Tumgik
#passo valles
superskibook · 1 year
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randomrichards · 1 year
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REDES:
Fisherman son’s death
Sparks revolt for fair wages
Pre neo realist
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donaruz · 6 months
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SETTE FRATELLI - Modena City Ramblers
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La pianura dei sette fratelli
E terra, e acqua, e vento
Non c'era tempo per la paura,
Nati sotto la stella,
Quella più bella della pianura.
Avevano una falce
E mani grandi da contadini,
E prima di dormire
Un padrenostro, come da bambini.
Sette figlioli, sette,
Di pane e miele, a chi li do?
Sette come le note,
Una canzone gli canterò.
E pioggia, e neve e gelo
E vola il fuoco insieme al vino,
E vanno via i pensieri
Insieme al fumo su per il camino.
Avevano un granaio
E il passo a tempo di chi sa ballare,
Di chi per la vita
Prende il suo amore, e lo sa portare.
Sette fratelli, sette,
Di pane e miele, a chi li do?
Non li darò alla guerra,
All'uomo nero non li darò.
Nuvola, lampo e tuono,
Non c'e perdono per quella notte
Che gli squadristi vennero
E via li portarono coi calci e le botte.
Avevano un saluto
E, degli abbracci, quello più forte,
Avevano lo sguardo,
Quello di chi va incontro alla sorte.
Sette figlioli, sette,
Sette fratelli, a chi li do?
Ci disse la pianura:
Questi miei figli mai li scorderò.
Sette uomini, sette,
Sette ferite e sette solchi.
Ci disse la pianura:
I figli di Alcide non sono mai morti.
E in quella pianura
Da Valle Re ai Campi Rossi
Noi ci passammo un giorno
E in mezzo alla nebbia
Ci scoprimmo commossi.
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missviolet1847 · 7 months
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#Il passo del Pertüs è un valico prealpino a circa 1340 m s.l.m. che mette in comunicazione la Valle San Martino e la Valle Imagna, in provincia di Bergamo.
# Foto Stefano Belloli novembre 2023
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swingtoscano · 6 months
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Vorrei che tu venissi da me una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi, per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrare la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti d’essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dai prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti “Che bello!” Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.
Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti “Che bello!”, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.
Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di se una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E’ inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo e donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.
Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
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filorunsultra · 9 months
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Leadville Trail 100 Run
Nel reportage che scriverò sul viaggio negli Stati Uniti di quest'anno non dirò nulla della mia gara, ma siccome volevo scrivere comunque qualcosa lo faccio qui, almeno per ricordarmi cosa è successo.
Ho passato il giorno prima della gara steso nel bagagliaio della GMC che avevamo noleggiato, ho dormito qualche ora e verso il tramonto abbiamo lasciato il paese e siamo andati a dormire a Turquoise Lake, sul percorso. La mattina la sveglia era dannatamente presto, alle 2:30am perché la gara partiva alle 4:00, il classico orario del cazzo delle gare americane. Abbiamo parcheggiato al liceo, in fondo alla 6th St. e siamo arrivati alla linea di partenza quando era ancora deserta. Un tipo aveva acceso un fuoco sul marciapiede appena fuori casa e se ne stava lì a bere il caffè con un plaid sulle gambe guardando i corridori infreddoliti cercare di scaldarsi. Ho bevuto un caffè nell'unico locale aperto, una gelateria messicana che quel giorno ha chiuso il bilancio di un anno. Nella caffetteria c'era anche Dean Karnazes, che dal vivo sembra anche più scemo che in foto. La partenza è figa, si respira tensione e si sente già puzza di morti ancora prima di partire, ma come col sudore non capisci mai se sei tu o è quello a fianco.
Da Leadville a Hope Pass
È la mia terza 100 miglia ma la cosa non mi dà nessuna fiducia: ho sentito tanto la quota nei giorni precedenti e non sono affatto sicuro di essermi acclimatato. Sono nervoso. Cerco Brent e Natalie ma non li vedo, ascolto l'inno. Poi vedo una nuvola di polvere da sparo, e solo dopo sento il colpo. La prima salita è a un quarto di miglio dalla partenza ma non la sento, ho già fatto 400 metri e mi restano solo 159,6 chilometri di gara. In fondo alla Sesta si volta a sinistra sul Boulevard, poi il gruppo si allunga e si costeggia il lago. Davvero una bomba, cazzo mi sento Anton Krupicka. Sarò in centocinquantesima posizione e va bene così. La aid station di May Queen è una bomba e non sono preparato al volume del tifo. Trovo un gruppetto col mio ritmo e arrivo in controllo ad Outward Bound, con la prima salita della gara alle spalle. Outward Bound è in mezzo alla prateria ed è pieno di gente, non trovo Elisa e perdo un po' di tempo ma sono al 38esimo chilometro in meno di quattro ore di gara quindi cerco di restare tranquillo. Uscito dalla aid station, che è lunghissima, cerco le cuffiette e metto un po' di fottuto country. Inizio ad avere le gambe stanche verso Halfpipe, circa al 45esimo chilometro a memoria. Mi fermo a fare pipì e riparto. C'è un gruppetto di gente che corre bene, due tipi un po’ swag corrono insieme e si danno i cambi: penso che prima o poi salterò ma intanto provo a stargli dietro. In salita camminano lentissimi, poi fanno degli scatti improvvisi, sul tecnico si piantano, ammesso che ce ne sia, sulle discese corribili si lanciano in picchiata: corrono tutti in modo insensato. Passo a Twin Lakes (62km) in meno di sette ore, dopo aver visto i due specchi d'acqua turchesi dominati dalle montagne del Sawatch Range. La aid station è indescrivibile, ricorda Les Contamines a UTMB ma piena di gazebo e di gente che griglia come il giorno del Super Bowl. Mi rifornisco, prendo i bastoncini e lascio le borracce a mano e parto col mio amico francese di cui ho dimenticato il nome verso Hope Pass. Lui è un fottuto francese ma in salita non va molto forte. Il sentiero è più duro di quanto mi aspettassi ma la valle è bellissima e sembrano le Alpi. Sopra alla Timberline ci sono dei Lama e un accampamento di tende su cui rifornirsi. Gli ultimi tornanti fino al passo, che ho visto mille volte nei video, sono massacranti ma arrivo in cima un'ora e mezza dopo aver lasciato Twin Lakes. Ho una fitta sotto alle costole e non riesco a correre in discesa: è un pezzo tecnico, a tutti gli effetti e fanculo a chi dice il contrario. Il versante di Winfield è molto ripido e sebbene siano solo 850 metri di dislivello te li fa maledire tutti. In fondo alla discesa c'è un tratto molto lungo e poco corribile in leggera salita fino al giro di boa e solo qua inizio a incontrare i primi che iniziano a tornare indietro.
