a causa dei discorsi dei due, si divincolò dalla presa dell'altro e si allungò verso DIO, sul volto rotondo aveva un'espressione piena di determinazione. Il Sole lo afferrò e lo strinse a sé, Giorno si tirò su e gli piantò un tenero bacino sulla guancia. Quello rimase stordito. <Papà>, disse solo il piccolo con decisione. Jonathan sorrise e desiderò poter immortalare quel momento mentre DIO, con un sorriso più radioso del sole di mezzogiorno, baciava il pargoletto sulla fronte e lo stringeva al petto come se fosse una parte della sua anima.
•~•~•~•= Epilogo =•~•~•~•
Il Sole teneva il bambino di giorno, lo faceva giocare e gli insegnava tutto ciò che c'era da sapere sul mondo; la Luna lo cullava di notte, leggendogli favole e insegnandogli a sognare. Dall'alto le stelle guardavano i tre e ogni tanto si avvicinavano per stare col bambino, riempiendo il cielo di frecce argentee e spingendo gli uomini a rivolgere ad esso le loro preghiere.
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ribbit-darthvalz · 3 years
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Polvere viola
“Mi chiedo come sia sopravvissuta... è sicuramente una strega... non ho altre spiegazioni altrimenti.” “...aiutami, mettiamola sul tavolo” Una folata d’aria gelida, mi trapassò da fianco a fianco, sentii mani calde sollevarmi, con una rigidità e una cura quasi religiose. Poi il legno del tavolo, mi bruciava, delle parti di me bruciavano con un intensità tale da farmi gridare. Anche gridare era doloroso, sentivo le corde vocali stridere, come se le stessi portando allo stremo, c’era come della ruggine nella mia gola. Un sapore disgustoso e terribile mi raggiunse la lingua, era sangue, ed era lì da un po’, come se non avessi respirato o deglutito. Il fuoco tornò a riempirmi i pensieri, sentivo le fiamme avvolgermi la gamba e forse anche il braccio destro, forse era la schiena. Aprire gli occhi mi costò altre urla, poiché la poca luce che c’era, mi fece aggrottare la fronte e percepii delle cicatrici, o forse croste, sul viso che venne tirato di conseguenza. Ma niente era come il fuoco che sentivo sul corpo.  Potevo vedere benissimo il cielo, era notte, le stelle iniziavano a comparire sopra di me, non feci troppo caso alla neve sulle cime degli alberi, o attorno a quelli che erano i resti di un camino e le assi di legno che una volta componevano le pareti della casa. Era buio, freddo, ma bellissimo, quando realizzai che poteva essere inverno, mi forzai di non sentire il fuoco che mi avvolgeva. Di fatto poco dopo sparì. 
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“Ci dispiace signorina, non abbiamo potuto fare niente...” La voce di prima mi sorprese, ma non riuscivo a muovere il collo, una forte fitta alla schiena me lo impediva, ora sentivo quel maledetto braccio destro, pesante, stanco, non morto, ma nemmeno felice di muoversi, e il collo con lui.
 “Oh dio, scusa... ecco sono qui. Non puoi vedermi se sto di qua...”
Sentii dei passi prima dietro, cioè all’altezza della mia testa, poi al fianco e in fine un’ombra sovrastò il viso, senza però coprire il cielo. Era un ragazzo dalla faccia simpatica, sembrava il tipico eroe puro e un po’ ingenuo. Faccia da brava persona, naso di una certa importanza, barba media e curata, i capelli corti ma non troppo da essere radi. Evidentemente lo stavo guardando con troppa insistenza, tanto che sgranò gli occhi esclamando “Ti prego, sta calma, non siamo qui per farti del male... giuro”
“Se avessi voluto farmi del male, adesso ...” Mi bloccai a metà, la mia voce era diversa, la cosa mi fece raggelare. Vidi esitazione nel suo volto, scrutò una parte della casa che era fuori dal mio campo visivo, era in difficoltà, provai pena per lui. Ero così stanca da non riuscirmi a preoccupare per me stessa. Provai a richiamare la sua attenzione muovendo una mano nella sua direzione, afferrargli il giaccone di pelliccia era l’intento, nella realtà si accorse di me perché iniziai a soffrire come un cane. Inspirò profondamente. Mi guardò, provai ancora dispiacere per lui, chissà chi era e che incontro crudele doveva essere stato questo.  “... Siamo a fine Novembre. Ti abbiamo trovata questo pomeriggio, non sappiamo da quanto tempo tu sia qui, come vedi ha nevicato e questa baracca è andata distrutta dopo solo Dio sa cosa.” Si fece un po’ più indietro, si spostò appoggiandosi al tavolo, in modo che potessi vederlo bene. 
“Sono quello che chiameresti babbano o no-mag, non magico. Però mi occupo di occulto, sai chi vive su questi monti è molto abituato ad avere a che fare con cose strane... pensiamo che tu sia entrata in contatto con quello che molti chiamano baubau, o uomo nero, insomma hai sicuramente sentito parlare di questa leggenda.”  Ci fu una sferzata d’aria gelida, socchiuse gli occhi infastidito, io rimasi muta ed immobile. La porta, o qualcosa fatto di legno, sbatté lontano da entrambi, successivamente sentii dei passi, più pesanti e affrettati.  “Ah... finalmente sei tornato... bravo accendi il fuoco, ne abbiamo bisogno” “... e lei... è sveglia? dovrebbe esserlo dai, ho fatto tutto quello che ho potuto per ...insomma scongelarla... o qualsiasi cosa abbia fatto a se stessa” 
La voce del secondo uomo aveva un accento molto diverso da quello vicino a me. Mentre parlava, lo sentivo fuori campo che spezzava legna e l’accatastava non poco lontano da dov’eravamo. 
“Sì Sandro, è sveglia... però le stavo raccontando una cosa un po’ seria. Tu finisci con il fuoco e io col racconto...” La stizza del ragazzo mi fece divertire. Colui che rispondeva al nome di Sandro, rispose facendo una serie di rumori infantili, tipo “gne gne” 
“Scu-scusami... volevo essere serio e darti una risposta credibile, che ti lasciasse tranquilla, mi dispiace.” si sfregò le mani per scaldarsi. Solo allora notai che le sue labbra si erano inscurite e tremava tantissimo “Mi ricollego a quello che ha detto il mio collega... ti abbiamo trovata in questa catapecchia ed era come se il tuo corpo si fosse congelato, o boh, fatto sta che il cuore non era fermo fermo, era solo... lento... credo”  Guardò verso il compare e una luce gialla e calda gli illuminò il viso. Sentii un leggero caldo pure io, quasi impercettibile.  “Penso che tu lo sappia, in Italia la magia è cosa più comune di quanto non si dica. Ci sono tipi di magie, attività magiche... sì, diciamo così... che possono essere tramandate o imparate. Sandro ha provato a scongelarti o insomma... farti tornarne qui, con le tecniche che ha imparato dalla sua famiglia. Ha usato una pozione, diciamo...”  Una mezza risata si levò dal centro della stanza.  “... da quando le pozioni si danno nel costato tipo pulp fiction ... “ La cosa mi sorprese, ma evidentemente non sapevano come darmi quella roba che mi aveva riportata vigile.  “Eh sì insomma... fatto sta che hai tantissime ferite ed evidentemente sei rimasta in quello stato per diverso tempo, te ne sarai accorta dallo sforzo che hai fatto nel provare a parlare o anche solo urlando. Sfortunatamente sei finita in un postaccio, non so dove stessi andando... anzi, temo di saperlo, ma penso anche che tu non abbia vissuto niente di reale negli ultimi mesi... almeno le poche cose che ricordi, non credo siano vere...”  “Ma scusa, falle vedere il volantino che ho trovato, no!?”  Il ragazzo si illuminò e un po’ parve confuso, rovistò in una delle tasche interne del giaccone e mi mostrò una pergamena di scomparsa.  “Già... è del tuo mondo.” vedere la mia foto dell’ultimo anno di scuola, che si muoveva, ad un palmo da me, mentre io nemmeno riuscivo a parlare, mi fece lacrimare silenziosamente. 
“è di questa estate... il ministero ha contattato ehm.. beh, siamo tipo dei ranger, cioè definirci maghi sarebbe troppo... insomma ha contattato noi esperti del luogo e di queste creature, poco dopo la tua scomparsa...” 
“La parola giusta sarebbe, coglioni che non si fanno i cazzi propri e vanno a rovinare la festa a casa del Baubau... ma meglio di no, qui sono superstiziosi nel pronunciare quel nome” Sandro si intromise e sentii la sua voce farsi più vicina, per poi fermarsi al lato opposto del tavolo. Prese l’unica sedia che c’era e si sedette come se niente fosse.
“Quindi... è iniziato dopo il diploma... mi ha presa prima che iniziassi...” provai a dire due parole, la gola raschiava meno e forse il mio corpo bruciava meno, il braccio mi pesava così tanto che non riuscii a concentrarmi a dovere.
“Il tirocinio, iniziassi il tirocinio, già. Le ricerche sono partite dal ministero, poi si sono spostate nella sezione del nord, questa qua, dove saresti dovuta arrivare tu. Veniamo da quelle zone, la comunità magica e non magica vivono a stretto contatto, c’era un gran vociare sulla sconfitta di quel mago cattivo e sull’arrivo di qualcuno dell’accademia di magia. Una sparizione così, per una persona tanto attesa, ha fatto pensare al peggio subito...” Il ragazzo mi parve più rilassato, sicuramente meno infreddolito. 
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Sandro si intromise, aveva un tono tranquillo ma sicuro non andava preso alla leggera. “Poi non ti abbiamo trovata subito, perché il bau-bau è un gran burlone e nasconde tutto a tutti. Un po’ brutto come primo incontro con un criptide. Ogni cosa può essere piegata alla sua volontà e le leggi della magia moderna, non funzionano con lui. Ti spiego, per contrastarlo, anche solo in cose minori, come piccole manipolazioni della realtà, siamo dovuti ricorrere ai libri di sua nonna...” La risata stavolta non venne da Sandro “non mi ci far pensare... una volta i rituali, anche solo i sigilli, venivano tramandati in modo segreto. Ho dovuto leggere appunti su appunti su come fare la polenta, e tutti i tipi di polenta esistenti all’epoca, per estrapolare qualche informazione sui sigilli di protezione e su come una volta si riparavano da questa minaccia...” Il suo viso tornò a farsi scuro. “Certo Vale, abbiamo avvertito i soccorsi e presto una squadra del ministero sarà qui...mi dispiace se provi tanta paura... lo so”
Sandro batté una mano sul tavolo “Non la toccare! ah-ha! Sai che non puoi usare i poteri su di lei, non sappiamo se una traccia del nostro amicone è ancora dentro di lei... potrebbe farti sentire o vedere cose che non sono mai esistite...” Si sporse e lo vidi in viso per la prima volta, una facciotta rotonda, allegra e resa ancor più gioviale dalle guance rese rosse dal freddo, ma le sopracciglia erano aggrottate in un’espressione di preoccupazione e disappunto.  “Tu non le hai pensate quelle cose, vero. Non gli hai chiesto...” “No. Non so di cosa parla...” Dissi con un filo di voce.  Sandro continuò a parlarmi, lanciò uno sguardo al suo compare e in tono consolatorio disse “Vedi, il nostro caro amico Furio è nato con un potere a metà tra il tuo mondo e quello babbano. Peccato che il buon cuore lo renda terribilmente stupido!” Tuonò, più in senso amichevole, quasi per tirarlo su di morale stuzzicandolo che per rimproverarlo. “Può leggere nella mente delle persone e vedere i loro ricordi, ma solo se le tocca. Oltre a ciò riesce a percepire la paura delle creature, come dire, piccole... indifese, insomma tipo te ora”.
Furio rimase distante, guardava il fuoco, probabilmente. “Già. Io sono di queste zone. Non sai quante volte, da piccolo, sentivo cose che non potevo comprendere, bambini portati via da quel mostro terribile, sentivo la loro paura, anche se vivevo in città e non in questa foresta. La paura dei bambini per l’uomo nero... speravo di non sentirla più...” “Quindi, brutto cretino, sai anche che rischi corri se entri in contatto con una persona come lei, che le ha resistito.” ci fu una pausa “E tu non solo gli hai resistito... chissà come, hai trovato il suo libro. Sei l’unica che torna indietro con questo” Mi mise davanti agli occhi una sorta di giornalino pieno di macchie d’inchiostro. “Il libro dei cuori perduti, o dei cuori neri. Si dice che sia il mezzo con cui il Baubau si metta in contatto con le vittime, però poi sparisce con loro. Questo fatto è singolare, sicuramente aiuterà quelli del ministero a fare luce sulla faccenda...” “Ma puoi tenerlo... così...” Chiesi, un po’ sorpresa dalla semplicità con cui lo teneva in mano.  Solo allora mi accorsi che le sue mani erano completamente segnate di viola, c’erano dei disegni su ogni falange, sul dorso della mano e anche sui palmi. Evidentemente Furio notò la mia faccia incuriosita e sollevò un braccio, tirando su la manica della pelliccia.
 “Prima di entrare in questa foresta, ci siamo dovuti far segnare questi dalle vecchiette dell’ultimo villaggio vicino, quello mezzo magico. Usando le informazioni dei libri di mia nonna e la loro conoscenza. E come noi, anche le altre squadre di maghi, altrimenti saremo finiti tutti come te” Il suo braccio era pieno di rune a me sconosciute ed altri simboli intricati. 
“Poi io ne ho molti meno perché non ci credo a questo mostro farlocco, ah-ha. Che si palesi come fece l’uomofalena, quello sì che è un signore...” C’era una nota di fierezza nella voce di Sandro, ma anche tanta voglia di smorzare gli animi. Mi strappò una sincera risata “...l’uomo falena... il mio preferito..”  sussurrai esausta ma molto più presente a me stessa. Ormai quei due mi avevano incuriosita abbastanza da farmi sentire un po’ più al sicuro, quindi dentro di me si accesero altre necessità, necessità da persona viva e cosciente, dopo tanti mesi. Feci uno sforzo enorme ma con uno scatto che sembrò più uno spasmo, sfiorai una delle dita di Furio.  “Devo sapere... scusa” Sentii la mia energia rinvigorirsi, come un fiume che torna a sgorgare. Non era giusto intrufolarsi nella mente di una persona che aveva poca dimestichezza coi propri poteri, anche meno potente di me, dato che babbana, però parlare mi stancava davvero tanto, volevo sapere tutto sul Baubau. Appena lo toccai, sentii che la mia energia veniva come strappata, afferrata di forza da qualcos’altro, era la sua mente affamata di ricordi.
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Ero così arrabbiata... mi accorsi che ero arrabbiata, solo quando mi vidi riflessa nei pensieri di Furio.  Quella creatura teneva sotto scacco la foresta da secoli, c’era una zona nera, come il triangolo delle bermuda, in cui tutto svaniva, niente poteva giungervi e fare ritorno, la magia per spostarsi non funzionava, anche alcune bacchette davano problemi. Vidi un mare di alberi neri, diventare rossi sotto la luce del tramonto, poi fogli, inchiostro, un bambino che gioca nel giardino di una vecchia casa. Un’anziana lo tiene d’occhio mentre stende il bucato. Era tutto silenzioso e avvolto da un’aura stranamente pacifica. Non si muoveva una foglia, in quel pomeriggio, ma niente faceva pensare che fosse normale.
Una lunga ombra serpeggia sul prato ma il bambino non se ne accorge. Un fuoco altissimo, di colpo, con lingue blu e viola, si alzano dal prato a due passi dall’ombra che sta per schizzare fuori dall’erba, sta per farsi viva, ma non ci riesce.  “Tornerò a prenderlo... o lo farà la foresta per me...” Ulula la bestia, sgusciata fuori dalla sua tetra dimora, sfruttando l’ombra degli alberi, la giornata che va a morire. Una donna, rossa come il sole che la illumina, tiene stretto il bambino. “Vorrà dire che ogni cosa brucerà”  Anche l’anziana accorre e la donna gli porge il bambino che viene subito riportato in casa. Intravedo della polvere viola sulle imposte della vecchia casa, poi tutto diventa velocissimo e non posso controllarlo, posso solo guardare e stare in silenzio, aspettare il momento in cui vorrà mostrarmi qualcosa di rilevante, ancora.  Scatoloni, polvere, fogli, inchiostro, tanto inchiostro, giocattoli, sorrisi, una città, alberi che diventano palazzi, cielo azzurro e spensierato che diventa grigio e plumbeo. Tanti ragazzini, tanta solitudine, verifiche, errori, altre risate. Un viaggio, una ragazza, un anello. Poi nuovamente tanti alberi, il fumo di una casa di legno, un camino, della tecnologia babbana, tante persone allegre, diverse tra loro, ma sembrano stare bene insieme. Un villaggio pacifico e pieno di maghi, di colpo fogli, altri fogli, inchiostro. La mia foto. Il buio del bosco, quel prato dove l’ombra apparve, la veranda della nonna, ormai vuota. Polvere viola, sigilli, fuoco.  Un’auto, la mia auto, viene ripescata da un lago ormai ghiacciato. E’ mezza fuori, come nei film thriller. Il cuore quasi mi si ferma. Camminano nella foresta, tutto è estremamente pesante, fa freddo, sembra che il sole non sorga mai. Trovano la mia bacchetta vicino ad una roccia piatta, ha sopra dei simboli che non ho mai visto, che ci fa lì... non ci sono mai stata. La marcia continua, il sole sorge ma per pochissimo. Qualcosa li attacca, piccoli esserini neri, come gatti estremamente magri e spigolosi. Sandro gli tira contro delle ampolle, uno salta sul suo braccio ma appena tocca i sigilli, si polverizza.  Una scossa percorre Furio e la sento pure io, che sensazione terribile, come se qualcosa ti tirasse dai piedi e ti trascinasse sul fondo di un lago ghiacciato, come svegliarsi nel cuore della notte e vedere qualcuno sul proprio letto per poi scoprire che è solo un cumulo di vestiti da lavare.  Dopo poco il mio corpo. Mi viene da vomitare. “Smettetela adesso o vi taglio le mani!” Un clap mi riporta alla realtà, Sandro ha tirato uno schiaffo all’amico per interrompere il nostro collegamento, io vengo sbalzata fuori come se lo avesse tirato pure a me. 
“Signorina ce l’ho anche con te... non ti posso prendere a schiaffi solo perché sei a tanto così dalla morte”  Furio intanto scuote il capo e si lamenta “Potevi anche allontanarmi di peso, non importano gli schiaffi ora...”
“Ho come l’impressione che non sarebbe bastato, e poi te lo meriti, così impari a trascinare gli altri dentro di te... ti avevo detto di non farlo, o sbaglio!?”  Sandro è molto stizzito ma si capisce che la sua è sincera preoccupazione da amico più che altro. 
“Volevo solo che vedesse... è entrata e non..” mi lanciò un occhiata stanca e un po’ dispiaciuta “Non ho potuto fare a meno di usare la sua energia, i suoi poteri, per, per... non lo so” rimase distante da me, quasi a scusarsi.
“Visto!? Non sappiamo nemmeno come funzionano i tuoi poteri, almeno non fino in fondo. Poteva succedere qualsiasi cosa... vieni qui tu! Sta ferma mi raccomando!” Mentre Sandro rimproverava Furio, lo sentii mettermi un braccio su entrambe le cosce, per tenerle immobili. Estrasse qualcosa da una borsa che prima non avevo notato, simile a quelle vecchie di pelle, quelle dei dottori per intenderci. Subito dopo ci fu uno sparo. Urlai, o meglio, aprii la bocca cercando di far uscire un suono, ma non uscì niente poiché contrariamente a quanto mi aspettavo, non sentii alcun dolore.  “Smetterò di entrare nella testa delle persone o insomma, usare questi poteri a caso, quando TU smetterai di sparare le tue pozioni sulla gente SENZA AVVERTIRE!”  Sandro rise di gusto, con in mano quella che era una pistola ma che ai miei occhi stanchi sembrava boh, un paio di grosse forbici da dottore, o una cosa del genere. All’affermazione di Furio mi feci un po’ più preoccupata, sentii la tensione ma anche l’adrenalina che circolavano in ogni parte del mio corpo, percepivo il freddo pungente e la faccia non mi faceva così male, quel colpo mi aveva fatto sicuramente bene, la mia gamba non andava più a fuoco.
“Bene mia cara, ora non sentirai alcun dolore, per le prossime ore. Però non significa che tu sia guarita, ma almeno potrai riposare... ora ti do questo che dovrebbe aiutarti con la gola, poi penso a ripulirti le bende e ti sistemo un po’ per farti trasportare al meglio dai tuoi amici.” Prese una vecchia coperta e me la mise sotto la testa, riuscivo finalmente a vedermi i piedi senza nessuno sforzo, avrei preferito non vederli, ma almeno in quella posizione mi era più facile parlare con loro due e prendere la pozione, che sembrava più uno sciroppo per la tosse mescolato con la vodka, che mi passò Sandro poco dopo.  La gamba che sentivo in fiamme, aveva ogni ragione per esserlo. Riuscivo a vedere quello che penso fosse la mia rotula, mentre attorno la carne era rossa e viva come non mai, però Sandro riusciva a sdrammatizzare abbastanza mentre mi cambiava quella porzione di bende. Ero scalza, mi avevano trovata coi vestiti strappati e induriti da un mix di sangue e neve. Quando mi avevano messa sul tavolo, prima ero stata fasciata e cosparsa di unguenti, rimedi insomma, pseudo magici, poi avvolta in una sorta di lenzuolo con sopra una coperta termica. Le mie cose erano state ritrovate nella mia borsa, a pochi metri dal mio corpo. Anche se era territorio del Baubau, quei due erano così tranquilli, affiatati tra loro, e propensi a stuzzicarsi e prendersi in giro, che la mancanza di un soffitto per quella baracca nella foresta, era poca cosa. Sprigionavano calore familiare, accoglienza, sicurezza.  “E così il tuo ex ragazzo era un vampiro... che storia... non ero sicuro esistessero. Dev’essere stato terribile...” Mentre mi cambiava le bende, Sandro chiese a Furio di disegnarmi sulle braccia gli stessi simboli che avevano pure loro, quindi per tenermi sveglia iniziò a chiedermi cose sul mio vissuto. Il suo sciroppo magico alla vodka, dopo una prima fiammata alle corde vocali, sembrò ripulirle dal tempo e dal sangue in un istante. Quindi attaccai subito con la mia instancabile parlantina, un po’ per rimanere presente a me stessa, un po’ per esorcizzare le cose che mi aveva fatto vedere quella bestia. 
“Mh, pure della peggior specie. Non posso nemmeno impalarlo” sbuffai “Sapete, nel mondo magico i vampiri sono accettati, tanti si sanno contenere, ma tanti altri ancora sfruttano gli umani... come fossimo inferiori”
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“Il mondo è molto più complicato di come lo descrivono nei libri per ragazzi, eh vabbè” Sandro fece spallucce riferendosi alla famosissima serie di libri, che per tanti babbani sono pura fantasia. Sistemate le mie bende, rimise le sue cose nella borsa e si spostò verso il fuoco, ormai ero sicura fosse alle mie spalle, vedevo la sua luce proiettata in ciò che rimaneva del muro di legno, davanti a me. Furio stava ancora disegnando rune, così assorto che non parlava già da un po’. “Quindi, tua madre è una strega...” sussurrai, pensando alla donna coi capelli rossi, le fiamme blu e viola, su quel prato nei suoi ricordi.
 Alzò lo sguardo dal mio gomito e mi guardò come se non avesse capito bene ciò che avevo detto.  “Penso di sì...” sospirò e si guardò attorno un po’ incerto. “Non lo so, sono cresciuto in città, non ricordo bene come fosse qui quando ero piccolo... scusami, ho cercato di fartelo vedere per... non so, forse speravo che avresti potuto dirmelo tu.”  Erano passate ore, il cielo era più sereno, e mentre mi parlava pieno di incertezze, iniziammo a sentire rumori strani, come di pentole che vengono sbattute. Più si avvicinavano più suonavano familiari.  “Schiantesimi?!” borbottai, aggrottando la fronte, che iniziò a pizzicarmi per il freddo. “Beh la fuori è pieno di quei cosini scemi, qua non possono entrare, tranquilla, ma se i tuoi amici sanno come farli saltare in aria... beh, non mi metto a piangere, anzi”.  La risposta sarcastica di Sandro, mi distrasse completamente dalla conversazione che stavo avendo, e sentii il calore della salvezza, credo, invadermi il cuore. Più si avvicinavano, più gli incantesimi volavano, ma entrambi i miei compari, erano tranquilli e continuavano con le loro cose. Erano così vicini che vedevo i fasci verdi, azzurri e rossi, riflessi nelle finestre.  Sospirai profondamente. “E’ arrivata la cavalleria...” Furio accennò una risata.  “Coi fuochi d’artificio. In grande stile” Risposi sinceramente divertita, mi sentivo così piena di speranza, che quel duro tavolo di legno, divenne comodo come il letto di casa mia. Ero rilassata, dopo mesi e giorni passati al freddo, rattrappita dalla paura e dalla neve. Che splendida sensazione. 
