Tumgik
#tende per formiche
nipresa · 2 years
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Ieri ho accompagnato mio fratello da decathlon che doveva vedere delle cose da arrampicata - mondo per me alieno.
Arrivati qui gli ho chiesto per cosa si usassero queste tende piccolissime.
Pietosamente, con il rispetto che comunque deve alla mia primogenitura, mi ha dovuto spiegare che erano solo modèllini delle tende in vendita.
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klimt7 · 1 year
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DEMIAN
(incipit)
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Per raccontare la mia storia devo incominciare dal lontano inizio. Se mi fosse possibile, dovrei risalire molto più addietro, fino ai primissimi anni della mia infanzia, e più oltre ancora nelle lontananze della mia origine.
Quando scrivono romanzi, gli scrittori fanno come fossero Dio e potessero abbracciare con lo sguardo e comprendere la storia di un uomo e riprodurla quasi Dio la narrasse a se stesso, sempre essenziale e senza veli. Io non ne sono capace, come non ne sono capaci gli scrittori. La mia storia però ha per me più importanza di quanto non ne abbia per altri scrittori la loro; è infatti la mia vita, è la storia di un uomo non inventato e possibile, non ideale o in qualche modo non esistente, ma di un uomo vero, unico, vivente.
Certo, che cosa sia un uomo realmente vivo si sa oggi meno che mai, e perciò si ammazzano gli uomini in grandi quantità, mentre ognuno di essi è un tentativo prezioso e unico della natura.
Se non fossimo qualcosa in più di uomini unici, se si potesse veramente togliere di mezzo ognuno di noi con una pallottola, non ci sarebbe ragione di raccontare storie.
Ogni uomo però non è soltanto lui stesso; è anche il punto unico, particolarissimo, in ogni caso importante, curioso, dove i fenomeni del mondo s’incrociano una volta sola, senza ripetizione.
Perciò la storia di ogni uomo è importante, eterna, divina, perciò ogni uomo fintanto che vive in qualche modo e adempie il volere della natura è meraviglioso e degno di attenzione. In ognuno lo spirito ha preso forma, in ognuno soffre il creato, in ognuno si crocifigge un Redentore.
Oggi pochi sanno che cosa sia l’uomo. Molti lo sentono e perciò muoiono con maggior facilità, come io morirò più facilmente quando avrò finito di scrivere questa storia. Non posso dire di essere un sapiente. Fui un cercatore e ancora lo sono, ma non cerco più negli astri e nei libri: incomincio a udire gli insegnamenti che fervono nel mio sangue.
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La mia storia non è amena, non è dolce e armoniosa come le storie inventate, sa di stoltezza e confusione, di follia e sogno, come la vita di tutti gli uomini che non intendono più mentire a se stessi.
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La vita di ogni uomo è una via verso se stesso, il tentativo di una via, l’accenno di un sentiero. Nessun uomo è mai stato interamente lui stesso, eppure ognuno cerca di diventarlo, chi sordamente, chi luminosamente, secondo le possibilità. Ognuno reca con sè, sino alla fine, residui della propria nascita, umori e gusci d’uovo d’un mondo primordiale. Certuni non diventano mai uomini, rimangono rane, lucertole, formiche. Taluno è uomo sopra e pesce sotto, ma ognuno è una rincorsa della natura verso l’uomo.
Tutti noi abbiamo in comune le origini, le madri, tutti veniamo dallo stesso abisso; ma ognuno, tentativo e rincorsa dalle profondità, tende alla propria meta.
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[ Hermann Hesse ]
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empaticamentesblog · 9 months
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Perché capita sempre a me?
Anche questa sera mi sono sentita porre questa domanda e in passato me la sono posta anche io: "perché capita sempre a me?".
Crediamo di essere sfortunati, che la sfiga stia sempre correndo verso di noi, ma in realtà non si tratta di sfortuna. Ciò che crediamo essere continue forme diverse di sfiga, in realtà, sono eventi causati da noi: da nostri modi di fare o di essere di cui non sempre ne siamo consapevoli.
Non parlo di un evento singolo che può capitare a chiunque per mera sfortuna o per disgrazia, ma parlo di episodi o di relazioni tossiche ricorrenti, di quelle che sembrano non finire mai.
Ad esempio io sono sempre stata circondata da persone opportuniste e mi dicevo ogni volta che ero sfortunata. Poi un bel giorno mi son detta:"non è possibile che succeda sempre a me! Evidentemente sono io che sbaglio qualcosa e queste persone le attiro a me. Sono sempre stata autocritica e proprio questo mi ha sempre salvata e migliorata nel tempo. Le critiche costruttive le ho sempre amate per questo motivo.
Iniziai a riflettere su come mi relazionassi con gli altri e notai che ogni volta che una persona (anche una mera conoscenza) esponeva un problema, scattava in me la sindrome della crocerossina. Nonostante non mi fosse stato chiesto niente, mi offrivo come àncora di salvataggio. Ovviamente quale persona opportunista non ne approfitterebbe? Parliamoci chiaro: anche se quella persona non avesse alcun interesse a instaurare un rapporto con me, ecco che accoglierà l'offerta di aiuto entrando nella mia vita, ma in realtà ci rimarrà solo fino a quando potrà trarre qualcosa da me perché fondamentale non aveva altro interesse. E queste persone sono come le formiche con il cibo: una volta attratta una, ci sarà una contaminazione a catena perché sarai tu ad attirarle a te con questa sindrome da crocerossina.
Credetemi: quando ho preso consapevolezza di questo e mi sono imposta di non farlo più, non solo le persone opportuniste hanno smesso di far parte della mia vita, ma ho anche smesso di attrarne di nuove.
Ed ecco che la voce "capitano tutte a me" ha smesso di parlare.
Questo serve per capire che se una cosa negativa non ci capita una sola volta, ma praticamente sempre è perché non abbiamo imparato la lezione dalla prima esperienza, o non abbiamo consapevolezza di un nostro problema psicologico che proviene dal nostro passato (es. chi soffre di dipendenza affettiva tende ad attirare personalità narcisiste) consentendo così il ripresentarsi costante di una certa situazione tossica.
L'importante è prendere consapevolezza di ciò che facciamo e di chi siamo. Solo da quel momento cesserà di esistere nella nostra mente quella domanda ricorrente "ma perché capitano tutte a me? ".
