Tumgik
#pantaloni verde scuro
libriaco · 7 months
Text
C'è Tolstoj e Tolstoi
Cogli shorts nei paesi caldi o quando gioca a tennis, I'uomo elegante si permette delle calze corte, ma questi due casi sono l'eccezione che conferma la regola. In ogni altro caso solo "le calze lunghe sono abilitate a rivestire piede e polpaccio". Soprattutto il polpaccio. Quando un individuo si siede incrociando le gambe l'eleganza maschile tenta di far dimenticare l'essenziale, cioè che è un uomo in carne e ossa. E un uomo in carne e ossa s'appoggia su polpacci pelosi. Non però quella creatura irreale che è l'uomo elegante. La prova: al posto dei polpacci sotto ai pantaloni si scorgono motivi caviar, losanghe, riquadri, righe verticali, pied- de-poule, blu scuro, bordeaux, grigio antracite, verde intenso (no, non si vedranno né verde prato, né fragola, né motivi dalle dimensioni superiori di quelle del mignolino), in breve una gran quantità di roba molto più rassicurante della pelle umana percorsa da autentici vasi sanguigni. Si controllerà ancora una volta verificando che il colore e i motivi delle calze siano ben accordati alla giacca o alla cravatta, che siano oggetti perfettamente inerti e inoffensivi.
T. Tolstoi [De l'élégance masculine, 1987], Manuale di eleganza maschile, Milano, Sonzogno, 1988
9 notes · View notes
ilsalvagocce · 1 year
Text
essendo io di formato piccino e mia madre alta e grande io credo da quando nacque, tanto che non riesco a concepirla di spazio occupante meno d'un metro, non ci siamo mai scambiate vestiti io e lei — anche per età, generazione e magari gusti chissà, al massimo foulard che infatti quello suo di seta rossa e blu è il mio preferito, e unico che voglio.
quel che ho sempre desiderato però son state le sue scarpe, un paio in particolare, un numero 40 che già da bambina rimiravo con ardore
delle open toe verde mare intenso, incrociate sul davanti, non più d'otto cm di tacco, pelle morbida e intensa e vissuta mi pareva
le cerco tutt'ora in giro per il mondo, copie, sempre brutte copie, per il mio piedino di gatto
oggi ho recuperato un po' dei suoi vestiti che erano rimasti in una casa in irlanda dove una volta l'anno ultimamente andava per lavoro da amici lì residenti
non riesco ad aprirla
sta lì nell'angolo di entrata della mia casa
e non penso oh, i vestiti le maglie a righe i maglioni le camiciole di mia mamma grande, quello lo penso già del suo armadio a casa, che giace lì intatto glaciale di mughetto,
penso
se apro quella valigia io vorrò indossar tutto, tener tutto, appender alla gruccia i miei prossimi maglioni.
Vorrò trovar il modo per accorciare i bordi, ficcare l'abbondanza dentro i pantaloni, le maniche girarle centmillevolte fin alle spalle, il collo alto triple volte, i pantaloni magari li arrotolo per quando vado al mare
mi estraggo da lì, mi strappo dallo slancio travestimento, li lascio, immagino quel che sta dentro figuro me con addosso le righe di mamma con le interlinee diverse, e io che le rendo ancor più strette stropicciate senza tenderle col corpo grande, un quadernino di bambina
magari pure le scarpe verde mare scuro trovo lì dentro, mica è vero, dalla punta a goccia che così poco le ho visto indossare, sempre appoggiate lì, nella scatola preziosa dello scaffale, in attesa del momento perfetto, perché troppe, scarpe di regina, potere luminoso, sfrontate di bellezza di corpo slanciato, con cui camminare io sul ciglio del mondo che non vedo
14 notes · View notes
scontomio · 7 months
Text
Tumblr media
💣 G-STAR RAW Unisex Trainer RCT Donna, Verde scuro, 33 🤑 a soli 54,97€ ➡️ https://www.scontomio.com/coupon/g-star-raw-unisex-trainer-rct-donna-verde-scuro-33/?feed_id=211644&_unique_id=65d367aad6c8b&utm_source=Tumblr&utm_medium=social&utm_campaign=Poster&utm_term=G-STAR%20RAW%20Unisex%20Trainer%20RCT%20Donna%2C%20Verde%20scuro%2C%2033 G-STAR RAW Sneakers RCT Unisex, Verde scuro, 33. Vita media, tasche interne e posteriore con chiusura a scatto, polsini elasticizzati. Ginocchia sagomate e stampe grafiche. #coupon #gstarraw #pantaloni #offerteamazon #scontomio
0 notes
Text
13 MAGGIO 2023
Mi sono comprata dei vestiti nuovi, tra cui dei pantaloni cargo perfetti per la missione estiva ma che userò anche ogni giorno, una maglietta semplice bianca, un cappellino da baseball verde scuro e delle scarpe tipo mocassini beije che però dovrò andare a ritirare tra qualche giorno perché avevano finito il mio numero. Ho anche preso un’agendina A5 a quadretti da Tiger così non appena finisco il quadernetto rosso, dei tempi in cui i ragazzi di Just Eat li distribuivano nel campus tra una lezione e l’altra, passo a questa un po’ più professional.
Ho finalmente messo l’inchiostro nella penna stilografica nuova della Kaweco ed è fighissima, scorre troppo bene ed è dello spessore giusto. Avrei potuto scrivere pagine intere di nulla solo per usarla.
Dovrebbe essere finita la mia settimana seduta alla postazione di Margherita, sono contenta che si sia ripresa ma ora dovrò dire addio alla comodità e riprendermi quella sedia di plastica bianca proveniente direttamente dall’inferno (come faccio a stare più di 8 ore li sopra non lo so manco io). Ora dovrò anche essere la responsabile grafica della gara nuova e dovrò tornare ad usare il portatile, rip.
Mia madre ha appena finito di cucinare un dolce ciambellone-shaped ma che è composto di solo cacao e acqua (e rum) e non ho capito bene la ricetta ma a quanto pare è semplicissima e la cosa importante è che è davvero buono (mi segnerò la ricetta per poterlo fare a Mitilene dato che *rullo di tamburi* sono cambiate di nuovo le date e quindi io passerò il mio compleanno li) (quanto avrei voluto che ci fosse anche Daniele) (me ne farò una ragione, devo smetterla di alzarmi le aspettative quando poi so che sarò disappointed). Ora, dato che non ho ancora avuto notizie per il corso di preparazione all’esame di stato o riguardo l’esame stesso (una data vorrei sapere, non dove trovare il santo graal) adesso invece di studiare mi metto a vedere un film. Blue, 2002. Vediamo com’è. Ho anche riscaldato l’acqua. Devo solo smetterla di distrarmi e concentrarmi sul film.
Con mia sorella sto passando un periodo un po’ strano. Lei non vuole fare più il dottorato perché non le piace ciò che fa. Anzi, non adora ciò che fa. Abbiamo già litigato un paio di volte sulla questione e ieri, mentre ci vedevamo una puntata di Pechino Express, mi ha detto che dopo questa conferenza a cui ha già fatto perdere del tempo agli altri tra cui prof e altri ragazzi, vuole dire che molla tutto. Io spero per lei che prende una decisione una volta per tutte e la segua. Mi sta facendo solo innervosire come si sta comportando. Bho, vedremo.
Devo riprendere a scrivere qui più spesso altrimenti mi ritrovo con un post al mese, se tutto va bene, e pure chilometrico.
0 notes
Link
0 notes
Text
Carnevale
Il carnevale è la mia festa. Fra le maschere, la gente, anziché voltarsi dall'altra parte, mi osserva con curiosità, ma non quella malevola, che talvolta qualcuno mi riserva, bensì una curiosità ch'è genuina voglia di comprendere, e che diventa non di rado ammirazione per la bellezza di quella che crede essere la mia maschera. "E come avrà fatto, a farla così bella che sembra vera?"
Infatti sono io, sono vero. Ma quest'anno non ho a disposizione quella parte di me che rendeva così bella la mia maschera, e brutta la mia persona. Tuttavia, ho una gran voglia di vivere il carnevale, e di essere ammirato. Andrò nel futuro. Andrò da te. C'incontreremo davanti al grande portone di legno color miele scuro di un palazzo dal bugnato a diamante, non appena spiovuto.
Ti sto aspettando da poco e tu arrivi, emozionata da non aver parole. "Mia cara, dunque, vi piaccio? Vi confesso che, per quanto vi sappia clemente, specialmente oggi temo non poco il vostro giudizio".
"Sei...sei troppo per me! Sei...da far esplodere la testa!" Farfugli cercando di mettermi a fuoco, le mani tremanti, con il telefonino. Poi mi dici, mostrandomi la foto: "Guarda, sei pazzesco!" E allora mi guardo, come in uno specchio (che non ho mai posseduto): una figura piuttosto magra ed elegante, più che distinta, in uno spolverino lungo verde scuro, panciotto color bruno, camicia bianca e foulard di seta; pantaloni grigio chiaro, scarpe impunturate lucide; a completare il tutto, un cappello a cilindro di nappa nera e un bastone d'ebano con un pomello d'avorio, di gran pregio. "Posa quel telefonino," ti sussurro, mentre poggio il mio bastone a terra.
Tu lo ficchi di gran fretta nella borsa, ti avvicini a me, mi avvicino a te, ci abbracciamo a lungo, restiamo fermi, respirandoci, pensando a chi si scioglierà per primo da quell'abbraccio, attenti ai segnali d'insofferenza dell'altro; ma non ce ne sono; i piccoli movimenti reciprocamente percepiti sono solo quelli che rendono l'abbraccio più stretto e appassionato.
"Allora ti piace la mia maschera?" "Io non me l'aspettavo," dici. "Ti avevo detto che mi sarei vestito da ranocchio". "Sì, ma credevo quello dei Muppets". Non so di cosa parli, ma intravedo nella tua mente una buffa marionetta di feltro verde con una grande bocca. "Questo soprabito verde, fatto cucire da un grande sarto fiorentino, Dio sa quanto m'è costato; tutti mi dicono di buttarlo via perché liso, ma io l'ho fatto rivoltare e mi sembra sia come nuovo; ci sono affezionato, e non m'importa se per questo straccio verde mi chiamano "ranocchio"." "Mi piace il verde," dici. "Anche se, per i tuoi occhi, è più indicato l'azzurro." Ti distacchi dall'abbraccio per valutare meglio come stia il verde con i miei occhi. E ti perdi, sussurrando come a te stessa: "Meraviglioso..."
Poiché mi sembra che tu stia per svenire, ti prendo sottobraccio. Recupero il mio prezioso bastone e t'invito: "Signorina, mi concede questa passeggiata?"
0 notes
abearsrandomness · 2 years
Text
Romanticizzo gli oggetti e i simboli del passato e le cose che non vedo da tempo
Chi l'avrebbe mai detto che avrei voluto rimangiare la polenta?
Belli i vestiti delle barbie
Il letto che non da sul muro da un lato
I pantaloni del pigiama verde scuro con le amanite
La maglia verde da portiere della puma che ho comprato tanti anni fa e mettevo sempre a casa
I calzettoni con i procioni che mi ha regalato la mia amica quando siamo andate a Portsmouth
Le mie vecchie giacche
La tazza di pucca
La coperta grigia pelosina della dimostrazione di materassi
Il portachiavi di legno a forma di pappagallo
La scatola di lacci da scarpe
La vista dal terrazzino
Le persiane e dormire al buio e svegliarsi al buio
L'accappatoio nero e il bagno giallo
Lo scaldabagno dopo la doccia
Bruciarsi davanti alla stufa
Le ciabatte brutte
Qualche caffè con la moca
Il gingerino dalla nonna e prendere coraggio per ordinare il chinotto dopo aver verificato che sia nel menú
Gli spritz con le noccioline o le patatine
I panifici belli
I supermercati troppo grandi e gli scaffali molto piú alti
La televisione in italiano con i soliti programmi
0 notes
writtenmemxries · 3 years
Text
You don’t wanna talk about your feelings (I’ll be in the corner with the reasons)
4 volte in cui Manuel chiama Simone con un soprannome + 1 volta in cui lo fa Simone
Ispirata da questo prompt, ma mi sono spinta un po’ oltre perché non ho freni. Spero vi piaccia! :)
1.
“Ah cojone, guarda che m’hai fatto il pelo alla moto!”
Simone si toglie il casco con una lentezza snervante e fissa il ragazzo urlante davanti a sé dritto negli occhi, il mento leggermente alzato in una posa altezzosa che fa salire il sangue al cervello a quello sconosciuto dalla lingua lunga.
“Come m’hai chiamato?” chiede, la voce profonda, il tono di sfida.
“T’ho chiamato cojone perché è quello che sei,” risponde l’altro senza abbassare lo sguardo, gli occhi scuri che scintillano alla luce del sole, colorandosi di mille tonalità diverse di marrone a cui Simone non saprebbe neanche dare un nome.
Simone si avvicina e lo squadra, il casco sottobraccio e le sopracciglia corrugate, nella speranza di apparire il più minaccioso possibile. Apre la bocca per ribattere, si prepara a spintonarlo e passare oltre, ma il ragazzo scoppia a ridere spiazzandolo.
“C’hai proprio ‘na faccia da fesso, ma che vuoi fare conciato così?”
Indica i suoi vestiti con un gesto e si ficca le mani in tasca, continuando a scrutarlo con un sorrisetto fastidioso. Simone non può fare a meno di guardarsi, preso alla sprovvista. Il maglioncino verde scuro che ha comprato qualche giorno prima con sua madre, il colletto della camicia che gli circonda il collo e improvvisamente gli rende difficile deglutire, i pantaloni color cachi che, a detta di Laura, gli fasciano le gambe in maniera perfetta.
Il ragazzo davanti a lui sogghigna e Simone sente aumentare dentro di sé la voglia di tirargli un pugno e rompergli quel naso perfetto che si ritrova.
“Simone!” chiama una voce femminile dietro di lui, e sente le braccia della sua ragazza cingergli dolcemente la vita.
Simone le sorride, ma continua ad osservare di soppiatto quel ragazzo dai capelli ricci e scombinati sotto il casco ingombrante, gli occhi grandi e luminosi, la bocca socchiusa in un ghigno che non ha nulla di amichevole. Vorrebbe prenderlo a schiaffi.
“Va beh, pe’ stavolta passi. Ce vediamo, cojone,” dice quello con voce annoiata, e si allontana prima che Simone possa rispondere.
“Speriamo di no,” borbotta Simone, lo sguardo fisso su quel giacchetto verde che si perde nella folla davanti scuola.
“Ma chi è?” chiede Laura confusa.
Simone scrolla le spalle. Vorrebbe saperlo anche lui.
* * *
2.
“Certo che sei proprio un perfettone,” ride Manuel.
Seduto per terra nel suo garage con una canna in mano, lascia vagare lo sguardo lungo tutta la figura di Simone, in piedi davanti a lui mentre fruga nello zaino poggiato sul tavolo da lavoro.
“Me l’hai già detto una volta,” risponde Simone con tono annoiato, e Manuel ride di nuovo. Si sente leggero, ma forse è solo la canna.
“Va beh, te lo dico di nuovo. Sei ‘n perfettone,” dice Manuel. “Te dovresti rilassa’ ogni tanto.”
Si porta la canna alla bocca e respira piano quel fumo così familiare. Chiude gli occhi poggiando la testa contro il muro e ascolta i movimenti di Simone, il fruscio dei suoi vestiti e delle pagine dei libri di scuola. Lo sente sedersi accanto a lui con un tonfo, sente il ginocchio premere contro il suo. Gira la testa verso di lui e apre gli occhi, ma Simone non lo guarda, intento a sfogliare il libro di fisica.
Manuel allunga la mano e prende la matita che Simone tiene in equilibrio sull’orecchio, sfiorandone la punta con i polpastrelli.
Simone alza la testa verso di lui e lo guarda far roteare la matita tra le dita. Osserva con occhio attento quelle dita lunghe che si muovono esperte attorno alla matita, facendola passare da una parte all’altra velocemente. Deglutisce piano, un accenno di rossore sulle guance, e si schiarisce la voce.
“Non sono venuto qua per cazzeggiare, dobbiamo studiare,” dice, cercando di controllare il tono della voce.
Manuel alza gli occhi al cielo. “Va bene, perfettone. Famo quello che dovemo fa’.”
Sbuffa e si avvicina ulteriormente a Simone, il viso a pochi centimetri dalla sua guancia. Con l'ombra di un sorriso sul volto, poggia il mento sulla sua spalla con una naturalezza che fa sobbalzare Simone, e si allunga per guardare il libro abbandonato sulle sue gambe. Strizza gli occhi per riuscire a leggere, e Simone non può fare a meno di notare il movimento delle sue ciglia, il modo in cui tremano leggermente. Guarda i riccioli che gli ricadono sulla fronte e sa che basterebbe un movimento della mano per spostarli, ma non si azzarda.
Simone sente il profumo del suo shampoo e il perenne odore metallico che caratterizza quel posto. Sente il suono appena percettibile del respiro di Manuel, sente il calore del suo fiato che gli pizzica il collo. Il suo stomaco si contrae ogni volta che si rende conto delle loro parti del corpo in contatto, le sente bruciare come se Manuel fosse la Torcia Umana. Cerca di adeguare il battito del suo cuore all’andamento lento della respirazione di Manuel, ma invano; continua a correre forsennatamente, lo sente picchiare contro la cassa toracica con insistenza, e spera che Manuel non sia così attento da accorgersene.
Con le guance rosse, si schiarisce di nuovo la voce. Studiare fisica non gli è mai sembrato tanto complicato.
* * *
3.
Manuel odia litigare con Simone. Succede spesso perché sono due teste calde che sanno comunicare solo a strattoni e urla, che si calmano solo davanti ad un labbro sanguinante.
Manuel odia litigare con Simone perché non riesce a controllare le parole quando si incazza, e si incazza spesso, perché ha tutta quella rabbia dentro di sé, sopita, pronta a venir fuori, e riesce a calmarla solo quando fuma. Si ritrova sempre a dire cose che non pensa, cose che non direbbe mai se solo riuscisse a pensare prima di aprire la bocca, ma evidentemente la botta in testa presa da piccolo ha compromesso la funzionalità di qualsivoglia filtro.
Manuel odia litigare con Simone perché poi non fa altro che pensarci, rimuginare, darsi la colpa, e odia litigare con Simone perché basterebbe chiedergli scusa per sistemare tutto, ma non riesce a fare neanche quello. Sarà l’orgoglio, sarà la botta in testa, ma Manuel non riesce a pronunciare quelle due sillabe, quelle cinque lettere che Simone meriterebbe di sentire.
Non che Manuel sia un mostro senza cuore. Semplicemente, preferisce nascondere la testa sotto la sabbia piuttosto che affrontare quel ciclopico elefante nella stanza che finge di non vedere. Ma lo sente barrire ogni volta che sta con Simone, sente la proboscide di quel dannato elefante che lo strozza ogni volta che Simone lo sfiora, si sente schiacciato da un’enorme zampa grigia e rugosa ogni volta che Simone lo guarda con quegli occhi un po’ tristi e un po’ rassegnati.
Manuel vorrebbe fare qualcosa, vorrebbe spingere quell’elefante fuori dalla stanza, perché dentro si sta stretti, con quei sentimenti ingombranti che si porta sempre appresso. Però non lo fa, perché vorrebbe dire parlare con Simone, e non riesce a farlo normalmente, non dopo la sua festa di compleanno.
E forse Simone lo sa – dopotutto, gli ha spiegato che con lui è diverso, no? – ma anche lui ha paura di fare persino un piccolo passo, perché l’elefante potrebbe spaventarsi, potrebbe calpestarli entrambi.
Manuel si sente un idiota quando è con Simone, come se non fosse più in grado di pensare, di parlare, di compiere azioni banali, ma non vuole ammetterlo. Orgoglio maschile o qualcosa del genere. Non vuole ammetterlo, e allora usa quel suo modo di fare strafottente, quella maschera di sicurezza e sfrontatezza, e chiama idiota Simone, specchio riflesso buttati nel cesso.