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dreamerwriter18mha · 4 years
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CRONACHE DI YUUEI - GROUND ZERO Capitolo 6 - Istinto
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PAIRING: KIRISHIMA X BAKUGO    RATING: +18   GENERE: Fantasy AU
P.O.V. KIRISHIMA
Alla vista del biondo che si avvicinava, con quello sguardo astuto e dominante, una sensazione sgradevole iniziò a fiorire nel petto di Kirishima, seguita dal basso ringhio infastidito che lasciò le sue labbra.
Bakugo si bloccò, udendo il suono, e il suo sguardo si fece sorpreso e poi...deluso? Kirishima non ne era certo, ma sembrava davvero delusione quella che manifestavano i rossi occhi del Re. Ma deluso per cosa?
"Togliti la giacca, devi riuscire a muoverti liberamente" mormorò Bakugo, deviando la sua attenzione altrove.
Kirishima ubbidì subito, desideroso di cacciare quella sgradevole tensione tra loro.
"Per prima cosa vediamo come stai messo in difesa" spiegò il biondo, mettendosi in posizione di attacco "Cercherò di colpirti, tu cerca di impedirmelo"
Kirishima cercò di mettersi in posizione, una posizione terribile con un sacco di falle,  Bakugo era certo che l'avrebbe colpito, ma appena il pugno volò nella sua direzione, l'altro lo bloccò con uno scatto repentino della mano.
"Come diavolo hai fatto?" esclamò Katsuki sorpreso.
"Non lo so...l'ho sentito, diciamo. Quando hai mosso il braccio io sapevo dove avrebbe colpito" rispose Eijiro con esitazione.
"Va bene, riproviamo" disse il Re, rimettendosi in posizione.
Questa volta tirò un calcio e anche questo fu anticipato e bloccato dall'altro, nonostante la sua pessima difesa.
"Che cosa senti esattamente?"
"Non saprei spiegartelo...io non so dove proverai a colpirmi, ma appena ti muovi il mio corpo reagisce, da solo"
"E' il tuo istinto" spiegò Bakugo, con tono sorpreso "tu non sai combattere ma il tuo istinto di drago a quanto pare sì"
"Quindi se riuscissi a trasformarmi nella mia forma completa saprei combattere?"
"Forse...andiamo in biblioteca, se riusciamo a trovare qualche testo sui draghi forse possiamo capire come addestrarti in modo efficace" propose Bakugo.
"Io non so niente di addestramenti e combattimenti, quindi mi fido del tuo giudizio" rispose Kiri con un sorriso affilato.
Con grande dispiacere dell'altro, Bakugo si rimise il mantello sulle spalle e si incamminarono dentro il castello, verso la biblioteca in cui Kirishima era già stato poche ore prima.
"Ti piace vivere qui?" chiese il Re di punto in bianco, senza guardarlo.
"Oh sì...lo adoro. Non ti ringrazierò mai abbastanza per avermi accolto. Questo è molto di più di quanto avessi mai potuto sperare" rispose Kirishima con dolcezza "spero che la mia presenza non ti sia d'impiccio"
"Ti sembro il tipo di persona che fa qualcosa per pura cortesia?" sbottò il Re infastidito, spalancando la porta della biblioteca "Se sei qui è perché io voglio che tu sia qui. Tu cerca da quella parte, io cerco da questa"
"Va bene" rispose il rosso, con un sorriso enorme.
La biblioteca era enorme, due piani di scaffali e libri. L'arredamento era di un bel legno scuro, lucido, e tutto aveva questo odore di inchiostro, carta e pelle lavorata che faceva sentire Kirishima rilassato. Gli piaceva come i passi sul pavimento di legno risuonavano nel silenzio e il fruscio della carta gli dava un grande senso di pace. Nella sua prigionia non aveva mai avuto dei libri, ma una delle sue compagne gli raccontava delle storie avventurose che aveva letto da bambina nella libreria dei genitori. Gli piaceva immergersi in quei mondi di favole per sfuggire al dolore e alla solitudine della sua cella. Gli venne da sorridere al pensiero che ora che aveva a disposizione tutti i libri che avesse mai potuto desiderare, non gli servivano perché la sua vita stessa era diventata una di quelle favole. Anche se, quando sognava nella sua gabbia, immaginava di essere il bellissimo principe che salva la principessa dai mostri, mentre nella realtà era stato lui ad essere salvato da un affascinante Re.
Se sei qui è perché voglio che tu sia qui. Quelle parole continuavano a ripetersi come un mantra nella sua testa, facendolo sorridere come un idiota per tutto il tempo.
"Che cazzo hai da sorridere in quel modo?" sbraitò Bakugo, quando si incrociarono a metà di un lungo scaffale.
"Niente...sono solo felice" mentì.
Aveva capito che se avesse fatto notare a Bakugo la dolcezza di quello che aveva detto poco prima, il biondo se lo sarebbe rimangiato e non voleva davvero che accadesse. Voleva conservare quella confessione come una rara gemma.
"Hai trovato qualcosa?" gli chiese, per cambiare argomento.
Il Re annuì, mostrando i due libri che stava portando con se.
"Anche io ne ho trovati un paio"
"Qui non c'è altro. Iniziamo a leggere questi e poi vediamo" disse il Re, facendogli cenno di seguirlo.
"Va bene. Dove andiamo?"
"In un posto speciale" rispose Bakugo, con un sorriso astuto.
A pochissima distanza dalla biblioteca, nascosta in un corridoietto laterale, c'era una porta che Kirishima ancora non aveva notato, con un pezzo di pergamena inchiodato sopra che diceva: disturbare solo in caso di emergenza.
Appena la porta fu aperta, Eijiro rimase incantato.
La stanza era piccola rispetto alle altre che aveva visto nel palazzo, appena sufficiente per ospitare un piccolo gruppo di persone. Al centro della parete c'era un camino e davanti ad esso un morbido tappeto. Sul tappeto erano stati sistemati due divanetti e una poltrona, rivestiti di soffici cuscini di velluto verde. Tra i divani e la poltrona erano posizionati due piccoli tavolini rotondi, completamente vuoti, e in un angolo della stanza c'era un carrello su cui erano posati bicchieri e bottiglie di vetro piene di liquidi in varie tonalità dell'ambra, un servizio di porcellane e un'elegante vaso di vetro pieno di biscotti.
Sopra al camino, era appeso un quadro che raffigurava una donna assolutamente identica a Bakugo, perfino nello sguardo altezzoso, un uomo dai capelli scuri e dall'espressione dolce e un ragazzino in piedi tra di loro. Non serviva un genio per capire che erano Bakugo e i suoi genitori.
"Che posto è questo?" chiese Eijiro.
"Il salotto di famiglia" rispose il Re, accucciandosi davanti al camino "Ne abbiamo un altro più grande per quando abbiamo ospiti, dove si serve da bere e si gioca a carte, ma io preferisco questo"
Con attenzione, Kirishima si accomodò su uno dei divani, rimanendo sorpreso dalla morbidezza del tessuto, ma uno scoppio lo fece sussultare.
Guardò preoccupato verso Bakugo, che lo guardava a sua volta con un sogghigno, e capì che aveva scatenato una piccola esplosione per accendere il fuoco nel camino.
"Pestifero" brontolò Kirishima mostrandogli la lingua.
Il Re ridacchiò di gusto al gesto e quella dolce sensazione di euforia tornò a riempire il petto di Eijiro. Gli piacevano sempre di più questi momenti intimi con il Re, quando cadeva la maschera del sovrano schietto e cinico e usciva allo scoperto il gentile, divertente e spensierato Bakugo.
Una volta che il fuoco iniziò a scoppiettare nel camino, il Re si alzò e andò verso il carrello.
Kirishima sentì i vetri tintinnare e poco dopo un bicchiere di liquido ambrato fu posto nella sua mano.
"Che cos'è?"
"Assaggia e lo scoprirai" rispose il Re, accomodandosi su divano di fronte.
Con esitazione, Kirishima annusò la bevanda. Aveva un odore dolciastro e speziato.
Ne prese un piccolo sorso e appena lo inghiottì un'inaspettato bruciore gli bloccò il respiro. Sotto lo sguardo divertito di Bakugo, iniziò a tossire.
"Ma che...che diavolo mi hai dato?" piagnucolò.
"Cazzo che femminuccia" rise il Re "E liquore, non veleno"
A dimostrazione di ciò, prese un generoso sorso dal suo bicchiere e lo mandò giù senza fare una piega.
Kirishima, che non voleva essere da meno, provò a prenderne un altro sorso, questa volta sapendo cosa aspettarsi, e scoprì che, una volta abituato al bruciore, il gusto gli piaceva. Dopo aver vuotato il bicchiere, si rese conto che anche la sensazione di calore e annebbiamento gli piaceva. Si sentiva caldo e felice.
"Posso averne ancora? E' buono...mi ricorda te" esclamò all'improvviso.
Bakugo, che intanto aveva iniziato a leggere, lo guardò con un sopracciglio inarcato.
"In che senso ti ricorda me? E no, non puoi averne ancora. Non mi serve un drago ubriaco"
"Il sapore...ha un sapore dolce e speziato e tu hai un'odore dolce e speziato...mi piace il tuo odore...sa di casa, di famiglia...e mi fa sentire lo stomaco strano...ma uno strano buono. E il liquore brucia, come te quando fai esplodere le cose" rispose il ragazzo, cercando di spiegarsi senza inciampare sulle parole.
Il volto di Bakugo passò in un istante dallo sconcerto al totale imbarazzo. Il suo intero viso si accese di un rosso brillante.
"Capelli di merda! Non puoi semplicemente...oddio...sei già ubriaco, vero?" ribatté il Re, iniziando improvvisamente a ridere "sei davvero una femminuccia"
"Ehi...non sono una femminuccia...sono un possente drago!" ribatté l'altro seccato, cercando di spostarsi verso di lui.
Le sue gambe collaborarono per il primo metro, ma a pochi passi dal divano cedettero, facendolo cadere.
"Attento idiota!" esclamò il Re, che non riusciva a trattenere le risate, afferrandolo al volo per i fianchi.
Il gesto impedì al ragazzo di finire a terra, ma gli fece comunque perdere l'equilibrio facendolo cadere addosso a Bakugo.
"Scusa" mormorò il affranto.
"Non importa" disse il Re divertito, aiutandolo a stendersi sul divano.
Il divanetto era per due persone e per quanto Kirishima non fosse enorme, non era nemmeno piccolo, quindi Bakugo gli fece posare la testa sulla sua coscia.
Con l'alcool nelle vene e il familiare odore di Bakugo nel naso, Eijiro impiegò pochi secondi a scivolare in un sonno profondo.
Quando il Re udì il respiro del drago farsi lento e regolare capì che doveva essersi addormentato e tornò silenziosamente alla sua lettura.
E se nel frattempo le sue dita scivolarono pigramente tra le ciocche cremisi, suscitando morbide fusa dal ragazzo addormentato, il segreto rimase custodito all'interno di quelle quattro mura.
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ceravolo · 3 years
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Caro nipotino,
siedi sulla sedia a dondolo,
vicino al camino,
come eravamo soliti fare,
Tu e Io,
prima di congedarci per la buonanotte...
Poco importa se non solo lì vicino a te,
se non ho la forza di parlare,
se faccio fatica a respirare,
se ho bisogno dell'aiuto
di una maschera d'ossigeno...
Anche stasera voglio raccontarti la mia "favola".
Per fortuna ci vedo ancora.
I miei occhialini sono qui con me.
Non me li hanno portati via.
Prendo carta e penna e te la scrivo,
così potrai leggerla....
Anche i "grandi guerrieri" si fanno male.
Sono stato un soldato,
ho combattuto in guerra e, questo lo sai,
e, per fortuna, ne siamo usciti
vittoriosi e vincitori,
ma oggi sono prigioniero,
"incatenato" in un letto,
un prigioniero innocente.
Prigioniero di che cosa?! Di chi?!
Di un fantasma invisibile,
di un essere mostruoso con 3 facce,
con il volto tumefatto,
metà uomo,
metà animale,
di un drago con le ali,
di un non so chi, che non vuole abbandonare il trono e la sua coroncina.
Sono certo che non è un uomo.
Gli uomini sono abituati a guardarsi nelle palle degli occhi.
Lui è diverso.
Lui è un vile, un vigliacco.
Viene a prenderti e ti porta via, così,
all'improvviso,
con violenza,
senza preavviso,
senza pietà,
quando meno te l'aspetti,
senza saperlo....
Proprio come ha fatto con me.
Ancora mi chiedo come abbia potuto fare.
Sono molto arrabbiato e sai perché?!
Perché sono inerme.
Perché molti non credono a questa "favoletta".
Il mostro esiste.
È qui con me, adesso.
Non mi molla.
Chissà se riuscirò a liberarmi.
Chissà se riuscirò a tornare a casa.
Chissà se riuscirò a rivederti.
Ma promettimi una cosa:
fai attenzione,
sii prudente,
come il nonno ti ha sempre raccomandato.
Ora sono stanco.
Devo lasciarti.
Ti voglio bene nipotino mio.
Debora Cirasola
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silviatorani · 5 years
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FIAMMIFERI di Silvia Torani
Le luci della panetteria si spengono e il buio soffoca la strada. La vetrina è tiepida contro la schiena, ma non ti proteggerà dalla notte.
Ti stringi nello scialle. Il freddo raspa la pelle sotto ai vestiti e la neve ti punge le dita nelle scarpe rotte. Erano di tua madre. È un anno che lei sta sottoterra, ma i tuoi piedi sono più freddi dei suoi.
Le scatole dei fiammiferi pesano nella tasca del grembiule lurido.
Prendine uno. Accendilo. Nessuno se ne accorgerà e potrai ancora venderli a prezzo pieno.
Affondi la mano nella tasca e stringi una scatola. I tuoi polpastrelli intorpiditi riconoscono appena gli spigoli di cartone.
Forza, accendine uno. Ti scalderà.
Una donna svolta l’angolo in fondo alla strada. Trascina una bambina per la mano e cammina spedita lungo il marciapiede.
Tiri la scatola fuori dal grembiule e la mostri nel palmo aperto. Forse la comprerà. Non puoi tornare a casa senza averne venduta almeno una. I lividi dell’ultima volta fanno ancora male.
La bambina si ferma e ti guarda, avvolta in un cappottino rosso. I boccoli biondi le sfuggono dalla cuffia di lana e batuffoli di pelliccia color crema spuntano dagli scarponcini di capretto. Sembrano della tua misura. La donna la tira via e affretta il passo. Non ti rivolge neanche uno sguardo, affonda il volto nel colletto del cappotto e si allontana dal tuo cumulo di stracci, verso la sua casa, le finestre illuminate, il camino acceso, la cena in tavola e i regali sotto l’albero. Faresti anche tu come loro, ma a casa non c’è nessuna tavola imbandita, nessun fuoco, nessun albero di Natale.
Chiudi le dita attorno alla scatola.
Aprila. Prendi un fiammifero, sfregalo sul muro e fallo bruciare.
Spingi con il pollice e il cassetto scivola fuori come una teglia dal forno. Le teste bianche dei fiammiferi brillano come glassa sui biscotti. Ne prendi uno e lo sfreghi contro la parete ruvida e scura di fumo. Sfrigola, ma non si accende.
Smettila di tremare e prova di nuovo.
La capocchia manda una scintilla e prende fuoco. L’odore di zolfo ti pizzica le narici e la notte si fa più scura. Sei sola nel buio, ma la piccola sfera di luce ti conforta.
La punta del fiammifero diventa nera e la fiamma si affievolisce.
Non lasciarlo spegnere. Non farlo cadere finché il fuoco non ti brucerà le dita.
Lo inclini e la fiamma divora il gambo di legno, ti scotta i polpastrelli. Apri le dita e il fiammifero avvizzito piomba nella neve grigia.
Al buio il freddo morde più di prima.
Accendine un altro.
«Quanto per una scatola?»
Un uomo smilzo prende forma nelle tenebre. È vestito di nero, i capelli bianchi spuntano appena sotto al cappello a cilindro.
Nascondi nella mano la scatola iniziata e gliela porgi. Magari non se ne accorgerà.
«Uno scellino, signore. Sono di prima qualità.»
L’uomo col cilindro prende la scatola, se la rigira tra le dita e sorride. L’ultima falange del mignolo è piegata verso l’anulare, come se fosse rotta. Nemmeno i guanti riescono a nasconderlo.
«Te ne do cento.»
Spalanchi gli occhi e la bocca. Cento scellini fanno cinque sterline. Con cinque sterline potresti mangiare per un mese. Potresti comprare una bambola da ricchi, una di quelle con le braccia che si muovono. Potresti tornare subito a casa. Tuo padre non oserà picchiarti se gli dirai che hai venduto una scatola a cento scellini. Potresti perfino dirgli che l’hai venduta a dieci e tenere il resto per te.
«Oppure potrei ridarti la scatola, e i fiammiferi che contiene realizzeranno ogni tuo desiderio.»
Aggrotti la fronte e affili lo sguardo. Sta cercando di fregarti. Non avresti dovuto lasciargliela prima che pagasse.
L’uomo apre la scatola, tira fuori un fiammifero e te lo porge.
«Prova. Il primo lo offro io.»
La sua voce ti accarezza le orecchie e ti riempie la testa.
Prendilo.
Allunghi le dita e le stringi attorno al fiammifero.
«Cosa dovrei farci?»
«Accendilo, pensa a ciò che desideri e guardalo bruciare.»
Serri le labbra. La scatola è iniziata e provare non costa nulla. Ne avresti comunque acceso un altro per tenere a bada il freddo.
Stringi il fiammifero tra le dita, sfreghi la capocchia sul muro e il fuoco si accende al primo colpo. Il riflesso brilla nelle pupille dell’uomo col cilindro. La bocca gli si piega in un sorriso sghembo e viene inghiottito dalla luce.
La fiamma ti acceca, ma tu non distogliere lo sguardo.
È da ieri che non mangi. Il tuo stomaco si contorce e grida. Vuoi mangiare. Anche il freddo conterà di meno dopo.
L’odore di arrosto ti riempie la bocca. Il fiammifero si spegne e nel buio lo vedi appena: una tavola apparecchiata, una sedia, un vassoio d’argento e un tacchino. Una nuvola di vapore lo circonda, la pelle croccante è increspata come se anche lui sentisse il freddo. Lo guardi a bocca aperta e il fiammifero cade senza un suono nella neve.
Mangia.
Le mani si stringono attorno all’osso della coscia, tiri e la carne non oppone resistenza. Mordi. Le fibre dell’arrosto si sfaldano sotto ai denti, il calore ti riempie lo stomaco e ti pervade la mente.
Mastica in fretta. Tutto potrebbe svanire prima che riesca a saziarti. Lo stomaco ristretto dalla fame si lamenta, ma continua a mangiare finché non ne puoi più. Non ti sei nemmeno seduta. La bocca trema al ritmo del sangue che ti rimbomba nelle orecchie. Te la copri con la mano appiccicosa di grasso.
«Come hai fatto?»
L’uomo col cilindro ti guarda, ma non risponde.
Non è quella la domanda che vuoi fargli. Fagli quella che vuoi davvero.
«Come funziona?»
Fa un passo verso di te.
«È semplice. Accendi un fiammifero e realizzi un desiderio.»
Il tuo respiro esce in rivoli di condensa, il suo fiato lascia l’aria limpida e intatta.
«Qualunque desiderio?»
«Qualunque cosa il tuo cuore desideri. Devi solo esserne convinta.»
Apre il palmo e ti porge la scatola.
Prendila. Ti basta tendere la mano.
L’uomo col cilindro sorride.
«Se non lo desideri abbastanza, potrebbero servire più fiammiferi, ma si tratta comunque di uno scambio equo.»
La tua mano si ferma a metà del gesto.
«Uno scambio equo? Che cosa ottieni in cambio?»
«Nulla.» Il suo sorriso diventa più sottile. «Ma una volta finiti i fiammiferi, tornerò a prenderti.»
Ritiri la mano e te la stringi al petto.
«Tu chi sei?»
«Sai benissimo chi sono.» Le sue parole sono come ghiaccio che si spezza. «Eppure, sei ancora qui a parlare con me. Dubito che la mia identità costituisca un problema.»
Si piega verso di te e ti offre la scatola.
Prendila.
Il tuo respiro è affannato.
«Che succede se non li finisco?»
«In quel caso non avrai nulla da temere. Nessuno ti obbliga a finirli… ma lo farai. Lo fanno sempre tutti.»
Le tue dita tremano, ma prendi la scatola. L’uomo col cilindro sorride, abbassa la mano e distende la schiena.
«Ci vediamo più tardi.»
Ti volta le spalle e rientra nella notte.
Sei sola. Il tavolo, la tovaglia, il vassoio e i resti del tacchino non ci sono più. Forse ti sei addormentata e hai sognato tutto. Forse il freddo e la fame ti hanno dato alla testa, ma la fame se n’è andata e il freddo è solo un prurito sulla punta delle dita. Prendi un fiammifero, lo sfreghi sul muro e lo guardi mentre brucia.
Le scarpe di tua madre sono zuppe per la neve. Vorresti delle scarpe nuove e gli stivaletti che portava la bambina sembravano così comodi e asciutti. Erano proprio della tua misura. Te li meriti molto più di lei. Puoi averli, adesso. Sono tuoi, i batuffoli di pelliccia ti spuntano dalle caviglie, le suole sono morbide e calde come se non avessero ancora perso il calore del suo corpo.
Il fiammifero avvizzito cade a terra e gli stivaletti sono ancora ai tuoi piedi.
Accendine un altro.
*** *** ***
Il riflesso nella vetrina buia non sei tu. È una bambina con le guance rotonde, gli stivaletti ai piedi, il cappottino rosso e i capelli puliti e abboccolati come quelli delle riviste.
Tuo padre non ti riconoscerà.
Ferma. Quanti fiammiferi ti restano? Apri la scatola e controlla. Per non finirli basta usarli tutti tranne uno. Lo prendi e te lo nascondi nella tasca.
Tieni la scatola stretta nella mano e ti precipiti lungo la strada illuminata dai lampioni a gas. Puoi correre, adesso. Non rischi più di perdere le scarpe di tua madre ad ogni passo. Dove saranno finite? Saranno ancora da qualche parte o sono sparite per sempre, come lei?
Continua a correre.
Se volessi, potresti cambiare strada. Potresti andartene lontano e non tornare più. Ora che hai i fiammiferi non hai più bisogno di tuo padre, ma lui ha bisogno di te e non hai altro posto dove andare.
La strada termina in un vicolo davanti allo stretto seminterrato che chiamate casa. Un tempo lo era davvero, ma potrebbe esserlo di nuovo. Scendi i gradini e apri la porta. Tuo padre dorme nella poltrona sfondata dove è morta tua madre. Ha la nuca di capelli stopposi riversa sullo schienale, la bocca dischiusa verso il soffitto e la mano aperta che pende sul fianco, sopra una bottiglia rovesciata. Russa piano, sembra un bambino con il raffreddore.
Allunghi una mano per svegliarlo e il tuo stomaco si contorce. Sai già come andrebbe a finire. Vedrà i vestiti nuovi e ti darà della ladra. Ti strapperebbe i fiammiferi di mano e li getterebbe nel fuoco, senza darti il tempo di mostrargli ciò che puoi fare.
Deve vederlo con i suoi occhi. Prendi un fiammifero e lo accendi. Lo scoppiettio del fuoco nel camino invade la stanza. Un altro fiammifero e il tavolo si ricopre di una tovaglia candida. Ne accendi ancora, finché la tavola non è coperta di vassoi ricolmi di cibo, candele dipinte e posate d’argento. Un albero di Natale tocca il soffitto con la punta. Cento sfere di vetro colorato riflettono la luce del camino nell’angolo più lontano della stanza. Sfiori gli angeli di cristallo appesi ai rami e li fai tintinnare.
La casa non è mai stata così bella, nemmeno quando c’era tua madre, tuo padre era sobrio e aveva ancora un lavoro. Le cose andranno meglio, d’ora in poi. Una volta che avrai dato a tuo padre il suo regalo lo capirà anche lui, ma deve vederlo mentre accade o non ti crederà.