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At the top of Hope Pass, 3800m above sea level
Da Winfield ad Half Pipe: scavando nel profondo, quasi
Non vedo Rob Krar, che trovo alla aid station seduto su una roccia a guardare chi passa. Si è ritirato e mi dispiace, glielo dico e lui mi incoraggia. Alla aid station ci sono dei ragazzi e delle ragazze super gentili che portano ai corridori quello di cui hanno bisogno senza farli alzare da dove si trovano. Mi propongono diverse cose ma non ho voglia di niente, così mi alzo, vado in bagno, prendo l'ultima benedizione da Rob Krar e me ne vado. Mi giro per tornare a Leadville dopo 10 ore e mezza. Mi scende una lacrima, ma devo correre ancora 80 chilometri, sono appena a metà, non è finita. Riparto da Wienfield comunque meglio di come ci sono arrivato. Fa caldissimo e il sole dei tremila metri è caldo. Ritorno per la seconda volta alla quota più alta in cui sia mai stato in vita mia nemmeno tre ore dopo averla lasciata: Hope Pass, 3800 dannati metri sul livello del mare. La salita è massacrante, vado lentissimo ma supero tutti e nessuno mi supera. Sono un fottuto europeo dopo tutto, camminare in salita è l'unica cosa che so davvero fare. Su tira vento e sono stanco e c'è Leadville sul fondo, e sembra vicina ma la strada è ancora lunga. Alla fine di questa discesa mi mancheranno soltanto 60 chilometri di strade bianche corribili, e finalmente troverò Lapo, il mio dannato pacer.
In discesa ho i quadricipiti andati e le fitte continuano a torturarmi ma riesco a correre a un ritmo decente. Quando entro a Twin Lakes, in 13 ore e 4 minuti, sono passato in 40esima posizione, ho 12 ore per fare 60 chilometri per avere la fibbia grande, potrei anche camminare fino all'arrivo e probabilmente ce la farei comunque: la gara sta andando dannatamente meglio del previsto, la parte tosta è alle spalle, ma manca sempre una maratona e mezza, e la dannata notte. Elisa è all'inizio della aid station ad aspettarmi e Lapo è pronto a petto nudo, esattamente come l'ultima volta che ci siamo visti, in mezzo al deserto, un anno prima. "Tu non preoccuparti per come mi vesto io, preoccupati di cosa ti devo portare". Gli smollo tutto: zaino, borracce, frontali, bastoncini. Ripartiamo e sulla salita di Mt Elbert riprendiamo quattro persone: in salita vado più di chiunque altro ma restano solo 1000 metri di dislivello, non molti per fare la differenza, insomma, devo correre. Quando inizia la discesa mi ritrovo piantato, non riesco a correre continuativamente e lentamente diventa un'agonia. Lapo mi impone di alternare corsa a camminata e così in qualche modo arriviamo ad Half Pipe. C'è un signore con un cappellino da camionista che va su e giù per il percorso con una bici elettrica. Dice qualcosa, non ricordo cosa ma mi fa sorridere. Poi Lapo mi porta un bicchiere di caffè che mi rimette al mondo. Cristo mi ero dimenticato di quanto è buono. Capisco che il caffè è la chiave per arrivare in fondo, riparto confortato verso Outward Bound, so che è vicino.
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Lapo and me at the Halfpipe aid station, km 115
Da Halfpipe a Leadville: inizia la gara
Siamo immersi nell'oscurità, intuisco la distanza dalla aidstation di Outward Bound, sperduta in mezzo alla prateria. Da qualche miglio corriamo sempre con le solite persone: la seconda donna, il numero 267 e il mio tipo francese. Tutti con relativi pacer, francese escluso. Non stiamo bene ma nessuno ci supera e non superiamo nessuno, ho l'impressione che siamo rimasti soltanto noi in gara. Arriviamo ad Outward Bound e io sembro essermi ripreso. "Ti do tempo fino alla cima di Sugarloaf Pass per convincerti che stai bene" mi ordina Lapo, "da là cambiamo marcia e ti tiro fino all'arrivo". Signorsì, io d'altronde sono lucido ma ho smesso di pensare lasciando a lui anche questo ingrato compito. Non ho mai avuto un pacer e lui non l'ha mai fatto, ma mi trovo bene e insieme formiamo una bella squadra: lui mi parla per tenermi cosciente, io non rispondo ma sono contento di ascoltarlo. Alla aidstation c'è la Eli, chiacchieriamo un po', mi cambio, bevo un altro caffè. Ripartiamo correndo e raggiungiamo in fretta Fish Hatchery e poi l'attacco della salita di Powerline: è dannatamente dritta, una fila di frontali fa intuire dove finisce. Mancano 34 chilometri all'arrivo e inizio ad averne i coglioni pieni, così faccio quello che so fare meglio, finalmente: abbasso la testa e mi metto a sbacchettare. Cristo se sbacchetto: passo uno, due, tre, cinque, dieci atleti. Stacco di qualche metro persino Lapo che resta a una ventina di metri da me. Non avendo nulla da ascoltare inizio a imbambolarmi e gli occhi iniziano a chiudermi, se rallentassi mi arenerei così continuo a spingere: mancano ancora tanti chilometri ma non c'è più nulla per cui salvare le gambe, insomma, è il momento di andare, e al diavolo tutto il resto.