“Certo che sei proprio un idiota,” gli dice un giorno, mentre rievocano tempi lontani, di fughe a Glasgow e stronzate fatte.
Manuel è sdraiato sul letto di Simone e fissa il soffitto. Non pensava che sarebbe più entrato in quella camera, non dopo quello che è successo tra di loro, tantomeno pensava che quattro mura piene di poster inutili e fotografie che non sa collocare nel tempo potessero mancargli così tanto.
“Proprio un idiota,” ripete alzandosi sui gomiti e volgendo lo sguardo verso Simone, seduto alla scrivania, il viso già rivolto verso di lui.
Simone spalanca la bocca con finta sorpresa e lo guarda con quell’aria offesa che Manuel sa essere falsa, mentre gli angoli della bocca minacciano di sollevarsi verso l’alto in un sorrisetto che fatica a nascondere.  
“Ah, io sarei l’idiota? Da che pulpito!” lo canzona Simone.
“Stavi pe’ molla’ tutto pe’ anna’ ad inchinarti di fronte alla regina, secondo me sei ‘n po’ un idiota.”
“Ma la regina mica l’ho vista. Io non m’inginocchio per nessuno,” risponde Simone con finta fierezza, incrociando le braccia al petto.
Manuel scoppia a ridere, e per un attimo si dimentica la promessa fatta a se stesso di non parlare più di quella notte, di non passare più davanti a quel cantiere, di fingere che non abbia provato nulla che fosse fuori dall’ordinario.
“Sappiamo entrambi che non è vero,” esclama Manuel tra le risate, e un po’ si pente di aver parlato, di aver aperto l’uscio per far uscire finalmente allo scoperto quel gigantesco elefante. Ma poi vede Simone arrossire violentemente, lo vede strabuzzare gli occhi, e ride ancora più forte.
Simone borbotta qualcosa e si gira, dandogli le spalle e nascondendo la faccia tra le braccia conserte sulla scrivania.
Fuori sta facendo buio e Manuel si rende conto di aver passato tutto il pomeriggio a casa Balestra. Si rende conto che vorrebbe rimanere ancora lì, fingere che l’orologio si sia fermato, che il tempo si sia dimenticato di loro, abbandonandoli in un limbo in cui tutto può succedere senza conseguenze. Invece si alza e va verso la porta. Nota che Simone ha ancora la punta delle orecchie rossa per l’imbarazzo, fa finta di niente. Lo tira per la manica, Simone gli punta gli occhi addosso.
“Dai idiota, famoce ‘n tiro,” dice, ed esce senza aspettare risposta.
Simone si alza e lo segue.
* * *
4.
Il dolore alle ossa che prova per aver passato la notte sulle sedie scomode di una sala d’attesa d’ospedale, in mezzo a parenti agitati e l’odore del disinfettante, è niente in confronto al dolore sordo e costante che prova nel petto vedendo Simone su quel letto, la testa fasciata, il collare, le flebo. Ogni respiro gli fa male alle costole, e i polmoni sembrano non immagazzinare abbastanza aria, come se l’incidente l’avesse fatto lui. Lo stomaco gorgoglia senza sosta e gli viene da vomitare, come se quelle pillole le avesse ingoiate lui.
Dante è in quella stanza da ormai quindici minuti, e Manuel sa che non potrà entrare, sa che l’infermiera glielo impedirà, dicendo che Simone ha bisogno di riposo, che ammettere il padre è stato un caso eccezionale. Sa che solo i parenti possono entrare, ed è tentato di spacciarsi per il suo fidanzato, è tentato di urlare e prendere a calci i distributori automatici finché non gli fanno vedere come sta, finché non gli fanno prendere le sue mani e sentire il calore che emanano.
Però non lo farà. Non lo farà perché c’è sua madre che lo tranquillizza accarezzandogli la schiena con movimenti circolari, non lo farà perché forse Simone neanche vuole vederlo.
E così quando Dante torna in sala d’aspetto, la faccia stanca e gli occhi arrossati, Manuel non può fare a meno di tempestarlo di domande. Come sta Simone, ha parlato, quando uscirà, potrò vederlo?
Anita lo fulmina con lo sguardo e sta per scusarsi a nome suo, ma Dante gli sorride e, inaspettatamente, lo abbraccia, ringraziandolo di aver aiutato Simone, di essere sempre presente. Lo ringrazia ancora e ancora, e Manuel pensa di non meritarselo perché lui a Simone ha causato solo danni, però ricambia l’abbraccio, ed è una situazione assurda e a tratti imbarazzante, ma è confortante come lo sono le carezze della madre.
Quando si staccano si scambiano un sorriso impacciato, poi si dirigono verso l’uscita dell’ospedale. Dante e Anita parlano sottovoce, pieni di sonno e compassione reciproca, mentre Manuel è perso in pensieri che non saprebbe esprimere a parole.
Torna in ospedale solo qualche giorno dopo, quando la madre gli dice che Simone può finalmente ricevere visite. Cerca di non superare i limiti di velocità con la moto, ma l’adrenalina che sente in corpo lo rende difficile e lo spinge ad accelerare, a fare in fretta. Non ha pensato a cosa gli dirà quando lo vedrà, non sa se potrà abbracciarlo o toccarlo, o se Simone gli chiederà di andarsene.
L’ansia inizia a ballargli nella pancia quando, dopo aver parcheggiato, rimane cinque minuti fuori dall’edificio dell’ospedale, fissando la gente che entra e che esce. Gioca con le fibbie del casco e rischia quasi di romperle, quando un infermiere che spinge una carrozzina vuota gli chiede se ha bisogno di qualcosa. Manuel annuisce incerto, gli dice che è lì per una visita, e l’infermiere lo accompagna dentro con un sorriso cordiale che Manuel non riesce a ricambiare.
Si guarda attorno come se non avesse mai visto un ospedale, come quando a quattro anni ha passato la notte in una stanzetta proprio lì, accanto ad un bambino circondato da dottori allarmati.
Quando lo fanno entrare in camera di Simone, Manuel tira un sospiro di sollievo notando che non ha più il collare ed è seduto contro la testata del letto. Sembra quasi stare bene, a parte il braccio ingessato e il viso contuso.
“Ehi,” dice piano fermo sulla porta, come se Simone fosse un cerbiatto spaventato, come se avvicinarsi troppo potesse allarmarlo e farlo correre via.
“Ciao,” risponde Simone, la voce un po’ roca.
Manuel cammina esitante intorno al letto, guardando ovunque meno che Simone. Sente il suo sguardo addosso, i suoi occhi che, nonostante tutto, non hanno perso la loro lucentezza, e che lo scrutano come una preda scruta il suo cacciatore, guardinghi, un po’ curiosi.
“Ciao,” dice ancora Manuel, e sente la sua voce farsi sottile, come un sussurro, come se Simone fosse fatto di vetro e Manuel avesse paura di romperlo con un acuto.
“Ciao,” ripete Simone, e sta sorridendo, prendendolo in giro. “Ti vuoi sedere o vuoi esaminare il pavimento dell’ospedale ancora per molto?”
Manuel si siede, appoggia i gomiti sul letto chinandosi in avanti, sotto lo sguardo morbido di Simone, e all’improvviso è come se tutta la tensione fosse sparita, sostituita da quell’aria giocosa che aleggia sempre tra di loro.
“Come te pare, Bambi,” borbotta Manuel fingendosi disinteressato, e gli lancia uno sguardo mentre il cuore sembra scoppiargli nel petto.
“Bambi?” ripete Simone sghignazzando, e Manuel è sicuro di essere arrossito.
“Che c’è, nun te posso chiama’ come me pare?” risponde stizzito, e Simone scrolla le spalle.
“Ma perché Bambi?” chiede, e lo guarda ancora con quegli occhi che lo fanno diventare matto.
“Perché me guardi sempre così.”
“Così come?”
“Così, come stai facendo mo,” dice Manuel indicandolo con un cenno del capo. “C’hai ‘sti occhi enormi e pari un cerbiatto.”
“Non capisco se sia un complimento,” dice Simone ridendo, e Manuel non sa che rispondere.
“Va beh Simo’, è solo un nome.”
Simone annuisce. “Chiamami Bambi allora. È carino.”
Manuel deglutisce. Allunga le dita per giocherellare con il camice che indossa Simone, accarezza la stoffa leggera.
“Nun c’hai freddo co’ ‘sta roba addosso?” chiede.
Simone fa spallucce senza rispondere. Continua a guardare Manuel, il modo in cui la luce dalla finestra sembra colorargli i capelli d’oro e la pelle come il miele, ricordandogli quel sapore dolce che gli sembra ancora di sentire sulle labbra secche. Scuote la testa come per cancellare il ricordo dalla mente, ma sa che non andrà mai via, impresso a fuoco sulle pareti della calotta cranica.
Forse mi sento davvero un po’ perso come Bambi, pensa Simone con un sorriso.
“Mi manchi,” dice poi Manuel con un sospiro, disegnando figure invisibili sul camice, e Simone smette di sorridere, colto alla sprovvista.
“Cioè, me manca averti in classe,” continua Manuel. “Me manca veni’ a casa tua, me manca trovarti nel mio garage, me manca cazzeggia’ co’ te.”
“Non sono mica morto,” dice Simone, e Manuel alza gli occhi al cielo.
“Sì, va beh, ce mancava solo quello, Simo’. Sei ‘n cojone, altro che Bambi. Bambi almeno nun se schianta contro casa mia.”
“Questo perché Bambi non esiste,” puntualizza Simone.
“Ce sarà un cerbiatto de nome Bambi da qualche parte.”
“Non ci sono cerbiatti in centro a Roma.”
“Va beh, Simo’, che dito in culo che sei,” dice Manuel, ma non è davvero irritato.
Per una volta, tutta la rabbia che ha sempre sentito in un angolo di sé viene sostituita da qualcosa di più caldo, più morbido, qualcosa che è più più più e che è sempre stato lì, insieme all’elefante nella stanza e a tutto lo zoo che Manuel sente scalpicciare dentro di sé.
Si sorridono, parlano di tutto e di niente, di quello che è successo a scuola nell’ultima settimana, di quello che succederà nelle prossime. Chiacchierano spensierati come non facevano da tempo, e se Manuel continua a chiamarlo Bambi per il resto della giornata, beh, sono affari suoi. E dell’infermiere che ogni tanto entra nella stanza per controllare che sia tutto a posto, lanciando loro occhiate d’intesa.
* * *
+ 1
Roma d’estate è soleggiata e afosa. I vestiti si appiccicano alla pelle per il sudore, e anche all’ombra il caldo non dà tregua. Le temperature aumentano ogni anno, dando a Manuel l’impressione di vivere all’interno del Vesuvio, chi se ne frega se è in Campania.
Non prende neanche in considerazione l’idea di mettersi a fare i compiti, tantomeno di uscire di casa per bighellonare in quelle strade roventi dove ad agosto non circola nessuno.
Manuel ama l’estate, ama abbronzarsi, ama non dover pensare alla scuola – non che durante l’anno ci pensi più di tanto, in realtà – ama prendere la moto e fare una gita al mare solo perché gli va. Odia prendere il sole, però. Odia il fatto che la sua pelle si riempia di lentiggini, che i capelli si schiariscano, prendendo delle sfumature biondastre che detesta.
Odia aver passato due settimane senza Simone, che era in vacanza con i nonni materni da qualche parte nelle Marche. Manuel non saprebbe neanche indicarle su una cartina geografica, le Marche. Le confonde sempre con l’Abruzzo, sarà che sono vicini.
Il fatto che Manuel non abbia legato particolarmente con gli altri compagni di classe, poi, fa sì che nessuno gli chieda mai di fare un giro. Prima c’era Chicca, ma nell’ultimo periodo ha conosciuto una ragazza, una certa Rachele, e sono diventate inseparabili. Non saprebbe dire cosa ci sia sotto, ammesso che ci sia sotto qualcosa, e un po' lo intristisce il pensiero che anche la sua ragazza sia riuscita ad andare avanti, mentre lui rimane fermo al punto di partenza.
Il fatto è che da quando Manuel ha capito di essere bisessuale – perché sì, dannazione, i maschi gli piacciono tanto quanto le ragazze, Simone gli piace, e al diavolo tutti i cantieri di tutta Roma – non fa altro che domandarsi se qualcuno abbia provato le sue stesse emozioni, i suoi stessi dubbi, la sua confusione.
Forse è un pensiero stupido, ma sente il bisogno di trovare conforto e comprensione in una persona che possa capirlo davvero, in ogni sua sfumatura. Quindi non sa se Chicca sia bisessuale, se Rachele sia un’amica come Luna o qualcosa di più, ma Manuel vorrebbe solamente non sentirsi l’unico al mondo ad aver passato quello che sta passando. E certo, sa di non esserlo, diamine, il mondo è pieno di persone bisessuali. Ma non nella sua classe. Forse neanche nella sua scuola, nel suo quartiere, forse nessuno in tutta Roma ha passato quello che ha passato Manuel Ferro, con tutti quei fili di pensieri ingrovigliati nella testa, quelle matasse inestricabili che forse, finalmente, è riuscito a dipanare.
Testimone dei suoi dissidi interiori unicamente quel dannato elefante che lo assilla, un po’ come la coscienza a forma di armadillo di Zerocalcare.
Ma Simone sta tornando a Roma e Manuel non ha tempo di pensare a elefanti o armadilli. Gli ha mandato un messaggio un’ora prima chiedendogli di vedersi non appena avesse messo piede sul suolo laziale, anche se forse sarà stanco per il viaggio, anche se forse avrà solo voglia di buttarsi sul letto.
Solo se mi aiuti a disfare la valigia, aveva risposto Simone, e Manuel aveva accettato, nonostante sia sempre stato una frana a piegare i vestiti.
Quando Simone gli scrive che può raggiungerlo alla villa, Manuel non se lo fa ripetere due volte e si precipita a prendere la moto. Il casco lo fa sudare il triplo, e l’aria che gli sferza il viso mentre sfreccia per strada è soffocante. Arrivato a casa di Simone, avrebbe bisogno di almeno tre docce per riprendersi.
“Cristo, sei tutto sudato,” esclama Simone appena lo vede.
“Vacci te in giro col casco co’ 40 gradi,” ribatte Manuel.
Non si abbracciano, a malapena si sfiorano. Ma sono di nuovo insieme, con il loro continuo battibeccare, con i loro scherzi e le loro battute, e Manuel si sente di nuovo a posto. Simone si sente di nuovo a posto.
“Dio, sono esausto,” sospira Simone sdraiandosi sul letto, la valigia ancora chiusa accanto alla porta.
Manuel si siede ai piedi del letto, finché non sente Simone spingerlo via.
“Levati, mi bagni le lenzuola de sudore.”
“Ma vaffanculo,” sbotta Manuel ridendo, ma si alza comunque.
Simone chiude gli occhi assaporando quell’attimo di calma, e per un attimo il mondo sembra fermo.
Manuel si toglie le scarpe silenziosamente e, con un ghigno, si lancia contro Simone, saltando sul letto e trattenendogli i polsi con le mani. Alla faccia del mondo fermo e calmo.
“Ma che cazzo fai?!” urla Simone, preso alla sprovvista, mentre cerca di togliersi Manuel di dosso.
“Che c’è, c’hai paura che te bagni il letto de sudore?” lo prende il giro l’altro.
“Guarda che sono più forte io di te,” ribatte Simone.
“Allora perché non me fai sposta’?”
Simone non risponde, arrossisce. Manuel guarda il sangue affluire al suo viso, guarda come gli dipinge delicatamente le gote e il collo di rosso, rendendogli le orecchie scarlatte. Allenta la presa sui suoi polsi, e il sorriso arrogante che regnava sul suo volto si tramuta in un’espressione di trasognata sorpresa.
“Te non vuoi che me sposti,” sussurra Manuel, e sembra di essere in uno di quei film dei primi anni 2000, pieni di cliché e vestiti orribili.
“Va beh, mo ti puoi anche levare,” borbotta Simone, il volto in fiamme, dandogli una spinta.
Manuel barcolla all’indietro, atterra sul letto e non si muove. Rimane a fissare Simone con quell’espressione indecifrabile, e Simone sente la calma e la pace che caratterizzavano quel pomeriggio frantumarsi.
Nessuno dei due dice niente, e l’aria nella stanza è pesante, troppo poca, consumata dall’elefante che li accompagna in ogni loro giornata.
“Pure quando sei triste, c’hai sempre quegli occhi da Bambi,” dice Manuel scuotendo la testa incredulo, e Simone pensa alla prima volta che si sono visti, alla voglia che aveva di tirargli un pugno. Lo farebbe volentieri anche adesso.
“Era il mio cartone preferito,” mormora Simone, e Manuel sorride.
“Il mio era il Re Leone.”
Simone gli lancia un’occhiata. “Effettivamente sembri un po’ un leone con quei capelli là.”
“Ma pensa ai tuoi!” ribatte Manuel.
“Che c'hanno i miei che non va?”
Manuel alza gli occhi al cielo. “Cristo, Simo’. Me vuoi bacia’ o devo fa’ tutto io?”
Simone lo guarda imbambolato, convinto di aver capito male. Gli occhi di Manuel sono fissi nei suoi, in attesa. Poi Manuel allunga le braccia, lo afferra per la collottola, e Simone non può fare altro che emettere un suono strozzato e lasciarsi andare.
Le labbra di Manuel sanno di sale e qualcosa di pungente che assomiglia terribilmente al fumo, e si muovono contro le sue come se fosse un’azione abituale, come se avessero sempre saputo come fare, mentre l’accenno di barba di Manuel gli brucia contro il mento.
Le mani calde di Simone gli accarezzano i fianchi con dolcezza, e un sospiro lascia le labbra di Manuel, che lo stringe a sé in una presa incandescente, e Simone sente solo fuoco attorno a sé. Sente il suo calore nella lingua che sfiora la sua, nelle mani bollenti che circondano la sua vita, e pensa che Roma ad agosto sia una bazzecola rispetto a questo.
Pensa che non vorrebbe che finisse mai, pensa che farebbe volentieri a meno dell’ossigeno pur di continuare a sentire i polmoni bruciare mentre Manuel fa incastrare le loro labbra in un perfetto meccanismo che ruota e ruota e ruota, bloccando il tempo attorno a loro, lasciando che solo i loro respiri affannati e l’umidità del loro bacio esistano in quel pomeriggio assolato.
Simone si sente inebetito, affonda le dita nei ricci di Manuel, e l’umidità del sudore lo riporta alla realtà, a quella calda giornata di agosto, alla valigia che aspetta di essere disfatta.
Lo allontana con delicatezza, lasciando che il respiro di Manuel gli solletichi le labbra. “Amore, vacci piano,” bisbiglia.
“Come m’hai chiamato?” chiede Manuel frastornato.
“Amore,” ripete Simone imbarazzato.
“Dillo de nuovo.”
“Amore.”
Manuel sorride, gli occhi socchiusi ancora immersi nel bacio. L’elefante non c’è più, e al suo posto figura una porta aperta su un mondo nuovo e da scoprire, che con Simone accanto non gli fa più tanta paura. Gli stringe la mano, intrecciando le dita.
Il suo cuore perde un battito.
E amore fu.
101 notes · View notes
k-erelle · 3 years
Text
Quando arrivava maggio , fin da bambina, a Berenice piaceva svegliarsi all'alba , mangiare le ciliegie coi gomiti appoggiati alla pietra della terrazza e sputarne il nocciolo giù nel giardino.
Berenice amava le ciliegie e tutte le cose che hanno un cuore di sangue scuro dentro.
Io stavo di sotto. Ricoperto di noccioli di ciliegia.
Berenice non mi ha chiesto cosa ci facevo nel suo giardino.
" Mi scusi per la pioggia di noccioli " ha detto.
"Mi piace la pioggia. Da dove vengo non pioveva mai" , ho risposto.
È scesa giù e mi ha portato una tazza di caffè con biscotti al burro a forma di veliero.
" Non sente caldo con il cappotto?" ha detto.
" Faceva sempre freddo laggiù" ho detto.
È rientrata dentro. Intanto ho raccolto i noccioli di ciliegia e li ho messi dentro le tasche dei cappotto. Poi è tornata.