Prepari un fiammifero, gli scuoti la spalla e il russare si interrompe. Apre gli occhi e le pupille si restringono per effetto della luce. Socchiude le palpebre e se le copre con la mano.
«Che succede?» La sua voce sembra carta vetrata. Ad ogni sillaba la lingua gli si impasta nella saliva densa come melassa. «Cos’hai addosso?»
«Papà, devo farti vedere una cosa.»
Il suo sguardo si sposta sul resto della stanza e sbarra gli occhi. Sfavillano, si spengono, tornano cupi. Contrae le sopracciglia e indurisce la mascella. «Dove hai preso questa roba?»
Le mani gli si stringono a pugno e tu ti fai più piccola.
«L’ho desiderata.» Sollevi il fiammifero. «Guarda.»
Sulla parete nell’angolo il contorno annerito del pianoforte non è mai andato via. Accendi il fiammifero e guardi la fiamma. Il giorno in cui quelli della banca se lo sono preso è stato il giorno in cui hai capito che le cose non sarebbero più tornate come prima, anche se tuo padre te l’aveva promesso. Ti aveva promesso che, anche se la mamma non c’era più, sareste stati felici, che ti avrebbe voluto bene per entrambi. Ma poi ha continuato a bere, ha perso il lavoro, ha lasciato che si prendessero il pianoforte, e ogni volta ti prometteva che avrebbe rimediato, che non ti avrebbe più fatto del male, che non saresti mai rimasta sola. La fiamma si spegne e la tua gola si gonfia. La parete è ancora vuota.
Tuo padre tossisce. «Che stai facendo?»
Apri la bocca e la richiudi. Per tutto il resto ha funzionato. Perché non funziona più? Ne accendi un altro, fissi la fiamma e aspetti. Il fiammifero brucia e si spegne, ma la parete resta vuota.
«Ti ho chiesto dove hai preso queste cose.»
Non rispondi. Prendi un altro fiammifero e lo sfreghi contro il tavolo.
La mano di tuo padre ti afferra il polso e ti dà uno strattone. «Falla finita e guardami quando ti parlo.»
Trattieni il fiato, ma la fiamma non si spegne. La luce ti acceca. Deve funzionare. La fiamma resta impressa nei tuoi occhi anche quando svanisce.
Tuo padre emette un gemito strozzato e ti lascia andare il polso. Sbatti le palpebre. La sagoma della fiamma scompare. Il vecchio pianoforte è contro la parete, dove era sempre stato prima che lo portassero via.
«Buon Natale, papà.» La voce ti resta incastrata da qualche parte nella gola ed è più flebile di quanto vorresti. Ti massaggi il polso. Resterà il segno.
Tuo padre si alza a fatica dalla poltrona e si tiene al bracciolo con una mano. «Cosa…? Come…?»
Gli mostri la scatola. «Questi fiammiferi… realizzano i desideri.» Non ti guarda. Fissa il pianoforte a bocca aperta. «Basta accenderli.»
Lascia andare il bracciolo e zoppica verso il pianoforte. La mano tesa in avanti tocca la superficie laccata del legno. «Non è possibile…»
Le sue dita tastano il coperchio e si fermano su una scheggiatura. Tua madre ci fece cadere sopra una pentola di rame, un anno prima che morisse.
«Hai visto? È proprio il nostro.»
Il suo sguardo si perde, non è più lì con te.
Gli afferri un lembo della giacca. «Sei contento, papà?»
La sua mano indugia sul punto del legno in cui la lacca è saltata e ci passa dentro un’unghia.
Indichi la stanza addobbata. «E poi c’è la cena di Natale.»
«Non capisci…» Scuote la testa e si lascia cadere sullo sgabello davanti al pianoforte. «Non ha senso se—»
«Forza!» Lasci andare la giacca e ti avvicini alla tavola. «Vieni a mangiare o si raffredda.»
Tuo padre fissa il pianoforte in silenzio. «Chi te li ha dati?»
Non dirglielo. Se sapesse da dove vengono, se sapesse chi te li ha dati, non te li farebbe più usare.
Alzi il coperchio da un vassoio e il vapore ti bagna la faccia. «Ora mangiamo, e dopo cena mi suonerai le ballate di Natale, come facevi una volta.»
«Riportala indietro.» Si volta a guardarti. «Hai riportato il pianoforte. Se è come dici e puoi realizzare i desideri, riporta indietro anche lei.»
Stringi il manico del coperchio. «Possiamo avere qualsiasi cosa. Posso desiderare una casa nuova, un nuovo lavoro…» Perché non gli basta quello che puoi dargli? Perché non gli basti tu?
Si alza dallo sgabello e ti guarda con il volto vuoto. «Riportala indietro.»
Si avvicina e tu fai un passo indietro lungo il tavolo. Annuisci, prendi un fiammifero e lo accendi. La fiamma si spegne e non succede nulla.
Tuo padre si guarda intorno con gli occhi umidi e sporgenti. «Riprova.»
Ti trema la mano. Prendi un altro fiammifero e provi ancora, ma sai che non funzionerà. La fiamma trema e si spegne. Siete ancora soli.
Tuo padre fa un singhiozzo e spinge il volto nei palmi delle mani. «Prova di nuovo…»
Non farlo. I fiammiferi rimasti sono troppo pochi.
«Non posso.»
Tira su la testa, il labbro superiore gli lascia scoperti i denti. «Come sarebbe a dire che non puoi?»
Affondi la testa nelle spalle.
Il suo sguardo passa dal tuo volto alle tue mani. Si sporge verso di te. «Dammeli!»
Stringi la scatola al petto. «No.»
Lo schiaffo ti colpisce lo zigomo e ti scaraventa contro l’albero di Natale. Le decorazioni tintinnano l’una contro l’altra, cadono a terra e si infrangono in schegge colorate.
Arretri senza pensare e le schegge ti si infilano sotto la pelle delle mani. Trattieni un gemito. Hai perso la scatola. Tasti il pavimento, ma non la trovi.
L’ha presa tuo padre. Tenta di aprirla, ma gli tremano le mani.
Tu sei più veloce di lui. Fermalo. Fagli del male.
Infili la mano in tasca, trovi il fiammifero e lo sfreghi sul pavimento di legno. Lo sfrigolio della capocchia che si accende è un tutt’uno con lo schiocco di vertebre della schiena di tuo padre. Il fiammifero brucia, tuo padre geme sul pavimento.
Fagli provare quello che hai provato tu. È ciò che hai sempre voluto.
Il bruciore delle schegge nei palmi sparisce con ogni suo gemito. Il fiammifero si spegne e il busto spezzato di tuo padre ricorda il mignolo storto dell’uomo col cilindro. La sua mano destra ha uno spasmo attorno alla scatola di fiammiferi. Il cartone si è piegato dentro la sua stretta.
Prendila.
Ti trascini verso di lui, ti arrampichi sul suo petto. Rantola e gorgoglia ad ogni respiro. Gli afferri le dita e ti scavi la strada con le unghie per liberare la scatola.
Tuo padre mugola qualcosa.
Non ascoltarlo. Non deve osare rivolgerti la parola dopo quello che ti ha fatto.
Ti siedi a cavalcioni su di lui e gli punti le ginocchia ai lati della pancia. Vuoi sentire il tuo peso che lo schiaccia a terra.
Prendi un fiammifero e lo sfreghi così forte che si spezza. Lo butti e ne accendi un altro.
Tuo padre urla.
Vuoi gridare più forte di lui.
«Avevi detto che sarebbe andato tutto bene!»
Vuoi che la tua voce laceri le tende e faccia tremare le pareti.
«Avevi detto che saremmo stati felici anche senza di lei! Me lo avevi promesso!»
Non hai mai voluto che lei tornasse. Volevi solo che tuo padre mantenesse la promessa.
I suoi lamenti si fanno più deboli. Lasci andare il fiammifero e ne accendi un altro.
«Avevi ancora me!»
Hai fatto tutto quello che ti ha chiesto, hai sopportato i lividi, la fame, il freddo, ma non ti ha mai dato uno sputo del suo amore.
«Perché non ti bastava?»
Vuoi strappargli la pelle e farla a brandelli.
Prendi un fiammifero. «Perché non ti bastavo?»
Ti guarda con il volto strabuzzato, il respiro ansante e rapido.
Non c’è paura né dolore nei suoi occhi. C’è solo il vuoto lasciato da tua madre quando è morta, quel vuoto che non ti ha mai permesso di riempire.
Vuole morire. Vuole soffrire come ha sofferto lei e raggiungerla nella tomba. Per tutto questo tempo ha aspettato la morte. Non gli è mai importato niente di te.
Un singhiozzo ti scuote.
«Perché non mi ami?»
Tiri su con il naso.
«Dovevi solo amarmi…»
Accendi il fiammifero e ti chini su di lui.
«Amami.»
La fiamma si riflette nel bianco dei suoi occhi e si spegne.
«Amami!»
Le sue pupille si dilatano e il suo torace si ferma. Non respira più. Trattieni il fiato e scuoti la testa. «No…»
Ti alzi e scivoli al suo fianco. Appoggi l’orecchio sul suo cuore, senti il silenzio.
«No, no, no, no…»
Agiti la scatola e i pochi fiammiferi rimasti ci rotolano dentro. Ne accendi uno.
«Torna qui.»
I suoi occhi restano lucidi e vuoti come biglie di vetro.
«Torna!»
Il fiammifero non si è ancora spento, ma le tue dita ne cercano un altro nella scatola.
«Ti prego…» Lo accendi. «Torna da me.»
Uno spiffero gelido spegne il fuoco nel camino e rimani sola. La luce del fiammifero trema e illumina appena il volto deformato di tuo padre.
I tuoi singhiozzi si riducono a un sussurro.
Cerchi un altro fiammifero nella scatola, ma è vuota. Hai acceso l’ultimo e ti sei dimenticata di metterne un altro da parte. È troppo tardi, sta già bruciando.
I tuoi muscoli si fanno di pietra, un sudore gelido ti scivola dalle tempie e si mescola alle lacrime. Trattieni il respiro. Hai ancora tempo. Pochi secondi, ma sono tutto quello che hai. Lasci cadere la scatola e ti aggrappi all’ultimo fiammifero. Il legno avvizzisce e la fiamma si avvicina alla punta delle dita. È così piccola che per spegnerla basterebbe un tuo respiro. La casa scricchiola nel buio. Vorresti guardare fuori e vedere un’ultima volta il cielo, ma non osi distogliere gli occhi dalla luce.
Una mano guantata ti si posa sulla spalla e te la stringe. L’ultima falange del mignolo è piegata verso l’anulare.
Non voltarti.
Il fiammifero si spegne, il buio si piega su di te e ti inghiotte.
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annalisalanci · 3 years
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Il tesoro delle scienze occulte. Gli stregoni. Preparazione al sabba
Il tesoro delle scienze occulte.
Gli stregoni.
Preparazione al sabba
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Hans Baldung, Streghe che si preparano a partire per il sabba. Museo di Francoforte
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Orrori delle streghe. Ulric Molitor, De Lamiis et phitonicis mulieribus, Costanza, 1489
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La partenza per il sabba, di Teniers, incisa da Aliamet
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La preparazione al sabba
I maghi di solito agivano da soli nelle loro attività malefiche, ma si riunivano per la grande cerimonia del sabba che, era in certo senso il capolavoro demoniaco a cui Satana presiedeva di persona.
Erano necessarie alcune operazioni preliminari, la principale delle quali consisteva nelle riunioni di piccoli gruppi di streghe e stregoni che potremmo chiamare sabba parziali.
Ecco il celebre gruppo di quattro streghe di Albrecht Dürer, del 1491. Esse stanno finendo di spogliarmi per andare al sabba; una ha tutto l'aspetto della grande dama dall'acconciatura complicata e ricercata come quelle che si attribuiscono alle fate, e un leggero velo le scende fino a metà del viso, le altre sono contadine, e una ha la testa cinta da foglie alla maniera pagana. Da una porta semiaperta - la porta dell'inferno - il diavolo ride con grinta feroce come una tigre in attesa di quelle che saranno le sue compagne del sabba e poi sue prede.
Questo soggetto fu inciso con tutta probabilità da Israel von Meckenem e Wenceslas d'Oltumuz; la stampa di Israel von Meckenem sembra, anteriore a quella di Dürer, ma indubbiamente si deve la gloria di tale mirabile composizione a questo maestro fiammingo ingiustamente dimenticato.
In tre stampe del pittore tedesco Hans Baldung, che portano la data del 1514 vediamo le quattro streghe al lavoro. Innanzitutto le vediamo intente a un'operazione bizzarra, la preparazione dell'unguento o grasso di strega nel quale entrano sangue di upupa e di pipistrello, raschiatura di campana e fuliggine. Una d'esse tritura le droghe in un piccolo recipiente - il crogiuolo tradizionale che avevano tutte le streghe - mentre le altre guardano con ammirazione e invidia una vecchia che, più sollecita di loro, già vola tra le nubi verso il sabba a cavallo d'una forca e seguita da un caprone.
Pronto l'unguento esse ungono la forca che servirà loro da cavalcatura: pronunciando un'orribile consacrazione, mentre una innalza verso il cielo il piatto colmo d'ossa e un'altra sgrana un rosario i cui grani sono rappresentati da campanelli, due dadi da gioco, il cranio di un piccolo feto, ma che manca del crocifisso infranto, che noi ritroviamo indispensabile per qualsiasi rosario da strega degno di rispetto.
Ben presto una delle comari si appresta a partire per il sabba. Seduta al contrario su un caprone, si invola reggendo tra i denti d'una forza il famoso crogiuolo. Le altre, rimaste a terra, continuano a preparare le loro creme misteriose; un altro crogiuolo bolle sul fuoco e ad un terzo si innalza un vapore carico di essenze malefiche; una delle donne, la più vecchia, eleva verso il cielo su un piatto una sinistra offerta, che si direbbe costituita da membra infantili.
Questa scena la ritroviamo su un'incisione in legno di un antico libro tedesco, Die Emeis del dottor Johannes Geiler von Keisersperg, pubblicato a Strasburgo da Grüninger nel 1517 (fig.27). Si nota qui che le streghe innalzano due crogiuoli, uno dei quali sembra stabilire un misterioso rapporto col cielo. Anche qui vediamo a terra delle ossa: la strega di destra regge la forca alla quale è stata fissata una tela a mò di vela, espediente adottato sovente dalle streghe per la loro cavalcata, allo scopo di sfruttare il vento e forse anche di disporre d'una specie di paracadute nel caso che l'incantesimo fosse venuto improvvisamente a mancare.
Ed ecco infine la strega trionfante riprodotta sottoforma di allegoria stilizzata da Albrecht Dürer con una vigorosa acquaforte. Seduta maestosamente ma, per ironia, al contrario su un caprone, riceve gli omaggi e i saluti di due puttini, l'uno dei quali viene ironicamente sulle spalle, un cardo o cactus; in mano la strega tiene la conocchia e il fuso, emblemi delle Parche, il che sta qui forse a significare che la strega tiene nelle proprie mani, con la potenza dei suoi malefizi, la sorte degli umani, ma potrebbe anche essere una piatta allegoria della <<donna>>, ipotesi rafforzata dalla presenza d'un lontano sfondo di placidi flutti marini, altra allusione alla perfidia delle onde che una certa amara filosofia, di moda a quei tempi è già espressa nel Roman de la Rose e poi ripetutamente fino a Shakespeare, si compiaceva di riferire al sesso femminile.
In un rarissimo incunabolo del grafico esperto in demonologia Ubrich Molitor, intitolato De lamiis et phitonicis mulieribus, Costanza 1489, vediamo le streghe a tavola (fig. 28) intente a divorare un neonato; quella che qui presiede il pasto sembra in atto di pronunciare una <<benedicite>> satanico per consacrare il piatto in mezzo alla tavola. La stampa quasi sconosciuta di Jaspar Isac intitolata Abomination des Sorcièrs e la maggior parte delle prove della quale furono distrutte da troppo zelanti membri delle streghe. Questa scena, assai completa, contiene quasi tutti gli elementi dell'arte satanica e ci fa conoscere l'incoerente confusione che si faceva spesso nel XVI secolo a proposito di quelle che noi oggi chiameremmo le varie branche dell'occultismo. Ci troviamo nell'interno d'una vera e propria casa di streghe, quattro di esse si stanno svestendo per mettersi nella tenuta rituale, la nudità d'Eva. In mezzo, un uomo, uno stregone sulla cui testa è appollaiato un pipistrello, legge un libro di magia, testo celebre di cui ci si contendeva le copie manoscritte a peso d'oro. A terra, vediamo un cranio in mezzo a un cerchio nel quale sono stati tracciati segni cabalistici. Questo cerchio ha una parte comsiderevole in quasi tutte le operazioni di stregoneria. Accanto al teschio, un altro libro aperto sormontato da un pentacolo formato da due triangoli intersecantosi, segno che gli occultisti hanno chiamato <<scudo di Mosè>> o <<sigillo di Salomone>>. Nel camino ritroviamo il nostro fatale crogiuolo in cui stanno animali fantastici. Sulla mensola la mano d'uno scheletro, la <<mano di gloria>>, e una candela. In una nicchia a scaffali, a sinistra, ci sono i brattoli d'inguento, le droghe probabilmente il <<setaccio>> che serviva alla divinazione. Attraverso la finestra aperta l'artista, ricorrendo a un artifizio usaato spesso nei quadri di quell'epoca, ci mostra l'esterno della casa qual'era in quel preciso momento col fumo che esce a fiotti dall'infernale cucina e due contadini terrorizzati che si allontanano precipitosamente.
Presso il camino infine vediamo tre streghe nude che stanno mettendosi a cavallo di bastoni di scopa, pronte a prendere il volo mentre una, di cui vediamo i piedi sotto la coppa, già si è levata in aria. Quella era la via che prendevano per recarsi al sabba. Il manico di scopa, che ha sostituito la forca di Hans Baldung, è l'accessorio indispensabile per recarsi al sabba: è la cavalcatura del diavolo, l'equivalente degli <<stivali delle sette leghe>> dell'orco, per mezzzo della quale le streghe supereranno in pochi minuti spazi immensi e attraverseranno province intere.
E la via naturale al sabba è il camino, una strega non potrebbe uscire dalla porta ne dalla finestra. Il cunicolo misterioso del camino, in cui soltanto il più piccolo spazzacamino sa avventurarsi senza tremare, è la comunicazione abituale col cielo, o almeno con quel paradiso relativo in cui troneggia Satana in attesa dei suoi fedeli e dei suoi vassalli.
La stessa scena è stata interpretata con una cruda violenza nello splendido quadro di Frans Francken (1581-1642) esposto al Kunstistoriches Muesum di Vienna e intitolato: Raduno di streghe. In primo piano ritroviamo la stessa giovane donna che si toglie le calze e al suo lato una compagna spaventata all'dea dell'atto che sta per compiere, forse per la prima volta. Una vecchia unge di balsamo le spalle d'una strega mentre altre due sono intente a mescolare il contenuto del crogiuolo e a soffiare sul fuoco, e una terza intanto legge il libro di magia.
Furono questo quadro e alcune delle incisioni da noi riprodotte che ispirarono a Goethe la strana scena della cucina della strega nella prima parte del Faust: egli fa uscire la strega secondo la tradizione dalla canna fumaria.
Le streghe che per questa bizzarra via escono da una casa in una piccola incisione su legno che illustra il frontespizio di alcuni esemplari dei Dialogues touchant le pouvoir des sorciérs et de la position qu'elles méritent de Thomas Erastus, Ginevra 157.