Alla aid station di Sugarolaf c'è un rave party in miniatura: la aid station è avvolta da una nuvola di erba e ci sono musica e luci stroboscopiche. Un tale fa delle bolle di sapone giganti, sarà mezzanotte. Bevo l'ultimo caffè e ripartiamo per l'ultima discesa verso Mayqueen. In discesa ho ancora male ai quadricipiti ma Lapo mi costringe a correre. Quando il sentiero diventa più tecnico ritrovo la gioia di correre in discesa e supero qualche altro atleta incartato tra le radici: sono davvero degli incapaci. Entriamo alla aid station di May Queen e Lapo mi precede di un po'. Quando arrivo al ristoro non mi siedo, ho voglia di ripartire. C'è una lavagnetta bianca appoggiata per terra con sopra scritti dei nomi. Chiedo alla ragazza cosa siano e lei mi dice che sono i passaggi. Solo quelli? Faccio un rapido conto e sono in 26esima posizione: non sono mai stato così davanti in una 100 miglia. Vedo la lavagnetta e mi ricordo che sono in gara, che per una volta potrei anche provare a fare qualcosa di meglio che correre contro me stesso e cercare di superare attivamente qualcuno. Ringrazio e riparto, Lapo mi sta dietro, io imposto un ritmo attorno ai 5' al chilometro, dopo 120 chilometri di corsa per me è un ritmo incredibile. Non ho più male, sono caldo, se mi fermo muoio. Corro. Il sentiero di Turquoise Lake è al buio come la prima volta che ci sono passato, non c'è niente da guardare, tanto vale correre e correre ancora. Corro e a un certo punto mi accorgo che dietro di me Lapo è scomparso. Cazzo. Non ho acqua, la frontale si sta scaricando e mi mancano 15 chilometri. Nel frattempo supero due persone, chiedo una borraccia a una, una frontale all'altra. Continuo a correre. I chilometri passano, il tempo vola. 14, 13, 12. Passo il campground in cui ho dormito la notte precedente, imbocco il Boulevard, trovo il mio amico francese che cammina a bordo strada, gli dico di seguirmi ma mi dice di andare. Continuo a correre. Quando imbocco il Boulevard, a 5 chilometri dall'arrivo, c'è una fila di cartelli a bordo strada, a una distanza precisa uno dall'altro, che riportano i nomi dei vincitori della gara dal 1983 ad oggi: sei stanco sai ancora fare i conti e sai anche che prima di arrivare di quei dannati cartelli dovrai superarne 39. Così inizio a contarli, trovo davanti a me un ultimo corridore, lo supero accelerando: corro in salita, corro sul Boulevard, tre chilometri prima di finire Leadville Trail 100 Run. Sono sulla 6th, vedo l'arco d'arrivo, delle persone che applaudono. Gli ultimi metri sono in salita, fanno male, ma io sto bene: sono sempre stato bene. Spengo l'orologio. Marilee mi abbraccia, mi dà una medaglia, Ken appoggia il fucile, mi abbraccia anche lui. Mi siedo sotto all'arco di arrivo, insieme a loro, resto lì per un po'. Poi arriva Lapo, arriva Elisa. Bevo una cioccolata, prendo la dannata fibbia, poi andiamo a dormire, è stata una lunga giornata, ma, in fondo, non è poi stata così lunga.
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florautieri · 2 months
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Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
Ma son mille papaveri rossi
Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente
Così dicevi ed era d'inverno
E come gli altri verso l'inferno
Te ne vai triste come chi deve
Il vento ti sputa in faccia la neve
Fermati Piero, fermati adesso
Lascia che il vento ti passi un po' addosso
Dei morti in battaglia ti porti la voce
Chi diede la vita ebbe in cambio una croce
Ma tu no lo udisti e il tempo passava
Con le stagioni a passo di giava
Ed arrivasti a passar la frontiera
In un bel giorno di primavera
E mentre marciavi con l'anima in spalle
Vedesti un uomo in fondo alla valle
Che aveva il tuo stesso identico umore
Ma la divisa di un altro colore
Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere in terra a coprire il suo sangue
E se gli sparo in fronte o nel cuore
Soltanto il tempo avrà per morire
Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore
E mentre gli usi questa premura
Quello si volta, ti vede e ha paura
Ed imbracciata l'artiglieria
Non ti ricambia la cortesia
Cadesti in terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che il tempo non ti sarebbe bastato
A chiedere perdono per ogni peccato
Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che la tua vita finiva quel giorno
E non ci sarebbe stato un ritorno
Ninetta mia, a crepare di maggio
Ci vuole tanto, troppo coraggio
Ninetta bella, dritto all'inferno
Avrei preferito andarci in inverno
E mentre il grano ti stava a sentire
Dentro alle mani stringevi il fucile
Dentro alla bocca stringevi parole
Troppo gelate per sciogliersi al sole
Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi
Fabrizio De André
Buon 25 aprile
https://youtu.be/80GH8qkI7hc
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kon-igi · 2 years
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NON SIETE STATO VOI
Post polemico politico in dirittura di arrivo e un po’ rimpiango quando mi sentivo distaccato dal mondo e farneticavo di eleuterìa, neotenie psichiche, distanziamento emotivo e valle della perturbanza ma ultimamente ciò che mi avviene attorno non è che io riesca ad ammortizzarlo così troppo bene e allora vediamo di concretizzare le mie vaghe considerazioni costanti.
Gli animali non sono feroci.
Quando in un articolo di giornale viene usato il termine ‘furia animale’, ‘aggressione bestiale’ e tutte quelle locuzioni che porrebbero l’uomo un gradino evolutivo sopra gli altri esseri viventi, invece a me viene proprio da pensare l’esatto contrario.
Non si tratta del solito discorso ‘gli animali sono meglio degli uomini’, ‘il tal animale non farebbe questo ai propri cuccioli’ e le solite baggianta romantiche da amanti dei pelosetti ma il fatto che l’aggressività di QUALSIASI ANIMALE è proporzionale al rischio che sta percependo e ai vantaggi e agli svantaggi che quel suo comportamento aggressivo gli porterebbe.
Un cane non morde se può abbaiare e non abbaia se può andarsene. Punto.