" Metta su questi . Sono di lui. Ne ho altri se decide di tornare oggi".
La maglietta lasciava scoperta la pancia. I pantaloni mi arrivavano al ginocchio.
La sera siamo andati al porto. Sulla panchina ho mangiato dei panini al formaggio preparati da Berenice. Lei non aveva fame. Guardava il mare. Ora che era vicina ho notato che gli occhi le erano diventati azzurri. Prima erano castani. Almeno credo. Dentro era sempre buio e non ci vedo più bene.
" Quella luce verde all'orizzonte , la vede? È lui." ha detto.
Non vedevo niente . Sono rimasto in silenzio.
Berenice ha detto che gli uomini ben vestiti seduti al bar della piazza avevano fatto battute su come andavo vestito. La pancia di fuori e tutto il resto. Io non avevo sentito nulla. Non ci sento più bene. Troppi colpi. Per dividerla dagli uomini le ho spezzato il polso. Loro erano a terra immobili. Ero ancora forte dopotutto.
" Può dormire nella sua stanza se vuole. Tanto oggi non tornerà", ha detto Berenice.
" È tanto tempo che non vedo le stelle. Dormirò qui , grazie".
Sono tornato alla panchina del porto. Non avevo sonno. Dormo poco.
Il ragazzo uscì dall'acqua. Era bellissimo. Emanava una luce verde.Mi levai maglietta e pantaloni.
" Tieni , sono tuoi " , ho detto. Gli andavano bene.
L'ho accompagnato a casa. Ho preso il cappotto steso ad asciugare. Dentro le tasche c'erano ancora i noccioli di ciliegia. Li ho tirati alla finestra di Berenice. Non si è accesa nessuna luce.
Il ragazzo si è addormentato sul prato. Nel sonno sorrideva. Un sorriso bellissimo. L'ho coperto con il mio cappotto.
Sono uscito nudo dal giardino. Ho cominciato a camminare in una direzione qualsiasi. Poi sono arrivato sulle colline e ho guardato il cielo.
Che belle le stelle.
Kerelle
52 notes · View notes
chiamatemefla · 3 years
Text
wip 2021 pt. 2
C’è una strada in discesa di fronte alla scuola elementare, un lungo nastro di asfalto che si srotola giù per un fianco della collina, costeggiato da palazzi anni Settanta, squadracciati e non particolarmente alti, tra le quali si incastrano viuzze che salgono verso questo o quel cancello.
Gli hanno una volta rivelato che una larga parte di quei cancelli è solo decorativa, che la maggior parte delle persone che abitano in quella zona la usa come vezzo più che come deterrente dall’altrui compagnia: un cancello fa status, denota qualcosa da proteggere e delimitare, anche se questo qualcosa è un appartamente piuttosto stretto in un vecchio condominio dai muri dipinti di un arancione scuro ora cotto dal sole.
C’è una curva in quella strada, ed un palazzo che sembra un po’ più alto degli altri perché affonda le sue radici nella strada sottostante e guarda, con interesse, verso la parete scoscesa su cui il centro storico poggia, impassibile, come un gatto perennemente in bilico sul bordo di una credenza.
Proprio ai piedi di quel palazzo stranamente alto c’è un’officina, e ci sono due ragazzi, un motorino, una macchina parcheggiata in attesa del suo turno che osserva un’altra venir smontata e rimontata con cura, e il sole che bacia solo metà del piazzale oblungo. È bello quel posto, non è buio eppure la luce non lo bagna mai del tutto, c’è sempre una piccola pozza d’ombra in cui nascondersi quando l’estate si fa bollente ed anche lavorare dentro al garage diventa un’esperienza piuttosto asfittica.
Antonio non ha ancora vissuto un’intera estate lassù, e dubita fortemente che possa essere calda quanto gli altri dicono, eppure in quel pomeriggio di fine febbraio può forse capire cosa i più intendono, perché si lamentano: il sole è strano quando si è lontani dal mare, colpisce in modo diverso perché non te l’aspetti.
Ciò non toglie che stia tentando di prenderselo tutto in faccia, respirarlo quanto più possibile, lavarsi via dalla testa tutta la pioggia delle settimane precedenti.
Poi d’improvviso il rumore di qualcosa che cade a terra, probabilmente una chiave inglese lanciata, ed un’imprecazione piuttosto colorita, forse sono davvero fortunati che non ci sia nessun altro lì davanti a parte loro due.
«’Sto motorino ha fatto l’Unità d’Italia.»
Giacomo si passa le mani sui jeans con veemenza, li sporca di grasso e qualsiasi altra cosa ci sia dietro alla scocca del suo bolide, continuando a guardarlo con la stessa aria di sfida con cui lo fissa da quando, circa un’ora prima, è arrivato in officina trascinandoselo dietro come una bicicletta particolarmente pesante su per i sali e scendi del paese.
«Dottore, mi dica, si riprenderà?»
Giacomo storce il naso, non scolla gli occhi dalla scocca blu abbandonata a terra; a volte vorrebbe sapere cosa vede in quell’ammasso di ferraglia che a lui sfugge, cosa sta leggendo tra i tubi a vista di un motorino che ha avuto giorni migliori. Giacomo concentrato è qualcosa di nuovo a cui un po’ tutti faticano ad abituarsi, una sfumatura diversa di quel ragazzo sempre un po’ assente che è stato fino a qualche mese prima.
«A riprendere si riprende, per carità, ma secondo me è meglio se ti fai un asino: va sicuramente meglio di questo coso e consuma meno. Quanto ci spendi per st’accrocco? Tra manutenzione e benzina già t’eri fatto una macchina, arrivato a questo punto.»
«Certo, poi parcheggio me lo cerchi tu.»
«Tanto il motoschifo sta sempre parcheggiato qua da me, non è che cambierebbe un granché e te potresti muoverti.»
Glielo ha già ripetuto almeno tre volte, l’ha quasi pregato di buttare quel motorino che non ha certo visto l’unità d’Italia ma sicuramente ha vissuto il diploma di sua madre, e Antonio sa perfettamente che potrebbe farlo ma, al contempo, la sola idea di rottamare quel cimelio che sta già cercando di rottamarsi da solo, gli crea un senso di disagio, una paura strisciante che lo fa desistere ogni volta.
Paura di cosa non lo sa, sa solo che non vuole lasciar andare il macinino anche se dovrebbe.
«Capirai, le traversate oceaniche mi ci faccio: da casa mia alla stazione, da casa mia a casa di Flavio, da casa di Flavio alla stazione...potrei pure comprarmi una bicicletta.»
«Ah, ma Flavio è ancora vivo?»
«Dipende da cosa intendi per vivo: respira ancora? Sì. Fa qualcos'altro? Non saprei.»
«L’altro giorno ho visto suo nonno, m’ha detto che non esce di casa da tipo Capodanno, che poi è l'ultima volta che l'ho visto, e che non lo sopportano più.»  
«Due gennaio», si ritrova a rispondere di getto, lo corregge come ha corretto anche i nonni di Flavio, come si ripete ora che non ha più la pioggia e il cielo tetro come scusa per quel comportamento.
Tutto è solo quel che sembra, però se lo chiedi a chiunque giri loro intorno la risposta sarà sempre la stessa: no, non è vero, non funziona così, è solo un po’ di stanchezza.
Risultato: ora sono stanchi in due, in modi diversi, per motivi diversi, e comunque nessuno li ascolta.
Giacomo fischia e tira fuori una chiave inglese troppo lunga per essere davvero entrata nella tasca sinistra dei suoi jeans. Antonio però non si fa domande, lo osserva passarsela tra le dita come fosse una matita durante una lezione particolarmente noiosa mentre ammira una chiazza una a tre passi da lui. Si ritrova stranamente in apprensione per l’espressione impensierita che è sempre meno da Giacomo e sempre più da qualsiasi cosa questi diventerà in futuro, un mistero avvolto in quelle rughette che si formano sulla fronte quando corruccia le sopracciglia.      
«Eh, cazzo, è il ventisette di febbraio magari il naso fuori dovrebbe metterlo. Neanche risponde ai messaggi, Gabriele quasi chiama Chi L’Ha Visto, poi fortuna gli hai scritto tu e l’hai tranquillizzato.»
«Gabriele sta tutto ansiato, s’ha da calmà arrivati a sto punto.»
Prova a pulire la macchia che Giacomo sta guardando, grattarla via col piede, e alla fine si sporca solo la gomma bianca delle scarpe e il grasso rimane lì, viscido e scuro.
«E comunque Flavio aveva detto che oggi mi avrebbe accompagnato, poi si è ricordato di non so che cosa che doveva rivedere e l’ho lasciato sui libri. Che poi fosse quello…è che probabilmente lo ritroverò sui libri ora che torno, ancor più probabilmente sulla stessa pagina.»
Un’altra generosa manata unta si aggiunge accanto alle altre sulla gamba destra dei pantaloni di Giacomo che ora guarda lui, alza il braccio per grattarsi il naso con il polso, e sembra tentennare.
«Vabbè, se non altro avete fatto pace.»
«Non è una questione di fare pace.» *
Gli piaceva di più quando al piano di sotto abitava ancora Lucrezia, che era sorridente e simpatica e metteva sempre la musica la domenica mattina, e soprattutto gli piaceva di più quando c’erano ancora i suoi panni stesi sulla via e lei lo salutava sempre affacciandosi alla finestra quando lo vedeva passare.
Ora, se guarda in basso dal minuscolo balconcino della cucina, vede solo delle persiane ostinatamente chiuse e il cartello verde fosforescente con su scritto “AFFITTASI”.
Lucrezia è trasferita perché la casa era piccola, un tempo intesa solo per il vecchio portiere di quel minuscolo palazzo, e la strada era scomoda, e trascinarsi una carrozzina con due gemelli dentro su per le infinite scalinate che dal parcheggio più vicino portano al palazzo sarebbe stato troppo difficile.
Quand’era piccolo lui era più comodo, sosteneva sua nonna, soprattutto perché non avevano ancora chiuso la stradina appena duecento metri più in là, una delle poche vie che non contemplavano il salire o scendere dei gradini per raggiungere la propria destinazione.
O forse no, non è vero che gli piaceva di più quando c’era Lucrezia, ché quando lo salutava dalle finestre credeva sempre di doverle delle spiegazioni, ché salutava sempre Francesca con un sorriso troppo largo quando li vedeva salire sapendo che in casa sarebbero stati soli e, si dice, forse oggi quel peso non l’avrebbe sopportato.
Dare spiegazioni non gli piace particolarmente, mal sopporta il doversi giustificare, e vivendo lui per primo nella beata convinzione che chi si fa i cazzi propri campa cent’anni non riesce a comprendere come, e soprattutto perché, sia possibile che il mondo intero non sia addivenuto alla stessa conclusione.
Lucrezia non era, ed è convinto che ancora non lo sia, una cattiva persona ma questo non significa che, per quanto possa mancargli ascoltare l’intera compilation di Battisti rigorosamente in vinile ogni domenica che Dio manda su questa terra, una parte di lui non stia gioendo nel sapere che una persona in meno ha visto il ragazzo davanti alla porta salire le scale con uno zaino particolarmente pieno sulle spalle.
Lo stesso ragazzo che lo aspetta sul pianerottolo con le mani in tasca e lo sguardo di chi non si aspetta davvero di vedere quella tavola di legno spostarsi quel tanto che basta da permettergli di entrare — e gli dispiace davvero, quell’espressione è colpa sua e non sa proprio come riuscire a non vederla mai più, a cancellarla, a togliergli ogni dubbio.
La meccanica del corpo umano, si ritrova a pensare, è una cosa bizzarra, così perfetta da non permetterti dubitare neanche per un attimo che la corazza di pelle ed ossa che abiti continuerà a funzionare perfettamente per tutta la tua vita, senza mai perdere un colpo, in un silenzioso insieme di ingranaggi fino alla fine dei tempi.
Ed è proprio questa illusione di perfezione che ti inchioda a letto in una mattina qualsiasi, quando tutto sembra funzionare nel modo giusto a parte il fatto che, no, non funziona affatto e il ronzio nelle orecchie lo senti solo tu, e le fusa del tuo gatto ti sembrano ingestibili perché quasi ti perforano il cervello.
A casa non c’è nessuno, i suoi sono partiti presto direzione Veroli per il funerale di un cugino del nonno, un tipo smilzo e storto che Flavio ha visto forse due volte in tutta la sua vita e che si era trasferito laggiù per nessun motivo, spinto da un irrefrenabile bisogno di spostarsi dalla Capitale alla ricerca di chissà cosa. C’erano voluti vent’anni di vita solitaria prima che incontrasse quella che poi sarebbe diventata sua moglie, una signora alta ed imponente che non amava particolarmente fare le scale e che, un paio di sere prima, aveva chiamato per annunciare che il cugino del nonno s’era incamminato sull’unica scalinata in cui non avrebbe potuto seguirlo.
Una pentola con le arance cotte riposa sul piano cottura della cucina, piena di qualcosa che non è ancora marmellata ma non è più frutta, le serrande sono alzate solo a metà e tutto sembra rallentato ed imbevuto dell’odore stucchevole degli agrumi cotti che si stanno pian piano caramellando.
Sua nonna non è una persona molto affettuosa, non nel senso stretto del termine, e il suo amore lo dimostra con gesti rari e parole fraintendibili però gli prepara sempre la marmellata e tenta di farla bollire quando non è in casa perché sa che odia gli odori troppo dolci, proprio come suo nonno.
E soprattutto sa che, proprio come suo nonno, ha bisogno di sentirsi in qualche modo rassicurato circa il proprio status affettivo all'interno della famiglia.
La marmellata è uno di questi rari gesti e Flavio sa che, se non fosse dovuta partire, avrebbe finito la sua opera facendolo uscire con una scusa qualsiasi come mettere la benzina alla macchina col serbatoio ancora mezzo pieno, o andare a fare la spesa nel supermercato più lontano solo per prendere quella specifica cosa che esiste proprio lì.
E invece la marmellata non è marmellata, è solo una pentola contenente una poltiglia gelatinosa di un arancione scuro che assomiglia un po’ a come sente ora il suo cervello: sciolto e pronto ad uscire dalle orecchie.
E Antonio aspetta sulla porta, ancora con le mani ben affondate nelle tasche del giaccone, ancora con la stessa espressione mentre butta un’occhiata verso l’interno.
«I tuoi si sono portati via la belva?» chiede, mentre Flavio si fa da parte quel che serve per farlo entrare e chiudersi la porta alle spalle con un sospiro che gli scioglie la tensione all'altezza del collo ma non il nodo doloroso che gli stringe lo stomaco in una morsa da ormai tre settimane.
Lo zaino dell'altro viene appoggiato con cura, ed un sospetto rumore di vetri, a terra proprio sotto all'attaccapanni, può sentire quel paio d'occhi azzurri fargli domande che la bocca non pronuncia e che vanno ben oltre la presunta assenza del padrone di casa, ovvero Cicerone, tra quelle quattro mura.
«La belva dorme sul mio letto.»
«Aspetto il giorno in cui mi dirai che tu sei andato a dormire sul divano per non svegliarlo.»    
Flavio sorride e si sporge quel che basta per poterlo salutare per bene, lascia che si avvicini per poterlo baciare e sentire le labbra dell’altro rilassarsi contro le sue. Gli piace che quello sia ormai un gesto automatico, gli piace il fatto che la reazione di Antonio sia sempre la stessa e, soprattutto, gli piace che anche oggi il suo ragazzo abbia voglia baciarlo.
Non era scontato, così come non era assolutamente sicuro che l'altro si sarebbe presentato a casa sua, eppure eccoli lì, con la tuta per stare comodo, con un gran sorriso stampato in faccia perché ama quando i suoi piani vanno a buon fine, soprattutto quando danno come risultato il riuscire a stare insieme un po’ più del solito.
Vorrebbe evitare di sorprendersi ancora, dopo due anni sarebbe forse ora di acquisire un po' più di sicurezza in quel frangente, eppure si scopre totalmente incapace di farlo.
«Dici che ricominci a respirare o devo far valere il mio corso da bagnino?» domanda Antonio, accarezzandogli piano uno zigomo con la punta delle dita, proprio lì dove ieri ha sbattuto contro lo spigolo della finestra, nel disperato tentativo di separare Cicerone da un povero pettirosso che si era avventurato sul balcone, e dove si sta formando un alone violaceo.
Così sembra ancora più pesto, eppure Antonio lo guarda come se fosse qualcosa che vale la pena osservare.
«Sto respirando» replica, con poca forza, e le labbra di Antonio si stirano in un sorriso pallido, cauto, mentre sbottona il cappotto e sfila la sciarpa.
Improvvisamente è come se ogni tensione fosse sparita, ci sono solo loro due e la prospettiva di una serata ed una notte insieme, un risveglio che non implichi Giacomo o Gabriele che entrano in camera loro con una scusa qualsiasi e li trascinano fuori non appena aperti gli occhi. Chissà dov’è il problema, chissà se hanno davvero paura che il loro stare insieme possa in qualche modo minare la loro amicizia, lasciarli soli possa in qualche modo minare l’unità di un gruppo che già inizia a smembrarsi per le vicissitudini della vita.
«Peccato, niente respirazione bocca a bocca allora. Potevi anche fare finta.»
Scuote la testa, Antonio, e si allontana per appendere cappotto e sciarpa, aprire lo zaino per frugarci dentro probabilmente alla ricerca degli occhiali che ultimamente ha iniziato ad indossare quando ha mal di testa.      
Dopotutto devono studiare, non tutto il pomeriggio perché ha promesso che non sarebbe stato così, però devono se non altro provarci.
«Perché, mi serve una scusa?»
«Magari serve a me, che ne sai?» *
«Dopodomani sono esattamente due anni che devo smettere di fumare.»
La risata di Flavio è calda contro il suo orecchio, un’inaspettata ondata di tepore in quella serata altrimenti gelida in cui l’aria di febbraio rende la luce dei lampioni sulla via un po’ più aranciata e brillante, luminosa nel gelo che gli intirizzisce la punta del naso ed il dorso delle mani.
Della casa di Flavio gli piace particolarmente quell’apertura nel muro della cucina, piccola e quadrata e proprio all’altezza giusta per appoggiarci i gomiti, che si affaccia sul balconcino: c’è la porta finestra, lunga e sottile e con delle tendine arancioni, e poi subito accanto c’è quella finestrella da cui l’altro si affaccia per fargli compagnia quando Antonio viene spedito fuori a fumare.
Si appoggia con la schiena contro la persiana, facendo bene attenzione che il fumo non entri in casa, costringendo l’altro a sporgersi un po’ di più sul davanzale di marmo che, al momento, deve essere la seconda cosa più fredda e rigida dopo le sue dita.
Se resta fuori più di cinque minuti ha paura di vederle cadere.
Le osserva nella luce calda, le nocche un po’ arrossate, la sigaretta girata un po’ storta che, incastrata tra indice e medio, si sta consumando mentre lo ascolta pensare ad alta voce.
«Ah sì?»
Si decide a prendere una boccata, mandando al diavolo tutta l’opera di convincimento fatta fino ad allora, chiedendosi se vale davvero la pena buttare via una sigaretta ormai fumata a metà. Il danno è fatto, dopotutto, potrebbe smettere con la prossima o potrebbe essere l’ennesimo Zeno Cosini ma senza la grazia di un qualche tipo di supporto psicoterapeutico.
«Eh, sì.»
Un altro tiro, il fumo soffiato via che si alza e si confonde con la condensa del respiro contro il freddo della sera.
Può vedere con la coda dell’occhio Flavio fissarlo in attesa di una spiegazione più articolata, sul viso l’espressione appena divertita di chi non aspetta altro che avere una nuova verità da assaporare.
«Sto cercando di trovare un modo poco imbarazzante per dirlo, datti pace.»
«La fase dell’imbarazzante l’abbiamo già passata da un bel po’. Insomma, il pigiama del Napoli...»
«Non quel tipo di...Senti, non eri te quello che “parlare dei sentimenti è imbarazzante”?»
«Eh, appunto, sono io mica te.»        