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ikodip · 3 years
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La mia storia ha per me più importanza di quanta non ne abbia per altri scrittori la loro: è infatti, la mia, la storia di un uomo non inventato e possibile, non ideale ed in qualche modo non esistente, ma di un uomo vero, unico, vivente. Certo che cosa sia un uomo realmente vivo si sa oggi meno che mai e, perciò, si ammazzano gli uomini in grandi quantità, mentre ognuno di essi è un tentativo prezioso ed unico della natura. Se non fossimo qualcosa di più di uomini unici, se si potesse veramente togliere di mezzo ognuno di noi con una pallottola, non ci sarebbe ragione di raccontare storie. Ogni uomo però non è soltanto lui stesso: è anche il punto unico, particolarissimo, ed in ogni caso importante, curioso, dove i fenomeni del mondo s’incrociano una volta sola, senza ripetizione. Perciò la storia di ogni uomo è importante, eterna, divina, perciò ogni uomo fintanto che vive in qualche modo ed adempie il volere della natura è meraviglioso e degno di ogni attenzione. In ognuno lo spirito ha preso forma, in ognuno soffre il creato, in ognuno si crocifigge un Redentore.
Oggi pochi sanno che cosa sia l'uomo. Molti lo sentono e perciò muoiono con maggior facilità, come io morirò più facilmente quando avrò finito di scrivere questa storia.
Non posso dire di essere un sapiente. Fui un cercatore ed ancora lo sono, ma non cerco più negli astri e nei libri: incomincio ad udire gli insegnamenti che fervono nel mio sangue. La mia storia non è amena, non è dolce ed armoniosa come le storie inventate, sa di stoltezza e confusione, di follia e sogno, come la vita di tutti gli uomini che non intendono più mentire a se stessi.
La vita di ogni uomo è una via verso se stesso, il tentativo di una via, l’accenno di un sentiero. Nessun uomo è mai stato interamente lui stesso eppure ognuno cerca di diventarlo, chi sordamente, chi luminosamente, secondo le possibilità. Ognuno reca con sé, sino alla fine, residui della propria nascita, umori e gusci d'uovo di un mondo primordiale. Certuni non diventano mai uomini, rimangono rane, lucertole, formiche. Taluno è uomo sopra e pesce sotto, ma ognuno è una rincorsa della natura verso l'uomo. Tutti noi abbiamo in comune le origini, le madri, tutti veniamo dallo stesso abisso, ma ognuno, tentativo e rincorsa dalle profondità, tende alla propria meta. Possiamo comprenderci l’un l’altro, ma ognuno può interpretare soltanto se stesso.
Hermann Hesse
Prefazione a Demian
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erosioni · 3 years
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Visto che sono un po’ strano e anche vecchio forse penserai che ho fatto sesso in posti molto atipici. Non è esattamente così. La vita non è un film porno di quelli dove si scopa sulla lavatrice al programma centrifuga. Ed è meglio così, perché i porno tendono ad essere noiosi e le inquadrature lasciano sempre a desiderare. Ma questa è un’altra storia. La vita è scomoda e bisogna rendersela confortevole. Almeno questo sono riuscito a capirlo col tempo.
Dunque ho fatto l’amore in tantissime case. Anche in alcune dove non avrei dovuto mai entrare. Case mie, case d’altri, anche di amici. Non prestare mai le chiavi di casa agli amici, neanche per bagnare i fiori. O prenditi il rischio e sanifica gli ambienti. Gallerie di camere da letto, singole, doppie, con i quadri d’autore o i poster del neomelodico di merda, i pupazzi di peluche delle infanzie ammuffite, i vestiti in disordine o perfettamente piegati e stirati. In letti coniugali, in letti genitoriali, in letti di fortuna col materasso a terra. Ho fatto sesso in casolari da genocidio della civiltà contadina. Con le porte e le finestre sfondate e la puzza di cane morto. Col sottofondo ossessivo di quelle cazzo di cicale. Anche io sfondato e ossessivo come si conviene agli adolescenti, ora e sempre. E poi il capitolo macchine. Ho fatto sesso in macchine con i giornali sui vetri oppure con i finestrini completamente appannati dal fiato del nostro stesso ansimare. Quasi sempre troppo piccole. Con i sedili che non si stendono mai abbastanza. E la leva del cambio e del freno a mano di merda che comunque sono segni molto fallici e possono anche mettere di buon umore. Oppure con la macchina sulla piazzola dell’autostrada, i corpi illuminati a sprazzi dai lampi dei fari dei TIR. E con la radio che qualche volta collabora e qualche volta mentre stai per venire si mette a suonare Cristicchi o Gigi D’Alessio. Dovrebbero vietare la musica di merda dopo una data ora.
Poi ho scopato in hotel. Alcuni lussuosissimi, con pretenziosi letti a baldacchino e vasche tonde. Altri squallidi e mal tenuti. Con la moquette bruciata dalle sigarette e le tende tristi, color cacchetta. Con le finestre vista mare o vista cassonetto. Comunque tutti eccitanti come tutti i luoghi anonimi e provvisori. Dove poi il giorno dopo ti guardi allo specchio e ti senti davvero i cazzo di anni che tieni. Qualche esperienza in campeggio. Odio il campeggio, le formiche, cacare nei cessi chimici. Però la gente ha più voglia di scopare, non so perché, forse una reazione di sopravvivenza. Non ho mai fatto sesso all’aperto. Neanche d’estate al mare, tra le dune, quando la notte fa caldissimo e il ritmo del mare predispone al lasciarsi andare. Qui non so perché, forse sono malato. Ricordo una lunghissima masturbazione reciproca su un autobus diretto a Marsiglia. Con l’impegno da Tolone in poi a coprire la macchia di sborra sui sedili in ogni modo possibile (e ritrasudava sempre sopra, manco il sangue del fantasma di Canterville). Sui treni ancora seghe e pompini. Specie quando c’erano quelli notturni e con gli scompartimenti, ma l’ambiente unico ha l’eccitazione dell’esibizionismo. In aereo mai riuscito, nonostante uno dei desideri della mia ex storica americana fosse di entrare nel Mile High Club. Cosa che poi le riuscì con uno stronzo di Boston, ma è un’altra storia anche questa. In aereo voglio solo sballarmi di alcol e pillole per dormire. Un piacere raro.