E così ogni altro animale che attraverso secoli di evoluzione ha imparato che ogni comportamento aggressivo porta più svantaggi che vantaggi e che quindi costituisce una extrema ratio.
Volete sapere quali sono quegli animali che invece sono ‘immotivatamente’ (per noi) aggressivi e si comportano in modo ‘irrazionale’ (per noi)?
Quelli che sono in trappola.
Quegli animali a cui è stato distorto l’ethos per il comodo dell’essere umano e che a un certo punto abbiamo dimenticato essere individui viventi, prendendo a considerarli solo ‘utili’. 
Quelli diventano feroci e si possono anche accanire in un modo che liberi in natura non avrebbero mai fatto.
Potrei dire molto più di così su quello che è successo a Civitanova Marche ad Alika Ogorchukwu, l'ambulante nigeriano ucciso da Filippo Ferlazzo, ma sono riuscito a trattenermi per uno o due giorni prima di commettere l’errore emotivo di legare quanto successo al razzismo, al clima politico e alle imminenti elezioni... come in modo più o meno velato stanno facendo un po’ tutte le testate giornalistiche.
Il fatto è che ci siamo messi in trappola da soli, con le nostre mani.
Ora ci si domanda dove fosse il tutore legale dell’uomo, tenuto a vigilare sulle sue problematiche psichiatriche (ma voi, geni sociali, avete idea cosa significhi convivere o gestire chi è affetto da problematiche psichiatriche?) ma a chi lo chiede è evidente che gli tremi il dito con cui fino a poco prima lo indicava, accusandolo di ‘razzismo’ e che ora deve subito trovare un nuovo colpevole.
Vogliamo accusare la gente che faceva i video con lo smartphone invece di fermarlo e scomodare i sociologi da talk show che parlano di ‘sindrome dello spettatore’?
Davvero me lo sta spiegando uno col clickbait nel titolo dell’articolo, su un sito infarcito di link a video anticipati come sconvolgenti e pubblicità di prodotti di bellezza che gli estetisti non vogliono che tu conosca?
Offendo il culo a dire che hanno la faccia come lui.
Vi prego... fate un passo indietro.
Non so come chiedervelo ma fermatevi e cercate di rendere il mondo un posto migliore con un piccolo gesto di gentilezza nei confronti delle persone che avete accanto, amori di una vita o passanti che siano, perché queste diatribe sono confezionate, proposte e vissute per intrappolarvi ogni giorno di più nella contrapposizione all’altro, nell’astio del diverso, del meno intelligente o colto di voi, coll’obiettivo di provocare un risentimento che non solo non vi rende migliori di loro ma vi cancella i colori del mondo dagli occhi e vi fa insensibili alla vera sofferenza, quella dei dimenticati.
Io sono sopraffatto, ogni giorno sempre di più, e non so ancora per quanto tempo riuscirò a dirmi disposto a farmi carico di questo peso immane.
Ho bisogno di sapere che non sono solo.
Grazie.
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isabeth98 · 8 months
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𝙲𝚘𝚖𝚎 𝚍𝚒𝚌𝚎𝚟𝚘, 𝚕'𝚊𝚝𝚝𝚞𝚊𝚕𝚎 𝚙𝚘𝚙𝚘𝚕𝚘 𝚒𝚜𝚛𝚊𝚎𝚕𝚒𝚊𝚗𝚘, 𝚗𝚘𝚗 𝚎̀ 𝚕𝚘 𝚜𝚝𝚎𝚜𝚜𝚘 𝚌𝚑𝚎 𝙼𝚘𝚜𝚎́ 𝚙𝚘𝚛𝚝𝚘̀ 𝚟𝚒𝚊 𝚍𝚊𝚕𝚕'𝙴𝚐𝚒𝚝𝚝𝚘. 𝙰𝚗𝚍𝚒𝚊𝚖𝚘 𝚊 𝚟𝚎𝚍𝚎𝚛𝚎 𝚌𝚑𝚒 𝚜𝚘𝚗𝚘...
💎I SIONISTI NON SONO EBREI (1a parte)
I Kazhari Aschenaziti sono i creatori del Sionisto anti-ebraico. Dicono di essere ebrei ma non lo sono (Apocalisse 2:9; 3:9). Il loro credo religioso si basa sul Talmud infarcito di orrori e non sulla Bibbia. Aschenaz o Ashkanaz identificava la Germania, mentre nella "tavola dei popoli" (Genesi 10:3) e in un passo di Geremia (51:27) è il nome della popolazione discendente da Iafet, stanziata a N della Siria in un territorio che coincide pressapoco con l'attuale UCRAINA.
I banchieri che controllano la finanza e le banche (Rothschild, Rockefeller, Warburg, Morgan, Dupont, Goldman, Sachs, Lehman, Sassoon, Kuhn, Loeb, Shiff, ecc.) sono aschenaziti; così come sono aschenaziti i loro burattini (Mark Zuckerberg, Bill Gates, Jeff Bezos, Elkann, Soros, ecc.). Gli aschenaziti sono discendenti di Iafet e non di Sem come i veri Ebrei (Genesi 10:3) - erano adoratori di Moloc e si infiltrarono all'interno dell'ebraismo modificandolo e creando il sionismo.
I SIONISTI NON SONO EBREI (2a parte)
I Cazari (ebraico sing. Kuzar כוזרי) sono una confederazione di popolazioni turche seminomadi originarie delle steppe dell'Asia Centrale in cui confluirono elementi slavi, iranici e i resti dei Goti di Crimea. Nel VII secolo fondano il Khanato di Khazaria nelle regioni più sud-orientali dell'Europa, vicino al Mar Caspio ed al Caucaso. Oltre alla regione oggi chiamata Kazakistan il khanato comprende anche parti dell'Ucraina, l'Azerbaigian, il sud della Russia e la penisola di Crimea. Intorno al periodo di fondazione del khanato molti Cazari si convertirono al giudaismo. Il nome 'Cazari' che essi stessi si sono dati proviene da un verbo in lingua turca che significa "vagabondare". L'ipotesi che il giudaismo fosse la religione prevalente dei Cazari è dovuta allo studioso Arthur Koestler, il quale propose che i cosiddetti Ashkenaziti fossero in realtà i discendenti dei Cazari che abbandonarono le loro terre a causa delle devastazioni Mongole, rifugiandosi nell'Europa orientale, per lo più nei territori dell'attuale Polonia, Ungheria e Ucraina; cioè i territori più toccati dallo sterminio nazista. Questi, non appartenendo ad alcuna delle 12 tribù di Israele, sono definiti nel libro di Koestler La tredicesima tribù.