Stavolta tocca a lui ridere piano, mentre fa precipitare un po’ di cenere giù dalla ringhiera.
«Quando t’ho baciato davanti al portone del comune tornando dal compleanno di Stefania, no? Avevo detto “se ci sta smetto di fumare”, anche perché so che ti dà fastidio.»
Si decide a rinunciare a quella sigaretta, la schiaccia dentro ad un posacenere di fortuna, uno di quelli che Flavio ripesca solo per lui dal fondo di una credenza in cui sua nonna stipa le chincaglierie figlie di viaggi vari ed eventuali.
Il souvenir dimenticato di oggi è gentilmente offerto da un viaggio che il fantomatico zio di Flavio ha fatto a Berlino durante l’ultimo anno del liceo, una roba di plastica trasparente un po’ sbeccata sul cui fondo si stagliano le silhouettes nere su fondo bianco di alcune attrazioni turistiche.
«Non avevi fumato tutta la sera.»
«Sì, vabbuò, è che magari...così non ti scansavi, no?»
«Tre mesi che aspettavo e secondo te me scansavo pure?»
Due anni prima era convinto che lo avrebbe fatto, che si sarebbe scansato, perché in quel periodo era tutto strano e leggere male i messaggi dell’altro era solo la degna conclusione di un nuovo capitolo della sua vita che sembrava non andare da nessuna parte da dodici lunghi mesi.
Era sicuro che l’avrebbe piantato in mezzo alla via, nascosto da quella curva che i palazzi fanno prima di aprirsi in un’altra piccola piazza abitata solo da una fontanella di pietra, con le labbra ancora calde di un bacio corrisposto ma non desiderato - perché succede quando si viene baciati, no? Il primo istinto è contraccambiare, poi si può decidere.
C’aveva pensato per una serata intera, giocando con il pacchetto di sigarette, cercando di resistere all’urgenza di accendersene una e continuando a ripetere come un mantra quella promessa a chissà chi: se la serata fosse andata bene lui avrebbe smesso di fumare.
Il giorno dopo, un Flavio piuttosto nervoso ed assonnato lo aveva chiamato per chiedergli se avesse voglia di farsi un giro, una chiacchierata, e ad Antonio era servito tutto l'autocontrollo di cui disponeva per rispondere un solo "A che ora?" a cui non aveva ricevuto una vera risposta.
Flavio era passato sotto casa sua appena dopo pranzo, insieme avevano comprato i biglietti dal tabaccaio ed avevano aspettato sotto alla pensilina rovinata l'arrivo del Cotral.
Avevano passato l'intero viaggio in autobus a far finta di pensare ad altro e si erano ritrovati a camminare lungo l'argine del fiume, l'acqua torbida, la stradina sterrata appiccicosa d'umidità sotto alle suole delle scarpe.
«Alle elementari ci portavano qui almeno una volta all'anno per fare birdwatching. Dicono che ci sono gli aironi ma io non li ho mai visti», aveva detto Flavio, riponendo il suo immancabile, quanto in quel momento inutile, paio di occhiali da sole nella tasca della giacca.
Poi non avevano più parlato, non davvero, c'erano state chiacchiere vuote e aneddoti idioti per riempire l'aria e il silenzio.
Si erano seduti sulle assi bagnaticce di uno dei moletti disseminati lungo l’argine, in quel nulla palustre solo loro, due barche tirate a secco e qualche uccello che sguazzava ignaro tra le acque del Tevere.
Flavio aveva sospirato, storcendo il naso come se fosse pensieroso e scontento della direzione che le sue riflessioni stavano prendendo. Una frazione di secondo dopo, lo stesso Flavio lo stava baciando con un trasporto che non avrebbe saputo cucirgli addosso, con le mani che si aggrappavano alle sue braccia e il viso bollente.
Non avevano fatto molto altro per l'ora seguente, ed avevano dovuto correre per prendere l'autobus prima che facesse buio, infreddoliti e con le guance accese, con gli occhi quasi febbricitanti.
Del viaggio di ritorno ricorda solo le risate sommesse, il modo in cui la mano dell'altro cercava la sua nella penombra di quel Cotral semivuoto mentre tentavano di toccarsi con ogni parte del corpo.
Flavio che si sporge e gli dice, come se fosse una sciocchezza, che spera di poter un giorno baciarlo su al Belvedere, davanti a tutti, sotto al sole o durante le feste, senza doversi nascondere.
Ché non ha senso nascondersi, ripeteva, ché non capisce dove sia il problema eppure deve far finta che sia così.
C'era voluto quasi un anno per fare avverare quella promessa, altri sei mesi perché diventassero uno parte della famiglia dell'altro in quel modo sottile e traballante e chiaro solo a loro che dà la stessa sensazione che precede un temporale.
E così la famiglia di Flavio lo tratta come hanno sempre trattato Gabriele, e così la sua famiglia tratta Flavio come tutt’ora farebbero con Vito se solo non abitasse a qualche centinaio di chilometri da lì - se qualcuno di loro ha capito qualcosa non è dato saperlo, quel che sanno è che per ora non piove e va bene così, anche se a volte pesa.
Anche se Antonio è costretto a dire una bugia, convincendo sua madre e sua sorella che in questo momento è a casa di Giacomo insieme a Flavio stesso, certo, ma anche a qualche altro amico per passare un sabato notte come tanti altri, qualche birra, una maratona di film.
Una mano tiepida si sporge dalla finestra per spostare una ciocca di capelli, un movimento leggero e delicato, e si volta quel che basta per poter guardare negli occhi il suo ragazzo e la cucina dietro di lui appena illuminata dalla luce sopra al lavello, il resto della casa avvolto nella stessa penombra che riveste la via silenziosa.
Che strana sensazione.
Che bella sensazione.
«Rientri?»
«Non lo so, forse voglio fare Capitan America.»
«Emblema di un paese capitalista e guerrafondaio?»
«Pensavo più figo e intirizzito. Calma il comizio, Lenin.»   *
La prima volta che hanno dormito insieme non erano quasi neanche amici, ché per diventare amici c’hanno messo un bel po’ e la colpa è di entrambi.
Si sono ritrovati a condividere un letto dopo una trasferta romana, quando Antonio era solo il ragazzo nuovo che andava in classe con Giacomo ed era bravo a calcetto, e lui era uno che era stato appena mollato dalla ragazza e  voleva solo una scusa per schifare chiunque. Ospiti a casa del cugino di Gabriele, un appartamento per studenti piuttosto stretto ma con un numero di letti improvvisati da far invidia ad un ospedale da campo, si era ritrovato a condividere un sottile materassino da campeggio con Antonio.
Schiena contro schiena, come consuetudine ed etichetta vuole quando due maschi sopra ai dieci anni condividono un giaciglio, e tentando di non toccarsi anche se lo spazio era quello che era e la coperta non permetteva loro di allontanarsi troppo, avevano trascorso le ultime ore della notte prima dell’arrivo di un’alba che li aveva colti quasi tutti svegli e veramente poco preparati.
Il telefono di Antonio non aveva fatto altro che vibrare, da qualche parte per terra, un ronzio profondo che era presto diventato un rumore bianco come quello delle macchine sotto alle finestre o del russare di Gabriele in corridoio. Lo aveva chiaramente sentito muoversi per prenderlo almeno un paio di volte, la luce fredda del display che per qualche istante illuminava la stanza prima di essere riposto di nuovo in compagnia di profondi sospiri e tentativi di trovare una posizione comoda per dormire.
E succede molte altre volte di dormire insieme, sempre per un motivo diverso, ed ogni volta rispondono entrambi con una scrollata di spalle perché ci sta, perché è plausibile, perché nessuno di loro è particolarmente infastidito dalla presenza dell’altro nello stesso letto. Flavio, inoltre, si è quasi abituato al fatto che spesso e volentieri Antonio si alza nel cuore della notte per andare a parlottare con qualcuno, con un tono di voce appena percettibile, prima di tornare a coricarsi e far finta di dormire per il tempo che resta.
A volte ripensa al coraggio che gli ci era voluto per sussurrargli, in uno di quei viaggi in solitaria verso l’angolo più recondito di qualsiasi spazio si trovassero a condividere, che il suo sonno valeva tanto quanto il bisogno dell’altra persona di sentirsi in diritto di chiamare a qualsiasi ora. E ricorda il modo in cui Antonio aveva risposto solo che c’era abituato, che comunque dorme poco di suo e alla fine ormai gli sembra quella la normalità.
C’erano voluti mesi per scoprire che, no, non è vero che Antonio dorme poco e, anzi, ama particolarmente poter evitare di mettere la sveglia quando possibile e che era Edoardo, che spesso e volentieri lavorava di notte, quello per cui il sonno arrivava con difficoltà e solo quando ormai era giorno.
Ma ormai quel capitolo è chiuso e Antonio ha imparato a mettere il telefono in modalità silenziosa quando finalmente si infila sotto alle coperte.
E va bene così.
Lo sente sbadigliare e stiracchiarsi al suo fianco, poi un braccio gli cinge il petto e può sentire il viso dell’altro appoggiarsi contro la sua clavicola, caldo e morbido come solo il sonno riesce a rendere i corpi delle persone.
Quella è la prima mattina in cui si svegliano completamente soli, nella luce soffusa che penetra dalle persiane serrate della sua camera, stretti nel letto in cui da vent’anni si sveglia ogni mattina e, si ritrova a pensare, sarà veramente difficile domani aprire gli occhi e doversi alzare completamente da solo.
Non che sia sicuro di volersi alzare in generale, ora come ora, deve ammettere.
«Flavio...»
«Mh?»
«Sei sveglio?»
«Insomma.»
Antonio posa un bacio sul suo petto, in un punto a caso da sopra alla maglietta, si stringe un po' di più a lui e, ancora una volta, Flavio si ritrova a pensare all'assurdità di quella situazione.
Un'assurdità bella, eh, solo piuttosto lontana da qualsiasi idea abbia mai avuto circa il suo futuro – e di idee balzane a proposito ne ha avute parecchie, tutte ovviamente mai rivelate ad anima viva, eppure nessuna prevedeva anche solo un momento di così pura e totale tranquillità.
«Volevo fare la colazione ma non so dove tieni la roba. Poi cominciavo ad aprire tutto e facevo casino.»
Nello strascinare delle parole ancora assonnate, inframmezzate da uno sbadiglio lungo e sonoro, Flavio può sentire una punta di quell'accento che Antonio cerca sempre, se non proprio di camuffare, almeno di tenere a bada.
Spesso esce fuori quando litigano, quando non pensa a quel che dice e vuole solo svuotarsi il cuore e lo stomaco, e spesso si chiede quanto gli costi tentare di essere un'altra faccia di se stesso ogni dì per tante, troppe ore al giorno.
E invece ora è solo Antonio che tenta di scoprirsi il meno possibile perché di mattina ha sempre freddo, non si stanno urlando contro come avevano fatto solo dieci giorni prima, e sente un fortissimo bisogno di iniziare a baciarlo in quel preciso istante per smettere forse tra due giorni.
Ma per baciarlo dovrebbe alzarsi e lavarsi i denti e non ne ha voglia, vuole restare in quella bolla di penombra e calore almeno un altro po'.
«Dammi cinque minuti per svegliarmi.»
«Ma pure di più, io non voglio alzarmi.»
«I termosifoni sono accesi.»
«So' contento per loro, fa comunque freddo.»
Con la coda dell'occhio può vedere Cicerone entrare in camera sua con non poca fatica, cercando di fare entrare il suo corpicino grassoccio nella stretta fessura lasciata aperta durante la notte.  Segue con gli occhi quella macchia arancione che si muove per la stanza con circospezione, bene attento a non avvicinarsi al letto, prima di salire con un tonfo sonoro sulla sua scrivania, spostando fogli e facendo cadere penne, per poi fermarsi, immobile come una statua, a fissarli.
Antonio sospira, lui ride, Cicerone per tutta risposta fa cadere un'altra penna.
Sarà un piacere riordinare la stanza più tardi, chissà se ritroverà metà della sua cancelleria o se dovrà, come al solito, comprarne di nuova.
Si sposta per lasciare un bacio appena sotto l'orecchio dell'altro, spostando i capelli con la punta del naso, mormorando un «Credo Cicerone ci stia osservando».
«Vorrà la colazione pure lui. Quel gatto pesa come un bambino.»
«O forse vuole noi per colazione.»
«Facesse di me quel che vuole, basta che fa da sé.»
«Mi mancherai quando diventerai trippa per gatti.»
«Il mio fantasma farà in modo di infestare i tuoi sogni.»
«Sei così premuroso.»
«Oh, pensavo si sapesse già! Ti porto pure i sassolini belli come fanno non mi ricordo quali uccelli. Sono un ragazzo da sposare, altro che premuroso.»
20 notes · View notes
a--piedi--nudi · 3 years
Text
Sono sempre molto poco elegante. Oggi vado a fare la spesa: bici (era parcheggiata) pantaloni Think Pink anni ottanta a quadretti verdi-blu con toppe beige e righine rosse. Scarpe da ginnastica grigie con inserti arancioni. Felpa leggera marrone con cappuccio, gilet a vento grigio con inserti rosa. Zainetto nero con appeso caschetto rosso fuoco, mascherina verde scuro. Sento a distanza pronunciare il mio nome più volte, non capisco chi sia, mi guardo attorno...eccoli, due miei amici. Lui a lei: potevi gridare hei tu, ragazza bén vestita! Forse si sarebbe girata prima! Risponde lei: è che non ero sicura, poi mi sono detta, o è lei o è una straniera. Sì, rispondo, tedesca o olandese?
14 notes · View notes
pandemoniumgirlx · 4 years
Text
L’ARRIVO DI GWEN A VENEZIA
Nelle giornate autunnali la nebbia copriva il canale come un velo. A Gabriel dava la sensazione di essersi nascosto sotto un lenzuolo. La mamma e il papà erano agitati, lo aveva capito persino lui che aveva solo dodici anni.
«Vai a cercare Axel, per favore.»
Sua madre gli accarezzò i capelli sistemandoglieli. Gabriel annuì energicamente e lasciò il salotto. Trovare Axel non sarebbe stato facile, suo fratello era bravo a nascondersi, per questo odiava giocare a nascondino con lui. Axel conosceva tutti i nascondigli e lo trovava sempre, mentre lui non lo trovava mai. Suo fratello era capace di rimanere nascosto per ore, senza annoiarsi. Si portava sempre dietro una delle sue macchinine, la sua preferita: una macchina da corsa grigia con le fiamme dipinte sui lati. Papà gliel’aveva comprata qualche anno prima, Axel aveva insistito per averla, se ne era innamorato a prima vista.
«Axeeeeeel!» Gabriel provò a chiamare il suo fratellino e ovviamente non ricevette risposta. Corse nella biblioteca e iniziò a guardare tra gli scaffali, continuando a cantilenare il suo nome.
La biblioteca era enorme, sembrava un labirinto. Gabriel era l’eroe che lo sfidava. A volte lui e Axel giocavano a fingersi Teseo e il Minotauro, una storia che la mamma gli raccontava spesso. Era spaventosa, ma l’eroe sconfiggeva il mostro e poi Rachel li riempiva di baci – lui iniziava a essere troppo grande per certe cose, continuava a ripeterselo, però gli piacevano le coccole di sua madre. Axel faceva Teseo, solo perché era più basso di Gabriel e non sarebbe stato credibile come mostro, anche se la maggior parte delle volte si incantava a guardare i libri e finiva a gambe all’aria in pochi secondi.
Finse di sconfiggere un mostro immaginario e arrivò alla fine dell’ultimo corridoio, nessuna traccia di suo fratello.
Uscì dalla biblioteca, la prossima fermata era la cucina. Avrebbe chiesto ad Agata se lo avesse visto e magari avrebbe potuto rubare anche qualche biscotto. Axel andava matto per i biscotti al cioccolato. Entrò in cucina di soppiatto, cercò di fare meno rumore possibile e scivolò vicino al bancone dove era appoggiato un vassoio di biscotti appena sfornati.
«Gabriel, giù le zampe dai biscotti» lo sgridò Agata. «Scottano, non vorrai bruciarti.»
La donna gli sorrise e lui fece un sorriso innocente. I biscotti avevano un odore buonissimo. «Axel è qui?» le chiese allungando di nuovo una mano.
Agata gli diede un colpetto con il cucchiaio di legno. «No, non lo visto. Hai guardato in camera sua?»
Gabriel non ci aveva guardato, ma era certo che suo fratello non fosse nella sua camera, era un nascondiglio troppo scontato.
«Vieni» Agata gli fece segno di avvicinarsi, prese un tovagliolo e ci mise dentro qualche biscotto al cioccolato, poi lo chiuse come un fagotto e lo diede a Gabriel. «Questi si sono già raffreddati. Ora fuori dalla cucina, non è un posto per voi bambini.»
Lo cacciò con muovendo il cucchiaio di legno. Gabriel prese un biscotto e sorrise contento quando ne prese un morso mentre andava verso la sala da pranzo.
Entrò nella stanza ciondolando e saltando qualche passo. «Axel! Ho i biscotti al cioccolato! Dove ti sei cacciato?» gridò. I biscotti erano l’esca perfetta, infatti Axel sbucò da dietro una tenda e si precipitò verso di lui. Gabriel salì sul tavolo aiutandosi con una sedia e Axel lo seguì.
«Dammi un biscotto!»
Gabriel saltò giù dal tavolo e ci si infilò sotto sedendosi a gambe incrociate sul pavimento. La testa di suo fratello sbucò dal tavolo, lo guardò con i suoi occhi azzurri. I capelli gli circondavano il viso come una specie di corona, erano attirati verso il basso dalla gravità. Gabriel si mise a ridere.
«Posso avere un biscotto?» gli chiese suo fratello.
«Vieni giù stupido, ti farai male» annuì e gli fece segno di scendere e sedersi accanto a lui.
Axel saltò prima su una sedia e poi sul pavimento, lo raggiunse sotto il tavolo e afferrò un biscotto con aria trionfante. Gli diede un gran bel morso sporcandosi di cioccolato e lasciando cadere delle briciole sul pavimento.
Tumblr media
«Mamma mi ha detto di cercarti» gli disse Gabriel pulendogli la faccia con la manica della maglietta. Gli piaceva occuparsi di suo fratello, anche se lui si faceva sempre indietro e voleva fare le cose da solo.
«Mi hai trovato» rispose scompigliandosi i capelli scuri. Erano castani come quelli di Gabriel, ma molto più scuri, tanto che sembravano neri come quelli di Dominic. Sembravano un nido di uccelli, ma Axel si stava rifiutando categoricamente di tagliarli, come Gabriel si rifiutava di mangiare le verdure verdi. Che brutto colore il verde.
Lasciarono la sala da pranzo dopo aver fatto piazza pulita dei biscotti che Agata gli aveva dato e raggiunsero mamma e papà all’ingresso della residenza. Erano in piedi più o meno al centro. La mamma era bella come sempre. Indossava un paio di pantaloni larghi rosso scuro e una camicia bianca, e teneva i capelli legati. Papà invece era vestito come sempre, in completo scuro con anche il gilè, aveva l’aria importante.
Si voltò verso i figli quando li vide avvicinarsi, Gabriel cercò di mettersi più dritto come suo padre gli aveva detto di fare, Axel invece si strinse nelle spalle e serrò la presa sulla macchinina che teneva in mano.
Il portale apparve qualche metro davanti a loro. Come uno scoppio improvviso di colori. Sembrava uno specchio rotto colpito dai raggi del sole.
Ne uscirono un giovane uomo e una bambina. Axel si nascose dietro la gamba della mamma. Gabriel guardò prima l’uomo, il suo aspetto lo fece rabbrividire aveva i capelli bianchi che colpiti dalla luce del pomeriggio sembravano gialli, la pelle molto chiara e un’espressione autoritaria che associava sempre a suo padre. La bambina invece era a disagio e si era fatta piccola piccola, quasi potesse nascondersi nella felpa blu che indossava. Quella felpa era troppo grande per lei.
«Jericho» suo padre strinse la mano al giovane uomo, che ricambiò la stretta.