Pompini e seghe nel mondo gay, questo sì. Dati e ricevuti. Nei cessi di selezionati locali di Roma, Milano, Amsterdam e Berlino. Con la paura di essere visti e con l’eccitazione dello sporco e dello squallido. E rialzarsi subito dopo dal pavimento lercio con le macchie di urina sui pantaloni bianchi o il classico schizzetto di sperma sulla camicia comprata nuova. Nei luoghi di battuage all’aperto, dove facevo un cruising vergognoso e disperato, aspettando di diventare il piatto forte di qualche frocio col doppio dei miei anni. Ricordo il freddo, il timore, il cazzo che tirava tipo ago della bussola. A Monte Caprino ti sporcavi di cacche d’uccello, terriccio e foglie. Stavo sempre a passarmi le mani sui capelli, dopo. – Hai una foglia in testa? - - Boh, chi sa come c’è finita? Eppure ero in biblioteca oggi –
Insomma quello che ho imparato è che il posto più strano dove fare sesso è sempre la mente dell’altro e per l’altro la mia mente. E che la porta per entrarci è molto più stretta di un orifizio genitale. Molto più segreta. Molto più eccitante. Senza il corpo non si andrebbe da nessuna parte, perché il limite estremo della mente è il corpo. Ma una volta dentro ci si perde e si deve trovare la via. Ed aprire la propria via all’altro. Essere completamente nudi. Completamente arresi. Quando pensieri e desideri arrivano a bilanciarsi nel nulla dal quale sono emersi. Ecco questo è veramente strano. Però succede.
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luce-mosaab-hamad · 3 years
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Chissà
Come stanno le farfalle?
Questa notte!
Il vento è tanto fresco
La luna è colma di rabbia e di speranza
Chissà!
Chissà come stanno le formiche?
Quest’oggi
La pioggia ha smesso
Per un solo istante!
Chissà com’è?!
Perdersi per ritrovarsi
Chissà!
Chissà com’è?!
Essere consapevoli
Di non essere soli.
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Fermarsi per un istante
Per pensare a gli altri
Oggi.
Chissà come stanno
I popoli delle tende?!
Chissà se arriverà il mio abbraccio
Alle stelle
Avvolte di lacrime e di preghiere
Chissà!
.................................................................
Concepita ieri notte, partorita questa notte!
Chissà dove arriverà!
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jangany · 3 years
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20 gennaio 2021 - Il container parte per Jangany (sud Madagascar)
di Roberta De Macchi
Un proverbio malgascio dice: «Ciò che è stato visto con gli occhi il cuore non dimentica».
Aver visto a Jangany, essersi resi conto dei risultati raggiunti sul campo, volerli proteggere e desiderare il massimo del miglioramento delle situazioni, ma anche la disponibilità economica derivante dalla crescente affezione di tante persone per questa realtà di vita in sviluppo, ha fatto decidere abbastanza in fretta agli amici di Jangany - già ad agosto 2019 - di inviare un container tutto per Jangany.
                        Il container è stato riempito in stretta sinergia con padre Tonino. Doveva partire in modo da arrivare alla fine della stagione delle piogge e in un momento in cui padre Tonino fosse presente per controllare e accogliere i beni, per destinarli allo scopo condiviso insieme.
Poi il mondo si è fermato e dopo poco si è chiarito che padre Tonino non sarebbe venuto I tempi allora sono stati rallentati ma, come formiche operose e anzi con maggiori riflessioni e ponderazioni, sono stati raccolti beni di ogni genere.
Scuola: ci sono armadi per le aule scolastiche con lucchetti e portachiavi e i preziosi libri del Liceo.
Piccole attività: ci sono le macchine da cucire per sostituire quella rotta e poter realizzare tende, bandiere, grembiuli della scuola e per ogni attività e laboratorio di sartoria, attivo o prossimo.
Sanità: ci sono materiali medici per il laboratorio di analisi del dispensario, con microscopi e vetrini e reagenti; un’autoclave, un carrello medico. Ci sono 10 letti ospedalieri con relativi materassi, copriletti e cuscini con federe e ricambi; la lavatrice e il detersivo in polvere per sollevare le lavandaie a mano e garantire l’igiene per i ricoverati presso il nascente centro medico associato al Dispensario già esistente. Il filo da stendere e le mollette per il Dispensario e per il Collegio, dove i bimbi si lavano le cose nei lavatoi veri, realizzati in occasione della missione 2017, ma le stendono dove capita e il vento quasi sempre le fa cadere nella terra rossa o le porta anche via.
Ci sono due carrozzine per handicappati o anziani. In Madagascar non si trovano molti articoli o, se ci sono, sono di qualità pessima e non durano niente.
Attività sociali: ci sono vernici e pennelli per ristrutturare uno spazio sociale che ospiti calcetti e giochi di comunità, per offrire stimoli nuovi che siano occasione di aggregazione, divertimento e crescita di azione e responsabilità, oltre l’esperienza scolastica.
Centro Formazione Rurale: ci sono sementi per la scuola e il centro di agraria, c’è un forno per il pane e i tubi di ricambio della stufa a legna; onduline per riparare le tettoie degli allevamenti nella scuola agraria; molte cassette in plastica pieghevoli per raccogliere i prodotti agricoli e conservarli per la distribuzione al mercato.
Piccoli aiuti ancora: quaderni e cancelleria, accessori bagno e pentole. Tutto è stato comprato con oculatezza oppure offerto dalla ricerca e dalla spontanea solidarietà.
Un altro pezzo di noi sta per partire e sarà gioia grande poter vedere sul posto le cose inviate. Sembra un po’ quando un figlio vive lontano e i genitori e gli amici inviano cose utili di ogni sorta per fargli sentire l’affetto di chi lo sostiene.
Un ringraziamento in particolare al Villaggio globale del Sermig di Cumiana, a Isabella, Renato, Ezio, Silvio, Carla con i ragazzi, le famiglie di Sassi e Borgata Rosa e la signora Antonietta; Andrea e la famiglia De Francisco, Antonio Carrabba: in tanti si sono adoperati con costanza e responsabilità per cercare gli articoli, valutare spazi, acquistare, trasportare, imballare, pesare, caricare, così bene, che alla fine si potrà dare anche ospitalità ad apparecchiature mediche per l’ospedale di Ihosy e alle lastre per le vetrate di padre Mombelli.
Sarà un viaggio di speranza, attraverserà il mare, e arriverà in primavera, fino a Ihosy con un traino a rimorchio su non facili strade.