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faxmacallister · 3 years
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SCHEMI DI GIOCO
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Colinshire 1990. Abel Mac Allister era un uomo ottimista e onesto. Virtù preziose, considerato che Abel è un venditore. Attraversando in auto "Abissinia", l'isolato italiano del villaggio di Gardar, Abel scorse un gruppo di bambini che giocava a calcio su un prato fangoso, dove due pertiche sbilenche fungevano da porta da gioco. Raggiunto il sobborgo britannico, Abel prestò attenzione dall'abitacolo a una comitiva di ragazzini biondi e fulvi che tiravano dei rigori in un modesto campo sportivo. Britannici e italiani abitavano aree separate del Colinshire, demarcazioni immaginarie rese invalicabili da un'annosa, freddissima guerra di trincea. Lasagne contro fish and chips, cattolici contro anglicani, Quirinale contro Buckingham Palace. Solo un motto sanciva l'armistizio accordando i fronti rivali su una posizione condivisa, "Se vuoi essere un uomo, sgonfia a calci un pallone e gonfia di calci un finocchio." Parcheggiata l'auto al ventiquattresimo di Cumberland Street, Abel assestò due colpi di batacchio alla porta di casa Darling. Cliff Darling aprì reggendo una bottiglia di vino rosso. Abel incalzò -"Salute Darling! Qualcosa mi dice che è approdato il mercantile da Aberdeen..."- -"Puoi dirlo Mac Allister! Entra..."- Cliff percosse benevolo la spalla di Abel e diresse un richiamo verso la cucina -"Cinthiaaa...ci occorre la cristalleria fine, visite dalla collinaaa..."- Cinthia Darling emerse da una nube vaporosa brandendo una spatola con la mano nuda e calzando un guanto da forno nell'altra -"Abel Mac Allister, non ricevo una visita di tua moglie da quando i bell bottoms andavano di moda. Diglielo! Siete snob come vocifera il volgo?"- Abel, rivolto a Cliff -"Lei ti minaccia sempre con gli utensili da cucina?"- Cliff -"Peggio, poi ti serve quello che ha preparato."- Cinthia scudisciò suo marito con la spatola -"Che idiota! Effettivamente quello stupido agnello sembra crudo e bruciato. Per fortuna abbiamo il vino! Bevi un bicchiere?"- -"No, grazie ragazzi, Selva ci aspetta. Fax è qui da voi?"- Cinthia annuì –“ È di sopra. Cliff accompagnalo e di' a Evelyn che la cena è pronta.”- Cliff Darling schiuse l’uscio della cameretta. Sua figlia saltellava in tutù con una corona di plastica in testa, Fax si dimenava sopra un baule rosso cantando “My old piano” di Dyana Ross, con un cilindro rivestito di stagnola sul capo e due stelle azzurre nelle gote. Sì, l’ottimismo era una delle spiccate virtù di Abel Mac Allister. Dei due bambini, non era suo figlio a indossare corona e tutù. Cliff spense il giradischi -“Ma disastro c'è? Cosa fate?”- Evelyn impermalita  -“Dovevi bussare. Sono le prove del nostro show, tornate dopo.”- I due uomini si scambiarono uno sguardo. Abel imbarazzato -“Fax, levati il cappello, dobbiamo andare”- -“Evelyn mi ha detto che posso tenerlo.”- Lui -“No, no! Lascialo qua. Le stelle come si cancellano?”- Evelyn, saccente -“Sono tatuaggi!”- Abel -“Tatuaggi?”- Lei -“Sì, vanno via con acqua e sapone, domani ci facciamo uno spartito musicale sulla fronte.”- Abel, imitando l'entusiasmo della bambina-“ Ma che bello! "- Poi adombrato -"Dai andiamo Fax, è ora di cena"- In auto, lungo il declivio verso il castello, Abel lanciava dubbiose occhiate al figlio con le gote stellate. Quella notte prima di addormentarsi nel loro letto disse a sua moglie -“Dobbiamo fare qualcosa per Fax.”- Lei, ungendosi le mani con una lozione canforata -“Che genere di cosa?”- -“Qualcosa perché non vada in giro con la faccia dipinta.”- -“Sono più tranquilla quando gioca con Evelyn che con sua sorella. Melissa le stelle gliele avrebbe marchiate con un ferro rovente.”- -"Dico davvero Selva, Fax non sta bene! Quel bambino ha qualcosa che non va, ci mette in imbarazzo con l'intero villaggio."- -"Sai chi non sta bene? Io! E sai chi mi mette in imbarazzo? L'intero villaggio!"- -"Cosa ti succede?"- -"Quello che succede da sempre! Stamattina facevo la fila all'emporio per pagare la spesa, ma Mr. Buttle serviva qualunque britannico arrivato dopo di me. Poi fingeva di non capire il mio inglese mentre alle mie spalle sentivo sghignazzare "spaghetti". Arrivata al castello mi sono accorta che metà delle patate scelte da sua figlia erano marce!"- -"Magari era a corto di forniture, il mercantile è arrivato con dodici giorni di ritardo." -"Allora dovrò tornare domani, si dice che Nelly Buttle sappia tastare bene la merce giù al porto. Difendi quella sgualdrina?"- -"Ma no!"- -"Abel, cosa siamo? Troppo "spaghetti" per gli inglesi e i traditori nel castello british per gli italiani! Sono stanca di essere processata!"- -"Abbiamo i nostri amici, Cintia reclama una tua visita, loro non ci giudicano."- -"Tutti ci giudicano!"- -"A maggior ragione dobbiamo evitare che Fax si comporti in modo strano. Così proprio non va. Mi verrà in mente qualcosa, lascia fare a me..."- -“L'ultima volta che ti ho lasciato fare con quel bambino era un neonato e lo hai registrato all'anagrafe con il nome di un dispositivo elettronico.”- -“Non essere amara, sai bene cosa significa quel nome.”- -“Sì, lo sappiamo tu, io e quattro ascari trucidati sull'Amba Alagi nel 1941.”- -“Va bene, sei stanca, è la tua frustrazione a parlare.”- -“Se liberassi la mia frustrazione non parlerei, darei fuoco a questa dannata contea, castello compreso!”- Selva sprofondò sotto le coperte volgendogli le spalle. Forte del suo ottimismo, Abel spense il paralume a frange sul comodino confidando in un’illuminazione. Cupe visioni popolarono i suoi sogni. L'eco dell'infanzia scaturiva ombre remote impigliate nelle trame dolenti della memoria, la prematura morte di sua madre, l'abbandono di suo padre cinto dalle nebbie destinato all'Asmara. La prima notte in quel castello gelido sulla collina di Gardar, gli estranei inglesi che, gli dicono, saranno la sua nuova famiglia, lui che si abbandona in lacrime sul baldacchino della camera senza sfilarsi le scarpe, Laura Mac Allister che gli parla dolcemente in una lingua incompresa di Fred, il figlio perduto. Sopravvissuto al dolore, ancora bambino, Abel si convince "il peggio era quello, il peggio è trascorso". Dovete sapere che Abel Mac Allister vendeva su provvigione gli spazi pubblicitari per The Harp, una stazione radiofonica della Contea. Gli inserzionisti che pagavano per venti secondi di spot sulle frequenze locali non erano facoltose holdings: il macellaio rifornito dalla battuta di caccia al fagiano, la segheria che ambiva a rivalutare la sua immagine dopo l'increscioso fuori programma delle dita mozzate di Donald Greene, il libraio che alludeva alla disponibilità dei pornazzi all'ombra dei classici esposti, la mescita a cui non occorreva sollecitare l'afflusso di avventori, l'agenzia di pompe funebri che sovente strappava qualche assiduo avventore alla mescita. Ma ecco che un giorno la “North Kick” sottoscrisse l'accordo per una pubblicità sulle frequenze radio. Abel Mac Allister emanava il fulgore dell'ottimismo. Come non averci pensato prima? LA NORTH KICK! Una società atletica dilettantistica che allena i calciatori in età scolare. Grazie a quella provvidenziale contrattazione brillava la salvezza di suo figlio Fax. Quella sera, sventolando un modulo d'iscrizione alla scuola calcio, mio padre tornò euforico nell'appartamento del castello dove alloggiavamo. Durante la cena annunciava orgoglioso che sarei diventato un allievo della North Kick, puntuale per il mio compleanno. Mio fratello John Mark -“Che storia!”- Mia sorella -“Dov’è il mio regalo?”- Mio padre -“Mancano cinque mesi al tuo compleanno, Melissa.”- Io -“ C'è un guscio di noce nell'insalata.”- Mia madre -“Hai sentito Fax? Ti regaliamo l’iscrizione al corso di calcio!”- -“Ma io non gioco a calcio.”- Lei -“Non si può rifiutare un regalo.”- -“E voi fatemene uno diverso, uno che mi piace.”- Dopo cena mi venne mostrato un pieghevole della North Kick. Lasciai che John Mark se ne impossessasse. Ero in pericolo, mio padre era equipaggiato e deciso. Il pomeriggio seguente attesi che l'orologio olandese a pendolo scandisse le 17.00. Davanti a me la scalinata che congiungeva il nostro appartamento a quello dei miei nonni Mac Allister, custodi del castello di Gardar. Dalle travi del soffitto pendevano i vessilli dei Territori del Commonwealth. Complice lo sconforto, li associai a delle lame più che a dei tessuti celebrativi. Mi fiondai al piano superiore per un colloquio con la nonna Laura. Fortunatamente non era occupata con una delle ladies in chiffon e maniche a sbuffo che riceveva per il tè. Consapevole di sconfinamento non autorizzato la raggiunsi nel suo studio. Scriveva a macchina. Quando la tastiera dell'Imperial 50 orchestrava metallica, dovevo osservare distanza e cautela marziali. La macchina per scrivere era una reliquia donatale dal Mayor di Salinsbury nel 1982, dopo aver redatto l'ultimo dispaccio prima che la città venisse ribattezzata Harare. La nonna scorse la mia sagoma dallo scrittoio ma proseguì a lavorare senza considerarmi. I bagliori del fuoco acceso animavano le ali rapaci dei draghi sugli alari in ottone. Sedendole frontale sul divano vicino al camino, sospirai reggendo la testa con le mani. Il ticchettio proseguiva. Sospirai di nuovo. Il ticchettio si arrestò per un secondo e riprese. Sospirai più energicamente. Mia nonna eresse il capo - “ Fax! Prevedi di sopravvivere per due minuti, o il peso del mondo ti schiaccerà se non mi precipito lì?” – Generosamente, le concessi di rimandare le sorti del mio insidiato destino a fine battitura. Quindi mi raggiunse sul sofà -“ Sentiamo…”- -“Papà vuole farmi giocare a calcio”- -“Questo è il dramma?”- -“Io non ci voglio andare.”- -“Perché no?”- -“Perché non mi piace”- -“Glielo hai detto?”- -“Sì.”- -“Forse papà vuole che tu faccia dello sport. È giusto”- -“Ma faccio già educazione fisica a scuola!” -“Con una maestra disabile, infatti. So che vi fa giocare a nascondino. Certo non ti candiderai alle olimpiadi...”- -“Io non voglio fare calcio”- -“Tuo fratello ama il calcio, tua sorella danza, tua cugina cavalca, i tuoi cugini giocano a stoolball. Ci sarà uno sport che ti piace.”- -“Voglio pattinare.”- -“Oh bene! Allora pattinerai. Devi solo dirlo ai tuoi genitori.”- -“E non puoi farlo tu?”- -“Sì, potrei, ma non sarebbe corretto. Devi farlo senza un portavoce.”- Sospirai ancora e lei -“ Oh ma per favore Fax, questo non è un problema! Ti trovi a scegliere se giocare a calcio o pattinare, siedi sopra un divano comodo e tua madre prepara torte per la merenda. Tutto questo mentre un bambino a Kolkata sceglie se prostituirsi o digiunare…se non lo hanno già scuoiato per vendere i suoi organi. Quindi tira su quel muso e stasera parla con i tuoi genitori”- A tavola, esordii durante la cena -“Io non voglio giocare a calcio.”- Mio padre -“Che storia è questa? Devi fare dello sport.”- -“Voglio pattinare.”- Mio fratello -“Che schifo, è una roba da femmine. “- Mia sorella -“Non è vero, anche Nick il mio maestro di danza pattina.”- Mio fratello -“Infatti è una femminuccia.”- Mia sorella  -“Brutto scemo, lui ha i muscoli.”- Mia madre -“Voi due smettetela subito.”- Mio padre -“Cosa vuol dire che vuoi pattinare ? Non si può praticare qui.”- Mia sorella -“Non è vero, Nick pattina dentro la palestra di George Town."- Mio padre -“Grazie Melissa, non ho chiesto il tuo contributo. Il calcio è più adatto a un bambino.”- -“Ma non mi piace."- Mio padre, urtando le posate sul piatto “Oh dannazione Fax! Perché non ti fai piacere una mia proposta? Farai calcio, nessuna alternativa.”- Cominciai a piovere lacrime sul roastbeef. Mia madre, più morbida - “Fai almeno un tentativo.”- Io -“No!”- Mio fratello -“ Questo è proprio scemo.”- Mio padre, infastidito -“Non puoi continuare a disegnarti le stelline in faccia.”- Mia sorella -“Anche Delia Berry sa andare sui pattini.”- Mio fratello, spazientito -“Ma è una femmina!”- Mia madre  -“Sospendiamo qui. Fax, vai a sciacquarti il viso.”- Quando uscii dalla stanza, lei ritorse -“Credevo dovessimo fargli un regalo…”- Mio padre -“Lo sto facendo, cerco di salvarlo da un tutù e una coroncina, mi ringrazierà un giorno.”- -“Bene, poi mi dirai com'è quando piangerà durante le partite. Perché ci sarai tu a bordo campo con gli altri padri che ti chiederanno, quello è tuo figlio?”- -“Di' un po’, vuoi che pianga anch’io sul roastbeef?”- Mio padre era contrariato e offeso dal mio modo di essere. Resistere al calcio insinuava negli abitanti del villaggio un diffidente presentimento, suo figlio evitava qualcosa di proverbialmente maschile. Non ero l’unico a cercare conforto al piano superiore del castello, la sera successiva mio padre consultò mia nonna. Lei, dopo averlo ascoltato nel suo studio sul sofà accanto al camino -“Abel, mi sto sforzando credimi, ma non capisco. Fax vuole pattinare. Allora?”- -“Gli ho proposto il calcio e ha pianto. Capisci? Ha pianto! Non per la gioia, lui ha pianto perché NON gli piace il calcio!”- -“Quindi il problema è trovare uno sport che gli piaccia. Ve lo ha suggerito, vuole pattinare.”- -“No! Il problema è fargli fare quello che fanno i maschi della sua età. Tutti i bambini prendono a calci un pallone. Perché mio figlio vuole pattinare?”- -“Non vuole sparare al poligono, vuole pattinare! Cosa c'è di così nobile nel calciare una palla?”- -“Non deve essere nobile, deve essere normale!”- -“Fax è un bambino educato e dolce. Sei sempre stato un ottimista, perché ora questo dramma?”- Abel afflitto bofonchiò "dolce" come fosse un insulto. Laura sempre meno paziente -“Oh ma per favore Abel, mi costringi a parlarti come faccio con Fax! Mio figlio si tuffava nell’Oceano, improvvisava evoluzioni sui cavalli sottratti alla scuderia dei Lenville e non dimenticare che sbriciolò gli incisivi di Bella Dunkan alla vigilia delle sue nozze. Poi abbiamo adottato te, un cattolico! Tuttavia non sono la più sfortunata. Ci sono figli che si iniettano l’eroina negli occhi, il tuo ha chiesto solo dei pattini!"- Mio nonno Gilbert entrò nella stanza -"Qualcosa non va?"- Laura, caustica -“Una vera tragedia! Fax vuole pattinare...”- Gilbert, estatico -“Oh, i pattini! Il console olandese una volta mi raccontò che i pattini salvarono la flotta nazionale nella Guerra degli Ottant'anni."- Si chinò davanti al camino e proseguì attizzando il fuoco -"Gli spagnoli avevano circondato le loro navi sul Mare del Nord. Gli olandesi avevano a bordo i pattini con le lame, sono scesi sull’acqua ghiacciata e si sono dileguati verso il porto di Amsterdam. Quegli spagnoli idioti li guardavano scivolare liberi verso casa.”- Laura, rivolta ad Abel -"È un aneddoto sufficientemente virile per i tuoi canoni atletici?"- Il giorno del mio ottavo compleanno sceglievo con i miei genitori un paio di pattini a rotelle da Tackleton, il giocattolaio di George Town. Distante da Gardar e dagli sguardi dei nostri compaesani, distanti dall'emporio di Mr. Buttle (che pure i pattini li vendeva) dove Nelly Buttle omaggiava i clienti della generosa scollatura già popolare fra i camalli sbarcati da Aberdeen. Sfortunatamente per mio padre, Mr.Tackleton aveva acquistato un passaggio pubblicitario sulle frequenze della Harp. Abel sperava di non essere riconosciuto dal proprietario mentre suo figlio barattava la virilità per dei pattini. Il garzone, un giovane dalla zazzera arruffata e il viso bitorzoluto, me ne mostrò un paio blu. Li calzai emozionato alla sensazione delle ruote sotto i piedi, ma un articolo di colore fluorescente rapì la mia attenzione -“Mi piacciono quelli”-  dissi indicando i roller sgargianti su uno scaffale. Mia madre, tesa -“Quelli arancioni?”- -“Sì!”- Mio padre deglutì faticosamente. Il commesso, incredulo -“Ci sono altri colori più...da maschio.”- Io -“Arancioni sono proprio belli!”- Mia madre annuì sconsolata, il ragazzo me li porse. Abel fece qualche passo indietro, cadde seduto su una rudimentale panca di legno davanti a un espositore di scarpette da calcio. Un bambino ne misurava un paio. Mio padre, affranto -“Sembrano comode.”- Il bambino assentì. Mio padre, sottovoce -“ Se fingi di essere mio figlio finché quel bambino con i pattini esce dal negozio, ti do cinque pounds.”- Il bambino lo guardò diffidente. Mio padre -“E va bene, ti compro un pallone, ma fingi di essere mio figlio davanti al proprietario.”- Mia madre lo richiamò -“Abel, abbiamo fatto.”- Lui, al bambino -“Se un giorno la tua famiglia ti vende ai trampolieri gallesi ambulanti, non contare su di me…”- E ci raggiunse risentito. Usciti dalla bottega di Tackleton ero il più felice degli omini su tutte le superfici ciclabili e pattinabili emerse. Quei pattini erano i più belli che avessi mai visto. Quando li esibii al castello mio nonno Gilbert esclamò -"Che colore da..."- Proruppe mia nonna Laura -"Olandese! Che colore da olandese, vero Gilbert? Rammenta la Guerra degli Ottant'anni..."- Dormivo con i pattini ai piedi del letto per non separarmene nella notte. Pretendevo di pulire le rotelle con un panno dopo ogni avventuroso periplo nella mia camera. Mia madre corresse le maniacali abitudini obbligandomi a riporli nella scarpiera comune con le altre calzature e vietandone l'utilizzo nell'appartamento. Ma dove pattinare? Le strade di Gardar erano limacciose e irregolari. Dominato da un impeto di coraggio in un pomeriggio ventoso li collaudai sul piazzale della Saint Thomas, la chiesa anglicana. Impeto sgradito ai calciatori del campetto circostante che, allertati da Toby Clark, mi raggiunsero per bersagliarmi a pallonate. Il piano terra del castello ospita la sala dei ricevimenti, fasti di un passato in cui l'aldermanno della Contea fregiava di cariche pompose i forestieri dai Territori d'oltemare. Quella sala era proibita a noi bambini, come tutte le zone del castello a eccezione per l'ala residenziale di servizio. Dalle vetrate esterne mi ero accertato di quanto fosse ampia. Il portone per accedervi era chiuso. Conoscevo l'ingresso interno, ugualmente serrato. La soluzione stava nel provare una per volta le chiavi delle stanze proibite. Pendevano su una toppa alla parete piantonata da un'armatura ostile. Preda di una sventurata idea montai con le scarpe su una sedia imbottita e... -"Fax Jeremy Mac Allister!"- Non so spiegare per effetto di quale abilità metafisica o umana superiore, eppure mia nonna Laura mi aveva già scoperto. Fottuto delatore di un Toby Clarck, eri sempre ovunque? Conservo di quell'istante la memoria sensoriale del congelamento di ogni globulo che fluisce nelle vene. Mia nonna, pur sprovvista di un pallone da calcio con cui lapidarmi, incalzò -"Raccontami le tue intenzioni."- -“Stavo cercando delle chiavi.”- -“Si, questo lo vedo, come vedo i tuoi calzari ingrati su un sedile che risale a Giorgio IV. Sono ansiosa di ascoltare il seguito...”- -“Non so dove pattinare, volevo vedere se il salone ha un pavimento liscio…”- -“Che io sia bandita da tutti i Territori di Commonwealth se non ti spezzo le dita! Riponi subito quelle chiavi alla toppa.”- Ubbidii -“Nonna ma io voglio pattinare.”- -“Fax! Come devo farti capire che questo castello e tutto quello che contiene appartengono alla Corona e che io e tuo nonno siamo responsabili della sua custodia? Non ti difenderò quando confesserai a Sua Maestà e al Duca di Edimburgo di avere minacciato il loro pavimento.”- -“Ma loro non sono mai venuti qua e neanche ci telefonano.”- Lei, offesa -“Questo lo dici tu! Proprio ieri sera mi hanno chiesto se avessimo fatto lucidare il laminato. Saranno molto delusi quando gli racconterò quello che meditavi.”- Mia nonna giocava con me la carta dei sovrani adirati anche per risolvere questioni estranee alla custodia del castello. L’idea d'indispettire la Regina del Regno Unito mi turbava sempre molto. Mi figuravo con i rollerblade davanti al trono di Elisabetta e Filippo mentre si consultavano circa la truce fine cui destinarmi. TAGLIATEGLI LA TESTA! Che i principi Harry e William non avessero mai rigato un pavimento, rotto un vetro a Buckingham o durante le vacanze a Balmoral? Scesi dalla sedia e salutai la nonna. Lei -“Ma dove pensi di andare?”- -“A giocare!”- -“Dopo aver commesso vilipendio? No davvero! Seguimi.”- Da uno scaffale della biblioteca nel castello estrasse un volume massiccio con la copertina spessa, rilegata severamente alle pagine itteriche e corrose. Meritai un panegirico di qualche ora sulle gesta di Guglielmo I il Conquistatore poi, credo, persi i sensi per agonia, perché i ricordi seguono alla settimana successiva. Mio nonno Gilbert, livellando la superficie con strati di linoleum, aveva adibito una delle serre dismesse nel giardino a pista di pattinaggio coperta. Meno ampia del salone ricevimenti, ma mi era stato garantito che Elisabetta e Filippo approvavano. Pattinai benedicendo la Corona per tutto l'Inverno, riparato dagli elementi, dalle soffiate di Toby Clarck, dalle pallonate ostili. Ogni sera, di ritorno dal lavoro, Abel Mac Allister percorreva Abissinia, l'isolato periferico di Gardar dove i bambini italiani disputavano i tornei di calcio sul prato fangoso. Svoltava per il sobborgo britannico, dove ragazzi normanni non meno competitivi, si contendevano il pallone nel modesto campetto. Arrivato nel suo appartamento al castello, Abel tollerava con malcelato disappunto il paio di pattini arancioni riposti nella scarpiera. Quei pattini gli ricordavano quando l’ottimismo lo aveva illuso di trasformare suo figlio Fax in un calciatore. Quel colore penetrante aveva spento la sua brillante positività. Abel Mac Allister era un uomo onesto e un fidato venditore, ma l'ottimismo di un tempo era andato offuscandosi. Abel, che non voleva rinunciare alla sua virtù dominante, si fece un regalo. Una scarpiera personale in misto cascame. Gli abitanti di Gardar sapevano che le dita amputate di Donald Greene erano cadute negli scarti della segheria e che albergavano dentro qualche manufatto in truciolato venduto nel villaggio. Evelyn Darling sosteneva di sentire nella notte uno schiocco delle dita provenire dal suo sgabello da toeletta tinto di rosa. Dentro alla nuova scarpiera di Abel nessuno poteva riporre alcuna calzatura contro la sua autorizzazione, niente di fluorescente e di arancione. Le scarpe da calcio di John Mark godevano di cittadinanza onoraria nel tabernacolo della rettitudine plantare. Un pomeriggio, nella foga per raggiungere il televisore e ascoltare la sigla di "Penny Crayon" (che amavo più del cartone stesso) commisi un errore. I pattini nella scarpiera proibita. Quella sera mio padre entrò nella dining room reggendo i miei pattini per le stringhe fluo e un pallone da calcio sotto braccio. Ammutolimmo tutti alla vista del suo sorriso soddisfatto. Mia madre, sospettosa con la salsiera fra le mani -"Abel, cosa..."- Lui -"Lascia fare a me Selva..."- Poi, verso di me -"Fax, mai sentito parlare di ROLLER SOCCER?" ...
SCHEMI DI GIOCO tratto da "A life in a Fax" di Fax Mac Allister Copyright ©
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sciatu · 6 years
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STORIA DEL POETA CHE AMAVA IL MARE
Eravamo nel nostro campo di segale. Mia madre diede un calcio ad una zolla e questa si dissolse in una povere fine che il vento caldo portò via “Non ci sarà abbastanza raccolto quest’anno – Guardò l’orizzonte e si sistemo il fratello più piccolo che portava legato sulle spalle con una fascia – la guerra non ci ha fatto seminare abbastanza, la siccità ha bruciato metà del raccolto, prima che arrivino le nuove piogge saremo tutti morti”. Io guardai mia madre, alta e magra nel vestito che l’avvolgeva. Poi guardai l’altro mio fratello che era seduto ai margini del campo; lui non poteva lavorare, gli spiriti maligni gli erano entrati dentro quando era piccolo e gli avevano asciugato le carni e le ossa. Mia madre lo aveva portato dai Padri Bianchi e questi gli avevano fatto mangiare una polvere gialla pregando il loro Dio e gli spiriti se ne erano andati. Così stava ai margini del campo quando lavoravamo cantando e recitando poesie per noi che faticavamo; ora aveva la faccia triste perché il campo era giallo e spento come un desiderio morto prima di nascere e le spighe magre quanto le nostre speranze. “Vado via – le dissi – domani prendo le mie cose e vado via” “Tu sei un sognatore - disse mia madre arrabbiata – pensi sempre a quelle città degli stranieri, a quelle fantasie che ti hanno detto. Morirai nell’attraversare il deserto” “meglio morire camminando che stare ad aspettare che venga la morte a prenderti” Mia madre non rispose. “Vengo anch’io – disse mio fratello a bordo del campo alzandosi e venendo da noi appoggiato alla stampella – se vengo il viaggio non ti peserà” “Io non ti porto sulle spalle, non voglio morire facendo il tuo asino” risposi “Io non ho bisogno di nessun asino. Tu puoi seguire il sole con gli occhi ed il vento con il naso, ma la tua anima ha bisogno della mia poesia se no ti perderai perché la tua anima non avrà occhi e non sentirà il vento” Mia madre si coprì il volto perché non vedessimo il suo dolore “Portalo con te  – mi disse con gli occhi tristi – qui non sopravvivrebbe fino alle prossime piogge” Partimmo all’alba del giorno dopo. Uscimmo dal villaggio mentre i cani ancora latravano alle stelle. Mia madre ci accompagnò fino al grande albero che delimitava le capanne e restò li ad osservare scomparire nella polvere suo figlio il Sognatore e su figlio il Poeta che saltellava lungo il camino cantando una canzone in cui prometteva una tortora ad una ragazza se questa gli avesse dato un bacio. Finche si vedeva il villaggio, vedevamo nostra madre che seguiva il nostro cammino, poi i grandi alberi e le onde calde dell’aria che salivano dal terreno arido coprirono la sua figura sottile. Eravamo soli, come mai eravamo stati dalla nostra nascita.