«Dominic, Rachel sono contento che abbiate accettato questo compito. Gwen non può continuare a vivere in una caverna da sola. Confido che con voi possa crescere in compagnia» disse rivolgendo quello che doveva essere un sorriso a Gabriel e Axel.
«Crescerà con tutto l’amore che possiamo offrirle» lo rassicurò sua madre. Quindi quella bambina sarebbe rimasta lì con loro. «Coraggio ragazzi, presentatevi.» La mamma li esortò con un sorriso amorevole.
Gabriel si mosse per primo, si avvicinò cercando di sembrare sicuro e tese la mano alla bambina, come gli aveva insegnato suo padre. «Ciao, io sono Gabriel Whitewalker.»
Lei fece un passo avanti e piegò la testa di lato scrutandolo con i suoi occhioni grigi. Aveva i capelli castani che le accarezzavano le spalle. Avrebbe potuto giocare con loro, finalmente avevano trovato la loro Arianna. Guardò la mano tesa di Gabriel, poi si sporse verso di lui per guardare Axel.
«Hai un fratello?» gli chiese.
Gabriel abbassò la mano, lei la stava ignorando. «Sì Axel! Lui ha dieci anni e io dodici» annuì energicamente. Axel fece un passo avanti e lo affiancò.
«Anche io ho dieci anni!» esclamò la bambina sorridendo contenta.
«Tu sei una femmina» disse invece Axel.
«È un problema?» gli chiese lei incrociando le braccia al petto e cambiando espressione.
«No» Axel scosse il capo imbarazzato. «Mi piacciono le femmine» accennò un sorriso.
«Sarà bello averti qui» aggiunse Gabriel.
La bambina sorrise di nuovo e lanciò un’occhiata sospetta ad Axel.
«Digli come ti chiami» il giovane uomo parlò con la bambina, che alzò la testa per guardarlo e annuì, come se si fosse appena ricordata di non aver ancora detto il suo nome.
«Mi chiamo Gwen, Gwen Lightshade.»
«Benvenuta Gwen.»
4 notes · View notes
persointraduzione · 4 years
Text
Singolari Pluralità
Singolari Pluralità
I. Alessandro
Alessandro sedeva sul gradino in pietra alla base della porta a vetri, osservando il sole che lentamente scendeva oltre le colline dove il grano era stato mietuto da poco e dove i contadini bruciavano le stoppie. In quella luce calante che virava dall'arancio al viola ed al blu le lunghe linee ondulate di fuoco sollevavano una sottile coltre di fumo grigio e di lontano si poteva odorare lieve l'odore di bruciato. Una piccola radio a cassette, posata sulla panchina di fianco all'ingresso suonava rock anni '70. Qualche timida stella faceva capolino in alto, nel cielo che rapido si scuriva, mentre pigramente le dita della mano sinistra del ragazzo piluccavano more di gelso da una ciotola. Erano fresche, lavate con l'acqua della fontana al centro della villa pubblica. La lunga via davanti alla porta della vecchia casa di famiglia ospitava per lo più garages o rimesse. Alcune automobili erano parcheggiate sulla destra, mentre dal campetto da calcio giungevano le grida dei giocatori dell'ultima partita. 
Un cane di chissà chi sbucò dal vicolo e rallentò appena il suo passo per guardarmi. Nessuno dei due, probabilmente capì l'altro ed il quadrupede riprese il suo cammino verso le auto. I genitori ed i nonni del ragazzo avrebbero tardato, ma non importava. Lì in paese il tempo aveva un altro valore ed un'altra misura rispetto a quello della città lontana. Chiudendo gli occhi il ragazzino si lasciò pervadere dalla musica e sorrise piano, per il piacere di quelle sensazioni sonore, che gli tennero compagnia fino alla fine della cassetta.
Alzatosi entrò in casa, nelle ombre fresche del soggiorno e salì le scale verso la sera con il canto dei grilli che si alzava dalla siepi e dagli sterpi dabbasso.
II. LUISA
Luisa camminava per i corridoi della scuola senza far rumore, guardandosi intorno e si diresse al bagno delle ragazze. Si avvicinò alla finestra a la aprì cercando di non farsi sentire. Si frugò nelle tasche ed estrasse il suo piccolo spinello. Di nuovo diede un'occhiata in giro per vedere se ci fosse qualcuno. Era l'ultima ora. Con l'accendino diede fuoco alla strana sigaretta che teneva tra le dita. Inspirò con lentezza e pian piano si rilassò, guardando dalla finestra. Il cortile della scuola era verde di tigli, i motorini e le biciclette erano allineati lungo il muro sud dell'edificio. Di là dal cancello le macchine passavano ed oltre ancora il fiume scorreva verde ed opaco, verso ovest. 
Luisa chiuse gli occhi ed una spirale di colori si avvitò nel buio delle palpebre serrate. L'odore strano di quel fumo proibito pian piano stava scemando. La sigaretta era finita. Un vociare rumoroso riempì l'aria ed alcune ragazze si diressero verso il bagno. Luisa gettò il residuo del mozzicone nel wc, tirò l'acqua dello sciacquone e si chiuse dentro, aspettando che le altre andassero via. 
Trascorse un po' di tempo prima che tutto tornasse al silenzio. Seduta sul coperchio del water Luisa respirava piano, con un orecchio teso a cogliere cosa accadesse fuori, ma per il resto avviluppata in una sensazione di pace e di ispirazione. Con uno sforzo di volontà corse a sciacquarsi il viso con acqua fredda e scese le scale verso il portone. Ancora c'erano compagni che si attardavano nell'atrio. 
La sua vecchia bicicletta coperta di adesivi la aspettava nella rastrelliera. Luisa aprì il lucchetto, tirò un profondo respiro e salì, pedalando verso casa nel tepore primaverile. I suoi capelli neri e viola si muovevano piano mentre la bicicletta avanzava lungo il viale, sfiorata da un traffico costante. I suoi jeans larghi e tagliati erano slavati e vissuti e la maglietta nera col logo dei NOFX, ricordo di un concerto di qualche mese prima si stringeva sulle sue forme di diciassettenne. 
Arrivata sotto casa, davanti al portone del palazzo, mise la bici sotto la tettoia ed entrò in casa. I suoi non sarebbero tornati prima di quella sera. 
Con le sue mani bianche, le unghie con lo smalto viola, si grattò piano il naso col piercing nella narice destra. Aprì il frigorifero e si fece un sandwich freddo, poi andò in camera, infilò nello stereo una cassetta con le sue canzoni preferite degli Skid Row e si sfilò i pantaloni. Si mise nel letto a pancia sopra. Gli effetti dello spinello erano molto deboli, Luisa si sentiva strana, languida. La sua mano destra scivolò nel suo intimo e piano, delicatamente, si diede piacere, fino a tremare e a sospirare. Subito dopo si addormentò, la finestra aperta che portava dentro il monotono suono delle macchine, del traffico sulla strada.
III. Nima e Fokar
Il terreno umido e fresco su cui sedeva Nima profumava di autunno. Il sole del tardissimo pomeriggio scendeva verso le colline che si alzavano sparse dalla enorme pianura erbosa. Il modesto rilievo su cui la ragazzina si era fermata ospitava anche qualche albero dal tronco scuro, coperto di muschio dal lato che guardava a settentrione. Le foglie, in quel tramonto senza vento, erano immobili, nelle loro sfumature tra il giallo, il rosso e il marrone. A terra diverse di loro erano morbidamente planate ruotando piano, chissà quando. Una falce di luna, in alto, brillava lattea ed intensa nel silenzio del cielo. 
Mentre il disco solare iniziava a sparire all'orizzonte, l'aria si tingeva di colori sempre più cangianti, ma la luce era ancora abbastanza intensa da consentire di vedere con chiarezza. 
L'aria cominciò a rinfrescare. La ragazzina frugò nel suo tascapane di fibre naturali, estrasse un piccolo involto di tela grezza dentro la quale si trovavano tre gallette aromatizzate alle erbe selvatiche. Con le mani leggermente screpolate le estrasse una per una, sgranocchiandole. Quel rumore sembrava essere l'unico in quei dintorni, l'unico percepibile al suo orecchio almeno. 
Terminato lo spuntino Nima si alzò e con le mani si pulì alla bell'e meglio i pantaloni color caki, si stirò la schiena e prese a scendere il modesto rilievo passando tra i radi alberi ed immergendosi nell'enorme mare erbaceo, in direzione di casa. Non ci avrebbe messo molto, al massimo una quarantina di minuti, pensò.
Mentre il suo avanzare produceva il fruscio familiare causato dal movimento nella prateria. Ora il cielo si era fatto scuro ed era piuttosto freddo. La ragazzina strofinò le mani sulle braccia coperta dalla leggera camicia estiva, ma non serviva a molto.
Dopo una camminata abbastanza agevole, Nima arrivò a casa sua. L'edificio semplice a pianta circolare, sviluppato su due piani appariva grigio scuro nella sera. Le luci della cucina erano accese. I nonni dovevano essere già a tavola, erano abituati alle escursioni della nipote ed al fatto che i suoi orari erano piuttosto imprevedibili.
La porta si aprì e nonna Dema guardò la nipote dodicenne e le sorrise indicandole il piatto con lo stufato di borgel e funghi. La piccola sedette sulla sedia di materiale sintetico e salutò nonno Tarus, che sedeva davanti al proiettore olografico fumando il suo tabacco preferito, che si levava dalla pipa in legno rossastro, disegnando deboli volute ed aromatizzando l'aria della cucina.
Al termine della cena Nima salì in camera e si mise seduta alla finestra, guardando la notte, nel cielo povero di stelle. Il sistema di Nerod si trovava ai confini più estremi della galassia. Verso oriente si poteva ammirare il fiocco rossastro della nebulosa di Rotar, uno degli oggetti più luminosi del nero cielo di Kuoner, il pianeta della ragazzina. Kuoner era una grande fattoria, popolato da indigeni e coloni di un altro mondo lontano. 
D'improvviso un suono simile ad un tonfo attirò lo sguardo di Nima verso il cielo occidentale. Una strana sensazione la colse, come se il cielo scorresse da una parte all'altra, ruotando rapidamente. La vertigine se ne andò così come era arrivata e finalmente la giovane capì cosa fosse successo. Nel cielo si era materializzata una nave di classe V che si dirigeva verso la fattoria. 
Il velivolo scese a circa cento metri dall'edificio e si aprì il portellone anteriore, dal quale scesero tre persone. 
I nonni di Nima uscirono e chiamarono a gran voce verso i nuovi venuti. Nima scese le scale di corsa e si gettò a capofitto verso uno dei tre. 
Dopo una lunga assenza il cugino Fokar era rientrato dai suoi viaggi commerciali, insieme ai suoi compagni.
Sotto il pergolato all'aperto i viaggiatori consumarono un pasto veloce e parlarono a lungo con Nima ed i nonni dei loro viaggi e dei loro commerci. La notte si faceva sempre più fredda ma Nima non ci faceva più caso. I suoi occhi vagavano nel cielo a cercare rotte invisibili. Avrebbe voluto seguire il cugino, ma era ancora troppo giovane. Una vita in un posto come Kuoner non era la sua massima aspirazione. 
Quando fu tornata nel suo letto il sonno la colse subito, senza che la sua immaginazione potesse perdersi verso lo spazio lontano. 
Fokar si affacciò alla porta della sua stanza immersa nel buio e la salutò a bassa voce. Il mattino successivo, di buon'ora sarebbe dovuto ripartire. Camminare nel corridoio della casa in cui era cresciuto gli diede una fitta al cuore. La vita del mercante gli piaceva, ma l'effetto della nostalgia a volte era forte e quello che avrebbe voluto era tornare a fare il contadino e l'allevatore in quella grande prateria.
Nonna Dema era già tornata a dormire, mentre Tarus sedeva nel buio a fumare. Sentì il ragazzo scendere silenziosamente gli ultimi gradini e si voltò a guardare la sua sagoma. Il vecchio si alzò ed abbracciò il nipote, per poi dargli una pacca sulla spalla ed augurargli un buon viaggio. Fokar aveva gli occhi umidi di pianto e la sua mano li asciugò prontamente, mentre come un film nella sua mentre scorrevano immagini, suoni e parole di quasi trent'anni di vita in quel posto. 
Era tardissimo e il ragazzo si stese sul divano, mentre il nonno saliva in camera.
Il sonno arrivò lentamente, a singhiozzo, fino a dare a Fokar l'illusione che il tempo non fosse passato e che lui ancora vivesse lì.
IV. Angela e Carmen
La sera del paese in festa era tutta una luce. Bancarelle, famiglie, anziani, bambini che sciamavano caotici lungo le vie, capannelli di persone che parlavano davanti ai bar o alle panchine lungo le vie.
Nel piazzale antistante la scuola i ragazzi ascoltavano musica dance e pop mixata da un Dj improvvisato ma dal buon fiuto. Il volume assurdo si abbatteva su quella distesa di asfalto illuminata dai lampioni pubblici e da un set di luci da palco piuttosto approssimativo. Tanti ballavano, molti si scambiavano sguardi, alcuni sparivano sul retro dell'edificio. C'era chi beveva qualcosa e chi rideva come matto a chissà quali battute. 
Angela se ne stava con un gruppo di amici a parlare del più e del meno. I suoi capelli biondi, mossi, incorniciavano un viso simpatico, su cui poggiavano degli occhiali piuttosto fini. Angela ebbe un sussulto quando i suoi occhi incontrarono quelli di Carmen. Era successo ancora, ma in modo molto lieve. Un qualcosa le blocco stomaco e respiro, la schiena tremò. Carmen ricambiò lo sguardo. Magrissima, capelli lisci, castani, a caschetto, grandi occhi verdi. 
Angela era una ragazza molto semplice, nata e cresciuta in una famiglia di lavoratori poco istruiti, un ambiente povero di stimoli, mentre Carmen era figlia di un medico e di una insegnante, figlia unica, coccolata ma non viziata. Carmen leggeva molto, sentiva molta musica, viaggiava coi genitori. Era una delle più evolute del paese.
Durante la serata le due ragazze si persero e si ritrovarono più volte, fino a che sedettero vicine su un muretto. Si conoscevano e si misero a parlare del più e del meno, fino a quando Angela, con una fasulla nonchalance chiese a Carmen se avesse dato già il suo primo bacio. Sicura l'amica le disse di sì, più di uno ad un paio di ragazzi. Angela abbassò lo sguardo sentendosi sfigata. Carmen le disse, che non c'era problema, come amica lei c'era. Angela sgranò gli occhi e la guardò. Carmen annuì sorridendo. Le disse di andare verso la fontana fuori dal paese seguendola a distanza.
Gli occhi di Angela seguirono la figura di Carmen che usciva dal complesso scolastico e che imboccava la via che usciva dal paese. Col cuore che batteva all'impazzata la seguì con la testa che faceva mulinare mille pensieri e paure. Così nervosa non era stata mai. Quando entrò nel buio percorse qualche decina di metri cercando di trovare l'amica, ma senza vederla. Di punto in bianco la voce di Carmen la chiamò ed Angela la vide. Le due sedettero su un muretto in mezzo alla vegetazione. Carmen carezzo le spalle dell'amica e cercò i suoi occhi nel buio. I due volti si avvicinarono. Angela, inesperta sbattè un labbro sui denti di Carmen, che sorrise e che poi unì le sue labbra a quelle di lei, per poi schiuderle piano ed iniziando una dolcissima danza di lingue e respiri. Il bacio fu breve. Le due si guardarono ed Angela ringraziò Carmen...una cosa piuttosto stupida da fare, pensò.
Alzatesi dal muretto, le ragazze tornarono alla festa. Per qualche strano motivo, da quel momento in poi il loro rapporto divenne assolutamente ordinario e quelle grandi emozioni che Angela aveva provato furono archiviate nella cassettiera dei ricordi. Perfino il sapore di quel bacio scomparve, nessuna delle due lo ritrovò mai.
V. Stefano
Il letto sfatto era illuminato dalla luce proveniente da una finestra su cui la pioggia si accaniva con violenza in quel mattino d'estate. Guido si faceva una doccia fresca ed era assetato. Stefano, il suo giovane compagno, dormiva pesantemente, ancora. 
Uscito dalla doccia Guido andò a svegliare il ragazzo. I due si scambiarono un leggero bacio e si diressero in cucina a consumare una colazione a base di succo d'ananas ghiacciato, yogurt e frutta. Poco dopo Guido uscì per andare ad un appuntamento di lavoro. Stefano si lavò e si vestì. Mentre stava mettendosi la camicia il suo cellulare suonò con un numero sconosciuto. Il suo sguardo indugiò sullo schermo ma poi decise di non rispondere, salvo cambiare idea all'ultimo, ma la linea cadde. Con uno sbuffo il ragazzo si disse che con ogni probabilità era pubblicità.
Una volta pronto fece per uscire ed andare a lavoro, quando il telefono squillò nuovamente e questa volta rispose, ma dall'altra parte solo silenzio, poi la linea cadde di nuovo. 
Senza pensarci troppo, Stefano si incamminò sotto i portici e si diresse al negozio che gestiva col fratello. Un negozio di musica vintage, dai dischi, agli strumenti, alla memorabilia. Al suo arrivo il fratello maggiore Gianni lo rimproverò per il ritardo, ma la giornata andò molto bene ed il battibecco fu presto dimenticato. Al momento della chiusura Guido chiamò per invitare Stefano a cena, ma il ragazzo rifiutò. Era stanco, quella sera avrebbe solo fatto un aperitivo con il fratello e la cognata, poi sarebbe andato a casa. 
Dopo essere entrato nel suo piccolo appartamento in centro, Stefano si spogliò ed accese l'aria condizionata. 
Gettatosi sul divano accese la tv, ma proprio in quel momento squillò ancora il telefono con quel numero sconosciuto. Innervosito Stefano rispose che lo scherzo non gli piaceva. A quel punto una voce giovane di ragazza si fece sentire, era Giulia, la sua ex. Il giovane cercò di mantenere una tono neutro ma lo sforzo fu vano perchè Giulia manifestamente cercava di ottenere le attenzioni di Stefano, il quale le ribadiva gentilmente di avere chiarito definitivamente il proprio orientamento sessuale.
Sentire il dolore di Giulia, tuttavia, gli provocava grande dispiacere. Erano stati non solo fidanzati ma anche molto amici e complici per anni. Un rapporto così non si cancellava con un colpo di spugna, doveva ammetterlo. 
Durante la conversazione una pausa cadde improvvisa. Quella finestra di silenzio creò un inatteso inciampo. Giulia trattenne il respiro, mentre Stefano percorse i contorni del viso di lei, nella sua memoria. Non si vedevano da più di un anno...i suoi capelli chiari, lisci, a caschetto, i grandi occhi nocciola ed il fisico magro e minuto. Giulia era una ragazza dal carattere complesso e contraddittorio, frequentarla era stato piacevole, ma molto impegnativo, forse anche perchè Stefano sentiva sempre più intenso il desiderio verso figure maschili. Combattere con quella cosa non era stato facile e quando si decise a parlarne apertamente con lei le cose erano scoppiate, un intero mondo era andato in pezzi, schegge dolorose si erano sparse ovunque e si erano conficcate dentro entrambi.
Guido era arrivato qualche mese più tardi e la loro relazione era cominciata in modo difficile e stentato, ma poi si era assestata e Stefano aveva ricominciato a vivere in modo sereno.
Giulia, con quella chiamata, era ricomparsa in modo inaspettato e francamente Stefano non capiva il perchè visto come si erano lasciati. Durante quella pausa, quel silenzio lungo ed inatteso, mentre i ricordi riaffioravano, gli occhi di Stefano si inumidirono e lui deglutì, per poi asciugarsi le lacrime. La conversazione riprese con Stefano che chiese “Giulia, perchè? Perchè hai chiamato?”. La ragazza non rispose subito, poi disse “Mi manca...come mi facevi sentire...tanto”.