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montag28 · 7 years
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Rats
Ore 6:09
Ho sognato ch'ero povero. Ch'eravamo poveri. Io, tu, mamma, papà, tutti. Ma non proprio poveri; servi. La famiglia ricca che ci ospitava era quella di una ragazzina che nella realtà iscrissi in palestra un paio di mesi fa. Loro avevano il salotto che chiamavano living, i sofà di pelle, il buffet in piedi, i cibi gourmet, i piattini le forchettine i calicini i vini l'acqua microfiltrata. Noi avevamo la cucina col pavimento sgombro, solo un paio di sedie rimaste; avevamo cibo profumato dentro grandi piatti da portata o ancora in teglie fumanti con le pareti d'alluminio incurvate dalle troppe infornate. Di alluminio anche una grande bacinella piena d'acqua del rubinetto, al centro della stanza. Sembrava un oggetto pop anni 70, di quelli che ti regalavano ai matrimoni poiché - sempre all’interno della logica del sogno - all'epoca era molto in voga: una specie di vasca di metallo, svasata e rotonda, posizionata sul suo apposito sostegno, come un cavalletto, anch'esso di alluminio. Ma adesso, dopo quarant’anni, era un poco arrugginita e somigliava al cerchione ingigantito di una fiat 128. La bacinella ruotata di 45°, cosi da poterci ficcare un bicchiere dentro a raccoglierne una sorsata sufficiente. L'acqua non si rovesciava, era come solida, eppure trasparentissima, come un'impalpabile gelatina incolore; particolare strano, quella traslucenza rendeva trasparente anche il fondo metallico del recipiente, ad avvicinarsi si intuivano le mattonelle del pavimento sottostante, azzurrate e deformate, come quando vai sott'acqua in piscina con gli occhi aperti protetti dagli occhialini. E insomma, nessuno dal salotto veniva a bere la nostra acqua del rubinetto dalla tinozza della 128. Al contrario, eravamo noi ad essere invitati di là. Noi, i servi, che avevamo pulito casa in vista della festicciola e preparato ogni pietanza. E loro, i benestanti festanti e noiosi, che ci trattavano con quella creanza tipicamente borghese, quella cortesia affettata, quelle buone maniere che ti fanno sentire ancora di più un pezzente. Assaggiate, servitevi pure, se volete, diceva, la padrona di casa in mezzo ai suoi ospiti. Servitevi, servi. Sfamatevi. Ché tanto loro erano tutti pronti a sprecare tutto. La ragazzina iscritta in palestra mi guardava con occhi indifferenti, poi abbracciava languidamente la madre sul divano di pelle color crema; davanti a loro, un largo tavolino da caffè pieno di piattini lasciati a metà. A me il cibo offerto non andava giù e mi veniva tanto da piangere.
Ore 6:44
Poi il risveglio, la fantasia incendiaria delle 6, la mia maglietta nera, tu che dormi, la mia arrabbiatura ancora non neutralizzata dal sonno e dal sogno, il bagno, la mia arrabbiatura ancora non pisciata fuori, il letto, il caldo, la mia arrabbiatura ancora non sudata via, i tuoi mugolii sognanti, la sveglia del vicino che non smette di mitragliare, il sonno che non torna, no, adesso torna, arriva, tra un'ora anche la mia sveglia mi spara al cuore, ti sfioro la mano, il cielo grigio, le mie mani non saranno mai svelte abbastanza per i pensieri del primo mattino, il mio sguardo sulle cose si alzerà ma non riuscirà mai a oltrepassare l'Appennino, o l'arco alpino, siamo persi in una valle, siamo servi, sì, non siamo poveri, no, né ricco ci vorrei diventare. Voglio l'acqua di rubinetto nella bacinella e un pennino che disegni, talvolta scriva, scriva per salvare i sogni e per impacchettare le arrabbiature, spedirle via, come una brutta cartolina, anzi, come una cartolina brutta, ché quelle fanno ridere e io voglio ridere, tu vuoi? Ridiamo insieme, lavoro anche oggi, ma meno di ieri. Poi andremo a comprare le tue scarpe. Anche se piove e alla sera comincia, appena percettibilmente, a scurire un poco prima. Anzi, no, sta uscendo il sole. Qualcuno sbadiglia. Penso che gli alberghi sono già tutti pieni. Anche le tende da campo, ché fossero vuote, sarebbero richiuse. Qualcuno ci dorme ancora dentro. Come vorrei il letto di casa in una camera d’albergo in una baita d'alpeggio col mare di fianco e la verandina da campeggio con un millimetro di poliestere e una cerniera soltanto a separarmi dal cielo stellato. Pieno di stelle il cosmo, piene di globuli le vene, piene di organismi le spiagge; però - com’è? - le città non sono meno vuote. Esseri umani, troppi esseri, poco umani. Ovunque. Formiche. Ratti. Cavallette. Pidocchi. Parassiti. Scoprono, raggiungono, colonizzano, invadono. Sfruttano, inquinano, distruggono. Solo il rumore del mare di notte non lo puoi distruggere. Moriremo poveri, servi, inquinati, sciolti dal pianeta che va a fuoco. I nostri figli? Saranno tristi, i nostri figli. Mi fa paura la tristezza degli altri. E anche la malattia. Ieri, non te l’ho detto, ho scoperto che è morto un mio professore del liceo. Giorgio. L’ultimo anno mi mise dieci in pagella. Era matto, era un astrattista, era simpatico, era severo, era molto buono, era esigente ed era di manica larga, chic senza essere radical, con la giacca di velluto e l’eterno dolcevita. Lo ricorderò sempre, in vita. Mi dispiace, mi dispiace da morire. Dormire, sognare; senz'altro, pisciare. Sto vaneggiando. Devo fare colazione. Qualcuno sbadiglia, di nuovo.
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marikabi · 5 years
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Problemi, problemi ovunque
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Almeno d’estate, i problemi dovrebbero lasciarci in pace. Invece non è così. I problemi non vanno in vacanza.
È davvero così?
Ho letto su The Conversation che, invece, siamo noi a cercare i problemi, più che essi a cercare noi. Pare che gli scienziati abbiamo confermato la nostra connaturata indole a mantenere alto il nostro tasso di preoccupazione, anche quando abbiamo risolto problemi e appianato guai.
L’editoriale spiegava che, per esempio, la nostra mente tende a fare comparazioni relative sulla diffusione della criminalità. Pur in presenza di costante diminuzione della delinquenza, fatichiamo ad ammettere il miglioramento. 
Idem, dunque, per la stima dell’immigrazione irregolare. Pur in presenza di minori sbarchi (e di maggiori morti in mare, in percentuale), rimaniamo convinti di essere invasi, che il problema dei migranti è serio, anzi grave, ovvero tragico.
Quand’anche la criminalità si riducesse a zero, il nostro vizietto di comparare nel breve periodo c’indurrebbe a considerare reati anche infrazioni minori.