Gli ebrei aschenaziti (o ashkenaziti), detti anche ashkenazim, sono i discendenti, di lingua e cultura Yiddish, delle comunità ebraiche stanziatesi nel medioevo nella valle del Reno. Ashkenaz era infatti il nome, in ebraico medievale, della regione franco-tedesca del Reno; e aschenazita significa appunto "germanico". Nel IX secolo l'immigrazione in Germania di numerosi ebrei ashkenaziti dall'Italia Meridionale, dà origine a una parte consistente delle numerosissime comunità ashkenazite renane.
Da sempre sono dediti al culto luciferino sotto varie forme (Bafometto, Moloch, Baal, ecc.) che richiede sacrifici di bambini.
Essi sono i primi antisemiti.
Sono i primi antisemiti. I primi anti.Ebrei, infiltratisi nell'ebraismo.
A. Hitler era per metà aschenazita essendo un figlio illegittimo di un Rothschild, così come erano aschenaziti Lenin, Stalin, Marx.
Sembra paradossale, ma il popolo ebraico sono le prime vere vittime del sionismo che viene spacciato per ebraico ma non lo è. La stessa bandiera con la così detta "Stella di Davide", la stella a 6 punte, è un simbolo nazista ed esoterico (2 triangoli sovrapposti e 1 rovesciato) e legata ai culti luciferini degli aschenaziti. Non ha nulla a che vedere né con il re Davide, né con la Bibbia, né con la storia del vero popolo ebraico.
I SIONISTI NON SONO EBREI (3a parte)
Molti conosceranno la storia del transatlantico St. Louis che il 13 maggio del 1939 salpò da Amburgo, in Germania, con a bordo 937 passeggeri, quasi tutti ebrei tedeschi in fuga dalle persecuzioni naziste, a cui Stati Uniti, Canada e Cuba rifiutarono l'attracco costringendo la nave a fare ritorno in Germania dove quegli ebrei trovarono la morte. Come mai questi Stati rifiutarono l'asilo? Perché chi muoveva le fila erano i finti ebrei aschenaziti che vogliono distruggere completamente i veri ebrei e appropriarsi dell'ebraismo.
𝙶𝚎𝚜𝚞̀ 𝚎𝚛𝚊 𝚎𝚋𝚛𝚎𝚘 𝚎 𝚗𝚘𝚗 𝚜𝚒𝚘𝚗𝚒𝚜𝚝𝚊 𝚘 𝚊𝚜𝚌𝚑𝚎𝚗𝚊𝚣𝚒𝚝𝚊; 𝙸 𝚙𝚛𝚒𝚖𝚒 𝚊𝚙𝚘𝚜𝚝𝚘𝚕𝚒 𝚎𝚛𝚊𝚗𝚘 𝚎𝚋𝚛𝚎𝚒 𝚎 𝚗𝚘𝚗 𝚜𝚒𝚘𝚗𝚒𝚜𝚝𝚒 𝚘 𝚊𝚜𝚌𝚑𝚎𝚗𝚊𝚣𝚒𝚝𝚒.
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lunamagicablu · 4 months
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LA FILASTROCCA DEL MAGO EREMITA
Accanto alle rive segrete di un lago lontano dal mondo viveva un Mago. Grazie agli studi e tanta esperienza aveva raggiunto una vasta sapienza, o è meglio dire che il suo sapere gli aveva donato un grande potere. Passarono gli anni, più di duecento, e lui si stancò di parlare col vento, fu stanco di avere la sola risposta del proprio eco nella valle nascosta. Seppur gli uccellini udiva ogni giorno che lieti fischiavano a lui tutt’intorno, seppure ogni foglia a lui sussurrava e persino l’acqua del lago parlava, sentiva nel cuore tristezza e dolore per essere solo a tutte le ore. Sapere i segreti della natura, conoscere ogni più antica scrittura, fare magie, volare o guarire, a cosa serviva apparire e sparire, se poi nessuno di tutto quel fare poteva realmente beneficiare? Per quale motivo vero e profondo aveva deciso di lasciare il mondo? Capire se stesso e capire la vita era l’intento e divenne eremita. Le leggi dell’uomo e dell’universo voleva scoprire ma si era perso di tutte le cose la più importante, la più bella e la più appagante: solo l’amore che sia condiviso è un volo diretto per il paradiso. Avvenne allora che il grande vecchio nell’acqua del lago come uno specchio guardò ridendo il suo vecchio volto e ridendo disse: sono uno stolto! Dopo l’ironica rivelazione, che dentro al petto fu un’esplosione, lasciò il suo rifugio, spense il camino e a passo spedito si mise in cammino. Poi come un bimbo allegro e giocondo corse a giocare di nuovo nel mondo. Grazia Catelli Siscar art by_jeffdoute ********************** THE HERMIT WIZARD'S NURSERY RHYME
Next to the secret shores of a lake far from the world there lived a Wizard. Thanks to my studies and a lot of experience he had achieved vast wisdom, or it is better to say that his knowledge had given him great power. Years passed, more than two hundred, and he got tired of talking to the wind, he was tired of having the only answer of its own echo in the hidden valley. Even though he heard the birds every day who happily whistled at him all around, even though every leaf whispered to him and even the water of the lake spoke, he felt sadness and pain in his heart to be alone at all hours. Knowing the secrets of nature, know every ancient writing, do magic, fly or heal, what was the point of appearing and disappearing, if then none of all that do could he really benefit? For what true and profound reason had he decided to leave the world? Understanding yourself and understanding life he was the intent and became a hermit. The laws of man and the universe he wanted to find out but he was lost of all things the most important, the most beautiful and the most satisfying: only love that is shared It's a direct flight to heaven. It then happened that the great old man in the water of the lake like a mirror he looked laughing at his old face and laughing he said: I am a fool! After the ironic revelation, that inside his chest there was an explosion, he left his refuge, turned off the fireplace and at a brisk pace he set off. Then like a cheerful and playful child he ran off to play in the world again. Grazia Catelli Siscar art by_jeffdoute 
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valentina-lauricella · 5 months
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(Veduta di Posillipo con Palazzo Donn'Anna)
Pende dal labbro suo con quella fede
che il bimbo ha nel dottor, levando il muso che caprin, per sua grazia, il ciel gli diede,      Galerio, il buon garzon, che ognor deluso cercò quel ch’ha di meglio il mondo rio, che da Venere il fato avealo escluso.      Per sempre escluso: ed ei contento e pio, loda i raggi del dí, loda la sorte del gener nostro, e benedice Iddio.      E canta; ed or le sale ed or la corte empiendo d’armonia, suole in tal forma dilettando se stesso, altrui dar morte.