Stefano sospirò e rispose “Giulia, lo sai..dai..io sono diverso. Abbiamo avuto una storia molto intensa, ma io sono, ormai lo so...omosessuale. Non è che non pensi ai nostri tempi insieme, tu sei stata importantissima nella mia vita, per quasi nove anni, non è poco. Non è stato facile per me capire...capire tutto quello che sono, voglio dire, non solo l'orientamento sessuale, anzi forse quella è la cosa più semplice da accettare. Ho trascorso molto tempo a capire quali fossero i miei limiti, i miei desideri, i miei talenti. Ho ingoiato molte cose amare, mi sono odiato, ferito. Forse, anzi, sicuramente non sono stato il solo, non ho la presunzione di avere avuto l'esclusiva in questo senso. Ho avuto la fortuna di avere un fratello come Gianni ed una cognata come Deborah ed un nipote come Franco...loro sono sempre stati con me, colmando l'assenza dei miei genitori. E poi ho incontrato Guido, non lo hai mai incontrato e....è un uomo straordinario. Mi ha aiutato moltissimo a ricomporre i pezzi della mia vita, ad affrontare le implicazioni interiori ed esteriori della mia omosessualità. Guido mi tiene per mano, mi dona passione, sicurezza, tenerezza e poi è una persona ricca e profonda. Sono stato molto fortunato ad incontrarlo”.
Seguì un'altro piccolo silenzio e poi Giulia biascicò un “Vaffanculo!” appena udibile ma comprensibile e poi riprese la parola “Allora è vero...che sei solo...irrimediabilmente....”.
“Cosa?” chiese  Stefano “Un frocio? Sì, lo sono, è quello che sono. Sei contenta? E' chiaro adesso?”.
Giulia eruppe in un pianto dirotto. Stefano non seppe né che dire né che fare. “Giulia, dai, non fare così..cosa...cosa pensavi...voglio dire...non è stato facile neppure per me. Non credere che solo perchè ho chiarito il mio orientamento sessuale il resto..voglio dire … la vita di prima sia scomparsa via, sparita nel nulla. Io, sono sempre Stefano, lo stesso che ha vissuto per anni con te, lo stesso che hai conosciuto e con cui hai condiviso tanto. Tu per me sei stata una delle persone più importanti della mia vita, non rinnegherò mai neppure un secondo della nostra vita insieme, neppure un secondo, fosse anche di dolore. Ti ho amata come mai avevo amato nessuno prima ed in un certo senso come forse non amerò nessuno mai. Quello che … quello che è successo, il fatto di comprendermi, accettarmi, la forza di prendere la mia strada è stato doloroso, te l'ho già detto. La fine della nostra storia mi ha disintegrato, credevo che nulla più sarebbe successo. Non mi importava essere gay o etero o qualunque altra cosa. Prima di tutto ero, sono, sarò una persona e...sprofondai in una depressione tremenda”.
Giulia sospirò “Stefano...scusa...io...mi dispiace, sono stata egoista, io...volevo solo..speravo che forse avremmo potuto in qualche riprovarci. Sono una cretina. Tu ormai sei lontano. Io non ho più avuto nessuno, ho sempre pregato che saresti tornato, che ci saremmo ritrovati ed avremmo messo a posto i pezzi di tutto quello che eravamo. Non ero sicura che tu fossi davvero...dai...hai capito. Pensavo fosse una cosa passeggera, una...curiosità, diciamo”.
Stefano sorrise ma Giulia non poteva vederlo “Sì, beh...pure io ci ho pensato alcune volte, ma è stato un pensiero ozioso, dettato da una nostalgia, dall'affetto evocato dai ricordi, ma no...non è più possibile. Quella che chiami curiosità me la sono tolta ed ho capito che non era tale. Vedi Giulia, non è che essere gai significa solo andare a letto con altri uomini, voglio dire...non è solo sesso. Io, noi, siamo persone e ci innamoriamo come tutti. Ci sono gay, cosi come etero, che desiderano una vita da single, in cui la componente sessuale non si lega ad un solo partner, così come esistono gay monogami o poliamorosi...è esattamente come per tutti. Io e Guido non condividiamo solo una mutua attrazione sessuale, ma anche sogni, progetti, guardiamo al presente ed al futuro...insieme. Siamo una coppia”.
Giulia abbassò lo sguardo verso il tappetino scendiletto, si passò una mano tra i capelli e mosse la testa in un lento sì “Ho....ho capito Stefano, ti prego, scusami. Sono stata inopportuna, avrei dovuto lasciare i ricordi dove stavano”.
“Non ti preoccupare, forse, al tuo posto avrei fatto lo stesso. Giulia, non dimenticarlo mai, io ti ho amata tanto e di voglio bene ancora. Se in qualche modo pensi che potremmo essere vicini, in un modo diverso...beh...io sono, sarò sempre qui per te”.
Giulia salutò Stefano e si stese sul letto, svuotata, con gli occhi fissi sul soffitto.
Stefano guardò lo schermo del cellulare. Lo appoggiò di fianco a se, si alzò ed andò in bagno, infilando la testa sotto l'acqua del lavandino, fredda.
Era l'ora dell'aperitivo, avrebbe fatto tardi.
VI. Raùl
Quella notte di fine settembre non sembrava voler portare con sé il sonno. Raùl spense la televisione, ne aveva guardata troppa. Era già mezzanotte passata. Si alzò dal divano ed andò alla finestra. La strada in cui abitava era illuminata da lampioni accesi alternativamente, per via del risparmio energetico. In giro non c'era nessuno, perlomeno non lì di sotto.
Meglio provare a prendere un po' d'aria, aria metropolitana. 
Raùl indossò i suoi jeans neri, gli stivaletti in pelle piuttosto vissuti, una maglietta dei Deep Purple ed un vecchio gilet nero in pelle. Uscì dall'appartamento e prese l'ascensore. Il condominio era più buio e silenzioso di una maledetta tomba. I passi lungo il corridoio dei garage risuonavano con una eco amplificata. La porta metallica si aprì verso l'alto con un modesto cigolio e Raùl entrò, alzò la moto dal cavalletto e la spinse fuori, richiuse il garage, salì, accese il motore e uscì fuori nella notte. Il rumore rombante della sua custom arancione prese a martellate il silenzio e la coppia di acciaio e carne si diresse verso la Avenida Carlos V, ancora percorsa da molte auto. Raùl guidò per un bel po' senza meta, zigzagando tra le luci dei fari e dei lampioni fino a che non si fermò davanti ad un locale chiamato la Bodega Asturiana. Una volta ci lavorava un suo amico che adesso abitava in Austria. Non aveva mai capito come mai un latino avesse potuto infilarsi nel cuore del mondo germanico. Bah, affari suoi.
La moto si fermò davanti all'ingresso, il locale era ancora aperto. Raùl scese ed entrò per un piccolo spuntino di formaggio, prosciutto e vino rosso. Gli avventori, a quell'ora non erano tanti anche perchè la chiusura era imminente. 
C'era un uomo sulla sessantina, coi capelli brizzolati. Sovrappeso, dallo sguardo perso in chissà quale pensiero, c'era una donna intenta a creare un piccolo origami con un fazzoletto di carta. Aveva i capelli biondi, era piuttosto magra, occhi azzurro slavati, indossava un vestitino piuttosto leggero, color carta da zucchero. Non aveva nulla che non andasse, ma nel complesso Raùl la trovava incongrua e fastidiosa.
Ad un tavolo lontano c'erano due ragazzi sulla trentina, probabilmente amici, che bevevano e scherzavano rumorosamente.
Terminata la sua consumazione, il motociclista uscì, sperando di trovare un'aria più fresca, ma quella notte la città non voleva lasciare che il vento la penetrasse e scorresse in lei, l'unico modo di respirare era guidare, senza sosta. 
Come incrinando un leggero strato di ghiaccio il pensiero del lavoro aprì una crepa nella coscienza di Raùl. Il giorno dopo avrebbe dovuto alzarsi presto ed avrebbe avuto a lezione alcuni ragazzi difficili della scuola. Un tonfo di disagio gli si tuffò nello stomaco ed una imprecazione uscì dalle sue labbra mentre avviava la moto. Doveva tornare tornare a casa e dormire, a costo di ingollare qualche pasticca. Imboccando la grande rotatoria di Plaza De La Independencia, la moto sfrecciò verso Avenida Carlos V e poi verso Calle Pedro Antonio de Alarcòn, dove viveva Raùl.
Quando il centauro rientrò nel suo appartamento disordinato erano quasi le due. Non era stato via molto. Buttò i vestiti sulla poltrona, senza accendere le luci e poi si recò in bagno, prese una pastiglia di tranquillante e si mise a letto. Dopo un po' il sonno arrivò e fu una benedizione.
Il mattino dopo, alle 7.00, la sveglia prese a schiaffi l'aria della stanza e Raùl si alzò a sedere col cuore che batteva forte. Ma che cavolo...
Occorsero alcuni secondi per capire cosa, dove, come, quando e perchè (soprattutto), ed alla fine una doccia fresca riuscì nell'intento di riavviare i processi cognitivi dell'insegnante, il quale si vestì nel modo più decente possibile, scese dabbasso e prese la metro diretto alla scuola, con lo sguardo che saettava nel vagone a tracciare una mappa dei viaggiatori, tutti apparivano diversi, a giudicare dai loro volti, nel loro piglio mattutino.... Raùl scosse la testa e si disse che quel mattino, per lui almeno, non sarebbe stata proprio cosa. 
VII. Darmon
Darmon camminava sfinito col suo zaino carico di cristalli di Puron, il sentiero polveroso sembrava non finire mai. La miniera penitenziario si estendeva a perdita d'occhio, in ogni direzione, le enormi macchine per la escavazione erano attive tutto il giorno e tutta la notte sul fondo di quell'enorme cratere. Infinite teorie di minatori percorrevano sentieri come quello su cui camminava lui. Uomini di tutte le età, alcuni vigorosi, altri macilenti, ma tutti stracarichi, avanzavano in fila verso i punti di raccolta per poi ripercorrere il tragitto in senso contrario, più e più volte al giorno.
Il cielo era color del rame, il respiro pieno di polvere, così come tutto il corpo ed i vestiti mezzi laceri.
La sera venne tardi, troppo tardi, così come tutti i giorni. Darmon ed i suoi compagni si radunarono fuori dai cancelli di ingresso in attesa dei trasporti che li avrebbero condotti ai loro alloggi, situati a circa venti km dal posto di lavoro. Si trattava di grandi palazzi popolari, composti di piccoli appartamenti. Nello stesso complesso si trovava un edificio che fungeva da refettorio ed ospedale.
Quando il trasporto arrivò, Darmon ebbe la fortuna di trovare un posto vicino al finestrino. Non c'era molto da vedere in realtà. Tutta quella regione era sostanzialmente desertica ed il paesaggio era di una gran monotonia, specie se si era distrutti dalla fatica.
Arrivato al centro dormitorio, il trasporto si fermò di fronte al grande refettorio e tutti gli operai sciamarono fuori. Darmon entrò nel luogo che tutto era fuorchè accogliente. Illuminato con neon verdastri, arredato in modo estremamente spartano, offriva una scelta di cibi assai limitata e spesso la qualità era quella che era. 
Entrato nell'atrio del palazzo dormitorio, prese l'ascensore e salì fino al quindicesimo piano, dove si trovava il suo piccolo monolocale. Buttò la spesa sul tavolo e si fece una rapida doccia, poi guardò la olovisione, un piccolo lusso consentito ai detenuti. I programmi erano di una monotonia incredibile. Darmon non si interessava di politica, veniva da un piccolo villaggio lontano, così lontano che quasi ormai arrivava a pensare che la sua esistenza forse era frutto di un falso ricordo. Nonostante questo il giovane non si sentiva così rassegnato a quella vita, anche se la conduceva da molti anni. L'ologiornale costantemente magificava le opere del governo federale ed i risultati delle grandi compagnie industriali che trainavano l'economia del paese. Annoiato da tutta quella propaganda il minatore spense l'apparecchio e si stese crollando in un sonno profondo, troppo stanco anche per vomitare all'idea di un altro giorno alla miniera.
Il mattino dopo una pioggia insistente infradiciava i sentieri che divenivano stradelli di fango mentre le pareti della montagna si riempivano di rivoli che trascinavano acqua e graniglia. I vestiti zuppi erano fastidiosi e rendevano più scomodo il lavoro, così come le scarpe piene d'acqua. Una vera tortura. 
Piovve quasi tutto il giorno e la pausa pranzo avvenne sotto una delle tettoie che fungevano da riparo per i macchinari, curioso..i macchinari avevano un riparo dedicato ed i minatori no, questo la diceva lunga..ma molti suoi compagni, per non dire tutti, accettavano a testa bassa quello che reputavano un destino ineluttabile, un ordine naturale delle cose. Darmon no, non sopportava oltre di scontare quella pena. Un paio di volte aveva sentito alcuni compagni lamentarsi a bassa voce. Erano due minatori più anziani di lui, stranieri. Non aveva idea di chi fossero, né di dove e da quella volta li aveva incrociati raramente e sempre da lontano.
Mentre stava consumando il suo pasto a base di riso, verdure, spezie e carne, i suoi occhi incrociarono quelli del vecchio Sabad, forse il più vecchio del suo turno. Darmon non avrebbe saputo dire quanti anni avesse, ma quell'uomo era incredibilmente forte in rapporto alla sua corporatura esile. Aveva due enormi occhi neri, luminosi, ed una folta barba bianchissima. Indossava un turbante scuro, un po' consumato, ma era l'unico tra tutti quelli che il ragazzo avesse visto lì dentro, ad indossare qualcosa di simile. Il vecchio ingoiò un boccone e poi sorrise coi suoi denti bianchissimi ed il ragazzo ricambiò. Senza sapere perchè, Darmon si alzò e lo raggiunse.
“Sabad, come stai? Credo che sia la prima volta che parliamo, vero?”.
L'uomo assentì con un cenno del capo ed invitò il ragazzo a sedere. 
“Ti chiami Darmon vero? Di dove sei ragazzo?” chiese con voce dolce.
“Vengo da...Terleg..Terleg è un villaggio molto lontano da qui, così lontano che non saprei neppure trovare la via di casa se mai potessi tornare. Ci ho passato tutta l'infanzia e l'adolescenza. Era una vita molto diversa...da questa intendo. La mia era una famiglia povera ma mio nonno era insegnante e mi ha detto molte cose...tante cose...ma ho dimenticato quasi tutto, ormai da quasi dodici anni sono qui alla miniera, e solo per avere rubato qualcosa da mangiare. So, credo, che fuori di qui ci sia qualcosa, forse qualcosa di meglio intendo. L'olovisione mostra un mondo che credo non sia esattamente quello in cui viviamo. Ho questa sensazione ma non ho la minima idea di come poterne essere certo. Forse non importa, la mia vita credo che sarà sempre qui”.
Alle spalle di Darmon un minatore dalla pelle bruna fumava una sigaretta aromatica e prestava molta attenzione alle parole del ragazzo. La sua mano sinistra, nodosa, passò tra i capelli neri e bagnati. Ed i suoi occhi neri si chiusero per un momento, mentre dentro di sé un senso di ribellione si affacciò in silenzio. 
Sabad mise una mano sulla spalla sinistra di Darmon e disse “Figliolo, come dici tu, fuori di qui c'è qualcosa, molto più di qualcosa. Io vengo da un posto lontanissimo, chiamato Cerlon, una grande isola nell'oceano orientale. La mia famiglia era piuttosto ricca, eravamo allevatori di bestiame e io stesso ho condotto una parte della mia esistenza nei campi, con gli animali. E' stato il periodo più felice della mia vita. Vivevo con i miei genitori ed i miei fratelli ed avevo persino una promessa sposa...pensa”. L'uomo aveva uno sguardo sognante guardando al suo passato.
“Come sei finito qui?” chiese il ragazzi
Sabad annuì “Hm, ragazzo, io sono qui perchè al mio paese fui coinvolto in uno scontro tra proprietari terrieri per un furto di bestiame e ci uscì il morto, ecco perche la giustizia mi ha gettato in questo buco. Ormai sono vecchio ed accoglierò la morte come una benedizione. Prego tutti i giorni e cerco di essere in armonia col mondo. E' l'unica cosa che posso fare”.
Una sirena avvisò del termine della pausa ed i minatori ripresero in spalla i propri carichi, dirigendosi faticosamente al punto di raccolta, sempre sotto una pioggia fitta e pesante.
Quella sera Darmon era sfinito e si sentiva un inizio di febbre. Mentre attendeva il trasporto si sedette su una pietra al margine della strada. Dopo poco lo raggiunse un minatore bruno, dal fisico asciutto ma muscoloso. Era l'uomo che aveva origliato la conversazione con Sabad.
“Ti chiami Darmon, giusto ragazzo?” chiese l'individuo dall'accento strano.
Il ragazzo lo guardò distrattamente, troppo stanco per pensare “Sì è il mio nome, tu chi sei?”.
L'interlocutore si presentò “Mi chiamo Uliruy e vengo dalla regione occidentale di Natoly, molto lontana da qui, è una regione di splendide montagne e boschi. Lavoravo in una fabbrica di legname laggiù. Il lavoro era duro, ma non come qui e per fortuna c'era una paga, ero un uomo libero, avevo persino una famiglia, una moglie, dei figli. Non li vedo da quasi sette anni, sai? Sono finito qui per una questione di debiti. Non è una storia molto interessante ne allegra. Ma tu come mai sei qui? Sei uno dei più giovani. In questo posto ci finiscono persone con pene severe, cosa hai combinato alla tua età?”.
Darmon si passò le mani sporche sul viso umido di pioggia e rispose “Al mio villaggio c'era una grande povertà, non c'erano prospettive di lavoro e mio padre aveva problemi di salute. Io e mia sorella Jeela abbiamo dovuto lasciare casa per cercare possibilità di sopravvivere. Io sono finito qui per qualche furto, Jeela lavora come infermiera in un ospedale più vicino a casa. Beata lei”.
“Capisco” disse l'uomo. “Pensi di restare ancora molto in questa topaia? Sei giovane per condannarti a questa vita...avrai circa l'età di mio figlio Ahmet...”. Il minatore scosse la testa piano e imprecò qualcosa che Darmon non comprese.
“Darmon, ragazzo, quando scade la tua pena?” chiese Uliruy.
Darmon rispose “Tra un paio d'anni mi pare, perchè?”. Il minatore bruno lo guardò e disse “Cosa ne diresti di andare via un po' prima?”.
Darmon sbarrò gli occhi e disse “Prima? Ma come...non si può, non è possibile, non...”.
“Preferisci vivere in questo schifo per altri 24 mesi? Accomodati, io no. E non solo io. Tra i minatori si è formato un gruppo che cerca di migliorare le condizioni di vita qui dentro. Non siamo riusciti ad ottenere quasi nulla nel tempo ed allora abbiamo iniziato a pianificare una fuga. Quando prima ti ho sentito parlare con Sabad, ho pensato che volessi tornare fuori ed ho pensato a mio figlio...a cosa avrei fatto per aiutare lui. Ecco perchè ti chiedo se ti va di unirti a noi”.
Quella sera Darmon si recò nell'alloggio di Uliruy, dove si trovavano altri cinque minatori. Assistere ad un piano di fuga era la cosa più strana cui avesse mai pensato, anche perchè continuava a considerare la miniera una prigione da cui fosse impossibile fuggire.
Nel corso della serata, Uliruy ed i suoi compagni presentarono a Darmon un piano ben congegnato ed apparentemente molto solido. Pur parzialmente riluttante, il ragazzo accettò a prendervi parte, il suo desiderio di uscire nel mondo esterno era forte. Pochi giorni dopo, in piena notte, il gruppo si ritrovò al confine settentrionale delle proprietà della compagnia. Anoty, uno dei fuggiaschi, era un tecnico elettronico molto tempo prima di essere imprigionato per un grosso furto diversi anni prima, grazie alle sue abilità era riuscito a disattivare i braccialetti di controllo che ognuno di loro indossava. La cosa non sarebbe stata risolutiva, ma avrebbe concesso loro qualche ora di vantaggio nella fuga. Il gruppo superò il confine calandosi con difficoltà un canalone di scarico rifiuti che si snodava per un po' nel territorio desertico che divideva il complesso minerario dalla regione del grande lago salato di Smeder, qualche decina di chilometri a nord. 