Allo stesso modo, Paesi razzisti (e ce ne sono tanti) che hanno chiuso le frontiere continuerebbero (e continuano) a protestare contro l’immigrazione clandestina e irregolare.
Un po’ come scrisse il Rev. Niemöller (ma spesso attribuita a Bertold Brecht) in una famosa orazione di tanti anni fa:
«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
Piano piano, tutti possiamo diventare ospiti di lager e prigioni, basta restringere gli orizzonti mentali e lasciare a briglia sciolta il giudizio relativo.
Questa cattiva attitudine mentale si applica alle grandi come alle piccole cose.
Quando è tutto in ordine e il nostro piccolo mondo sembra a posto, cominciamo a dichiarare guerra a mosche/zanzare/formiche.
Quando il lido è pulito e sulla battigia non ci sono alghe, cominciamo ad inveire contro gli ambulanti.
Non abbiamo preoccupazioni economiche? Allora prendiamocela contro la legge 194, la legge 40 e pure le unioni civili. Non riusciamo a vivere senza problemi, né senza nemici.
L’antidoto? Il buon vecchio GoogleEarth. Prima localizzatevi e poi stringete lo zoom fino a diventare una delle tante biglie nell’universo: hanno più senso le frontiere?
© Orticaland
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cartofolo · 7 years
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Gli animali hanno un anima? E se si possono avere altre vite?
Che gli animali abbiano un'anima (intesa come psiche) è indubbio. Però, per approfondire il concetto, il discorso deve essere articolato, Anon.Spero che avrai la pazienza di leggerlo.
Secondo i principi esoterici in generale e in una certa filosofia, lo spirito è l'essenza stessa della vita come natura esterna dell'Assoluto (di Dio). Quindi esiste in tutto quello che è espresso nella forma, nella qualità e nella coscienza.Casomai bisogna distinguere la maturazione di questo spirito che, a un certo punto della sua evoluzione, forma un'auto-coscienza che produce l'io con tutti i suoi attributi.Pare che negli animali questa consapevolezza di se stessi, manchi, se non in alcune forme più evolute, come nei delfini, nelle scimmie e perfino in alcuni animali domestici, come i cani, la cui intelligenza e (nel caso dei cani) la loro vicinanza all'uomo, hanno permesso di far maturare un grossolano senso dell'io in alcuni di essi.Quindi una cosa è lo spirito e un'altra cosa è l'auto-coscienza con il senso dell'io.
Se si accetta questa ipotesi e si parte da questa premessa, la domanda da porsi è: che cos'è che si reincarna?
Una risposta potrebbe essere che si reincarna il principio di vita che faceva capo alla creatura che si sta prendendo in considerazione (pianta, animale o uomo).Allora sorge un altro problema; un animale ha una vita individualizzata? O fa capo a un'anima collettiva?
Sappiamo che la vita è “una”, cioè espressione di coscienza, che, però, si manifesta in innumerevoli forme e in una gradazione di qualità, che vede dispiegarsi la sensibilità del vegetale, la mente istintiva dell'animale, e l'auto-consapevolezza dell'uomo.Cioè, prima di tutto bisognerebbe concepire la vita come “un'onda” che, emergendo dalla forma più semplice, si evolve con un ciclico ritorno, acquisendo esperienza, qualità e una coscienza di sè, che vede l'uomo maturare una propria individualità e auto-coscienza così da porsi al vertice di una scala di cui possiamo vedere il principio, ma non la fine.
Quindi, si può pensare che l'espressione di vita che fa capo ad un animale, si reincarnerà come individualità, solo se quell'animale avrà maturato quell'auto-consapevolezza sufficiente a rendere autonoma quell'individualità.Infatti esistono degli animali come le api, le formiche e simili che notoriamente non si possono considerare individui, ma il vero individuo è l'alveare, il formicaio ecc..Qualcosa del genere potrebbe esistere anche per altri animali, che, apparentemente, sembrano autonomi. In realtà, nella vita vegetale e animale, sappiamo che non esiste il senso dell'io, il quale comincia a manifestarsi solo in specie più evolute, come le scimmie, i delfini, forse in alcuni cani, o chissà in quali altri.Il senso dell'io (auto-coscienza), è l'indicatore che si è arrivati a una maturità in cui c'è una consapevolezza di sè e, quindi, quella vita proseguirà la sua evoluzione nell'ampliamento di questa consapevolezza in una forma individualizzata.
La conclusione è che la reincarnazione, come individualità, esiste solo nell'uomo o in altre poche forme di vita animale superiore. Le altre contribuiranno a alimentare e formare quella individualità di gruppo, alla quale fanno capo; ed è questa che amplierà la sua coscienza per procedere in espressioni e sensibilità sempre più sofisticate, fino ad arrivare all'uomo e oltre.
Ma, dopo la morte del corpo fisico, che succede?
Qui si trovano diverse interpretazioni.Quella che, personalmente, mi convince di più, spiega che dopo la morte del corpo fisico e la successiva reincarnazione, esiste un periodo in cui è necessario “metabolizzare” le esperienze avute e trasmetterle alla coscienza. Questo processo si attua in quelli che sono definiti “Piani di esistenza”, composti da una materia meno densa di quella del mondo fisico, ma proporzionata alla sensibilità e capacità di pensiero, dell'individuo che li sperimenta.
Quindi un animale, il quale non ha ancora formato un'auto-consapevolezza, coglierà ben poco di questi piani, e si reincarnerà quasi subito. Mentre chi ha potuto esprimere la struttura complessa dell'io, prima di reincarnarsi, spazierà in mondi e sensibilità che rifletteranno le sue esperienze e ne consolideranno il senso, rendendolo alla coscienza, la quale, successivamente, produrrà una nuova incarnazione.
Comunque, se questo può consolare chi è legato da un profondo affetto al suo animale domestico, questo discorso tende a indicare che il legame, in ogni caso rimane, perchè sappiamo che esperienze di scambio, amicizia e amore, a qualunque livello, segnano un rapporto che, in qualche modo procedere da un'incarnazione all'altra.Ci rincontreremo sempre, sia di qua che di là.