In questi versi del componimento "I nuovi credenti" (Napoli, 1835), Leopardi restituisce in parte il bodyshaming che veniva fatto a suo danno. Egli parla di Galerio, un ragazzo dal "muso caprino", che per la sua scarsa avvenenza è escluso dai piaceri di Venere; e che, nella sua limitatezza intellettiva e semplicità d'animo, si fida, come un bimbo del dottore (sappiamo che Leopardi non si fidava molto dei medici e preferiva essere medico di sé stesso; a tal proposito, non possiamo sostenere che egli non conoscesse gli effetti letali degli zuccheri sul suo organismo: da qui una delle più "amare" tesi, ovvero che egli abbia voluto accelerare e favorire la propria morte con un'overdose di quei cibi che più lo appagavano sensorialmente - cioccolata, gelati, granita, confetti...), del suo mentore Elpidio, menzionato immediatamente innanzi nel poemetto. Il quale lo imbonisce affermando che la sua rinuncia verrà compensata nel Cielo. Come si fa a non riconoscere in quell'inizio di verso reciso, apodittico: "Per sempre escluso", un ritratto della condizione di Leopardi stesso? Fino a un passo dalla morte desiderando quanto ha di meglio il mondo, l'amore di donna, consapevole di non poterlo avere mai, né in vita né dopo la morte, semplicemente perché dopo la morte non vi è nulla.
Galerio, il buon garzone privato di tutto dal suo destino natale (bellezza, intelligenza, doti artistiche), affronta con cuor contento la sua miserevole condizione, pago della speranza nell'altra vita. E canta, facendo risuonare la sua voce per le stanze e il cortile. Ma non "erra l'armonia per quella valle". Tutt'altro: il suo canto non è affatto armonioso, e mentre diletta solo chi lo produce, suscita un mortale fastidio in chi lo ascolta. Sappiamo quanto Leopardi fosse insofferente alle produzioni letterarie e poetiche mediocri, come considerasse una vera tortura assistere a recital poetici spesso interminabili, e quale uso facesse delle pagine più morbide dei libri che gli venivano recapitati, nei quali non ravvisasse capacità scrittorie.
Caro Leopardi, nel giorno dell'Epifania, in cui tutti condividono la tua letterina scherzosa e sboccata in cui fingesti di essere la Befana per fustigare i marmocchi della marchesa Volumnia Roberti, tuoi compagni di giochi che cordialmente detestavi e di cui scorgevi tutti i difetti, ho deciso di condividere questi versi che scrivesti da adulto, verso la fine della tua vita, per mostrare come quel tuo carattere di bambino prepotente, intransigente, perfezionista, ambizioso, sia rimasto sempre in te. Malattie e mancanza di energie fisiche non ti hanno mai domato. Sei rimasto bambino, seppure un bambino che era sempre stato adulto.
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(Recanati, Palazzo Roberti)
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lunamarish · 10 months
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Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da pioggia sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello". Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.
Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sè una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo.
È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.
Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati
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escligure · 10 months
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Escursioni di settembre
Dopo la pausa estiva riprendono le escursioni; a settembre è previsto un bel numero di uscite, di vario impegno, dislivello e durata: 2-3, Escursione Fotografica nel Parco Naturale Mont Avic 3, Intersezionale LPV, organizzata da CAI Aosta 9-10, Anello del Passo del Corno m.2485 (Val Formazza) 10, TAM e SMF – Visita al Forte di Bard (Valle d’Aosta) 10, Punta della Valletta m.3091 (Valle d’Aosta) 16, Lago Santo, monti Marmagna m.1852 e Orsaro (App.Tosco Emiliano) 16-17, TAM – Tracciolino in Val Codera (Valchiavenna) 17, Anello dei Laghi, Cima Tesina m.2460 e Cima del Lausfer m.2544 24, Forte Taborda, Forte Pepino e Forte Centrale (Col di Tenda), con gruppo SMF 30, Ferrata Minonzio (Prealpi Bergamasche) 30 e 1 ottobre, Premio ITAS del libro di montagna in Antola
Il dettaglio delle escursioni è disponibile sul sito sezionale
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giuliogreen · 11 months
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La solitudine della Val Pruche
Ci sono dei posti che esercitano un attrattiva a volte difficilmente spiegabile, uno di questi è il versante est del gruppo del Pasubio, ovvero quell’insieme di sentieri antichissimi che una volta (ma non solo una volta) venivano usati dai pastori per salire verso i pascoli di Malga Pasubio. Avevo già percorso in discesa la Val Pruche in estate e tentato di risalirla in inverno, senza riuscirci a causa della neve, così quando mi sono messo in macchina con un pomeriggio intero a disposizione quasi senza accorgermene mi sono trovato a superare l’abitato di Posina per poi lasciare la macchina nel piccolo parcheggio di Doppio. Basta percorrere un centinaio di metri di asfalto e sulla sinistra, non visibilissimo, c’è l’imbocco del sentiero 380 che attraversa la Val Pruche. Fin dall’inizio ci si trova immersi in un fitto bosco e il sentiero inizia a salire con una serie di tornanti piuttosto ripidi che velocemente portano in quota. Bisogna fare molta attenzione a quelle che io chiamo “le trappole”, ovvero dei cavi di acciaio di qualche vecchia teleferica abbandonata che in tre quattro punti attraversano il sentiero ad altezza uomo.