Camminando tutto il giorno perché eravamo coperti dai grandi alberi e nell’ombra potevamo resistere al caldo. Attraversammo le foreste dove Antilopi dalle grandi corna e dagli occhi di donna ci osservavano e le scimmie ci chiamavano saltando di ramo in ramo e gridando. Sotto l’azzurro del cielo senza nuvole seguimmo la strada verso il nord, costeggiando fiumi con poca acqua fangosa, villaggi pieni di bambini ed altri bruciati dalla guerra. Sul bordo delle strade i cani mangiavano i cadaveri di uomini in divisa e le mosche ronzavano cercando anche loro la carne. Fu così per giorni. Una notte avevamo acceso un fuoco per scaldarci e mio fratello recitava alle stelle una poesia d’amore chiedendo che una di loro scendesse a prenderlo e portarlo nelle terre fredde, dove vivevano gli stranieri. Sentimmo un fruscio ed un uomo apparve. Ci salutò cercando pace. Disse che era un pescatore in un lago vicino a casa nostra. Qualcuno aveva buttato qualcosa nel lago e tutti i pesci erano morti, così anche lui aveva deciso di andare verso nord. “Ma tu sai dove andare “gli chiesi, “ Dobbiamo andare ad Agadez e da li a Dirkon ed attraversare il deserto per salire verso Toummo e poi nel mezzo del deserto a Sebha. Li prenderemo un camion che ci porterà a Tripoli. Quest’ultima è la città sul mare e da li partiremo per la terra degli stranieri” Io e il poeta era la prima volta che sentivamo parlare del mare e gli chiedemmo cosa fosse. Il pescatore sorrise “Il mare è un fiume senza fine, le sue acque sono vive e seguono il vento. Solo le grandi montagne lo possono fermare ma lui resta comunque il padrone del mondo” Mio fratello sorrise “Lo voglio proprio incontrare” ci disse ridendo. Camminammo quindi con il Pescatore e lasciammo dopo qualche settimana i grandi alberi della foresta. La terra da rossa come quella di casa nostra diventò gialla con grandi cespugli sparsi ovunque. Il caldo aumentò e camminavamo solo nelle ore più fresche mangiando tutto quello che potevamo trovare, radici, erbe, frutti, topi ed insetti. Piano piani i cespugli turchesi divennero sempre più radi ed incominciò il deserto. A Toummo incontrammo altri come noi e con i pochi soldi che mia madre ci aveva dato prendemmo posto su una camionetta guidata da un uomo vestito di Blu. Partimmo di notte e camminammo nel deserto, sotto un cielo pieno di stelle che mio fratello disse sembrare un campo di segale pieno di lucciole. Al mattino ci fermavamo a dormire mentre il caldo diventava insopportabile. Chiedemmo informazioni all’uomo in Blu. Lui ci disse che dovevamo andare a Tripoli e trovare un Passeurs. Lui ci avrebbe fatto arrivare in una terra chiamata Sicilia “Il sole – ci disse – riscalda il cuore degli uomini e li rende umani. In Sicilia il sole è caldo come da noi perciò anche se hanno una pelle diversa, ci chiamano cugini e ci aiutano. Salendo verso nord, il sole si affievolisce e così l’umanità nel cuore degli stranieri, fino ai ricchi paesi del nord dove ti danno un sorso d’acqua solo se paghi. La via non è semplice non per la distanza ma perché gli stranieri non hanno pietà e non ci sorridono mai.” Poi bevendo un sorso di the ci chiese “Perché salite al Nord, è meglio morire tra chi ci conosce e ci ha cresciuto, piuttosto che restare uno straniero per sempre in casa di altri”. Rispose mio fratello “Noi non abbiamo scelta. Se restassimo ci mangeremmo l’uno con l’altro come fanno i topi quando li chiudi in una giara e non dai loro da mangiare. Partendo, chi parte e chi resta ha sempre una possibilità. L’uomo Blu bevve un altro sorso. “Tu sei uno storpio. Dio ti ha toccato con la sua benevolenza, ma resti uno storpio. Nei paesi del Nord, solo chi lavora può sopravvivere: tu come pensi di fare” Mio fratello sorrise “Io so chiamare una donna con mille nomi diversi, parlo ai fiori e volo sulle nuvole; si vende sempre quanto si ha, ed io ho un fuoco che non si spegne mai.” L’uomo in Blu sorrise “Allora cantami una canzone” gli disse e mio fratello incominciò a cantare delle grande prodezze di un guerriero Blu, dalla spada dritta, signore del deserto a padrone del vento che smuoveva le dune. L’uomo Blu sorrise e gli diede del the.
Dopo molti giorni di fatica, di fame e di sete arrivammo a Sebha e da li, dopo aver lavorato alcune settimane per avere dei soldi, arrivammo a Tripoli su un camion pieno zeppo di disperati come noi. L’uomo Blu ci aveva detto di scendere prima dell’arrivo, perché una volta arrivati la milizia avrebbe imprigionato tutti rinchiudendoli in una galera da dove usciva solo chi poteva pagare. Noi saltammo dal camion prima dell’arrivo e ci nascondemmo tra alcune macerie. Io e il Pescatore al mattino andavamo a cercare lavoro nelle fattorie vicine, mio fratello si metteva di fronte alle moschee e cantando e pregando riceveva le elemosine. Alla fine lui guadagnava più di noi e quando avevamo abbastanza andammo verso la parte orientale di Tripoli dove ci si imbarcava per la Sicilia. Fu li che mio fratello vide per la prima volta il mare. Uscendo dalle ultime case prima della spiaggia per incontrare un Passeurs vedemmo quella striscia azzurra in continuo movimento. Saltellando sulla stampella mio fratello arrivò fino al bagnasciuga e l’osservava stupito. Un’onda gli bagnò i piedi e lui saltellando all’indietro cadde così fu sommerso da un'altra onda. Corsi a prenderlo ma lui rideva tutto contento, poi lasciando la stampella si avventurò tra le onde galleggiando e ridendo sempre felice. Per la prima volta nella sua vita non aveva bisogno della stampella, ed era felice. Non trovammo un Passeurs subito per cui per alcune settimane stavamo vicino al mare e mio fratello passava al mare tutto il tempo che non era di fronte le moschee a chiedere l’elemosina. Camminava su e giù per la spiaggia, si tuffava restando per ore nell'acqua. Quando il sole calava lo sentivo nel buio cantare canzoni d’amore al mare e la cosa mi stupiva. Una sera andai a sedermi accanto a lui che osservava il mare e chiesi  “Perché fai tutto questo” “Il mare è bellissimo, è veramente il padrone del modo, può distruggere tutto e creare tutto come un Dio potente e generoso. Non è mai fermo e mai silenzioso, è pieno di animali stupendi e al tramonto è gentile come una bambina. Per lui tutti gli uomini sono uguali e tratta a me che sono storpio come tratta te che sei un uomo forte. Lui mi spiega la mia anima e quella degli uomini,  sa parlare al mio cuore e lo riempie di versi e ne vuole sempre di nuovi; sorride all’alba, mi chiama di giorno, mi fa sognare di notte” “Ne parli come se fosse una donna” osservai scandalizzato “Per me è una donna. La chiamo Francoise, come se fosse una donna straniera che mi vuole bene” “Stai dicendo solo sciocchezze: il mare è solo una cosa” feci arrabbiato “Non è vero ! – disse lui serio -  lui ha in mano le vite di migliaia di persone, nutre migliaia di città, può distruggere in un giorno tutto quello che gli uomini costruiscono in una vita, ma con me è delicato, mi fa giocare tra le sue onde, mi fa vedere i suoi tesori, mi insegna poesie che non avrei mai saputo, e quando dormo mi culla come un amata che culla il suo amato. Non puoi vendere o comprare il mare come non puoi vendere o comprare l’amore, non puoi imprigionarlo, non puoi tradirlo, non è una semplice cosa: è la porta di ogni terra, è il fratello di ogni popolo, è la casa di tutti, è il sorriso di ogni donna, è uno spirito immenso, grande quanto il mondo”. Me ne andai arrabbiato e mi misi a dormire. Ma il vento portava i versi di mio fratello in cui chiamava la sua Francoise dai bei occhi, e dai capelli di schiuma, dalle enormi braccia calde che lo teneva sospeso sopra il suo immenso cuore. Mi dissi che mio fratello non aveva bisogno di andare al Nord per essere felice. Trovammo infine chi ci poteva portare in Sicilia. Poiché non potevamo pagare molto finimmo in una piccola barca mal messa, il cui timoniere era uno del nostro paese di cui in verità non ci fidavamo molto. Il Pescatore ci disse che era proprio un rischio andare su quella barca perché il tempo stava volgendo al peggio ma non avevamo scelta, eravamo senza soldi e il timoniere voleva andarsene subito perché la milizia lo stava cercando. Partimmo quindi la sera e per tutta la notte il motore arrancò spingendo la barca piena all’inverosimile. All’alba il cielo ingrigì ed il vento si alzò, il motore sotto sforzo ad un certo punto si ruppe e la barca restò in mezzo alle onde che barcollava come un vecchio prossimo a morire, mentre le onde si alzavano e la scuotevano come se fosse un giocattolo. “Di alla tua amata di fermarsi che così ci fa affondare” dissi ironico a mio fratello mentre i nostri cuori si riempivano di paura e molti vomitavano per il rollio, altri invece erano già caduti in acqua scomparendo subito nel nulla. “E’ arrabbiata perché chi guida ci tratta da bestie” mi rispose. Il timoniere infatti imprecava contro chi era sul bordo della barca perché secondo lui, la facevano rollare troppo; incitava quelli seduti in mezzo alla barca a buttare a mare quelli seduti sul bordo. “Quell’uomo non sa portare una barca – disse il pescatore -  le onde stanno arrivando tutte di lato e se ne arriva una più grande delle altre la barca si rovescerà” Il mare si ingrossò ancora. Incitati dal timoniere alcuni uomini cercarono di spingere in acqua delle donne per alleggerire la barca. Un altro uomo cercò di difendere una donna ma il timoniere prese la pistola e gli sparò uccidendolo. Mio fratello si alzò in mezzo alla barca e gli gridò con tutto il fiato che aveva che era un assassino e che era lui la causa di tutto, che ci stava trattando da bestie e che era lui che dovevamo buttare in acqua. Il timoniere non ci penso un minuto e gli sparò a sangue freddo dicendo che avrebbe ucciso tutti quelli che avessero provato ad alzarsi. I suoi compari si misero accanto a lui con i loro coltelli in mano guardandoci con odio. Io tenevo tra le braccia mio fratello che sanguinava copiosamente. Il Pescatore aveva preso un coltello e stava per lanciarsi contro il timoniere incurante della pistola. Fu un attimo. Un’onda gigantesca usci dal mare trascinandosi il timoniere e i suoi compagni che erano vicino a lui a poppa. Solo il legno del timone rimase dopo che il muro d’acqua aveva attraversato la barca. Il Pescatore fece un balzo e prese in mano quello che restava del timone spingendolo con tutta la forza che aveva. La barca ruotò prendendo di prua le onde che arrivavano. “Non è niente – dicevo a mio fratello  - ci troveranno e arriveremo in Sicilia. Li saremmo salvi. In Sicilia gli uomini hanno ancora il cuore caldo: ti salveranno”. Lui mi guardava. Osservò la mano insanguinata. “Lasciami qua. Non portarmi in Sicilia. Voglio restare con Francoise, lei mi capisce, mi vuole bene. La terra è pesante è arida e ingenerosa e tradisce come quella di nostra madre. Francoise è leggera, mi vuole bene” e si spense. Piansi. Avevo perso altri fratelli ma il Poeta era quello che amavo di più. Pensai a mia madre quando si era coperta il volto, perché aveva visto partire con noi anche la morte. Lo presi tra le braccia. Era leggerissimo come un’allodola. Mi avvicinai al bordo della barca e lo adagiai sull’acqua. L’acqua lo copri istantaneamente e il suo corpo invece di galleggiare scomparve nel profondo mare come se Francoise lo avesse preso tra le sue braccia portandoselo via. Improvvisamente il mare si calmo. Il vento soffiava ma vicino a noi le acque erano diventate piatte. Cercai il corpo di mio fratello perché sapevo che i morti galleggiavano ma di lui non c’era nessuna traccia. Mi voltai a guardare il Pescatore che guidava la barca. Lui mi osservò perché anche lui aveva capito che mio fratello era finalmente tra le braccia della sua amata e che l’aveva pregata di salvarci. Una corrente incominciò a spingere la barca e poche ore dopo una barca bianca ci trovò e ci portò in Sicilia. Il Pescatore dalla Sicilia andò verso una città del Nord chiamata Parigi. Io restai in Sicilia. Raccolgo pomodorini in un posto chiamato Pachino che è il punto della Sicilia più vicino all’Africa. La gente mi sorride e mi tratta come si trattano gli uomini. Ogni sera mi siedo sulla spiaggia ed ascolto il mare. Certe sere sento mio fratello recitare poesie, e Francoise rispondergli. Mio fratello aveva ragione, il suo fuoco non si sarebbe spento mai
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Radici in fiamme
di Pier Paolo Tarsi
Oggi mi sono concesso una lunga camminata con Tris ripercorrendo lo stesso tragitto che tempo fa, all’inizio dell’estate, mi permise di notare che un giovane uomo aveva preso a curare un uliveto non distante da casa mia e da tempo abbandonato a se stesso. Mi rallegrò molto constatare allora che qualcuno aveva ripreso a lottare, a sperare e resistere nel suo piccolo metro quadrato di civiltà ereditata. Un appezzamento con una trentina d’alberi non ancora fortemente intaccati dalla xylella.
Mi illudevo, evidentemente. Ripassando di là mi si è presentata oggi una scena orribile che non riesco a togliermi ancora dagli occhi e dalla mente. Quell’uomo stava caricando sul suo camioncino gli ultimi pezzi di legna, calmo, serafico, fischiettando al tramonto. La metà di quell’uliveto era stato ridotto a brandelli, pezzi buoni per il camino nell’inverno alle porte; quel che restava di ogni albero, un tronco mozzato qua e là e radici inabissate nella terra, era in fiamme. Anni fa, quando ancora la gente credeva che la xylella fosse un frutto esotico ed io ancora credevo nella mia gente, dalle pagine di un giornale locale scrivevo che perdendo gli ulivi questa terra avrebbe perso tutto. E fui profetico. Tentavo di spiegare che noi siamo un popolo di terra, non gente di mare, come molti, anche salentini, erroneamente pensano, confusi forse dai cataloghi per le vacanze altrui.
Non che si dovesse malinconicamente ed erroneamente tentar di perpetuare un dato passato, pretendere stupidamente di arrestare il flusso della nostra storia. Solo che avremmo dovuto ben guardarci dall’interromperla, tranciando legami e radici. Da allora quasi niente. Da una parte un fronte scientista che ad oggi non ha saputo proporre che far quanto prima il deserto; dall’altra qualche santone verboso. In mezzo tante chiacchiere da politicanti di tutti i colori, nessuno escluso. E tanta, tantissima ignoranza. Quella vera, quella che niente ha a che fare con l’analfabetismo o con ciò che si può imparare all’università.
A un uomo si può insegnare in modo relativamente facile a scrivere, a risolvere una complicata equazione o a programmare la più strepitosa delle app. Queste sono competenze che non ci fanno uomini o donne, sono cose che ci rendono semplicemente delle scimmie particolarmente abili in qualche ambito.
Quel che è difficile davvero da insegnare a delle scimmie per farle diventare uomini e donne è il sentire il valore delle cose ricevute e il valore di ciò che lega le nostre effimere vite agli altri e all’eterno fluire dei tempi. Difficile davvero non è far apprendere a delle scimmie il secondo principio della termodinamica ma portarle a chiedersi cosa implica per loro stesse il compiere una data azione, o ancora portarle a domandarsi del mistero della propria identità. Forse ha ragione Briatore. Bisognerebbe affidare questa terra ormai immemore e senza speranza a quelli come lui per farne finalmente un colorato non-luogo, insignificante forse ma pieno di traffici e soldi, di fregna con cui mirare i tramonti dai lidi attrezzatissimi ubicati tra un gasdotto e l’altro.
Beati, abbronzati e con in mano una frisa deluxe o un mojito, da sorseggiare prima di rientrare nei deserti edificati da faraonici villaggi turistici in cui far trenini fino all’alba. Pensateci: Belen tra noi tutto l’anno e non solo per una notte.
Caro il mio Tris, per noi nemmeno un sentiero di campagna da attraversare in santa pace. Le radici bruciano, il deserto avanza, fuori e dentro di noi. E non è colpa della xylella stavolta. Andremo a fare due passi da qualche altra parte, prima o poi bisognerà rassegnarsi e cambiare aria una volta per tutte.
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raccontidiragazzi · 6 years
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Il Cavaliere del Mulino
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Il terreno era umido, ammorbidito dalle recenti piogge, e Simone non ebbe problemi a scavare. Aveva scelto un’ansa nascosta nel fitto della foresta, all’ombra di un’imponente quercia – la cui maestosa fronda era visibile fin dal sentiero distante qualche centinaio di passi.
I muscoli tesi degli avambracci, ricoperti da un fitto velo di pelo biondo, guizzavano mentre conficcava la pala nel terreno e sollevava cumuli di terra scura, bagnata e pesante. Quando infine fu soddisfatto della buca, ben larga e profonda, grondava di sudore nonostante il freddo pungente delle prime luci dell’alba.
Trascinò il gravoso carico, infagottato e legato con cura fino alla fossa e con un calcio ce lo fece rotolare dentro. Si guardò intorno, volgendo lo sguardo in entrambe le direzioni e dietro di sé nella foresta desolata, e iniziò subito a ricoprire la buca con la terra accumulata di fianco.
I lineamenti duri del suo viso si distesero solo quando ebbe finito di battere la terra smossa e ricoprirla di foglie, rendendo impossibile distinguerla dal resto del terreno circostante.
Si incamminò verso il sentiero con la pala sulla spalla e un timido raggio di sole, filtrato dalle fitte chiome degli alberi, ne illuminò per un attimo il sorriso celato sotto la folta barba…
 ***
Qualche sera prima, una voce rauca e profonda gridò da dietro la ruota in legno viscida e imputridita di un modesto mulino. «Dale! Balordo e fannullone, dove ti sei cacciato?»
Quel giorno il mugnaio, il suo patrigno, era anche pi�� arrabbiato del solito. Dale si asciugò le lacrime e nascose il libro sul cavaliere dal buon cuore e l’armatura scintillante in una rientranza della roccia, sulla riva del fiume, dove si era rifugiato a leggere sotto il timido sole di fine inverno. Quel libro era l’unico ricordo dei suoi veri genitori, suo padre glielo aveva regalato prima di partire per una guerra da cui non sarebbe mai tornato, morendo prima che potesse conoscerlo. Da piccolo la madre glielo aveva letto ogni sera prima di dormire e poi, quando aveva dovuto risposarsi per mandare avanti il mulino e poter sfamare sé stessa e suo figlio, gli aveva insegnato a leggerlo da solo.
Non fece nemmeno in tempo a rialzarsi che una mano callosa lo afferrò per il colletto strattonandolo furiosamente. «Piccolo ingrato perdigiorno,» lo ingiuriò il suo patrigno. «Vedrai, ti insegnerò a lavorare a suon di schiaffoni. O credevi che la farina si macinasse da sola ora che quella scrofa di tua madre ha deciso di crepare?»
Dale rivolse al suo patrigno uno sguardo carico d’odio prima che questi con un pugno sullo stomaco lo mandasse a finire senza fiato in ginocchio.
Dopo averla sposata ed essersi impossessato del mulino, quell’uomo senza scrupoli aveva costretto a lavorare e picchiato sua madre ogni singolo giorno, fino ad ucciderla.
Un altro pugno lo colpì in pieno viso, e quando cadde a terra il suo patrigno iniziò a riempirlo di calci con furia cieca. Dale non poté fare altro che raggomitolarsi e sperare che l’uomo sopra di lui si stancasse presto.
«Non vali il pane che mangi,» continuava ad inveire il suo patrigno senza smettere di colpirlo. Era frustrato perché Dale non aveva il fisico adatto ai lavori pesanti, era ancora più esile di sua madre, e adesso che lei era morta se non trovava una soluzione avrebbe dovuto essere lui stesso a lavorare. E più ci pensava più si infuriava, e più si infuriava più desiderava che fosse il ragazzo ai suoi piedi a pagare il prezzo della sua sventura.
«Buon’uomo,» disse dal nulla una voce maschile sconosciuta, il timbro di voce era caldo e rassicurante e allo stesso tempo deciso. «Mentre passavo qui accanto non ho potuto fare a meno di sentire…»
Il mugnaio si immobilizzò a metà di un calcione, sorpreso. «Chi è la?» Disse scrutando in direzione della voce, facendosi attento.
Lo straniero era controluce, e almeno all’inizio per il mugnaio fu difficile metterne a fuoco i dettagli. Per un attimo gli parve un demone avvolto dalle fiamme e sì spaventò non poco.
«Solo un viandante in cerca di cibo e riparo dopo un lungo viaggio.» Rispose lo straniero facendosi avanti.
Allora il mugnaio vide che non era un demonio, ma un uomo a cavallo con la cotta di maglia sopra il vestito porpora, la spada chiusa nel fodero assicurata alla cintura e un elmo scintillante stretto nella mano destra.
«Non c’è da mangiare, né un posto per dormire, qui,» disse subito il mugnaio fissando arcigno lo straniero.
Dale intanto, profittando della momentanea distrazione del suo aguzzino aveva iniziato ad allontanarsi, dolorante, trascinandosi sui sassolini aguzzi del bagnasciuga.
«C’è una locanda, in paese, a mezz’ora di cavallo da qui.» Disse il mugnaio, sperando così di sbarazzarsi al più presto dell’inaspettato quanto sgradito ospite.
«Non vi arrecherò disturbo,» disse il cavaliere. «E posso pagare.» Aggiunse subito portando la mano a una borsa che teneva legata alla cintura, vicino alla spada.
Gli occhi del mugnaio si fecero grandi e attenti, e il suo atteggiamento cambiò radicalmente. Pregustando avidamente l’oro del cavaliere.
Indicò al viandante dove legare il cavallo, e dimenticando il ragazzo percosso che si era raggomitolato in un angolino, fece strada al suo danaroso ospite verso la piccola casa accanto al mulino.
Dale, ammaccato e dolorante, rimase rintanato al riparo fra le rocce per molto tempo, finché il sole non scomparve dietro l’orizzonte e iniziò a fare troppo freddo e buio per restare all’aperto.
 ***
 Dentro casa, il nuovo arrivato sedeva a capo di un tavolo imbandito come Dale non aveva mai visto, c’erano tutte le loro provviste, pane e formaggio e vino e birra, e un fuoco scoppiettante illuminava e scaldava ogni angolo dell’unica stanza di cui era composta la dimora.
Il suo patrigno sedeva tranquillo rivolto al fuoco sull’unica poltrona dall’alto schienale che era stata di suo padre, e anche se Dale non poteva vederlo immaginò che contasse soddisfatto le sue nuove monete che il giorno dopo avrebbe sicuramente sperperato alla taverna.
«Come ti chiami, ragazzo,» disse il cavaliere distogliendolo dai suoi pensieri.
Dale si voltò a guardarlo. Adesso indossava solo la tunica porpora; mentre la cotta di maglia, la cintura con la spada, l’elmo e gli stivali di cuoio tirati a lucido erano ordinati vicino al caminetto, ad asciugare. Il viandante era alto, con i capelli e la barba del colore del grano maturo e più giovane di quello che Dale aveva immaginato sentendo la sua voce, senza osare guardarlo quel pomeriggio in riva al fiume. I muscoli delle braccia e del torso tendevano la stoffa della tunica. I peli lisci e biondi del petto, sotto il colletto slacciato, si spingevano fin quasi a congiungersi con quelli della barba folta e curata. Lo straniero gli sorrideva amichevolmente, trasmettendogli un senso di sicurezza. Eppure in quel sorriso caloroso Dale scorgeva anche che quell’uomo tanto generoso e cortese avrebbe potuto spezzarlo come un ramoscello, con una mano sola e in qualsiasi momento.
«Allora, ce l’hai un nome?»
«Daniele,» rispose il ragazzo.
«Bene Daniele, e quanti anni hai?»
Dale si strinse nelle spalle. «Non lo so,» disse dopo un momento.
«Capisco.» Il cavaliere era pensieroso e stette in silenzio a centellinare il suo boccale di birra, mentre Dale aspettava sulla soglia senza osare muoversi. Solo dopo qualche minuto il cavaliere posò il boccale e si decise a parlare. «Voglio che tu mi faccia compagnia per qualche giorno, Dale. È così che ti chiamano, vero?»
Dale annuì semplicemente, restando in silenzio.
«Adesso va a dar da mangiare al mio cavallo, e assicurati che sia al riparo per la notte. Sbrigati.»
E Dale ubbidì senza indugiare.
Fuori la temperatura era calata drasticamente e all’improvviso. Nuvole dense cariche di pioggia si stavano addensando sulla valle e un vento gelido soffiava dalle montagne. Dale sistemò il cavallo nel deposito vuoto del mulino, si assicurò che fosse ben legato e gli lasciò acqua e biada a disposizione, senza risparmiarsi. Poi tornò di corsa in casa - per tutto il tempo si era chiesto cosa potesse mai volere dal figlio di un mugnaio un cavaliere tanto forte e nobile.
Quando rientrò nel chiaro e gradevole tepore, chiudendosi il gelo della notte alle spalle, notò subito che il suo patrigno se ne era andato e che il cavaliere si era seduto sulla poltrona che era stata di suo padre, accanto al fuoco, stringendo in mano un boccale di birra schiumosa pieno fino all’orlo.
Dale si avvicinò al fuoco in silenzio e si accucciò in un angolo del camino, dal lato opposto rispetto alla poltrona dove era seduto il cavaliere misterioso. Non gli staccò gli occhi di dosso neanche per un attimo, lo fissava cercando di imprimersi nella memoria ogni particolare di quell’uomo possente, senza avere il coraggio di dire una parola, neanche per chiedere del suo patrigno.
Ne studiò attentamente i profondi occhi blu, il lieve arco delle sopracciglia e la linea dritta del naso. Aveva le labbra sottili distese in un caldo sorriso sotto la folta barba.