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seideegiapulp · 6 years
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E cominciarono le retate: incursioni di uomini dello sceriffo negli accampamenti degli abusivi. Sloggiate. Ordini dell’Ufficio d’Igiene. Quest’accampamento è un pericolo per la salute. E noi dove andiamo? Non sono affari nostri. Abbiamo ordine di farvi sloggiare. Tra mezz’ora diamo fuoco all’accampamento. In quelle tende c’è gente malata di tifo. Volete farglielo seminare in tutta la contea? Abbiamo ordine di farvi sloggiare. Forza! Tra mezz’ora bruciamo l’accampamento. Mezz’ora più tardi, il fumo delle baracche di cartone e delle capanne di sterpi saliva verso il cielo, e le carrette degli espatriati sciamavano per le strade in cerca di un’altra Hooverville. E nel Kansas e nell’Arkansas, in Oklahoma e Texas e New Mexico, i trattori invadevano le campagne e scacciavano i mezzadri. Trecentomila in California e altri in arrivo. E in California le strade piene di disperati che correvano come formiche per tirare, spingere, sollevare, lavorare. Per ogni carico da sollevare, erano cinque paia di braccia a offrirsi per sollevarlo; per ogni boccone di cibo disponibile, erano cinque le bocche che si spalancavano. E i grossi proprietari cui una sommossa avrebbe fatto perdere tutte le terre, i grossi proprietari con accesso alla Storia, con occhi per leggere la Storia e ricavarne la grande verità: quando le mani in cui si accumula la ricchezza sono troppo poche, finiscono per perderla. E la verità accessoria: quando una moltitudine di uomini ha fame e freddo, il necessario se lo prende con la forza. E la piccola ma sonora verità che echeggia lungo la Storia: la repressione serve solo a rinforzare e unire gli oppressi. Ebbene, i grossi proprietari ignorarono questi tre avvertimenti della Storia. La terra si concentrò in un numero sempre più esiguo di mani, la quantità degli espropriati aumentò, e tutti gli sforzi dei grossi proprietari s’indirizzarono verso la repressione. Il denaro fu speso in armi e attrezzature a difesa delle imprese fondiarie, e vennero sguinzagliate spie che intercettassero qualsiasi avvisaglia di rivolta per poterla stroncare sul nascere –anche con i gas. L’evoluzione dell’economia fu ignorata, i progetti di riforma furono ignorati; l’attenzione si concentrò sui mezzi per reprimere la rivolta, senza intervenire sulle cause della rivolta
John Steinbeck, Furore (1939) 
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emme-malcolm · 6 years
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Londra, Scotland Yard
12/04/2018
Rick: Il fascino e il rigore inglese ha anche colpito questa parte di Londra, con la precisione millimetrica in cui il dipartimento di polizia di Scotland Yard è diviso. All'ingresso, una reception con accanto un cartello, indica i vari reparti operativi da raggiungere, sui vari piani di questo imponente grattacielo a specchi, che non è altro la sede della più importante e storica polizia inglese. Ai piani bassi c'è la zona di detenzione, mentre sui vari piani si snocciolano i vari dipartimenti. La squadra omicidi e di intelligence è indicata al primo piano, accessibile tramite una piccola rampa di scale che porta a un ingresso chiuso da un cancello a grata. I visitatori vengono dotati di un badge che viene rilasciato all'ingresso e viene dato da far passare uno alla volta, sulla fotocellula che poi, conseguentemente, aprirà l'ingresso al piano. Così come ci sono ancora una decina di gradini, per raggiungere infine il dipartimento stesso. Si snoda su un corridoio, la scala lo perfora centralmente, lasciando quindi la possibilità di scelta se andare a destra o sinistra. A destra c'è una piccola zona per gli agenti, una camera comune con delle vetrate in trasparenza senza veneziane, che è una sala comune con molte postazioni pc e agenti in divisa che lavorano costantemente, alcuni vanno e vengono, alcuni sono fermi. Sulla sinistra ci sono varie porte e sono gli uffici dei Detective. Quello di Rick è il primo, per via del suo ruolo centrale nel dipartimento. Sulla targhetta è scritto "Daniel Schezar e Richard Schezar" per indicare che l'ufficio è condiviso con il fratello, da Emma già conosciuto. La porta dell'ufficio è aperta, e dallo stesso arriva un fortissimo odore di caffè che riempie un po' il territorio circostante. In piedi, di spalle, una figura alla lavagna che ha, bianca su cui scrive con la mano sinistra e con i pennarello di vari colori, c'è il Detective Rick. Alto, capelli ricci neri, vestito con abiti civili: una camicia di jeans azzurra, un paio di jeans neri aderenti e un paio di stivaletti opachi neri ai piedi. Quando si volterà, si potrà vedere la barba nera e folta sul volto, segno che almeno una settimana fa s'è raso. Occhiaie anche sotto gli occhi, ad occhio e croce sembra parecchio stanco. Non è armato e nella mano stra regge una ciambella, che ti tanto in tanto va a mordere e mangiare, mentre scrive in perfetto inglese, alcune cose. Si può leggere probabilmente "Prove a carico" "Movente" "Sospettati" come se stesse preparando il tutto per un brainstorming con se stesso. L'ingresso quindi è libero, chiunque munito del badge, può entrare.
Emmeline: Il badge orribile con la V dei visitors è ormai diventato una costante nella vita di un giornalista, di quelli che le domande non aspettano troppo a farle e s’intrufolano un po’ dappertutto come le formiche dentro casa a primavera. Ci giocherella con fare distratto ma preciso ed accurato passandolo e ripassandolo tra le dita della mano destra mentre si fa strada su’ per i pochi gradini che ha già avuto modo di conoscere; memoria di ferro che lascia l’idea che abbia percorso quella strada assai più volte immergendola ora in un alone di consuetudine ed abitudine. Dal piano terra, dove ha informato dell’appuntamento con il Detective, fino a lì ha sparso alle proprie spalle l’odore dolce e fruttato di pesca che ora s’insinua nel breve percorso in corridoio fino a quella prima porta; non è distratta dal giocherellare ma è silenziosa in una riflessione e concentrazione che le lasciano di tanto in tanto il tempo per voltarsi ed alzare gli occhi azzurri alla figura scura di Malcolm accanto a lei che la segue probabilmente immerso nel medesimo silenzio. Gli ha fatto scivolare addosso un’occhiata dall’alto verso il basso, giù lungo il braccio ed ora compare sulla soglia della porta dell’ufficio: una ragazza lunga, magra e longilinea perché la natura non è stata generosa quanto a curve, capelli rossi raccolti con cura dietro l’orecchio sinistro e tenuti da un fermaglio antico a forma di libellula, le gambe fasciate da un paio di jeans blu, sul busto una maglia morbida a collo alto bianca a rigoline orizzontali nere, sulla spalle si poggia composto un cappotto color cammello con bottoni scuri. Se ne sta ferma in equilibrio su un paio di decolté scamosciate nere che ne esaltano l’altezza con un paio di tacchi sottili; la mano libera tiene la tracolla di una borsa scura dove sembra aver ficcato l’impossibile. Proprio mentre il Detective si volta mostrando un po’ più di una testa riccia e scura ed un paio di spalle adeguatamente larghe lei esordisce in un « Buonasera Detective… sembra io sia arrivata nel momento giusto, un tale dispiegamento di energie mentali è sempre opportuno farlo in compagnia » sul viso pallido e perfettamente pulito stende un accenno di sorriso placido che curva in su’ solo gli angoli della bocca « Sono Emmeline Bowen… » si volta ad osservare Malcolm mantenendo il sorriso lieve, un’occhiata di sfuggita eppure assai più presente e vivida di quel che lui si potrebbe aspettare, non solo un invito a seguirla, non è solo quello « Il signore qui è uno stimato collega, Malcolm Barnes» l’accento marcatamente americano, del nord eppure sporcato in qualche inflessione del caldo sud, solo in piccoli e brevi passaggi, nelle parole d’uso più frequente e comune. Si avvicina e tende la mano destra verso Schezar in un gesto deciso.