Era una notte senza luna, fredda e buia, il cielo era trapunto di stelle. Il gruppo di fuggiaschi, silenzioso, avanzava in mezzo ai rifiuti più velocemente che poteva, considerando la stanchezza del giorno e le scarse calorie dei magri pasti che si poteva permettere normalmente.
La notte trascorse veloce ed all’alba un lieve lucore cominciò ad illuminare appena l’orizzonte orientale. Quando il sole si fu levato, la temperatura cominciò a salire e nel breve volgere di un’ora il gruppo di fuggiaschi si trovò a sudare e a faticare di più nella fuga. Uno degli uomini propose di ripararsi all’ombra ed a proseguire di notte. Procedere di giorno sarebbe stato faticoso e debilitante, ma la sua proposta venne rigettata dalla maggioranza, desiderosa di mettere più distanza possibile tra loro stessi e la miniera.
Darmon condivideva la posizione del prudente compagno, era sensato ripararsi e riposarsi, erano tutti sfiniti, ma alla fine proseguì anche lui nella fuga diurna.
Alla miniera gli addetti al recupero ed al controllo dei detenuti si accorsero dell’assenza dei fuggiaschi sin dal primissimo mattino e mandarono una squadra di ricerca, la quale pattugliò i dintorni dell’area mineraria, ma senza risultati. Il capo della sicurezza intuì che la fuga avrebbe potuto svilupparsi lungo il canalone dei rifiuti ma non sguinzagliò i suoi uomini lungo un percorso tanto accidentato e pericoloso, piuttosto decise di mandare una sonda volante armata alla ricerca di quei detenuti. L’ordine era quello di trovare ed eliminare. 
La sonda percorse in volo rapidamente la maggior parte del percorso ed individuò il gruppo nei pressi della fine del canalone, a pochi km dal confine con la Repubblica Teocratica di Valistan, che si affacciava sull’enorme lago salato di Smeder. 
Darmon si era fermato all’ombra di una roccia per urinare e godere di una leggera frescura, mentre i compagni avevano iniziato la risalita dal canalone, dirigendosi a nordest, verso il lago.
Un bagliore nel cielo azzurro attirò l’attenzione del ragazzo. Soffermandosi ad osservare con attenzione, Darmon si rese conto che una sonda era sulle loro tracce. Urlò ai suoi compagni di tornare nel canalone e di trovare riparo, ma nessuno parve sentirlo, erano tutti troppo lontani. Il giovane urlò ancora ma proprio in quel momento la sonda aprì il fuoco sul gruppo. Con precisione i colpì freddarono tutti gli uomini emersi dalla fossa dei rifiuti. Darmon rimase di sale e si rintanò ancora di più sotto le sporgenze rocciose, col cuore che batteva all’impazzata; il giovane aveva persino paura che il battito cardiaco potesse tradirlo attirando l’attenzione della sonda. Un silenzio irreale parve riempire la zona. 
Darmon pensò di dover sbirciare per verificare se la sonda fosse ancora in zona, ma la paura di venir ucciso lo trattenne tra le rocce. Passarono le ore e le ombre si allungarono sempre di più, la luce scemò e la notte venne, fredda. Il ragazzo decise di rischiare e si sporse dal suo riparo, perlustrando con lo sguardo il cielo vicino e la zona buia del canalone. Non gli parve di vedere nulla di particolare e si avviò verso l’uscita di quella fessura infernale. Dopo poco si imbattè nel cadavere di uno dei suoi compagni. Risalendo oltre il bordo trovò anche gli altri e rabbrividendo si mise a correre verso nordest. Quella notte trascorse in uno stato semiconfusionale. Darmon era rimasto turbato dalla morte dei suoi compagni e temeva di essere raggiunto da quella maledetta sonda, divenendo anch’egli un cadavere abbandonato tra le rocce sparse di quel terreno riarso.
Il suo sguardo febbricitante saettava continuamente tutto intorno a se, sudava copiosamente e negli occhi gocce salate scivolavano bruciando la vista. Il respiro era affannoso, La milza doleva e la gola era in fiamme. Una sete divorante lo tormentava. Avrebbe dovuto rallentare, ma no, doveva scappare, sempre più veloce.
Le ore passarono e l’oriente cominciò a schiarirsi. Darmon era sempre più allo stremo, si sentiva una febbre tremenda e la testa cominciò a girare, una vertigine cominciò a salire al capo e quando il sole si alzò la luce lo accecò. In quel momento avrebbe accettato persino la morte…non ce la faceva più. D’improvviso tutto divenne confuso, poi nero e poi più nulla.
Un rumore confuso entrò nelle orecchie, una luce rosata entrò attraverso le palpebre chiuse. Un dolore generalizzato si fece acuto, il corpo chiedeva aiuto e la gola riarsa bramava acqua. Le mani deboli si mossero piano e toccarono un tessuto ruvido e grezzo. 
Darmon, con un grande sforzo, aprì gli occhi, ma la vista era annebbiata e la testa gli girava. Si sentiva ancora febbricitante. Un tocco freddo sulla fronte lo sorprese. Si rese conto che qualcuno doveva avergli messo una pezza bagnata. 
Rendendosi conto che stava riprendendo conoscenza, un uomo seduto accanto al ragazzo disse qualcosa che Darmon non comprese. Era convinto di essere in condizioni tali da non comprendere nessuno, in realtà era una lingua straniera. Aprì di nuovo gli occhi e si sforzò di dire qualcosa, ma non si sentiva la lingua e doveva bere, la testa girava. Una mano gli sorresse il capo da dietro e qualcuno gli avvicinò una borraccia alla bocca. Darmon bevve avidamente l’acqua fredda di sorgente e riprese conoscenza a sufficienza. Si guardò intorno e vide tre uomini vestiti di scuro, con abiti di lino, il volto coperto, esclusi gli occhi. A giudicare da quel poco che si poteva intuire erano persone di mezza età. 
Una luce entrava da una finestra. Darmon con poca voce domandò ai tre dove si trovasse. Nessuno di loro parve comprenderlo. Il suo sguardo andò oltre la finestra e mille barbagli di luce a breve distanza lo sorpresero. Occorse qualche attimo fino a che una consapevolezza facesse capolino attraverso la febbre e le vertigini.
Con un filo di voce ed indicando oltre la finestra chiese “Smeder”?
Uno degli uomini mostrò uno sguardo sorridente ed assentì. “V…Vali..Valistan?” domandò ancora stentatamente Darmon.
Lo stesso uomo assentì rispondendo qualcosa di incomprensibile ma dal tono gentile. Una mano del ragazzo passò sul volto sudato ed egli si stese, sospirando di sollievo e piombando in un sonno ristoratore.
VIII. Il Tuffo
La stanza era immersa nella penombra. La lampada sulla scrivania illuminava le copertine di alcuni manga ed un cd di Bob Marley. Filippo trovava che il reggae fosse interessante a dosi omeopatiche, ma che alla lunga risultasse di una monotonia sconvolgente. Non era mai stato interessato dalla filosofia rastafariana e da tutte quelle cose lì. 
Silvia invece ci andava matta, ascoltava solo quel tipo di musica, si faceva le canne e la menava in lungo e in largo con l’essenza religiosa del reggae vero.
L’attenzione di Filippo non era centrata su questi pensieri, non in quel tardo pomeriggio invernale. Pioveva da ore, era buio..potevano essere quasi le 19.00, forse sì, un orario lì attorno con ogni probabilità. La bocca di Silvia non si staccava dalla sua, gli divorava il respiro, mentre i loro corpi si stringevano su quel letto un po’ stretto.
Le mani di Filippo entravano ed uscivano dai vestiti di lei e gli unici rumori in quella stanza erano i loro sospiri e respiri, il fruscio dei vestiti e qualche parola detta sottovoce.
Dopo un tempo indefinito la ragazza trovò il piacere e si strinse forte all’amico baciandogli il collo. Lui non aveva raggiunto lo stesso risultato, almeno non del tutto. Quando si ricomposero un poco Filippo sedette e controllò l’ora sul cellulare che stava ai piedi del letto. “Cazzo, sono le 20.30!!!” disse allarmato. Meno di un’ora dopo avrebbe dovuto suonare al Diagonal Pub, un locale un po’ strano, piccolo e frequentato da gente di tutti i tipi. Doveva ancora andare a casa, lavarsi, cambiarsi, prendere la chitarra ed andare per il soundcheck. Si alzò, prese il giubbotto, si mise gli anfibi e salutò frettolosamente l’amica. Silvia tentò di trattenerlo, ma Filippo corse via, salì sulla sua Peugeot 205 Diesel blu e corse (si fa per dire) a casa, dove si fiondò sotto la doccia, indugiando in una pulizia inutile che però era sintomo psicanalitico del fatto che Silvia non gli piaceva poi molto. Si rivestì indossando una maglietta nera e dei jeans mezzi strappati e gli anfibi. Aveva una fame assurda ma non poteva cenare, era in ritardo. 
Con la custodia della chitarra nella mano sinistra scese le scale e corse in macchina, sotto la pioggia. In pochi minuti giunse davanti al locale e vide che era il primo ad essere arrivato. Sospirando scese, prese la chitarra dal bagagliaio ed entrò nel locale. A quell’ora gli avventori erano molto scarsi, non c’era quasi nessuno. 
Filippo salì sul piccolo palco, estrasse la chitarra e l’accordò. Guardandosi intorno notò una ragazza non molto alta, coi capelli biondi e corti. Lei lo guardava. Il ragazzo scese dal palco e la raggiunse presentandosi. La ragazza fece lo stesso. Si chiamava Nicole ed era una studentessa. Prendendo l’iniziativa, Nicole offrì da bere a Filippo, ordinò un cocktail che lui non conosceva e brindò al suo concerto. 
Il ragazzo diede un primo sorso e quella roba gli sferrò un cazzotto nello stomaco. “Porca puttana ma che cos’era!?!?”. In quel mentre arrivarono gli altri ragazzi del gruppo ed il chitarrista li raggiunse per un brevissimo soundcheck durante il quale il locale si riempì velocemente. Quando furono le 21.45 le bacchette di Roberto scandirono l’attacco del primo brano e tutti si misero in moto con energia. Alla fine del primo pezzo gli occhi di Filippo incrociarono quelli di Nicole e poi si spostarono sul bicchiere ghiacciato appoggiato sull’ampli. La mano destra l’afferrò ed il ragazzo trangugiò il contenuto con imprudente rapidità.
All’avvio del secondo brano Filippo mancò il tempo e perse il ritmo sotto lo sguardo feroce del cantante Alberto. Filippo cercava di rimediare, ma quello che usciva dalle casse era solo un pastone sonoro distorto.
La mano di Claudio, il bassista, lo afferrò per un braccio ed il compagno gli urlò all’orecchio “Filo, ma che cazzo fai?!?!”. Il chitarrista si voltò con espressione assente. Si sentiva di gomma, quel cocktail era troppo forte…lo aveva capito tardi. Ora si trovava a ciondolare mentre la chitarra andava in feedback e la band si era fermata tra i fischi del pubblico. Alberto prese una bottiglietta di acqua fredda e gliela versò sulla testa. Filippo sussultò sbarrando gli occhi e scuotendosi. Il resto del gruppo riprese a suonare con Guido, alle tastiere, che cercava di coprire le parti di chitarra. Il chitarrista non si muoveva, restava come un’idiota sul palco, ciondolando con la chitarra a tracolla. Nicole si avvicinò al palco e gli urlò qualcosa che non lui capì veramente, ma interpretò quelle parole come una incitazione a riprendersi. Passandosi una mano sul viso Filippo si girò ad afferrare una bottiglia di acqua fresca. Dopo averla scolata, riprese con forza la chitarra ed entrò nel pezzo con sufficiente sicurezza. La testa girava ancora, ma almeno le mani davano retta. I riff uscivano bene e Filippo si sentì uscire dal corpo..l’alcol faceva brutti scherzi a volte. Guardandosi dal soffitto del Diagonal il ragazzo vide come il suo corpo si era tuffato finalmente nel flusso della musica. In quel momento lo spirito non aveva intenzione di scendere giù, ma andava bene così, si disse.
IX. Acfrido
I guerrieri capeggiati da Acfrido erano un gruppo sparuto ed avanzavano a cavallo in un’area boschiva ad est del Reno. Era un autunno freddo e piovoso, ma tutti gli uomini eccetto il capo erano vestiti solo di una leggera tunica. Lance, scudi e framee erano gli equipaggiamenti dei guerrieri. Solo Acfrido indossava un’armatura, un elmo e possedeva una spada in ferro, arma molto rara presso i germani.
Quei boschi scuri e silenziosi sembravano una sorta di cattedrale ombrosa, resa fredda dall’incessante pioggia di quei giorni. Il terreno era zuppo e fangoso ed anche procedere a cavallo era disagevole. 
La folta barba rossa del capo era fradicia d’acqua, così come le sue vesti poste sotto la corazza e come i capelli che uscivano dall’elmo. Acfrido aveva una lunga e folta chioma rossa come il rame e due luminosi occhi azzurri. Non era molto più alto dei suoi, ma era dotato di una muscolatura possente ed era un guerriero indomabile e letale, nonostante la giovane età. 
Durante gli anni precedenti aveva posto sotto il suo dominio qualcosa come dieci clan, creandosi un piccolo regno, proprio oltre le zone controllate dai romani. 
Quegli uomini bruni provenienti da una terra lontana avevano costruito un impero sterminato e disponevano di un esercito enorme ed invincibile. Per quanto li odiasse in quanto nemici dei germani, ne ammirava le capacità belliche e la spietata determinazione. Personalmente non si era mai imbattuto in qualche distaccamento delle loro forze, ma la necessità di controllare i propri confini lo spingeva spesso ad occidente, in una sorta di terra di nessuno. Non temeva quelle genti, questo no, ma sapeva di non avere un esercito numeroso e coeso, questo lo impensieriva. Era probabile che di fronte ad una operazione pianificata dai romani i suoi avrebbero ceduto in breve tempo. Era difficile tenere disciplinate le sue genti.
Nel pomeriggio il manto di nubi si aprì parzialmente ed un sole timido si affacciò sulla foresta, disegnando ombre nel sottobosco. Acfrido comandò ai suoi di fermarsi per una sosta. Gli uomini scesero da cavallo e consumarono un pasto frugale composto da carne secca, acqua fredda e focaccia. Subito dopo risalirono a cavallo per percorrere l’ultimo tratto del percorso perlustrativo prima di tornare a casa. Mentre avanzavano, un sibilo acuto ruppe il silenzio, uno dei guerrieri emise un suono strozzato e cadde da cavallo. Gli uomini si fermarono di colpo scandagliando con lo sguardo il bosco. Un altro sibilo ed un cavallo cadde in ginocchio disarcionando il guerriero. “Giù al riparo dietro gli alberi!”  urlò Acfrido. Gli uomini reagirono con prontezza. Il nemico era da qualche parte alla loro sinistra, ma non era visibile, nel fitto della vegetazione. La ventina di guerrieri al comando di Acfrido si scambiavano occhiate interrogative, mentre il loro capo estraeva la spada con uno sguardo determinato. Il buonsenso, tuttavia, gli impedì di lanciarsi all’attacco senza un obiettivo preciso e senza sapere quali forze si nascondevano aldilà della macchia. Questo dubbio fu parzialmente fugato da una voce perentoria che si alzò da quella parte della foresta.
Una frase del tutto incomprensibile, ma dal tono minaccioso giunse all’orecchio dei guerrieri, che si guardarono con sguardo interrogativo.
Acfrido comprese subito che doveva trattarsi di romani, anche se non ne conosceva la lingua. Non sapeva come agire, in quel momento si sentiva spiazzato, ma non fece trapelare nulla ai suoi uomini e rispose a quella voce gridando “Sono Acrfido, re di questa regione, uscite dal mio territorio o sarà guerra!”. Ci fu un breve attimo di silenzio, poi dalla parte dei romani si sentì ridere a voce alta ed una voce, diversa, rispose “non temiamo i vostri guerrieri, molti ne abbiamo vinti e di più ne vinceremo. Lasciate questa terra o non vivrete!”
Stupefatto Acfrido si chiese chi potesse essere a parlare la sua lingua tra quelle genti, certamente un traditore o un prigioniero. Di rimando rispose “Questa terra non è vostra e combatteremo fino alla fine. Non passerete!”.
Il germano rispose “Il centurione Armenius non ha tempo da perdere! Arrendetevi o vi schiacceremo”. Un sibilo, questa volta diverso, attraversò l’aria ed un urlo acuto si levò alle spalle del capo. Uno dei suoi uomini era stato trafitto ad una spella da una freccia.
Una rabbia furiosa si impadronì di Acfrido, che abbandonò la prudenza e ordinò ai suoi uomini di attaccare allargandosi ai lati, presunti, dello schieramento romano. I germani giunsero rapidamente in contatto col nemico, ma si trovarono di fronte ad un distaccamento piuttosto numeroso di fanteria romana e di ausiliari. Armenius dava ordini con comandi secchi e decisi ed i fanti romani disarcionarono quasi tutti i guerrieri, finendoli rapidamente.
Acfrido riuscì ad uccidere parecchi nemici e decise di puntare contro Armenius, anch’egli a cavallo. I due comandanti ingaggiarono uno scontro con le spade e combatterono a lungo, nonostante i germani fossero stati trucidati. Con gli occhi verdi iniettati di sangue Armenius combatteva furiosamente, con una energia inesauribile. Era un veterano di molte battaglie. Originario della lontanissima Armenia, aveva servito l’Impero in molti teatri di guerra ed ora, in terre barbariche, si trovava a combattere nemici molto diversi da quelli mediterranei o asiatici. Determinato a finire quel combattente, non dava tregua al nemico ed i suoi colpi erano sempre più intensi e gli attacchi serrati.
Acfrido, per quanto forte e capace, stava iniziando ad accusare fatica e questo lo esponeva sempre di più alla furia del nemico. Era sempre più difficile mantenere l’attenzione, era sempre più complicato rispondere agli assalti ed attaccare. Dopo un tempo che parve infinito, la lama di Armenius colpì in un punto scoperto della corazza di Acfrido, penetrando in profondità. Il guerriero germanico sussultò tentando di prendere fiato, ma sputò sangue e la barba ramata si striò di rivoli rossi. Un dolore lancinante si irradiava attraverso il suo possente corpo.
Armenius fu tentato di finirlo colpendolo alla gola, ma poi abbandonò quel pensiero. Acfrido cadde da cavallo e stramazzò sul suolo fangoso. La sua pelle divenne grigiastra, i suoi occhi azzurri si appannarono guardando le cime degli alberi scuri. I rantoli dall’agonia lo scuotevano, mentre nelle orecchie risuonavano gli insulti dei legionari e qualche sputo lo colpiva.
Armenius urlò qualcosa e zittì i suoi uomini, poi si chinò sul nemico, gli strappò la spada dalla mano ed ordinò a tutti di andare, lasciando Acfrido ai suoi ultimi respiri.
Un ultimo pensiero balenò nella mente pervasa dal dolore dello sconfitto..le porte del Valhalla.
X. Portatemi con voi
Il sole era sorto già da un’ora e stava cominciando a fare caldo. Eufrem imprecò, doveva alzarsi prima. Estrasse una pesca succosa dalla bisaccia e la addentò affamato ed assetato, guardando la sua cavalla che brucava erba legata al ramo di un albero vicino. La familiare sensazione di pericolo si riaffacciò nella mente del ragazzo. Quella incessante paranoia lo tormentava da anni e lo aveva logorato molto. Le guerre separatiste avevano infuriato per ben otto anni ed avevano trascinato nel loro gorgo di morte, dolore e distruzione, milioni di persone, moltissime città e villaggi. Tutto il mondo che Eufrem aveva conosciuto da piccolo era stato spazzato via, in nome di una lotta per le identità. L’istinto di sopravvivenza aveva spinto il ragazzo ad una continua fuga. Fuga dal dolore per la perdita dei suoi, fuga dalla sua città, dalle sue terre d’origine. Non si era mai aggregato a gruppi di profughi o di partigiani, ma aveva imparato a sparare ed aveva sempre trovato il modo di procurarsi armi, cibo, acqua. Era dura, tutti i giorni erano un ricominciare daccapo anche se, col tempo, il ragazzo aveva notato che le presenze dei militari si erano diradate, così come quelle dei civili. Aveva pensato ad evacuazioni, deportazioni, chissà…non sapeva che fine stessero facendo tutti e neppure come stesse andando la guerra o se ancora si combattesse. 