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Si continua a salire per circa un ora, ogni tanto la salita lascia posto a qualche brevissimo traverso, ma si riesce a correre veramente poco, finché il sentiero termina dentro un grosso canalone che sembra essere il letto di un torrente in secca cosparso di grossi macigni.
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Un pò saltando e un pò arrampicando inizia la risalita, spesso bisogna aiutarsi con le mani per superare i punti più difficili, il canalone è abbastanza lungo, fa una curva e poi diventa ancora più ripido fino ad arrivare a quello che appare come un rebus, a sinistra sembrerebbe proseguire restringendosi ma porta in un vicolo cieco dal quale ridiscendo non senza qualche difficoltà, davanti parrebbe ostruito da una grossa frana, provo a risalirlo ma mi rendo subito conto di essere fuori strada.
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Proprio ritornando indietro scorgo un pallino rosso mezzo scolorito su una roccetta ricoperta di vegetazione, infatti il sentiero prosegue a destra mascherandosi subito in una debolissima traccia quasi invisibile che si arrampica tra l’erba alta. Più volte mi accorgo di essere fuori strada, torno indietro e mi rimetto sulla retta via grazie ai pochissimi segnali e a qualche pila di sassi.
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Si va avanti così sempre a salire finché la visuale non si apre e in cima ad una ripida salita appare il passo degli Alberghetti. Ci metto ancora una mezzora buona a raggiungerlo ma una volta arrivati su la visuale è magnifica da entrambi i versanti (mica per niente durante la prima guerra mondiale ci avevano piazzato dei pezzi di artiglieria). 
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Il pezzo che segue da qui in poi oltre ad essere una liberazione al termine di una salita infinita è un momento di pura poesia trail, un single track nell’erba leggermente in discesa che taglia in due tutta la vallata.
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Bastano un paio di km per raggiungere uno dei monumenti più discutibili che si possano trovare nelle piccole dolomiti, un “vero” arco romano costruito negli anni 30 per commemorare i caduti della prima guerra mondiale.
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Questa è una metà abbastanza ricorrente nei giri degli appassionati delle Piccole Dolomiti che in genere si raggiunge arrivando dalla parte opposta, quella che arriva dal rifugio Papa. Gran dispiego di targhe, tombe, cippi, bandiere dedicati ai caduti della prima guerra mondiale che mi puzza sempre di retorica militaresca, così salgo su alla Selletta Comando dove c’è l’unica targa a cui porto un fiore.
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Ridiscendo e proseguo verso il rifugio Papa, sono senz’acqua da un paio d’ore ed essendo anche senza soldi confido nella generosità dei gestori che riempiendomi la borraccia mi rispondono “Siamo pur sempre un rifugio di montagna”. Da qui ci sarebbero diverse soluzioni per ridiscendere a valle, ma inizia ad essere un pò tardi e ho il tel scarico quindi cerco l’imbocco del 377 che scende per la Val Sorapache. Percorro il primo tratto senza grossi problemi, finché non incrocio sul sentiero il più grosso gregge di pecore che abbia mai visto, ma non sono solo pecore (due/trecento?) ci sono anche muli, cavalli e.. cani soprattutto diversi cani, tra cui alcuni maremmani dalle dimensioni piuttosto ragguardevoli.  Uno in particolare è forse più grosso di Cjiorven e mi sta già tenendo d’occhio a distanza. A questo punto la scelta è tra farmi sbranare da “Orso” (così lo sento chiamare  dai pastori) oppure circumnavigare il gregge attraversando dei prati dove sicuramente prenderò un miliardo di zecche. Scelgo per le zecche inizio la manovra di accerchiamento sotto gli occhi vigili dei pastori e dei cani, finché arrivato in cima ad una roccia e immerso nell'erba alta sento il pastore chiamarmi “Vien giù da li, guarda che mica ti morde Orso” mezzo imbarazzato inizio a scendere verso di loro fin quando Orso fa un accenno di abbaio per poi prontamente tornare a fare il suo dovere di cane pastore, a questo punto siamo quasi migliori amici io e Orso, scambio due parole con il pastore che mi indica la strada e riparto camminando, perché correre mi sembra quasi irrispettoso in quel frangente, o forse solo ridicolo. Dopo una serie di curve però il sentiero scompare nella vegetazione, bisogna farsi largo con le mani per aprisi un varco e scoprire la traccia sul terreno, non sempre visibile, infatti mi perdo almeno un paio di volte in questa specie di amazzonia. Un pò alla volta mi metto qualche km alle spalle, tornante dopo tornante scendo sempre più a valle, scaviglio, riparto, mi confondo sul letto di un torrente che inizio a scendere inutilmente, lo risalgo per accorgermi che il sentiero lo attraversava soltanto per poi proseguire nel bosco. L’ultimo tratto è una discesa ripida nascosta sotto uno spesso strato di foglie che porta fino ad incrociare il torrente Posina, qui ci sono delle cascatelle e un paio di pozze dove ci si può rinfrescare e accucciandosi quasi immergersi del tutto nell’acqua.  Ancora un paio di curve e si arriva al ponte e quindi alla strada asfaltata, da qui svoltando a sinistra risalgo fino al parcheggio dove recupero la macchina. Sono stato in giro circa quattro ore e mezza, non ho incontrato nessuno ne a salire ne a scendere, escluse le persone al rifugio. Una borraccia da 1/2 lt è decisamente insufficiente.