«Tuo padre è andato via di fretta,» disse dopo qualche minuto il forestiero, la sua veste porpora sembrava viva alla luce fluida delle fiamme. «Sono sicuro che farà buon uso delle monete che gli ho dato.»
E dicendo questo il suo sorriso si allargò sensibilmente.
Trangugiò d’un sorso metà del boccale, e si sporse sulla poltrona in direzione del ragazzo. «Ma adesso pensiamo a noi.» Disse, fissando Dale dritto negli occhi.
***
 Dale era sul letto dei suoi genitori, sistemato in un angolo riparato dell’unica stanza della casetta. Aveva le braccia tese sopra la testa e i polsi sottili legati insieme, assicurati alla struttura in legno del letto. La pelle era tesa sulle costole e aveva lo stomaco scavato sotto il petto che si gonfiava al ritmo del suo respiro accelerato. Anche le caviglie erano legate ai piedi del letto, costringendolo a tenere le gambe divaricate.
Era completamente nudo.
Il cavaliere sospirò rumorosamente sdraiato al fianco del ragazzo immobilizzato e indifeso.
«Ti prego liberami, mio signore.» Si lamentò Dale, a disagio.
Così esposto e vulnerabile appariva ancora più giovane. La sua pelle morbida era quasi priva di peli, fatta eccezione per una chiazza di riccioli chiari alla base del cazzo morbido. I capezzoli erano rosa e duri a causa dell’aria che iniziava a farsi più fresca mano a mano che il fuoco si esauriva.
«Ormai sei mio,» disse tranquillamente il cavaliere. «E ho intenzione di giocare con te per molto, molto tempo.»
Dale si mosse a disagio sul letto, ma il suo cazzo iniziò a pulsare lievemente, contraendosi con un brivido.
«Ti piace l’idea?» Gli chiese il cavaliere fissandolo intensamente tra le gambe.
Dale seguì il suo sguardo e arrossì. Scosse la testa ma il suo cazzo non smetteva di pulsare.
«Si,» disse l’uomo sdraiato al suo fianco. E fece scivolare la mano sinistra sul suo petto nudo, sentendo i capezzoli duri solleticargli il palmo aperto. «Ti piace,»
«Ti prego,» ripeté Dale, piagnucolando.
Mentre la mano si avvicinava all’inguine, il cavaliere avvertì il movimento dell’addome teso sotto le dita. La pelle era morbida e calda, più calda vicino al pene che sulla pancia.
Dale si lamentò ancora e il cavaliere si sporse in avanti poggiando le sue labbra su quelle umide e calde del ragazzo. E quando gli fece scivolare la lingua in bocca chiuse saldamente il pugno intorno al suo cazzo ormai duro. Il cazzo di Dale era abbastanza impressionante per un ragazzo tanto esile eppure quasi scompariva in quella mano dalla presa ferrea.
Il cavaliere diede una leggera stretta, facendolo sussultare.
La paura negli occhi di Dale era un afrodisiaco per l’uomo, che mise a tacere le sue suppliche premendo le labbra contro quelle di lui e risucchiando in bocca la sua lingua. Il cavaliere era sicuro che il bacio gli piacesse, il ragazzo adorava che nel mentre gli tirasse i capezzoli rigirandoli delicatamente fra le dita. Gli piaceva persino essere legato. E ne era sicuro perché il suo cazzo si era indurito prima ancora che lo toccasse.    
Il cavaliere si chinò a baciargli il collo, e Dale sollevò istintivamente il mento per dargli migliore accesso alla gola. Lo baciò a lungo alternando piccoli morsi e risucchiando la pelle calda e liscia. Quando arrivò al petto, i capezzoli erano duri come sassi, e il suo cazzo iniziava a colargli sulla mano. Poteva assaggiare il gusto salato del suo sudore mentre gli leccava e succhiava i capezzoli.
Dale ormai respirava affannosamente. Il cavaliere gli baciò il petto e scese lentamente verso lo stomaco e l’addome senza staccare le labbra dalla sua pelle. E intanto fece ruotare il pollice sulla cappella sensibile facendolo sussultare e gemere, poi, guardandolo negli occhi, sollevò il pollice e se lo porto alle labbra per succhiare il suo presperma.
«Dolce.» Sussurrò fra se.
Dale ansimò quando il cavaliere riprese il suo cazzo in mano e ricominciò a baciargli l’addome scendendo sempre più in basso, di lato, verso l’attaccatura delle gambe spalancate. La barba dell’uomo gli solleticava i testicoli.  
«Sei pronto?» Disse tranquillamente il cavaliere sollevando il viso sull’inguine.
«Ti prego,» disse nuovamente Dale.
Il cavaliere sorrise sadicamente e si allontanò dal giovane guardandolo contorcersi sul letto in cerca di sollievo. «No,» disse con voce suadente. «Credo che ti terrò così, al limite… almeno per po’.»
 ***
 Dopo una notte legato al letto Dale non la smetteva più di ansimare e gemere. «Per favore,» disse per la centesima volta. «Non fami del male, mio signore.»
Il cavaliere gli sorrise in modo poco rassicurante. «Non troppo,» disse. «Quel tanto che basta a farmi divertire.»
Il ragazzo singhiozzò mentre il cavaliere gli slegava i polsi permettendogli di stare seduto sul letto. Per un attimo Dale guardò verso la porta, a pochi passi di distanza.
«Non ci provare,» gli sussurrò il cavaliere all’orecchio. «Falliresti e poi dovrei farti male, per davvero.»
Mentre parlava la mano dell’uomo si spostò sul petto nudo, Dale sentiva il suo respiro caldo nell’orecchio ma non osava guardarlo. Gli afferrò un capezzolo fra le dita e lo torse schiacciandolo con forza. Dale si lasciò sfuggire un gemito di dolore e una lacrima calda gli rigò la guancia.
«Ieri hai mangiato?» Chiese d’un tratto il cavaliere accarezzandogli il petto.
Dale scosse la testa tenendo le labbra serrate. Aveva gli occhi lucidi e tratteneva a stento le lacrime. Ormai non mangiava nulla da quasi due giorni.
Da quando anche sua madre era morta, due settimane prima, il patrigno lo mandava al mulino ogni mattina all’alba con un tozzo di pane – quando se ne ricordava – e pretendeva che lavorasse finché il sole non spariva oltre le montagne e si faceva buio. Intanto lui passava le sue giornate a bere alla locanda giù in paese, oppure a bere in casa, in ogni caso, invariabilmente, finiva le sue giornate ubriaco – e dopo essersi ubriacato, da quando era morta la madre, aveva iniziato a picchiare Dale al suo posto.
«Bene,» disse il cavaliere soddisfatto. «Se hai la pancia vuota almeno non mi sporcherò.»
Dale lo guardò perplesso e sul bel viso del cavaliere si allargò un sorriso.
Il cavaliere si chinò e baciò dolcemente il ragazzo nudo seduto sul letto. Dale rimase fermo mentre la lingua dell’uomo tracciava il contorno delle sue labbra, ma le dischiuse quando il cavaliere gli spinse la lingua sui denti e poi dentro la bocca calda. Condivisero un bacio lungo e gentile mentre la mano del cavaliere gli accarezzava il petto giocando con i capezzoli eretti. Le sue dita tracciarono un percorso curvo scivolando lungo la linea morbida del ventre fino alle cosce, e all’improvviso gli afferrò le palle e strinse, finché Dale non ansimo nella sua bocca.
«Ora mi succhierai il cazzo, ti sborrerò in bocca e tu inghiottirai.» Disse il cavaliere rompendo il bacio e fissando Dale dritto negli occhi.
Il ragazzo lo guardò con meno apprensione di quanta si aspettasse, e il cavaliere pensò che forse iniziava ad abituarsi agli abusi. Raddrizzò la schiena e fece un passo indietro, afferrò i capelli di Dale e lo spinse ad avvicinarsi al bordo del letto. Dale aprì la bocca senza fare storie, e il cavaliere spinse il suo cazzo duro in quell’antro stretto, caldo e umido.
Il cazzo del cavaliere era grande, davvero grosso. Quando era duro misurava quanto il suo palmo e lui aveva delle mani molto grandi. Dale faticò per adattarsi alla prepotente intrusione.
Il cavaliere gemette rumorosamente al contatto con il calore della sua bocca.
Era fantastico. Teneva i capelli di Dale con una mano, e intanto lasciò scivolare l’altra sul petto liscio del ragazzo, pizzicandogli un capezzolo.
«Attento ai denti, succhiacazzi …se vuoi tenerti questo attaccato.» disse severo aumentando la stretta sul capezzolo per sottolineare il punto.
Dale si lamentò, e subito fece scivolare la lingua intorno alla testa del cazzo lasciando senza fiato il cavaliere.
Il ragazzo si mise d’impegno sbavando sulla grossa asta mentre il cavaliere muoveva i fianchi avanti e indietro spingendo il cazzo ogni volta più a fondo.
«Leccami le palle,» disse il cavaliere scivolando fuori dalle labbra serrate. Dale inclinò la testa e lambì la pelle flaccida che conteneva i testicoli dell’uomo. Il cavaliere premette le palle contro le sue labbra e lui succhiò le pieghe della pelle fra i grossi testicoli, poi si tirò indietro e Dale ne risucchiò in bocca uno. L’uomo sentiva la lingua umida ruotare intorno al testicolo e si lasciò succhiare le palle per un po' prima di rimettere il cazzo in bocca e ricominciare un andirivieni ancora più furioso.
«Sto per venire!» Gridò quando sentì sopraggiungere l’apice dell’orgasmo. «Tienilo in bocca, ma per ora non ingoiare!»
Il cazzo entrava e usciva dalla bocca con movimenti rapidi mentre le palle si svuotavano. Il cavaliere sfregò il glande sulla lingua rossa e umida riversando fiotto dopo fiotto tutto il suo sperma caldo.
Dale socchiuse gli occhi e chiuse delicatamente le labbra intorno al glande, le dita del cavaliere gli scivolarono tra i capelli. «Bravo ragazzo!» Sospirò. «Fammi vedere.»
Dale aprì la bocca, la lingua era coperta di sperma cremoso.
«Fantastico, ora mandalo giù.»
Lui obbedì e il cavaliere gli scompiglio i capelli soddisfatto.
«Bravo!» Disse lasciandosi cadere con soddisfazione sul letto accanto al ragazzo.
«Mio signore,» sussurrò Dale dopo qualche minuto a mezza voce, esitante. «Adesso siete soddisfatto?»
Il cavaliere aprì gli occhi e gli sorrise calorosamente. «Forse,» disse divertito. «Dopo che ti avrò scopato e torturato per un po’.»
 ***
 Qualche ora più tardi, Dale era nuovamente legato mani e piedi alla struttura in legno massiccio del letto, a pancia sotto e con le gambe aperte – completamente nudo ed esposto. Il cavaliere teneva la sua cintura di pelle arrotolata nella mano destra, in modo che circa un piede dello spesso cuoio sporgesse ad un’estremità.
«Sei pronto?» Chiese retoricamente facendo schioccare la cintura in aria.
«No, vi prego, non fatelo!» Singhiozzò Dale.
Il cavaliere sorrise e schiaffeggiò una natica con il lato piatto della cintura, con forza.
Dale urlò è sì divincolò nei legami. Una striscia rossa iniziò a formarsi sulla pelle liscia e bianca nel punto in cui la cintura lo aveva colpito. «No! No, vi prego, Non fatelo! Ahi!» Gridò.
L’uomo prese a far oscillare la cintura avanti e indietro e ogni volta che colpiva la pelle uno schiocco secco seguito da un grido acuto squarciavano l’aria. Il cavaliere cercava di colpire in ogni punto, metodicamente, dal buco esposto alle palle indifese. Fermandosi solo dopo una dozzina di colpi.
Dale era disperato e scuoteva la testa, singhiozzando e sbavando sulle coperte. «Basta, vi prego.» Continuava a ripetere fra le lacrime.
Il cavaliere pensò che il ragazzo avesse davvero una propensione per il dramma, considerato che ci era andato piuttosto leggero.
«Adesso facciamo sul serio,» disse, facendo oscillare la cintura con forza e causando uno schiocco molto più forte dei precedenti. Per un attimo Dale rimase in silenzio a bocca aperta, quasi confuso, poi iniziò a gridare a pieni polmoni e continuò finché l’uomo impietoso sopra di lui non si stufò delle sue grida - dopo almeno altri venti colpi.
«Ci dovremmo lavorare su,» disse noncurante.
Dale era fuori di sé. Il cavaliere si infilò fra le sue gambe spalancate e chinandosi in avanti raggiunse il viso imbrattato di lacrime e saliva e lo baciò sulla bocca, con passione, succhiando le sue labbra tra i denti e masticandole delicatamente. E intanto spinse il corpo contro quello del ragazzo, sfregandosi su di lui.
Il suono attutito dei singhiozzi di Dale faceva fremere il cazzo del cavaliere. In quella posizione, l’asta turgida sfregava contro le natiche lasciandosi dietro una scia di liquido trasparente. Mentre gli baciava le labbra, il cavaliere raccolse un poco di presperma con un dito e usò quella lubrificazione insufficiente per penetrare il buco inviolato del ragazzo. Dale si lamentò, singhiozzando, mentre il cavaliere lo scopava con il dito continuando a baciarlo dolcemente sulle labbra.
«È ora di rompere questo dolce buchetto, ragazzo. Pronto a farti scopare?»
Dale era prigioniero, legato strettamente, e singhiozzò in risposta.
«No,» piagnucolò sommessamente mentre il cavaliere gli accarezzava i testicoli. «Non farmi male!»
«Male?» Chiese il cavaliere fingendo sorpresa. «Beh, sono abbastanza sicuro che ti farà male. Ma probabilmente ti piacerà anche da impazzire!»
Senza attendere oltre l’uomo si sputò sulla mano e la usò per lubrificare alla meglio la sua asta turgida e pulsante per l’attesa. Dale ansimò e iniziò a piangere appena il cazzo iniziò a premere sul buco. Ci vollero diversi spintoni e il cavaliere dovette tenerlo fermo con un braccio stretto intorno al petto, ma alla fine riuscì a spingere dentro quasi tutta la sua lunghezza. Si fermò solo per godersi la sensazione delle pareti calde del retto contrarsi e stringere il suo cazzo duro. Dale continuava a gemere e singhiozzare, senza fiato, e il cavaliere gli posò le labbra sul collo, baciandolo amorevolmente.
Fece scivolare il cazzo fuori dal culo e poi lo spinse in profondità. Allo stesso tempo afferrò un capezzolo e lo strinse, torcendolo dolcemente mentre lo scopava.
Iniziò a fotterlo più velocemente. Il buco iniziava ad allentarsi e lasciava entrare e uscire il cazzo più facilmente.
Il cavaliere si godeva la sensazione del culo stretto e continuò a baciargli il collo e scoparlo mentre Dale singhiozzava senza più ritegno. Il suo corpo tremava sfregando contro le coperte mentre il cazzo del cavaliere spingeva sempre più insistentemente.
«Sei mio adesso.» Gli sussurrò il cavaliere all’orecchio, pompando il culo più veloce e con più forza, sentendo l’orgasmo crescere.
Dale scosse la testa. Non voleva, eppure il suo corpo stava reagendo all’assalto. Il cavaliere gli afferrò i capelli con la mano libera e gli tirò indietro la testa, così da avere a portata le sue labbra.
Dale singhiozzò ancora più forte ma allo stesso tempo sentì il suo cazzo duro pulsare fino quasi allo spasmo. 
Il cavaliere speronò il cazzo in profondità e premendo le labbra su quelle di Dale venne, facendo scorrere un fiume di sperma caldo nelle sue viscere. Dale ansimò forte e senza controllo anche il suo cazzo scoppiò in sottili filamenti sfregando con forza sulle coperte. Sborrarono insieme, nello stesso istante di passione.
«È stato fantastico, ragazzo,» gli mormorò il cavaliere all’orecchio con il respiro corto – e ci premette sopra la lingua, mordicchiando il lobo. Dale rabbrividì e l’uomo sopra di lui sorrise, strofinando la mano sulla pelle liscia del petto e del ventre.
«Sei tutto sudato.» Disse estraendo il cazzo morbido dal suo culo, e ci affondò dentro le dita per raccogliere un po’ di sperma che gli portò subito alla bocca. Dale succhiò le dita viscide senza protestare.
 ***
 Il cavaliere lasciò Dale legato al letto, imbrattato dello sperma di entrambi. Completamente nudo, prese posto alla tavola ancora apparecchiata dalla sera precedente e, continuando a fissare il ragazzo legato sul letto, mangiò e bevve quello che era rimasto delle misere provviste della casa, tenendo da parte solo un grosso pezzo di pane salato.
Dale si era quasi addormentato quando si accorse che il cavaliere era tornato alle sue spalle e lo stava liberando dai suoi stretti legami.
«Ehi, raggio di sole!» Disse il cavaliere vivacemente. «Ti ho portato da mangiare.»
Finì di liberargli i polsi e Dale fece per girarsi intorpidito, mettendosi poi lentamente a sedere sul letto. Guardò con desiderio il pane che aveva portato il cavaliere e allungò subito la mano quando lui glielo porse.
«Calma,» disse il cavaliere dopo che Dale diede il primo enorme morso, iniziando immediatamente a masticare. «Devi avere lo stomaco piuttosto vuoto, vacci piano.»
Dale rallentò, ma finì il pane rapidamente.
«Hai sete?» Chiese il cavaliere che gli aveva dato il pane salato di proposito.
Il ragazzo annuì con forza e il cavaliere si prese in mano il cazzo, voluminoso anche da morbido.
«Bene, perché devo pisciare ed è tutto quello che avrai finché starò qui con te.» Spiegò secco.
Dale sentì le lacrime salire agli occhi e iniziare scorrere copiose sulle guance ma aprì la bocca, avvicinandosi al cazzo che iniziava appena ad ingrossarsi a contatto col suo respiro caldo.
«Solleva la testa e apri bene la bocca,» disse il cavaliere tenendo in posizione il cazzo con le dita poco sotto al glande.
Qualche attimo dopo dal buchetto al centro del glande iniziò a scorrere un sottile flusso di piscio direttamente nella bocca aperta del ragazzo. Appena si formò una piccola pozza il cavaliere strinse leggermente le dita bloccando il flusso.
«Ingoia!» Disse.
E fissò il ragazzo negli occhi mentre mandava giù il boccone a fatica. «Apri,» disse subito dopo, e ripeté tutto un'altra volta.
Quando Dale ebbe il boccone nuovamente pieno, il cavaliere bloccò il flusso e si sporse leggermente in avanti lasciando cadere una grossa goccia di saliva bianca e spumosa nella bocca aperta del ragazzo. Lo sputo finì dritto nella piccola pozza di urina e l’uomo sorrise soddisfatto. «Manda giù!» Disse con soddisfazione.
«Adesso poggia le labbra intorno al glande, senza succhiare, e ingoia man mano che viene fuori perché non mi fermo più.» Disse il cavaliere. «E manda giù tutto, o non ti piacerà quello che succederà dopo.» Terminò in tono minaccioso.
Seppur a fatica, Dale, un po' per sete e un po’ per paura, riuscì ad ingoiare tutto e il cavaliere rimase visibilmente compiaciuto.
Si sdraiarono sul letto uno accanto all’altro, il cavaliere era momentaneamente soddisfatto, e Dale con lo stomaco finalmente pieno non ci mise molto a addormentarsi stretto fra le calde e forti braccia dell’uomo.
 ***
 Il cavaliere lo svegliò solo a sera inoltrata, quando fuori era già buio. Dale riaprì gli occhi con le labbra dell’uomo premute dolcemente sulle sue e le dita a sfiorargli il petto, stuzzicando i capezzoli eretti. Questa volta il cavaliere aveva intenzione di sedurlo, lentamente. Voleva che provasse un’esperienza completamente diversa dal ruvido approccio di qualche ora prima. Lo baciò teneramente per molto tempo mentre le sue mani viaggiavano sulla pelle liscia. Alla fine spostò le labbra sul collo morbido, sentiva il sangue pulsare attraverso la pelle.
Scese lungo il collo fino al petto e iniziò a succhiargli entrambi i capezzoli tirandoli delicatamente coi denti. Il gemito profondo dalla gola di Dale lo avvertì che il ragazzo gradiva le sue attenzioni. Gli baciò il petto, poi la pelle morbida del ventre piatto. Le sue labbra scivolarono attraverso l’anca fino alla parte superiore della coscia e baciò la pelle pallida, sfiorandogli i testicoli con la barba. Intanto con un dito gli solleticava il buco ancora leggermente aperto e umido per l’assalto precedente. Spinse lentamente il dito continuando a baciargli la coscia. Dale sibilò, inarcando la schiena. Il cavaliere ritirò il dito viscido e lo porto alle labbra del ragazzo, costringendolo in bocca. Dale succhiò il dito avidamente, ripulendo lo sperma.
Il cavaliere si arrampicò in ginocchio, tra le sue cosce divaricate, senza smettere un attimo di fissarne il corpo esile e pallido. Prese in mano le ginocchia del ragazzo e se le appoggiò al petto. Dale lo fissava impotente e l’uomo si prese in mano il cazzo e sfregò la grossa punta contro il suo buco liscio. Il corpo del ragazzo si irrigidì, aveva le labbra e gli occhi socchiusi, i capezzoli duri e il cazzo bagnato e pulsante. Era pronto.
Il cavaliere spinse in avanti, aumentando la pressione del pene contro lo sfintere, il muscolo si allargava lentamente, con riluttanza, mentre l’intruso troppo grande si faceva strada a fatica. La bocca di Dale si spalancò, e il suo visò impallidì in previsione del dolore bruciante che sarebbe venuto – eppure non arrivò. Il buco era ancora un poco dilatato e lubrificato dal rapporto precedente e permise al cazzo di entrare con poco sforzo. Dale guardava il cavaliere con la bocca e gli occhi spalancati, sorpreso e meravigliato delle sensazioni che gli arrivavano dall’apertura fra le natiche. Il cavaliere iniziò a spingere il cazzo avanti e indietro, ogni volta più a fondò, lentamente. Il corpo esile e pallido di Dale oscillava al ritmo delle spinte. Il suo viso era perfetto, specialmente con gli occhi pieni di lussuria.
«Tutto bene, ragazzo?»
Dale sembrava aver dimenticato gli abusi precedenti. Il cavaliere lo osservò chiudere gli occhi e annuire una risposta silenziosa quanto eloquente. Per un momento fu tentato di fargli male, solo per godersi l’espressione di dolore e tradimento sul suo bel viso, invece spinse il cazzo in fondo fino a poggiare le palle contro le sue natiche calde e morbide e prese delicatamente in mano la sua asta pulsante, iniziando a masturbarlo lentamente.
Con la mano libera iniziò ad esplorare il suo corpo, sfregando il palmo contro l’interno delle cosce, la pancia e il petto. Gioco con i suoi capezzoli tirandoli e torcendoli delicatamente. Il ragazzo aveva la faccia arrossata, e gli occhi grandi e vitrei mentre si preparava a schizzarsi il ventre di sperma. Le contrazioni del retto che anticipavano l’orgasmo spinsero sul bordo anche il cavaliere che, dopo un paio di spinte decise, esplose nello stesso istante in cui anche Dale veniva travolto da un orgasmo potentissimo.
Il cavaliere si lasciò cadere su Dale, ansimando, e i loro corpi sudati si intrecciarono inestricabilmente e si addormentarono così, nel caldo abbraccio l’uno dell’altro, stretti nel letto davanti al fuoco morente.
 ***
 Il cavaliere sì sveglio che era ancora notte e con delicatezza si liberò dallo stretto abbraccio del giovane che dormiva profondamente al suo fianco.
Si rivestì in silenzio nella penombra della stanza illuminata solo dalla luce della luna. Prima di uscire lasciò sul tavolo ancora ingombro di avanzi tanto denaro da rimettere in sesto il mulino e la casa, poi si chinò a baciare sulla fronte il ragazzo che gli aveva dato tanto piacere, e uscì nella notte richiudendosi silenziosamente la porta alle spalle.
Appena fuori dalla casa, andò subito al capanno degli attrezzi e la trovò ad aspettarlo il mugnaio esattamente come lo aveva lasciato – con gli occhi sbarrati iniettati di sangue e uno squarcio che gli attraversava il ventre prominente da parte a parte. In una mano stringeva ancora le monete che gli aveva dato per la sua ospitalità e nell’altra il pugnale con cui aveva tentato inutilmente di sorprenderlo per derubarlo.