Malcolm: Il “Professore” ha seguito Emma, l’ha invitato lei ad accompagnarla a Scotland Yard sottraendolo ad una routine solitaria. Malcolm si presenta come un uomo che ha passato i cinquant’anni e probabilmente li dimostra realmente abbondanti per via dell’aspetto quasi d’altri tempi. Un aspetto che emana un’aura ordine rigoroso, minuzioso, quasi maniacale, che si riflette nella cura della persona, degli abiti. Un portamento marziale, quasi rigido, potrebbe facilmente farlo passare per un militare in pensione o qualcosa del genere. Indossa un cappotto grigio, sotto il quale si nota un completo scuro, compreso di panciotto che dà un tocco molto anni ‘60, una camicia bianca immacolata, una cravatta amaranto che sparisce ben presto fra la camicia e il panciotto. All’anulare della mano sinistra porta una semplice fede d’oro; alla spalla destra invece è appesa una borsa da lavoro nera. Ha con sé il badge che gli ha permesso di seguire Emma, dopo qualche minuto speso insieme fuori dall’edificio, all’interno, verso l’ufficio di questo detective. Malcolm affianca la collega, ma resta ad un passo più indietro rispetto a lei, e si mantiene in silenzio, l’aria austera, glaciale, gli occhi che guizzano qua e là negli ambienti che via via si avvicendano, finché l’odore di pesca di Emma si mischia con l’essenza di caffè che proviene dall’ufficio dei fratelli detective. Quando si dice tradizione di famiglia! Entra sempre a seguito della ragazza, restando una specie di statua muta ma dallo sguardo acuto, attento fino all’eccesso, fino a che la sua presentazione viene anche sostituita da quella di Emma. Lui si ritrova ad annuire accennando a Rick un gesto del capo in segno di saluto. <Molto lieto, Detective.> è come esordisce nell’intreccio di frasi di circostanza; la voce bassa e un po’ graffiante, l’accento non particolarmente marcato ma sicuramente americano, accento della Louisiana, di New Orleans, per chi è esperto. Conferma dunque la presentazione della giornalista andando anche lui a tendere la mano alla volta del Detective, per un’eventuale stretta breve ma decisa. <Spero che la mia presenza non sia di disturbo.> aggiunge, visto che di fatto è stata la rossa a trascinarselo dietro. Dette queste poche parole, torna a tacere e ad osservare sia la figura di Rick, con la sua stanchezza, sia la stanza, la lavagna.
Rick: Si volta, sì, lentamente con la ciambella in bocca. Una presentazione che si confà di perfezione, macchiata da quella faccia leggermente goffa e stupida, che non sembra dire la stessa cosa di quello che sembra sulla carta. E per poco non si strozza quando vede che ha visite, che c'è qualcuno nel suo ufficio. Per poco non sputa la ciambella, ma l'appoggia sul tavolo, prendendo giusto il fazzolettino con il marchio del luogo dove è stato preso da mangiare, con un arcobaleno con scritto "Liberty Diner" e si pulisce mani e bocca, schiarendosi la voce «mi ero perso nei miei pensieri e mi ero dimenticato dell'appuntamento» giustificando la ciambella e la scena appena vista. Un pacchetto sulla scrivania che sembra pieno di qualcosa, indica anche che ha fatto scorta per un po', forse per i tempi di carestia. « buonasera Miss Emmeline» passa anche lo sguardo sul collega, che sembra che una ventata di freddo glaciale sembra essere entrato con i due nella stanza « Mister Barnes» più informale con l'uomo, una sorta di rispetto, e dopo essersi pulito con attenzione la mano del delitto, ovvero, quella con cui teneva la ciambella, se la passa anche sulla camicia, anche se è pulita ormai quella mano, avvicinandosi a dare una stretta decisa prima a Emma e poi anche a Professor « piacere di conoscervi. Finalmente per lei Miss Emmeline di cui mi hanno parlato, e lei Mister Barnes, piacere in generale. Accomodatevi, il dispiegamento di energie mentali, come dice la Miss, va fatto in compagnia » la mano di Rick è calda e decisa nella stretta, breve, ma quel che basta per far capire che ha una presa salda. Indica con la mancina due poltroncine di pelle nera davanti alla sua scrivania. « che... » annusando l'aria, l'arrivo di Emma ha portato con sè quel forte profumo di pesca, che gli fa alzare il naso « il pesco è in fiore? » domanda, una domanda che fa presagire che comunque ha sentito l forte profumo « posso offrirvi un caffè e una ciambella o.. » appoggiando il muso al contenitore di cartone con l'arcobaleno dl diner « o muffin o un pezzo di torta al limone e rum, oppure... » spostando anche un po' il naso « anche pere e cioccolato » facendo un elenco di cibarie, per cui solo al pensiero, potrebbe insorgere il diabete. « la sua presenza non è un disturbo Mister Barnes, tutt'altro.» diventando improvvisamente serio e abbandonando quell'aria da bonaccione che si porta dietro. « Miss Emmeline è passata in ufficio a parlare con mio fratello. E m'è sorto un dubbio che mi ha fatto anche venire leggermente l'emicrania, ma perché ho pensato troppo » rimanendo in piedi accanto alla lavagna. « i vostri nomi risultano sul fascicolo del ritrovamento di Stephanie Holden, e mio fratello mi ha detto che lei Miss, è una giornalista. Quindi essendo un collega il Mister Barnes, deduco che siate entrambi giornalisti. Quindi volevo conoscervi per comprendere l'interesse dimostrato dalla Miss per il caso» snocciola lentamente queste nozioni, guardando entrambi con i suoi occhi neri.