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carraromarco · 1 year
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Di solito scrivo utilizzando la tastiera del pc. La trovo più immediata e rapida, più al passo con i miei pensieri che percorrono traiettorie alla velocità della luce. Ora però me ne sto seduto in Prato della Valle, poggiato ad un albero. Ne approfitto per scrivere col telefono qualcosa di getto e liberatorio. Che cosa poi? Forse non ho nulla da dire o forse quello che devo dire è dentro di me ancora una materia informe. Scrivere sarebbe precoce. Come stai Marco? A volte penso bene, a volte penso male. A volte al lavoro, mentre sono preso da tutt'altro, capita che F. mi torni in mente o che semplicemente io torni a pensare a qualcosa di quel che F. era per me. Anche solo ad un dettaglio, ad una virgola, ad un atomo insignificante. E allora la mia giornata precipita in un buco nero che attira e risucchia tutto. Nulla riesce a tirarmi fuori da lì. Ma prima o poi fuori mi ci ritrovo senza sapere come. Credo sia la mia condanna ormai. Dopo di te non sono più lo stesso. Dopo di te non sono più me. Qui in Prato della Valle la gente cammina veloce, sembrano avere tutti una direzione ed uno scopo. Ma dove vanno tutti? Come fanno ad essere così sicuri? Li osservo muoversi mentre me ne sto qui seduto e penso a cosa c'è di sbagliato in me. Cosa di diverso. A volte penso che quei buchi neri semplicemente mi portino ogni volta in un universo diverso dove io, spettatore, non posso far altro che vedere la gente andare avanti senza poterci interagire. Le nostre lingue sono diverse. La mia è da sempre stata quella della malinconia.
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Il punto è che non riuscivo più ad aspettare. già da mesi preparavo questa spedizione. Avevo tentato di tutto per andarci con qualcuno ma nessuno mi aveva voluto seguire. Col senno di poi sono stato anche felice della cosa perché ho fatto degli errori tremendi.
Il piano era andare a vedere il luogo del ritrovamento di Otzi, a 3100 mt. sul ghiacciaio di Similaun, partendo in bici da Trento e usando un pò il treno e un po la bici.
13.00 partenza da Trento, 14,00 Bolzano, da Bolzano a dove devo arrivare sono solo 64 km, considerando che in media faccio 25km all'ora dovrei essere a Verlago massimo per le 6, e questo mi avrebbe dato tempo per trovare un posto dove dormire. Quanto mi sbagliavo.
In Alto adige le strade per le bici sono le ciclabili che letteralmente sono strade che non ci sono su google maps. Ma se entri è tutto chiaro solo che tocca trovarle e per trovarle si perde tempo. un 40 min per trovare la prima da Bolzano a Merano, appena la imbocco, via su un rettilineo liscio e tranquillo.
Vedo vecchi, Solo vecchi. Ho l'acqua sono riposato e tengo un bel passo. Lo sprint arriva quando vedo il culo di una ciclista e la seguo senza problemi con il mio metodo alla Hoffman per la respirazione e permettere anche al polmone simistro di dilatarsi ad un livello normale.
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Ci metto due ore ad arrivare a Merano. Non male. Mi mancano solo 34 Km per arrivare alla mia destinazione. Parto ma la ciclabile fuori città è in salita. Solo 45 gradi, ma costanti, senza pietà.
È la salita che porta al paese da cui parte il Passo dello Stelvio, che è vicino alla Val Senales, dove sono diretto.
Vado piano, perdo tempo, sudo un botto continuo. In 1h avrò fatto nemmeno 10 km. Troppo poco. Il telefono segna 2h all'arrivo, sono le 17.00, inizia ad essere tardi.
Finita la salita esco su una cicabile rettilinea, la via Claudia augusta che segue l'Adige. Da qui posso procedere dritto fino al valico. Imposto " Vernago" come destinazione, e mi accorgo che ad un certo punto devo svoltare.
Ovviamente passo il punto da svoltare, faccio 10 km in più, quando me ne accorgo, torno indietro, faccio una galleria di 1km con le macchine che sfrecciano, esco fuori, e trovo il cartello "Benvenuti in val Senales!". Il telefono muore, sono le 19.00
Sono al parcheggio degli autobus, all'imbocco della valle da lì partono tutte le corriere. "Bene penso, anche se dovessi passare la notte qui, domattina ci sarà un passaggio".Prima corriera di domenica 8.,42. 13 h di attesa. C'è un Hotel 3 stelle di fronte al parcheggio, chiuso e un ristorante in declino.
Ho due birre e mezzo kilo di taralli con me. Ceno con quelli. Passa un tre quarti d'ora e vedo la corriera che dovrei prendere sfrecciarmi davanti. Corro alla Fermata e so che mi ha visto perché sono l'unico essere umano nel parcheggio, ma no la corriera non si ferma, va avanti e imbocca una galleria, un'altra lunga 1km anche lei.
Che sia stata la birra o la poca voglia di vivere, mi sono caricato lo zaino su, ho raccattato le mie cose e mi sono messo a camminare con la bici in mano lungo il cordolo di emergenza della galleria per passare dall'altra parte, all'inseguimento di quella cazzo di corriera.
Uscito fuori, panico. Primo, ero consapevole che ero vivo solo per miracolo grazie al fatto che era sabato sera alle 8 e difficilmente un traffico esagerato sarebbe passato per quella galleria, ma io non l'avrei mai più rifatta. Secondo, di fronte a me strade di montagna con strada per auto, e roccia, e nient'altro, in salita e tornanti.
Il problema dei tornanti qui è che nessuno ti vede quando fai l'angolo. Puoi essere ben segnalato quanto ti pare ma se l'auto è sulla tua traiettoria non può cambiare finché non ti vede o non ti ha preso sotto. Preso dal panico inizio a salire.
Mi manca il fiato, ho mangiato, sono stanco. Ho fatto 60 km quel giorno e la salita è sfiancante. Seconda galleria. Provo a girarci intorno. Perdo tempo, la passo, esco fuori e al lato vedo un cantiere aperto.
Qualcuno stava tirando fuori i cavi dall'asfalto per cambiarli. L'asfalto spaccato in mezzo con i detriti ammonticchiati a destra e a sinistra su questa stradina laterale, rialzata dal bosco. in mezzo ad un passo di montagna.
Impedisco a me stesso di procedere. Anche se si vede da li in poi non so quanto a lungo la salita sarebbe durata. L'ultima cosa che il telefono aveva detto prima di morire era che ci volevano 2h per arrivare a destinazione e avevo fatto si e no 2-3 km da quando ero ripartito dietro la corriera.
Segue seconda parte, la notte
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