Il cavaliere prima di avvolgerlo con cura in un pesante telo gli sistemò due di quelle stesse monetine sugli occhi - per il traghettatore - poi lo trascinò fuori e lo caricò sul cavallo, incamminandosi in direzione del sole che sarebbe sorto di lì a poco.
Si voltò solo una volta verso il vecchio mulino e la casa che vi sorgeva accanto, sorrise fra sé e sparì oltre l’orizzonte.
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giordan21-blog · 7 years
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Noi, infiniti ❤
Amore mio, da quando fai parte di tutto questo non posso altro dire che sono un uomo migliore. Io non reputo la nostra semplicemente la solita storia con alti e bassi dove però ci si vuole lo stesso bene (che poi penso ci siano decisamente più alti e ogni tanto qualche fraintendimento). Quello che stiamo creando è qualcosa iniziato anni prima quando molti intorno a noi avevano già visto qualcosa del nostro futuro insieme, le nostre anime legate già da allora Han deciso che valeva la pena rimanere sempre col pensiero di come sarebbe stato fino a che tutte quelle fantasie diventarono realtà. Non siamo un fuoco di paglia, siamo le fiamme che riscaldano quel camino nelle sere di inverno dove quello che conta è il stringersi sempre più forti quasi da toccare il tuo cuore col mio, metterli vicini e lasciarli finalmente incontrare. Non so se riuscirò mai a regalarti la Luna, ma ho qualcosa che sicuramente non è indifferente per me, ti sto donando il mio cuore con le sue imperfezioni e i suoi pregi. So che spesso sono odiabile, insopportabile, e di certo ti ho fatto imprecare più di una volta, ma se c'è una cosa che mi son reso conto di amare è proprio ciò che siamo. Donerei, senza pensarci troppo, la mia vita per vedere un sorriso sincero sul Tuo viso, un sorriso che magari mai nessun altro uomo ha visto. Sto cercando di amarti e rispettarti come mai nesssun altro uomo ha fatto e farà. Ho solo 21 anni ma se dovessero chiedermi cos'è l'Amore l'unica cosa che mi sentirei di rispondere sinceramente è il tuo nome. Prometto che avrò cura di tutto quello che deciderai di mostrarmi, ogni giorno cercherò di crescere e di migliorarmi per essere l'uomo a cui un giorno farai il regalo, col cuore leggero senza pensarci, di una famiglia insieme. So che può sembrare da bambini questo pensiero, ma è proprio perché non sono più un bambino che posso dirti che rappresenti la mia felicità, e in quanto essere umano anche il mio sogno più grande è quello di essere felice. Quindi che senso avrebbe non voler sognare una famiglia con una persona che rappresenta la tua vita?
 3 anni fa come adesso i nostri cuori non si sono persi e non si perderanno di vista, da poco è iniziata la nostra reale avventura, circa 9, ma sappiamo benissimo che noi siamo molto più da anni. Ogni giorno vedere il tuo viso mi ricorda quanto sono stato fortunato, e quanto abbia voglia di dimostrarti che valgo come ragazzo, rappresenti ciò che ho sempre sognato di avere. Quella donna che con un solo sguardo riesce a risolvere quel problema che tanto mi sta infastidendo, ti basta poco per mostrarmi il paradiso.
Hai marchiato il mio cuore col tuo nome e io non ho intenzione di levarlo, riempi di colore le mie giornate, e adesso più che mai sono qui a mostrarti le mie fragilità e quello che rappresento, scrivo sentendo da fuori gli uccellini cantare e nonostante siamo già a metà ottobre e quindi non c è più molta luce che entra dalle scure quello che immagino pensandoti è totalmente color arcobaleno. Non smetterò mai di ringraziarti per aver reso il mio mondo un posto migliore, ma ti prometto che ogni giorno ti amerò di più, ti dimostrerò che tutte le scelte che hai preso fino ad adesso che mi riguardano non sono state errate.
Sei la mia compagna di banco, e ciò che mi sorprende è che sei una magnifica compagna di vita. Sei la Donna migliore che io abbia mai incontrato, la tua anima è pura e non conosce cattiveria, il regalo più grande che la vita potesse farmi è quello di avermi dato la possibilità di custodire il tuo cuore. Ti amo, adesso e in futuro, ti amo per quello che sei e che mostri ogni giorno, in questa notte piena di pensieri la mia costante sei tu, adesso come anni fa quando sento il tuo nome il mio cuore fa un sobbalzo e mi si scioglie pensando alle tue carezze.. beh.. Non ho idea di come possa riuscire a spiegarti a parole il mio amore, ma posso cercare di mostrarti giorno per giorno che voglio questa mia vita insieme a te e voglio che tu possa considerarmi il tuo reale possibile futuro.  Prima leggevo alcune lettere scritte da mariti alle proprie mogli, la cosa sorprendente è che mentre leggevo sentivo l'amore che anche loro cercavarono di trasmettere tramite delle parole scritte sul foglio, penso sia difficile mostrare cosa si si nasconde realmente fra queste righe, mostrare in qualche frase tutta la gratitudine e il rispetto che nutro nei tuoi confronti, spero sinceramente di esser riuscito un minimo a portar alla luce quello che volevo trasmettere con queste parole, Infiniti Noi Tesoro mio, il mio amore per te è puro e sincero.
Tuo sempre fedele compagno di banco ❤
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dreamerwriter18mha · 4 years
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CRONACHE DI YUUEI - GROUND ZERO Capitolo 7 - Rumag
P.O.V. KIRISHIMA
Alla vista del biondo che si avvicinava, con quello sguardo astuto e dominante, una sensazione sgradevole iniziò a fiorire nel petto di Kirishima, seguita dal basso ringhio infastidito che lasciò le sue labbra.
Bakugo si bloccò, udendo il suono, e il suo sguardo si fece sorpreso e poi...deluso? Kirishima non ne era certo, ma sembrava davvero delusione quella che manifestavano i rossi occhi del Re. Ma deluso per cosa?
"Togliti la giacca, devi riuscire a muoverti liberamente" mormorò Bakugo, deviando la sua attenzione altrove.
Kirishima ubbidì subito, desideroso di cacciare quella sgradevole tensione tra loro.
"Per prima cosa vediamo come stai messo in difesa" spiegò il biondo, mettendosi in posizione di attacco "Cercherò di colpirti, tu cerca di impedirmelo"
Kirishima cercò di mettersi in posizione, una posizione terribile con un sacco di falle, Bakugo era certo che l'avrebbe colpito, ma appena il pugno volò nella sua direzione, l'altro lo bloccò con uno scatto repentino della mano.
"Come diavolo hai fatto?" esclamò Katsuki sorpreso.
"Non lo so...l'ho sentito, diciamo. Quando hai mosso il braccio io sapevo dove avrebbe colpito" rispose Eijiro con esitazione.
"Va bene, riproviamo" disse il Re, rimettendosi in posizione.
Questa volta tirò un calcio e anche questo fu anticipato e bloccato dall'altro, nonostante la sua pessima difesa.
"Che cosa senti esattamente?"
"Non saprei spiegartelo...io non so dove proverai a colpirmi, ma appena ti muovi il mio corpo reagisce, da solo"
"E' il tuo istinto" spiegò Bakugo, con tono sorpreso "tu non sai combattere ma il tuo istinto di drago a quanto pare sì"
"Quindi se riuscissi a trasformarmi nella mia forma completa saprei combattere?"
"Forse...andiamo in biblioteca, se riusciamo a trovare qualche testo sui draghi forse possiamo capire come addestrarti in modo efficace" propose Bakugo.
"Io non so niente di addestramenti e combattimenti, quindi mi fido del tuo giudizio" rispose Kiri con un sorriso affilato.
Con grande dispiacere dell'altro, Bakugo si rimise il mantello sulle spalle e si incamminarono dentro il castello, verso la biblioteca in cui Kirishima era già stato poche ore prima.
"Ti piace vivere qui?" chiese il Re di punto in bianco, senza guardarlo.
"Oh sì...lo adoro. Non ti ringrazierò mai abbastanza per avermi accolto. Questo è molto di più di quanto avessi mai potuto sperare" rispose Kirishima con dolcezza "spero che la mia presenza non ti sia d'impiccio"
"Ti sembro il tipo di persona che fa qualcosa per pura cortesia?" sbottò il Re infastidito, spalancando la porta della biblioteca "Se sei qui è perché io voglio che tu sia qui. Tu cerca da quella parte, io cerco da questa"
"Va bene" rispose il rosso, con un sorriso enorme.
La biblioteca era enorme, due piani di scaffali e libri. L'arredamento era di un bel legno scuro, lucido, e tutto aveva questo odore di inchiostro, carta e pelle lavorata che faceva sentire Kirishima rilassato. Gli piaceva come i passi sul pavimento di legno risuonavano nel silenzio e il fruscio della carta gli dava un grande senso di pace. Nella sua prigionia non aveva mai avuto dei libri, ma una delle sue compagne gli raccontava delle storie avventurose che aveva letto da bambina nella libreria dei genitori. Gli piaceva immergersi in quei mondi di favole per sfuggire al dolore e alla solitudine della sua cella. Gli venne da sorridere al pensiero che ora che aveva a disposizione tutti i libri che avesse mai potuto desiderare, non gli servivano perché la sua vita stessa era diventata una di quelle favole. Anche se, quando sognava nella sua gabbia, immaginava di essere il bellissimo principe che salva la principessa dai mostri, mentre nella realtà era stato lui ad essere salvato da un affascinante Re.
Se sei qui è perché voglio che tu sia qui. Quelle parole continuavano a ripetersi come un mantra nella sua testa, facendolo sorridere come un idiota per tutto il tempo.
"Che cazzo hai da sorridere in quel modo?" sbraitò Bakugo, quando si incrociarono a metà di un lungo scaffale.
"Niente...sono solo felice" mentì.
Aveva capito che se avesse fatto notare a Bakugo la dolcezza di quello che aveva detto poco prima, il biondo se lo sarebbe rimangiato e non voleva davvero che accadesse. Voleva conservare quella confessione come una rara gemma.
"Hai trovato qualcosa?" gli chiese, per cambiare argomento.
Il Re annuì, mostrando i due libri che stava portando con se.
"Anche io ne ho trovati un paio"
"Qui non c'è altro. Iniziamo a leggere questi e poi vediamo" disse il Re, facendogli cenno di seguirlo.
"Va bene. Dove andiamo?"
"In un posto speciale" rispose Bakugo, con un sorriso astuto.
A pochissima distanza dalla biblioteca, nascosta in un corridoietto laterale, c'era una porta che Kirishima ancora non aveva notato, con un pezzo di pergamena inchiodato sopra che diceva: disturbare solo in caso di emergenza.
Appena la porta fu aperta, Eijiro rimase incantato.
La stanza era piccola rispetto alle altre che aveva visto nel palazzo, appena sufficiente per ospitare un piccolo gruppo di persone. Al centro della parete c'era un camino e davanti ad esso un morbido tappeto. Sul tappeto erano stati sistemati due divanetti e una poltrona, rivestiti di soffici cuscini di velluto verde. Tra i divani e la poltrona erano posizionati due piccoli tavolini rotondi, completamente vuoti, e in un angolo della stanza c'era un carrello su cui erano posati bicchieri e bottiglie di vetro piene di liquidi in varie tonalità dell'ambra, un servizio di porcellane e un'elegante vaso di vetro pieno di biscotti.
Sopra al camino, era appeso un quadro che raffigurava una donna assolutamente identica a Bakugo, perfino nello sguardo altezzoso, un uomo dai capelli scuri e dall'espressione dolce e un ragazzino in piedi tra di loro. Non serviva un genio per capire che erano Bakugo e i suoi genitori.
"Che posto è questo?" chiese Eijiro.
"Il salotto di famiglia" rispose il Re, accucciandosi davanti al camino "Ne abbiamo un altro più grande per quando abbiamo ospiti, dove si serve da bere e si gioca a carte, ma io preferisco questo"
Con attenzione, Kirishima si accomodò su uno dei divani, rimanendo sorpreso dalla morbidezza del tessuto, ma uno scoppio lo fece sussultare.
Guardò preoccupato verso Bakugo, che lo guardava a sua volta con un sogghigno, e capì che aveva scatenato una piccola esplosione per accendere il fuoco nel camino.
"Pestifero" brontolò Kirishima mostrandogli la lingua.
Il Re ridacchiò di gusto al gesto e quella dolce sensazione di euforia tornò a riempire il petto di Eijiro. Gli piacevano sempre di più questi momenti intimi con il Re, quando cadeva la maschera del sovrano schietto e cinico e usciva allo scoperto il gentile, divertente e spensierato Bakugo.
Una volta che il fuoco iniziò a scoppiettare nel camino, il Re si alzò e andò verso il carrello.
Kirishima sentì i vetri tintinnare e poco dopo un bicchiere di liquido ambrato fu posto nella sua mano.
"Che cos'è?"
"Assaggia e lo scoprirai" rispose il Re, accomodandosi su divano di fronte.
Con esitazione, Kirishima annusò la bevanda. Aveva un odore dolciastro e speziato.
Ne prese un piccolo sorso e appena lo inghiottì un'inaspettato bruciore gli bloccò il respiro. Sotto lo sguardo divertito di Bakugo, iniziò a tossire.
"Ma che...che diavolo mi hai dato?" piagnucolò.
"Cazzo che femminuccia" rise il Re "E liquore, non veleno"
A dimostrazione di ciò, prese un generoso sorso dal suo bicchiere e lo mandò giù senza fare una piega.
Kirishima, che non voleva essere da meno, provò a prenderne un altro sorso, questa volta sapendo cosa aspettarsi, e scoprì che, una volta abituato al bruciore, il gusto gli piaceva. Dopo aver vuotato il bicchiere, si rese conto che anche la sensazione di calore e annebbiamento gli piaceva. Si sentiva caldo e felice.
"Posso averne ancora? E' buono...mi ricorda te" esclamò all'improvviso.
Bakugo, che intanto aveva iniziato a leggere, lo guardò con un sopracciglio inarcato.
"In che senso ti ricorda me? E no, non puoi averne ancora. Non mi serve un drago ubriaco"
"Il sapore...ha un sapore dolce e speziato e tu hai un'odore dolce e speziato...mi piace il tuo odore...sa di casa, di famiglia...e mi fa sentire lo stomaco strano...ma uno strano buono. E il liquore brucia, come te quando fai esplodere le cose" rispose il ragazzo, cercando di spiegarsi senza inciampare sulle parole.
Il volto di Bakugo passò in un istante dallo sconcerto al totale imbarazzo. Il suo intero viso si accese di un rosso brillante.
"Capelli di merda! Non puoi semplicemente...oddio...sei già ubriaco, vero?" ribatté il Re, iniziando improvvisamente a ridere "sei davvero una femminuccia"
"Ehi...non sono una femminuccia...sono un possente drago!" ribatté l'altro seccato, cercando di spostarsi verso di lui.
Le sue gambe collaborarono per il primo metro, ma a pochi passi dal divano cedettero, facendolo cadere.
"Attento idiota!" esclamò il Re, che non riusciva a trattenere le risate, afferrandolo al volo per i fianchi.
Il gesto impedì al ragazzo di finire a terra, ma gli fece comunque perdere l'equilibrio facendolo cadere addosso a Bakugo.
"Scusa" mormorò il affranto.
"Non importa" disse il Re divertito, aiutandolo a stendersi sul divano.
Il divanetto era per due persone e per quanto Kirishima non fosse enorme, non era nemmeno piccolo, quindi Bakugo gli fece posare la testa sulla sua coscia.
Con l'alcool nelle vene e il familiare odore di Bakugo nel naso, Eijiro impiegò pochi secondi a scivolare in un sonno profondo.
Quando il Re udì il respiro del drago farsi lento e regolare capì che doveva essersi addormentato e tornò silenziosamente alla sua lettura.
E se nel frattempo le sue dita scivolarono pigramente tra le ciocche cremisi, suscitando morbide fusa dal ragazzo addormentato, il segreto rimase custodito all'interno di quelle quattro mura.
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PAIRING: BAKUGO X KIRISHIMA    RATING: +18    GENERE: Fantasy AU
P.O.V. KIRISHIMA
Alla vista del biondo che si avvicinava, con quello sguardo astuto e dominante, una sensazione sgradevole iniziò a fiorire nel petto di Kirishima, seguita dal basso ringhio infastidito che lasciò le sue labbra.
Bakugo si bloccò, udendo il suono, e il suo sguardo si fece sorpreso e poi...deluso? Kirishima non ne era certo, ma sembrava davvero delusione quella che manifestavano i rossi occhi del Re. Ma deluso per cosa?
"Togliti la giacca, devi riuscire a muoverti liberamente" mormorò Bakugo, deviando la sua attenzione altrove.
Kirishima ubbidì subito, desideroso di cacciare quella sgradevole tensione tra loro.
"Per prima cosa vediamo come stai messo in difesa" spiegò il biondo, mettendosi in posizione di attacco "Cercherò di colpirti, tu cerca di impedirmelo"
Kirishima cercò di mettersi in posizione, una posizione terribile con un sacco di falle, Bakugo era certo che l'avrebbe colpito, ma appena il pugno volò nella sua direzione, l'altro lo bloccò con uno scatto repentino della mano.
"Come diavolo hai fatto?" esclamò Katsuki sorpreso.
"Non lo so...l'ho sentito, diciamo. Quando hai mosso il braccio io sapevo dove avrebbe colpito" rispose Eijiro con esitazione.
"Va bene, riproviamo" disse il Re, rimettendosi in posizione.
Questa volta tirò un calcio e anche questo fu anticipato e bloccato dall'altro, nonostante la sua pessima difesa.
"Che cosa senti esattamente?"
"Non saprei spiegartelo...io non so dove proverai a colpirmi, ma appena ti muovi il mio corpo reagisce, da solo"
"E' il tuo istinto" spiegò Bakugo, con tono sorpreso "tu non sai combattere ma il tuo istinto di drago a quanto pare sì"
"Quindi se riuscissi a trasformarmi nella mia forma completa saprei combattere?"
"Forse...andiamo in biblioteca, se riusciamo a trovare qualche testo sui draghi forse possiamo capire come addestrarti in modo efficace" propose Bakugo.
"Io non so niente di addestramenti e combattimenti, quindi mi fido del tuo giudizio" rispose Kiri con un sorriso affilato.
Con grande dispiacere dell'altro, Bakugo si rimise il mantello sulle spalle e si incamminarono dentro il castello, verso la biblioteca in cui Kirishima era già stato poche ore prima.
"Ti piace vivere qui?" chiese il Re di punto in bianco, senza guardarlo.
"Oh sì...lo adoro. Non ti ringrazierò mai abbastanza per avermi accolto. Questo è molto di più di quanto avessi mai potuto sperare" rispose Kirishima con dolcezza "spero che la mia presenza non ti sia d'impiccio"
"Ti sembro il tipo di persona che fa qualcosa per pura cortesia?" sbottò il Re infastidito, spalancando la porta della biblioteca "Se sei qui è perché io voglio che tu sia qui. Tu cerca da quella parte, io cerco da questa"
"Va bene" rispose il rosso, con un sorriso enorme.
La biblioteca era enorme, due piani di scaffali e libri. L'arredamento era di un bel legno scuro, lucido, e tutto aveva questo odore di inchiostro, carta e pelle lavorata che faceva sentire Kirishima rilassato. Gli piaceva come i passi sul pavimento di legno risuonavano nel silenzio e il fruscio della carta gli dava un grande senso di pace. Nella sua prigionia non aveva mai avuto dei libri, ma una delle sue compagne gli raccontava delle storie avventurose che aveva letto da bambina nella libreria dei genitori. Gli piaceva immergersi in quei mondi di favole per sfuggire al dolore e alla solitudine della sua cella. Gli venne da sorridere al pensiero che ora che aveva a disposizione tutti i libri che avesse mai potuto desiderare, non gli servivano perché la sua vita stessa era diventata una di quelle favole. Anche se, quando sognava nella sua gabbia, immaginava di essere il bellissimo principe che salva la principessa dai mostri, mentre nella realtà era stato lui ad essere salvato da un affascinante Re.
Se sei qui è perché voglio che tu sia qui. Quelle parole continuavano a ripetersi come un mantra nella sua testa, facendolo sorridere come un idiota per tutto il tempo.
"Che cazzo hai da sorridere in quel modo?" sbraitò Bakugo, quando si incrociarono a metà di un lungo scaffale.
"Niente...sono solo felice" mentì.
Aveva capito che se avesse fatto notare a Bakugo la dolcezza di quello che aveva detto poco prima, il biondo se lo sarebbe rimangiato e non voleva davvero che accadesse. Voleva conservare quella confessione come una rara gemma.
"Hai trovato qualcosa?" gli chiese, per cambiare argomento.
Il Re annuì, mostrando i due libri che stava portando con se.
"Anche io ne ho trovati un paio"
"Qui non c'è altro. Iniziamo a leggere questi e poi vediamo" disse il Re, facendogli cenno di seguirlo.
"Va bene. Dove andiamo?"
"In un posto speciale" rispose Bakugo, con un sorriso astuto.
A pochissima distanza dalla biblioteca, nascosta in un corridoietto laterale, c'era una porta che Kirishima ancora non aveva notato, con un pezzo di pergamena inchiodato sopra che diceva: disturbare solo in caso di emergenza.
Appena la porta fu aperta, Eijiro rimase incantato.
La stanza era piccola rispetto alle altre che aveva visto nel palazzo, appena sufficiente per ospitare un piccolo gruppo di persone. Al centro della parete c'era un camino e davanti ad esso un morbido tappeto. Sul tappeto erano stati sistemati due divanetti e una poltrona, rivestiti di soffici cuscini di velluto verde. Tra i divani e la poltrona erano posizionati due piccoli tavolini rotondi, completamente vuoti, e in un angolo della stanza c'era un carrello su cui erano posati bicchieri e bottiglie di vetro piene di liquidi in varie tonalità dell'ambra, un servizio di porcellane e un'elegante vaso di vetro pieno di biscotti.
Sopra al camino, era appeso un quadro che raffigurava una donna assolutamente identica a Bakugo, perfino nello sguardo altezzoso, un uomo dai capelli scuri e dall'espressione dolce e un ragazzino in piedi tra di loro. Non serviva un genio per capire che erano Bakugo e i suoi genitori.
"Che posto è questo?" chiese Eijiro.
"Il salotto di famiglia" rispose il Re, accucciandosi davanti al camino "Ne abbiamo un altro più grande per quando abbiamo ospiti, dove si serve da bere e si gioca a carte, ma io preferisco questo"
Con attenzione, Kirishima si accomodò su uno dei divani, rimanendo sorpreso dalla morbidezza del tessuto, ma uno scoppio lo fece sussultare.
Guardò preoccupato verso Bakugo, che lo guardava a sua volta con un sogghigno, e capì che aveva scatenato una piccola esplosione per accendere il fuoco nel camino.
"Pestifero" brontolò Kirishima mostrandogli la lingua.
Il Re ridacchiò di gusto al gesto e quella dolce sensazione di euforia tornò a riempire il petto di Eijiro. Gli piacevano sempre di più questi momenti intimi con il Re, quando cadeva la maschera del sovrano schietto e cinico e usciva allo scoperto il gentile, divertente e spensierato Bakugo.
Una volta che il fuoco iniziò a scoppiettare nel camino, il Re si alzò e andò verso il carrello.
Kirishima sentì i vetri tintinnare e poco dopo un bicchiere di liquido ambrato fu posto nella sua mano.
"Che cos'è?"
"Assaggia e lo scoprirai" rispose il Re, accomodandosi su divano di fronte.
Con esitazione, Kirishima annusò la bevanda. Aveva un odore dolciastro e speziato.
Ne prese un piccolo sorso e appena lo inghiottì un'inaspettato bruciore gli bloccò il respiro. Sotto lo sguardo divertito di Bakugo, iniziò a tossire.
"Ma che...che diavolo mi hai dato?" piagnucolò.
"Cazzo che femminuccia" rise il Re "E liquore, non veleno"
A dimostrazione di ciò, prese un generoso sorso dal suo bicchiere e lo mandò giù senza fare una piega.
Kirishima, che non voleva essere da meno, provò a prenderne un altro sorso, questa volta sapendo cosa aspettarsi, e scoprì che, una volta abituato al bruciore, il gusto gli piaceva. Dopo aver vuotato il bicchiere, si rese conto che anche la sensazione di calore e annebbiamento gli piaceva. Si sentiva caldo e felice.
"Posso averne ancora? E' buono...mi ricorda te" esclamò all'improvviso.
Bakugo, che intanto aveva iniziato a leggere, lo guardò con un sopracciglio inarcato.