Da un po’ di tempo non incontrava nessuno. Stava percorrendo da molti giorni sentieri di montagna, tra boschi e valli senza presenze di villaggi o di persone. 
Indossando i suoi abiti di lino, i suoi scarponcini estivi e il suo copricapo con visiera (una accozzaglia di uniformi ed abiti civili), salì a cavallo fissando la bisaccia, la grande borsa da viaggio e sistemando il suo fucile al plasma. Aveva avuto forse armi migliori e piu recenti, ma soggette al problema della necessita di essere ricaricate. Il fucile al plasma, sebbene ampiamente in disuso, non aveva questo problema. Era un residuato delle guerre repubblicane, combattute qualcosa come trent’anni prima. Quel secolo era stato troppo insanguinato. 
Per proteggere quell’arma preziosa trovata qualche tempo prima, Eufrem ne aveva avvolto la canna con strisce di stoffa, e lo stesso per il calcio. Il potere distruttivo di quel coso ingombrante era notevole, così come la sua velocità, ma non era un’arma perfetta. Comunque era utile per la caccia. 
Eufrem aveva combattuto raramente e sempre soltanto per potersi dare alla fuga o difendersi. Non era un soldato, ne nulla di simile, era un fuggiasco, perennemente determinato a lasciarsi alle spalle, dolore, morte, distruzione. Non riusciva mai completamente a sentirsi al sicuro, neppure durante quel periodo.
Quel giorno il suo cammino lo portò attraverso un sentiero in salita che da un bosco di acacie si inerpicava lungo un fianco della montagna. Durante la salita finalmente la vegetazione si diradò e d il viandante fermò il cavallo. Estraendo il binocolo elettronico dalla borsa da viaggio si mise a scandagliare la valle sottostante e trasalì quando, in lontananza, vide alcune macchie chiare, con tutta evidenza si trattava di edifici. Una parte di sé accese un campanello di prudenza, mentre un’altra lo spinse a scendere a valle. Poteva essere un luogo dove trovare provviste ed acqua.  Eufrem decise di scendere. Con lentezza il cavallo proseguì tra bosco e prati, fino a raggiungere il fondovalle, dove un torrente trasparente, di acqua ghiacciata scorreva tumultuoso. 
Avvicinandosi all’abitato Eufrem notò che un silenzio tombale pareva coprire il luogo. Una sensazione di scoramento lo attraversò. Perlustrando le strade, si accorse che non c’era nessuno. Tutto sembrava ovviamente in rovina per colpa della guerra, ma non c’erano cadaveri, nulla. Ad ogni modo frugando qua e la il viaggiatore trovò parecchie provviste e riempì le borracce d’acqua fredda. Su una panchina sbrecciata si sedette sospirando e mangiando qualcosa. La piazza del paese era piena di polvere e calcinacci. 
improvvisamente uno strano ronzio proveniente dall’alto gli fece alzare lo sguardo e con grande stupore vide un oggetto ellittico, color metallo opaco, scendere e posarsi sulla piazza. Le dimensioni potevano essere circa quelle di un autobus. A bocca aperta ed occhi sbarrati osservò la scena. Lentamente si aprì un portellone da cui uscirono cinque uomini che indossavano abiti grigi, simili ad uniformi. Uno di loro, dai tratti mediterranei, si avvicinò prudente e si guardò lentamente intorno per poi rivolgersi al giovane “Salve, siamo in volo da giorni e…ovunque è così. Dove sono finiti tutti?”.
Eufrem guardò a terra e poi fissò i suoi occhi in quelli interrogativi dell’uomo che aveva di fronte. Sospirando rispose “C’era..c’è stata una guerra, ma…devo avere vinto, credo”. 
L’uomo uscito dall’oggetto guardò i suoi compagni con sguardo interrogativo, poi di nuovo la sua attenzione si spostò sul ragazzo, il quale riprese la parola “per favore, vi prego, portatemi con voi..”
1 note · View note
scontomio · 1 year
Text
Tumblr media
💣 BOSS Schino-Shyne Pantaloni, Verde Scuro, Uomo 🤑 a soli 28,98€ invece di 119,95€ ➡️ https://www.scontomio.com/coupon/boss-schino-shyne-pantaloni-verde-scuro-uomo/?feed_id=121679&_unique_id=64719ac6630ae&utm_source=Tumblr&utm_medium=social&utm_campaign=Poster&utm_term=BOSS%20Schino-Shyne%20Pantaloni%2C%20Verde%20Scuro%2C%20Uomo I pantaloni BOSS Schino-Shyne sono perfetti per l'uomo che cerca un look elegante e moderno. Con un taglio slim fit e una vita regolare, questi pantaloni presentano una chiusura con bottone e zip, tasche frontali e posteriori a filetto. Il colore verde scuro aggiunge un tocco di originalità al tuo guardaroba. #coupon #boss #pantalonijeanseleggins #amazon #scontomio
0 notes
chichienonmorire · 4 years
Text
Si è preparato alla perfezione per questo bellissimo giorno tanto atteso, tirando fuori un vestito da Leprecauno di vecchia data che gli sta alla perfezione. E' un vestito usato ma non per questo meno bello, probabilmente passato di generazione in generazione nella sua famiglia, e che lui porta con immensa fierezza. Grazie al cilindro verde può coprire i suoi capelli che nonostante sia festa non ha comunque avuto la decenza di pettinare, o almeno, ci ha provato ma senza troppi risultati. Indossa un giacchino verde scuro con dei bottoncini gialli, aperto a mostrare un altro giacchino verde chiaro. I pantaloni che gli fasciano le gambette sono del medesimo colore verde della giacca e sono rette da una cintura marrone, mentre i calzini che arrivano fino a metà polpaccio sono a strisce bianche e verdi. Oltre al cappello come accessorio indossa un fiocchetto giallo legato al collo, mentre delle scarpe non c'è traccia, visto che è da tutta la serata che fa avanti e indietro dalla pista al buffet, ma tranquilli, lui non ha ancora bevuto. La finta barba c'era all'inizio ma anche questa è stata abbandonata, e sulle guance sono belle presenti due bandiere irlandesi. Balla, salta, urla e applaude alle note dei RUNE! SPOOR
Tumblr media
« Ade ma tu bevi? » E si gira verso Alika e Aodh « voi bevete??? Gus mi ha detto di non farlo » e porta la mano a grattarsi il capino “però io voglio assaggiare. E poi se lo fate voi posso faro anche io, vero? »  [...] Ed eccolo che si avvicina al tavolo, prende un boccale di birra e per la prima volta nella sua vita beve alcool. Praticamente si beve tutto il boccale in un sorso e finito questo lo appoggia sul tavolo dove lo ha trovato, vuoto. « E' BUONISSIMOOOOOOO! Ade assaggiaaaa!!! »
1 note · View note
Text
You are my beginning
Tumblr media
02.05.2072 Siamo in Scozia. La cerimonia di oggi si svolge in uno dei più belli castelli del mondo. Evidentemente i novelli sposi volevano fare le cose in piccolo. La location di oggi è raggiungibile attraverso il biglietto d’ invito che includeva un’ immagine del luogo che in primo piano portava il castello e poi la visuale si spostava ad inquadrare l’ambiente circostante. Anche l’indirizzo stava inserito sul biglietto in modo che fosse raggiungibile anche con mezzi all’ infuori della smaterializzazione. Appena arrivati bisognerà arrivare al portone d’ingresso su cui stanno legati con il proprio filo tre acchiappa-sogni. Questi sono stati incantati per essere delle passa-porta e solo tramite questi è possibile raggiungere il luogo della cerimonia. In realtà gli acchiappa-sogni sono sempre stati lì, solo che, vai a dirlo ai babbani che vengono in visita ogni giorno alla struttura. Per il giorno di chiusura la struttura è stata offerta alla coppia in questione che ne ha fatto richiesta, come chiunque voglia sposarsi in un castello. Toccato l’acchiappa-sogni l’effetto è il solito solo che appena arrivati alla meta, gli invitati verranno accolti da una pioggia di petali di rosa e da degli uccellini di colore blu che metteranno al collo una lunga collana di fiori agli uomini e una coroncina, anche questa di fiori, in testa alle donne. Gli uccellini sono castati da Adam, nessun animale è stato torturato per tale cerimonia, che sia chiaro solo lo sposo. Il luogo non sta poi così lontano dal castello. Appena arrivati un corridoio di ciottoli porta ad una piccola piazza in pietra con una grande fontana, sullo sfondo il castello. La fontana presenta una vasca rotonda e al centro si erge la statua di due amanti che uniscono la fronte e il naso mentre stanno dritti a fissarsi negli occhi e a tenersi le mani. Intorno è tutto zampilli e pesci rossi. Davanti alla fontana un arco di colore bianco su cui è cresciuta e si è intrecciata una pianta o forse due, chi può capirlo ormai, di Wisteria nutt conosciuta come Glicine. I suoi fiori a grappolo dal colore già intuibile sembrano grappoli d’uva e ricadono ai lati e sopra le teste di dove dovranno stare il ministrante e il futuri coniugi. Davanti all’arco un piccolo spazio di due metri circa, sarebbe la piazzetta e subito il corridoio. Ai lati di questo, dei sedili cubici di colore bianco e soffici disposti in numero di sei su un numero di file adatto per raggiungere il numero degli invitati, giusto per non far restare nessuno in piedi. Se corridoio e piazza sono bianchi, tutto il resto è verde, perché prato inglese. Delle lanterne fatte da rametti di legno stanno sospese sopra il corridoio, sopra le teste degli invitati e vicino la fontana a fare luce nella notte con le loro fiammelle. Gli uccellini continueranno a volteggiare e ad inseguirsi, anche quando non avranno nessuno a cui mettere le corone e le ghirlande di fiori.
Iniziano ad arrivare gli invitati Christine Berry si è messa a tiro ed ha truccato più del normale il viso perché non è carino avere le occhiaie belle in mostra nelle foto dei matrimoni altrui quindi tanto copri-occhiaie e tanto fard per rendere meno pallida la pelle reduce dal periodo femminile del mese. Ha deciso di indossare una tuta intera di un bel color borgogna, priva di spalline, con un frou-frou che scende verticalmente in mezzo alla pianura padana che ha al posto delle tette, per poi scendere retto ed aderente alle lunghe gambe a stecca di biliardo ma sode grazie ai tanti anni di sport. Visto che il vestito è così semplice si è concessa dei sandali gioiello impreziositi con pietre e punti luce, argentati, niente tacco perché con quelli qui si cade, semplici zeppe non troppo alte però altrimenti si rischia di superare il fidanzato al quale è arpionato per il braccio, naturalmente. Fra i cimeli non possono mancare né il bracciale empatico né l`anellino bronzeo all`anulare sinistro ma neanche due punti luce ai lobi, visto che ha i ricci rossi raccolti in uno chignon elegante ed adatto all`occasione. Sebastian Waleystock Indossa uno smoking blu scuro, con scarpe blu scure lucide e leggermente a punta, abbinate, pantaloni del medesimo colore ed un bottoncino argentato a chiudere la giacca. Al di sotto vi è una camicia bianca con la punta del colletto, nella parte di dietro, blu - più chiaro di giacca e pantaloni - ed una cravatta che scende, rigorosa, semplice e blu, lungo l`interno della giacca e lungo la camicia.I capelli di Hegla McDunst sono raccolti in un`acconciatura che con molte probabilità avrà arrangiato lei stessa con qualche colpo di bacchetta, mentre l`abito da strega che indossa, se pur da cerimonia, risulta essere molto semplice: una veste lunga color prugna smanicata, stretta in vita, ma che per il resto cade morbida sul corpo dell`auror. Niente scollature eccessive, né spacchi vorticosi, ma anzi, a coprire in ultimo le spalle c`è una sorta di stola semi trasparente in tinta con l`abito. Presa a braccetto col marito, non manca di starsene vicino ai colleghi auror e ministeriali che a quanto pare erano presenti a Skye. Ilary Wilson stretta nel suo abito di chiffon color fragola composto da una gonna semirigida lunga fin sotto il ginocchio, un corpetto arricciato con una chiusura di nastrini laterali, dalle maniche corte e dal delizioso scollo a cuore, le cui estremità sono legate dietro al collo e le ricadono sulle spalle e lungo la schiena in leggeri svolazzii di tessuto,  le ballerine blu, rialzate da una zeppa per contrastare la sua nanerottolosità, completano l`outifit assieme ad una pochette portata a tracolla a forma di rosa blu, così come le unghie laccate di smalto e le cuciture dell`abito che indossa. I capelli biondi svolazzano alla brezza primaverile, anche se pungente, della sera scozzese e sono intrecciati dietro la nuca mentre il resto degli stessi le ricade sulle spalle in leggere onde mosse ottenute con la giusta dose di lozione arricciapelli, questa volta.
Tumblr media
Katrine nel suo abito bianco e principesco, un vestito a fascia che tiene alzato quel ben di Merlino che mamma le ha donato, e ricade lungo i fianchi per poi aprirsi largo sotto di lei con delle piccole balze bianche; la parte del corpetto ha dei ricami argentati a fiori che si attorcigliano dal seno fino al fianco sinistro finisce di preparasi. Arielle e Melanie da damigelle indossano un abito lungo di colore lilla e senza spalline. Il vestito è composto da una fascia di tessuto lavorato e a pieghe in vita, per poi culminare in una lunga gonna che ricopre in modo morbido le curve. Ai piedi delle decoltè abbinate all`abito , i capelli di Arielle sono raccolti in una sorta di chignon con delle perle incastonate, da cui ricadono alcune ciocche arricciate, mentre quelli di Melanie sono lasciati sciolti mentre ricadono morbidamente sulla spalla destra, intorno al capo una treccia di capelli che fa da cerchietto la aspettano appena fuori dal castello.Zola indossa un vestitino bianco con una fascia lilla sotto al petto corre su e giù per le scale, il padre aspetta alla fine delle scale in uno smoking nero mentre la nonna nel suo tailleur verde scuro, i capelli raccolti in uno chignon e lo sguardo serio fissa la nipote davanti allo specchio.
E: « Sei ancora in tempo.. »  
Raggiunto il giardino Zola apre le danze spargendo petali di fiori davanti al trenino di fanciulle, Melanie porta le fedi su un cuscinetto bianco, mentre Arielle da damigella d’onore tiene i fiori in mano, Katrine dietro con il padre sottobraccio.
M: « oooh, ma che bel culo ha Adam, non l`avevo mai notato »
Adam Alla sinistra dell’arco indossa un vestito di seta simile ad una tunica, solo che al petto sta una scollatura a V a mostrare il petto e parte dei pettorali. In vita una cintura color oro e come ad abbracciare il vestito, mille rami di Edera si muovono, crescono, si spostano attorno al suo corpo. I ricci sono stati gellati indietro e in testa una corona fatta con rametti intrecciati e bacche rosse: ricorda molto le corna di un cervo, il re dei boschi. Non appena la vede arrivare dà un cenno del mento muovendolo verso l’alto, come dire “ Ehi schianto!”; e le fa un occhiolino.
Camminano tutti lenti, Zola saltella spargendo petali per poi finire col mettersi alla sinistra dell’altare nella parte della sposa, Arielle davanti a lei mentre Melanie con le fedi si porta a destra, vicino al padre di Adam (l’elefante e la bambina).Il padre di Katrine la bacia sulla fronte lasciandole la mano e porgendola ad Adam che saluta il padre e porge lei la mano;  quando la mano di lei prende la sua, lui le fa il baciamano e la accompagna sotto l'arco. 
Tumblr media
La cerimonia ha inizio e dopo l'ordinaria celebrazione, è il momento delle promesse. Il ministrante tira fuori la sua bacchetta che si muove a causa del tremolio alla mano del nonnetto. Adam si volta verso Katrine e porge la sua mano. Quando entrambi avranno congiunto le mani ecco apparire un nastro di luce che avvolge il palmo di Adam e Katrine e poi si congiunge in un nodo arrivato alle dita. Un gruppo di uccellini volano in fretta a rubare dalla corona di Adam una delle bacche rosse. Trattiene una risata, perché si accorge del furto ma, resta immobile dinanzi a Katrine con un sorriso ebete. I novelli sposi insieme diranno:
« Sei sangue del mio sangue, e ossa delle mie ossa. Ti dono il mio corpo, affinché possiamo essere una cosa sola. Ti dono il mio spirito, finché le nostre vite non avranno fine.»
Sciolto il nastro Melanie può portare le fedi, ed eccola trotterellante arrivare fino ad Adam e poi a Katrine in modo che entrambi possano prenderne una per poterle scambiare ed è in quel momento, proprio nel momento in cui Katrine si abbassa a prendere la fede che Melanie esce con la sua frase da caduta di stile 
M: « palpeggiagli le chiappotte da parte mia »
per poi tornarsene a posto con una non-chalance da fare quasi schifo. Zola tira il vestito di Arielle che fa – m’ama non m’ama con i fiori, il padre di Katrine piange e la nonna fissa Adam con il giusto mix di odio e stima. « Se gli sposi vogliono dire qualcosa.. » aggiunge il ministrante Katrine annuisce e dunque stringendo la mano di Adam fa preparare i fazzoletti a tutti 
« Oggi è il giorno in cui la mia vita comincia, fino a ieri sono stata solo io, una ragazzina troppo arrabbiata per poter assaporare davvero la vita, ma da oggi, da oggi divento tua moglie, la tua compagna, e parte della tua vita come tu della mia, oggi qui, davanti a coloro che sono stati il nostro passato, il nostro presente e che saranno il nostro futuro, prometto di amarti, onorarti e rispettarti ogni giorno della mia vita, prometto di non deluderti e di proteggerti con la mia stessa vita se necessario, oggi davanti alle persone che amiamo a alle quali dobbiamo gran parte di ciò che siamo ti prometto che darò il massimo ogni giorno. Il terzo anno al castello ti vidi in biblioteca e decisi che saresti stato mio, e solo mio…ed oggi tra intoppi,promesse,bugie e litigi sei qui davanti a me, sei qui e sei tutto quello di cui ho bisogno per iniziare a vivere di nuovo. Ti Amo Adam Wilson e sono fiera di essere tua moglie »   
Attesa l’eventuale risposta di Adam il nonnetto andrebbe dunque a pronunciare le fatidiche parole « E allora se nessuno qui, ha qualcosa in contrario.. io vi dichiaro marito e moglie.. il marito può baciare la sposa » e visto che NESSUNO interrompe la cerimonia Katrine ed Adam andrebbero dunque a sbaciucchiarsi davanti al mondo e agli invitati, per poi con non-chalance Katrine allungare una manina in palpata delle chiappotte di Adam per poi tirare su il pollice verso Melanie.
Una volta finita la cerimonia, magicamente il giardino cambia aspetto, facendo comparire un gazebo bianco, con delle lanterne  fluttuanti ma distanti abbastanza da evitare incendio, della musica prende vita e alcuni camerieri iniziano a portare champagne, alcolici vari e insomma tutto il necessario per diventare imbarazzanti e ubriachi, uno schermo per il karaoke, uno sfondo per le foto, sedie, cibo, fiori e uccellini. Katrine viene addobbata da una coroncina di fiori da degli uccellini mandati da Adam, per poi richiamare tutte le fanciulle « LANCIO I FIORIIIII » andrebbe a starnazzare per poi incamminarsi in un posto un po’ più largo dopo aver dato un bacio ad Adam ed essersi dunque congedata; di spalle alle ragazze « uno due tre » una spinta con le gambe e viaaaa. Si volta in cerca del bouquet che è finisce addosso a Christine, ch'ella lo voglia o no.
Tumblr media
3 notes · View notes