"In che senso ti ricorda me? E no, non puoi averne ancora. Non mi serve un drago ubriaco"
"Il sapore...ha un sapore dolce e speziato e tu hai un'odore dolce e speziato...mi piace il tuo odore...sa di casa, di famiglia...e mi fa sentire lo stomaco strano...ma uno strano buono. E il liquore brucia, come te quando fai esplodere le cose" rispose il ragazzo, cercando di spiegarsi senza inciampare sulle parole.
Il volto di Bakugo passò in un istante dallo sconcerto al totale imbarazzo. Il suo intero viso si accese di un rosso brillante.
"Capelli di merda! Non puoi semplicemente...oddio...sei già ubriaco, vero?" ribatté il Re, iniziando improvvisamente a ridere "sei davvero una femminuccia"
"Ehi...non sono una femminuccia...sono un possente drago!" ribatté l'altro seccato, cercando di spostarsi verso di lui.
Le sue gambe collaborarono per il primo metro, ma a pochi passi dal divano cedettero, facendolo cadere.
"Attento idiota!" esclamò il Re, che non riusciva a trattenere le risate, afferrandolo al volo per i fianchi.
Il gesto impedì al ragazzo di finire a terra, ma gli fece comunque perdere l'equilibrio facendolo cadere addosso a Bakugo.
"Scusa" mormorò il affranto.
"Non importa" disse il Re divertito, aiutandolo a stendersi sul divano.
Il divanetto era per due persone e per quanto Kirishima non fosse enorme, non era nemmeno piccolo, quindi Bakugo gli fece posare la testa sulla sua coscia.
Con l'alcool nelle vene e il familiare odore di Bakugo nel naso, Eijiro impiegò pochi secondi a scivolare in un sonno profondo.
Quando il Re udì il respiro del drago farsi lento e regolare capì che doveva essersi addormentato e tornò silenziosamente alla sua lettura.
E se nel frattempo le sue dita scivolarono pigramente tra le ciocche cremisi, suscitando morbide fusa dal ragazzo addormentato, il segreto rimase custodito all'interno di quelle quattro mura.
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marinamoscatoart · 5 years
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🔖 Un ‘Colosso’ gigante scolpito nel 16° secolo a Firenze che nasconde intere stanze al suo interno!!! 😍🚪✨ Avvolta all’interno di un parco appena a nord di Firenze 🏞️siede una gigantesca scultura del 16esimo secolo conosciuta come Colosso dell’Appennino 🌳🌲⛰️ Questo epico colosso, metà uomo e metà montagna, fu eretto alla fine del 1500 dal famoso scultore fiammingo Giambologna come simbolo delle aspre montagne appenniniche dell’Italia. Come un guardiano dello stagno di fronte a lui, questo dio della montagna si innalza 10,7 metri da terra nel parco di Villa Demidoff, quel che resta della villa medicea di Pratolino in Toscana 📌🗺️ La colossale figura, per un certo periodo di tempo, era posta al centro tra altre statue di bronzo, molte delle quali sono andate ormai perse o rubate. La struttura in mattoni e pietra massiccia ha resistito secoli nello stesso posto, riuscendo a mantenere la sua composizione figurativa per tutto questo tempo 💪 Ma la robusta statua cela un meraviglioso segreto – al suo interno nasconde numerose sale con diverse funzioni che permettono al colosso di prendere vita 💖 L’acqua 💧 che esce dalla sua mano sinistra proviene da un torrente sotterraneo, e si dice che lo spazio nella sua testa sia stato fatto per un camino che, una volta acceso, farebbe uscire il fumo dalle narici 😤 . . . #scultura #sculture #art #gianbologna #villademidoff #pratolino #toscana #gigante #firenze #firenzeart #lago #artista #scultore #segreto #torrente #colosso #😮 (presso Pratolino, Toscana, Italy) https://www.instagram.com/p/B2od54tnRkk/?igshid=3pko3j6o5h43
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nickmolise64 · 4 years
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SILENZIO
Titolo: SILENZIO
Sceneggiatura
Genere: Cortometraggio - Drammatico
Ambientazione: Citta'- Provincia
INEDITO
AUTORE: MAURO MONTEVERDI
                    SILENZIO
   1)Est/Giorno  STRADA CITTA'
 La giornata è uggiosa, promette pioggia. Un'uomo
posteggia l'auto, scende dall'automobile, e con passo lento si avvicina
al portone del palazzo.
                         UOMO
              Devo andare da mio Padre.
            E'quasi vent'anni che non ci incontriamo....
            Se penso alle cose successe in questo arco
            di tempo....i miei figli poi non hanno
            mai conosciuto il loro nonno...
            è calato il silenzio tra di noi, inesorabile
            devo assolutamente parlargli
            dirgli che anch'io sono padre.....
   2)Int/Giorno-  APPARTAMENTO
   Uomo di spalle con un soprabito scuro, in una mano tiene una
 valigia leggera, nell'altra tiene un'ombrello.
                         DONNA
           Allora sei sicuro di volere andare?
           Non sarebbe la prima volta che decidi...
           Troppe volte sei tornato indietro,
           ora hai capito che è arrivato il momento.
 L'Uomo bacia la donna e si allontana da lei. Si vede la donna vestita con
abiti casalinghi accennare ad un timido sorriso. Davanti alla porta di
casa l'uomo si volta verso di lei.(la stessa voce della narrazione)
                         UOMO
                  (poco convinto)
           Era ora. Non potevo più aspettare.
           Sai, ho prenotato proprio questa mattina
           quella locanda che ti dicevo...
                      DONNA
           Dispiace  che non ci sono i ragazzi....
           volevo almeno accompagnarti....
                       UOMO
           Ho prenotato per una notte sola,
           I biglietti sono qui, andata e ritorno,
           sarà più il tempo del viaggio che altro...
                         DONNA
           Allora vai, portaci i saluti anche dei ragazzi
           e fai buon viaggio. E vedrai, il tempo non
           peserà sui vostri ricordi.
                       UOMO
           Ciao, allora.
  3)Int./Giorno- SCOMPARTIMENTO TRENO
                         UOMO
                    (deciso)
           Prendere il treno è stata la scelta più saggia.
           E' il mezzo migliore per affrontare così            
           tanti chilometri e questo tempo....
           Molto meglio della macchina, e poi non puoi
           fermarti e tornare indietro....
           Tante volte mi ero deciso di fare questo
           viaggio, un viaggio che non sono mai
           riuscito a fare, ma le distanze sono altre,
           e spesso sono dentro di noi e ci impediscono
           di agire nel modo più giusto e soprattutto
           più semplice. E' arrvato il momento di superare
           tutto.
 Dal finestrino si vedono scorrere le immagini di un mare
incredibilmente calmo e grigio, schizzi d'acqua violenti
sul finestrino, malinconici ulivi, desolati arbusti di
ficho d'india, agrumeti. la Sicilia scorreva lentamente
davanti ai suoi occhi. La mente ancora piena di perchè.
E' notte, nello scompartmento c'è un'altro uomo che dorme ormai da
parecchie ore, il treno e mezzo vuoto, metà novembre non parte
quasi nessuno soprattutto per viaggi lunghi. Luci scorrono ora
velocemente, in calabria di notte si recupera il tempo perduto
in sicilia con le continue fermate. Ma il tempo è passato
inesorabile velocemente sulle loro vite.Il sonno ghermisce
finalmente l'uomo. Al risveglio è solo nello scompartimento,
uno scatto ed è seduto. Vede scorrere macchie boscose sulle
colline, non più mare, ma prati verdi e macchie gialle, distese
di ulivi, pioppi, scorre vicino un fiume, ponti, piccoli paesi.
Siamo già in Umbria. Non manca molto al paese.
  4) EST/giorno- STAZIONE DEL PAESE.
   Piccola stazione di paese. L'uomo scende dal treno, il treno
 alle sue spalle riparte. S'incammina verso l'uscita.
  5) EST/Giorno- STRADE DEL PAESE.
                      UOMO
            Eccomi qua. E con me tutti i ricordi a farmi
            compagnia. La mia paura di affrontarli,
            tenerli dentro ben chiusi a chiave.
            Tutto questo silenzio, quasi mi vergogno.
            ma adesso sono qui per mettere ogni cosa al
            loro posto.
 L'uomo si incammina per le strade del paese. Arriva nell'antica piazza
quasi deserta. Tiene in mano ancora l'ombrello, ma non piove quasi più.
Osserva le case di pietra, e i pochi negozi. Chiude l'ombrello.
Le ultime sparute goccioline d'acqua, cadendo, rimbalzano sui ciottoli
dell'antica piazza come piccole monetine argentee. In una stretta stradina
secondaria vede la vecchia bottega del barbiere dove andava suo padre.
 6) EST/Giorno - NEGOZIO DEL BARBIERE.
   L'uomo si ferma davanti alla vetrina del
 negozio. Seduto sulla sedia dei clienti
 vi è un'uomo, con camice bianco, folti
 capelli bianchi, che legge il giornale.
                         UOMO
            IL Barbiere di mio padre....
            tagliava i capelli anche a me quando
            ero bambino.... da quella sedia volevo
            sempre scappare.
L'uomo si volta, guarda la strada di fronte a se in leggero declivio.
                       UOMO
            Abitavamo laggiù in fondo, nella piana,
            dove gli ulivi declinano sul lago.
            Tutti insieme nella grande casa. Il tempo
            non ha cambiato nulla, ed io non ho dimenti-
            cato lui, lo deve sapere, che il mio amore
            non è svanito nel tempo.
 L'uomo cambia poi direzione e si avvia lungo la stradina
e di fronte a lui scorge l'insegna della locanda.
  7) Int/Giorno - STANZA DELLA LOCANDA.
 L'uomo osserva l'arredamento semplice e spartano della stanza.
Si spoglia si fà una doccia, e si veste elegantemente.
Esce convinto di andare a trovare suo padre. Si incammina lungo
la strada, si vede passare un pulmann, l'uomo lo prende.
Il pulmann nel suo giro passa dalla casa del padre, ma lui
non scende.Viene assalito da un forte stato d'ansia.
 8) Int/giorno (FALSHBACK) (TRATTATIVA DI VENDITA DELLA CASA)
               Il ricordo di una convulsa mattinata,
             tutti i parenti riuniti attorno al tavolo
             con l'unica decisione da prendere ed al
             più presto.Il tempo delle firme, e tutto
             era svanito. Sacrifici di suo padre          
             compresi.I sensi di colpa riaffiorarono
             con tutta la loro forza.
  Arriva al capolinea, al lungolago. L'uomo scende e si incammina
sul pontile. L'aria è pungente, si alza il bavero del soprabito,
e si appoggia sulla ringhiera del pontile ad osservare il malinconico
sciabordio del lago sulle barche dei pescatori. Addesso è più calmo.
E' ora di pranzo. L'uomo entra in una trattoria, rimane
nel luogo. Quando esce dalla trattoria sono le prime ore di un
pomeriggio sempre più uggioso. L'uomo si incammina di nuovo nel
pontile malgrado cadono alcune gocce d'acqua.
  9)Int./Giorno - BAR  
 L'uomo entra in un bar per bere un
 caffè, e lo si vede chiacchierare con la
 vecchia proprietaria del bar.
  Esce dal bar, palesemente più sollevato, le parole
scambiate con la vecchia proprietaria gli hanno fatto bene.
E si incammina verso la fermata dei pulmann.
Nella lunga attesa osserva la campagna intatta come allora,
la vecchia ferrovia con il casello ormai abbandonato, la stradina
sterrata che fungeva da scorciatoia per arrivare prima al lago
con la bicicletta. Tutto intatto. Eccezioni che solo la provincia
sa regalare.
 10) Est/Giorno- STRADA
   Scende dal Pulmann, lo si vede sino a quando non gira l'angolo
 per la strada che porta alla casa del padre.
  11)Est/Giorno - CASA DEL PADRE
 L'uomo è davanti ad una porta. Gira una vecchia chiave arrugginita
nella grossa serratura, di quelle che si usavano una volta.
                       UOMO
                 Sono qui ancora non ci credo,
               ci sono riuscito...finalmente."
  l'uomo entra lentamente all'interno.
  12) INT/Giorno- CASA DEL PADRE
 La stanza è illuminata da una luce tenue, bruna.
La cucina grande, con delle poltroncine di fronte a sè
ed un tavolino. All'angolo l'antico camino.
Mobilio semplice spartano, sistemato con estrema cura.
                         UOMO
                Probabilmente starà dormendo.
                E' quasi sera, si va a letto presto
                quando si è soli ed anziani. Potrei
                incontrarlo tranquillamente domani,
                con calma.
  L'Uomo gira per la stanza, dà le spalle alla porta d'ingresso.
D'improvviso una luce intensa illumina la stanza l'uomo si volta,
e nel bagliore appare una sagoma. I due uomini si scrutano in silenzio.
                         PADRE
                Figliolo?
                       UOMO
                Sono io papà.
 I due uomini si abbracciano emozionati.
Si vede l'anziano Padre con pochi capelli bianchi, di robusta
corporatura, arzillo ed in buona salute.
Lo invita con un gesto a sedersi in una delle poltrone.
L'Uomo osserva la stanza all'impiedi prima di sedersi.
Il padre nota lo sguardo vorticante del figlio e ne rimane entusiasta.
                         UOMO
               Non è cambiato nulla....
               Come và papà, sono venuto per parlare
               un pò con te.
                        PADRE
               Sono vecchio e solo... ma in fondo
               sto bene. Certo è parecchio che non
               ci si vede.
                         UOMO
              Vent'anni.... e me ne vergogno tanto.
               (raccoglie per un'attimo le idee)
               Sai ora sono sposato ho tre figli,
               i tuoi nipoti.
                        PADRE
               Tutto questo è meraviglioso, vorrei tanto
               conoscere tua moglie e i tuoi figli... ma
               lo sai....
               Non posso andare via da qui. Ci sono
               nato. Sono così felice nel rivederti.
                         UOMO
               Anch'io papà. Ho perso troppo tempo nel
               decidermi a venire. Sembrava così
               difficile, tutti questi anni, invece sono
               qui, e mi mordo le dita per non averlo
               fatto prima.
                      PADRE
               Non rimpiangere il tempo passato, sei
               ancora molto giovane, ed hai tutto il
               tempo che vorrai, sfruttalo, e goditi
               il tuo tempo, in ogni senso, e lascia
               stare il passato dov'è, e lì che deve
               stare. Ho rispettato le tue scelte
               e dei tuoi fratelli. Le cose dovevano andare
               come sono andate.
  Il padre si alza dalla poltrona e raggiunge un mobile
vicino alla parete. Prende una bottiglia d vino, e
due bicchieri. Con molta calma versa il liquido rossastro
nei bicchieri. Il figlio osserva in silenzio e con ammirazione
quei gesti semplici e familiari, e lo solleva da ogni
pensiero negativo che aveva accompagnato il suo viaggio.
  Attraverso l'acquea ondulazione del liquido rossastro,
sfocatamente s'intravede una fotografia in bianco e nero
Sono ritratti un'uomo e un bambino che si abbracciano felici.
La fotografia diventa sempre più nitida e si muove. Il padre
la tiene in mano e la mostra al figlio dentro la sua cornice,
e la ripone. Nello stesso momento l'uomo ricorda le parole
della moglie che prima di partire le disse:
"Vedrai, il tempo non peserà sui vostri ricordi".
                        PADRE
                Io sono fiero di te e dei tuoi fratelli.
                anche se non conosco le vostre vite sono
                sicuro che non mi avete dimenticato.
 Il figlio prende il bicchiere di vino in mano.
                         UOMO
                E'vero! non ti abbiamo mai dimenticato...
                volevamo soltanto cercare di.....
               (ma non sa come finire la frase).
                      PADRE
                Lascia correre... Brindiamo alle Radici.
                Alla parte migliore di noi. I nostri ricordi.
                       UOMO
                Alle radici. Alla parte migliore di noi.
  E nella luce calda e conciliante del loro legame, padre e figlio
continuano la loro conversazione, mentre la scena sfuma
allontandosi verso l'alto.
  13)Est. STRADE DEL PAESE
 Piazza del paese. Ha smesso di piovere.I ciottoli sono ancora
bagnati dalla pioggia. l'Uomo è al centro della Piazza con
la valigia in mano, guarda compiaciuto tutto intorno a sè.
Ha l'aria rilassata e serena. Poca gente anima la piazza.
C'è qualcuno che lo osserva attentamente, dietro una finestra,
dall'altra parte della piazza senza accorgesene, cercando
di riconoscerlo. Poi, si volta ed imbocca una stradina.
 14) Est/  CASA DEL PADRE
 L'Uomo è davanti ad una porta chiusa, simile alla casa
del Padre. Appoggia la valigia a terra, estrae dal soprabito
una grossa chiave di ferro. La porta dopo qualche difficoltà,
infine si apre. Si tratta della stessa porta.
L'Uomo entra nella stanza.
 15) INT/Giorno- CAPPELLA
 La stanza è illuminata fiocamente da una lampadina sporca
di polvere appesa ad un filo che scende dal soffitto.
L'Uomo si avvicna alla lapide che rivela il nome del padre
la sua data di nascita e della sua morte (non ha vissuto
per molti anni). Si china nel baciare la foto. Un preghiera
informale, fissa la tomba del padre, gli occhi lucidi nel
ricordo di quel tempo, emozioni che non riesce a trattenere.
                         UOMO
               Ciao Papà. Alla fine sono venuto....
               ce ne è voluto di tempo e me ne vergogno
               ma tu mi senti anche se.....
 L'uomo è seduto su uno sgabello, la testa china sulla tomba del padre
parla con esso, ed ogni tanto scuote le spalle.
  16) EST/Giorno - CIMITERO
 Fuori dalla cappella di famiglia giacciono l'ombrello e la valigia.
Fuori ci sono altre tombe, altre lapidi, altre cellette.
Il cimitero è piccolo e ben curato. Una vecchietta con in testa un
fazzoletto nero, è ricurva in una piccola lapide nel prato,
tiene in mano un mazzo di fiori e con l'altra tiene l'ombrello.
Ha ricomnciato a piovere.Il verde intenso delle colline che
circondano il picolo cimitero si specchia a valle sul grande
lago grigio.
 Fine.
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pangeanews · 5 years
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A 100 anni dalla nascita, Primo Levi in Nuova Zelanda! In questa storia ci sono: una manciata di poesie, un dente di Iguanodonte, l’autografo di Byron, un libro stupefacente scoperto in una bottega di Torino
Come si sa, Primo Levi è morto il 31 luglio di un secolo fa. L’omaggio più alto e curioso a marcare il centenario viene dalla Nuova Zelanda ed è una traduzione, in stampa limitata, delle poesie di Primo Levi. A compiere la traduzione, un poeta americano, Harry Thomas, e un grande studioso e traduttore italiano, Marco Sonzogni – esegeta massimo di Seamus Heaney, speleologo nell’opera di Montale – che insegna e vive a Wellington. Il libro si intitola The Occasional Demon e – al di là dell’autore a cui è applicato e alle ragioni che lo reggono – pare il sunto del dire poetico. La poesia è un demone, cioè qualcosa di anarchico, improvviso, inavvicinabile (che si può rifiutare, per paura d’ingombro); ed è occasionale, perché non ha meridiane né cronologie, non la contieni né la tieni. La poesia è un assalto.
*
Dietro all’occasione – il centenario di Levi – in questo caso il destino ha disseminato una storia. La storia ha un nome. Gideon Algernon Mantell (1790-1852). Medico inglese, costui, leggo sulla Treccani, “si dedicò anche alla geologia, raccogliendo un’importante collezione di fossili”. In particolare, si deve a lui “la scoperta dell’Iguanodonte”. Cosa c’entra l’Iguanodonte con Primo Levi? Eccoci. In calce al delizioso librino neozelandese ci vien detto che “Primo Levi ha imparato da sé l’inglese – traducendosi un libro. Nel 1924, quando aveva 15 anni, suo padre, Cesare, ‘un habitué accanito di tutte le botteghe di libri usati in via Cernaia’, a Torino, portò a casa un ‘volume sottile, elegantemente legato’”. Si trattava di Thoughts on Animalcules or, a glimpse of the Invisible World revealed by the microscope, del fatidico Gideon Algernon Mantell, stampato a Londra nel 1846. Il libro, ricco di illustrazioni “abbaglianti”, attrasse il ragazzino che si comprò un dizionario e così, parola per parole, prese a masticare l’inglese.
*
Ma cosa c’entrano il geologo inglese, l’Iguanodonte e Primo Levi con la Nuova Zelanda? C’entrano perché il figlio di Gideon, Walter Baldock Durrant Mantell (1820-1895) “emigrò in Nuova Zelanda a bordo dell’Oriental, che salpò da Londra il 15 settembre 1839, arrivando a Port Nicholson il 31 gennaio 1840”. Alla morte del padre, Walter recepì i suoi documenti, compresi un dente di iguanodonte, una collezione di fossili, il Child Harold autografato da Byron. E una copia del Thoughs on Animalcules tanto amata da Levi.
*
Così il cerchio del Levi neozelandese si chiude. La poesia di Levi, invece, si inaugura con le sue parole, anno di grazia 1984. “In tutte le civiltà, anche in quelle ancora senza scrittura, molti, illustri e oscuri, provano il bisogno di esprimersi in versi, e vi soggiacciono: secernono quindi materia poetica, indirizzata a se stessi, al loro prossimo o all’universo, robusta o esangue, eterna o effimera. La poesia è nata certamente prima della prosa. Chi non ha mai scritto versi? Uomo sono. Anch’io, ad intervalli irregolari, ‘ad ora incerta’, ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico. In alcuni momenti, la poesia mi è sembrata più idonea della prosa per trasmettere un’idea o un’immagine. Non so dire perché, e non me ne sono mai preoccupato: conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti. Posso solo assicurare l’eventuale lettore che in rari istanti (in media, non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale”.
***
Per gentile concessione si pubblica una scelta di poesie da: Primo Levi, “The Occasional Demon”, The Cuba Press, 2019
Nel principio
Fratelli umani a cui è lungo un anno, Un secolo un venerando traguardo, Affaticati per il vostro pane, Stanchi, iracondi, illusi, malati, persi; Udite, e vi sia consolazione e scherno: Venti miliardi d’anni prima d’ora, Splendido, librato nello spazio e nel tempo, Era un globo di fiamma, solitario, eterno, Nostro padre comune e nostro carnefice, Ed esplose, ed ogni mutamento prese inizio. Ancora, di quest’una catastrofe rovescia L’eco tenue risuona dagli ultimi confini. Da quell’unico spasimo tutto è nato: Lo stesso abisso che ci avvolge e ci sfida, Lo stesso tempo che ci partorisce e travolge, Ogni cosa che ognuno ha pensato, Gli occhi di ogni donna che abbiamo amato, E mille e mille soli, e questa Mano che scrive.
13 agosto 1970
*
In the Beginning
Brother humans, for whom a year is a long time, A century, a venerable achievement, Wearing yourself out for your bread, Irascible, deluded, sick and lost, Listen to me, and be comforted and scorned. Twenty billion years before we were, Splendid, hovering in space and time, There was a globe of flames, sole and eternal, Our common father and our executioner, And it exploded, and all mutation began. Even now the faint echo of this one catastrophe Reverberates to the outermost reaches. From that one spasm everything was born: The abyss that engulfs and challenges us, Time that gives us birth and overwhelms us, Everything that everyone has thought, The eyes of every woman we have loved, The thousands upon thousands of suns, And even this hand that is writing now.
13 August 1970
**
Approdo
Felice l’uomo che ha raggiunto il porto, Che lascia dietro sé mari e tempeste, I cui sogni sono morti o mai nati; E siede e beve all’osteria di Brema, Presso al camino, ed ha buona pace. Felice l’uomo come una fiamma spenta, Felice l’uomo come sabbia d’estuario, Che ha deposto il carico e si è tersa la fronte E riposa al margine del cammino. Non teme né spera né aspetta, Ma guarda fisso il sole che tramonta.
10 settembre 1964
*
Sundown
That man is happy who has reached port, Who leaves behind him seas and storms, Whose dreams are dead or won’t be born, And sits and drinks at an inn in Bremen Near the fireplace, and feels at peace. The man is happy like a spent flame. The man is happy like estuary sand. He has put down his load, wiped the sweat From his forehead, and rests on the roadside. Without fear or hope or expectation, He stares at the sun as it goes down.
10 September 1964
  L'articolo A 100 anni dalla nascita, Primo Levi in Nuova Zelanda! In questa storia ci sono: una manciata di poesie, un dente di Iguanodonte, l’autografo di Byron, un libro stupefacente scoperto in una bottega di Torino proviene da Pangea.
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