Emmeline:  Sgrana di fatto un’occhiata sorpresa che l’accompagna per tutti i quattro passi che la portano davanti a Schezar, troppo educata e rigorosa per mettersi a ridere, troppo attenta ai dettagli per lasciarsi trascinare in una distrazione che sa di ciambella; un tentennamento appena prima di ricevere il contatto con la mano del detective subito dopo aver notato i gesti nel pulirla e soprattutto nel passarla distrattamente perfino sulla camicia, le labbra separate per quel centimetro ad enfatizzare una muta “o” di sospensione che si stringe e si arriccia nella constatazione che il suo nome sia stato sulla bocca di qualcuno; a dispetto di quanto ci si potrebbe aspettare la sua stretta è altrettanto decisa e presente, quella di qualcuno cui è stata impartita la formale lezione che una stretta di mano la dice lunga sulla personalità di chi la elargisce e sarà forse per il medesimo motivo che si stringono anche le labbra per poi sciogliersi in un accenno di quesito che ha comunque poco d’interrogativo, parole sospese, scelte con cura e snocciolate perfettamente tra lingue e palato in una voce profonda « Solo buone cose spero » che non debba dare giustificazione di qualcosa a chicchessia. “Che…” la lascia di nuovo interdetta, persa nello scivolare verso il cartone con l’arcobaleno che volente o nolente cattura la sua attenzione di giovane ragazza che piano, assai piano e con discrezione, protende il piccolo busto magro e tende i collo sporgendosi in avanti per sbirciare più o meno accuratamente. Si ritrae all’istante nell’ascoltare la constatazione del detective e sul pallore del viso compare il colore acceso di quella pesca che si porta addosso « Sono… sono io » ed è vero che il suo profumo tenta di divorare perfino il sentore persistente del caffè in una lotta tra acre e dolce. Si ritrae un po’, il mento scende verso lo sterno ed il viso lascia da far osservare un mezzo profilo mentre si volta verso Malcolm la cui glacialità ed avarizia di parole sembra essere il giusto e saldo contrappunto; poco più di un paio di secondi a cercare il punto fermo a contrastare il proprio rossore « Per me nulla la ringrazio » torna su Rick con un rinnovato sorriso placidamente accomodante, spostandosi verso la poltroncina eppure senza prender post prima che gli altri si siano accomodati « Quale pensa possa essere l’interesse di due giornalisti per una faccenda così particolare? Credo che suo fratello le abbia riportato le mie intenzioni, non sono a caccia di nulla… una cosa soltanto è di mio… di nostro interesse» comprendendo nella questione anche Barnes quasi conoscesse alla perfezione il suo pensiero in merito
Malcolm: Adocchia Rick con un’aria vagamente inquisitoria, insomma è un’attenzione particolarmente meticolosa su tutti i dettagli che la sua figura fornisce, dalla sorpresa al logo del Liberty Diner … al modo in cui si pulisce la mano sulla camicia, cosa che gli fra tremare appena le labbra, momentaneamente più strette, trattenendo un’espressione di fastidio che si legge un po’ anche nello sguardo. Scambia anche qualche occhiata molto rapida con Emma, ma si tratta di un contatto sporadico, silenzioso, salvo quando lei sembra cercare un appiglio in lui riguardo all’odore di pesca. Uno sguardo saldo, inamovibile. Il Professore deve essere decisamente un tipo di poche parole; quando Rick indica le poltroncine va ad accomodarsi ma solo dopo che lo ha fatto anche Emmeline. Osserva, ascolta, nega brevemente alle offerte di cibo proprio come fa la collega: <Sto bene così, la ringrazio.> anche il tono di voce, serissimo e ponderato, rispecchia il resto della figura granitica. Il resto viene solo assorbito e con attenzione; un cenno misurato del capo in conferma dell’essere giornalisti: <E’ esatto. Anche se al momento non sto lavorando.> dice e specifica. Di essere giornalisti non si smette mai, è un modus vivendi più che un lavoro. Fa parlare la collega, direttamente e primariamente interessata, e bisogna dire che c’è una quasi impercettibile sorpresa nel vedere con quale disinvoltura lei tira dentro Malcolm davanti al Detective. Il giornalista resta seduto con una compostezza finanche eccessiva, le mani ordinatamente posate sulle gambe – mentre la borsa è stata deposta ai suoi piedi – e indice e medio della destra picchiettano senza rumore sulla stoffa dei pantaloni.
Rick: Cerca di mantenere uno sguardo molto attento, sembra quasi indagatore a tratti, quello che volge prima ad Emma e poi a Professor, ma niente di negativo, solo quello che par essere lo sguardo di qualcuno che fa molta attenzione ad ogni cosa, soprattutto se si gravita intorno a lui o al sacchetto dei balocchi. « mi ha detto che gli ha fatto qualche domanda » risponde lentamente, con un perfetto accento inglese. Non nota la differenza con gli altri perché non è un esperto del settore. Semplicemente si sta evidentemente anche concentrando su qualcos'altro « il suo profumo mi ricorda moltissimo le pesche, da piccolo ne andavo ghiotto » lasciando ancora una volta la serietà alle spalle, ma immergendosi in una piccola e minuscola confidenza. « tendo sempre a non farmi idee su persone che non sono sospettate Miss, preferisco essere diretto e chiedere le intenzioni. » risponde inizialmente ad Emma, la guarda con il suo sguardo scuro e nero, un momento perdendosi in quel blu dei suoi occhi, ma solo un attimo. « Ma posso fare un paio di supposizioni a riguardo. La prima è quella che spontaneamente spinge la stampa verso la polizia, ovvero, conoscere la notizia per renderla nota ai cittadini » Prende in mano anche la ciambella e la avvicina alle labbra, quella che stava mangiando prima ovviamente. « la seconda è per ipotesi » ovviamente parlando dopo aver deglutito il boccone e indicando con la ciambella sia Emma che Professor «quella che può essere qualcosa che accade anche spesso qui. collaborazione. Molti civili sono collaboratori, ma il problema di fondo è: cosa spingerebbe due giornalisti civili a collaborare a un caso, o più casi? » fa una domanda a cui seguono altre parole, ma solo dopo aver dato ancora qualche morso. « ci sono i fanatici della giustizia a tutti i costi » accenna, sospirando «quelli che si credono dei moderni Sherlock Holmes » tirando fuori una metafora abbastanza spiccia. « e quelli che infine lo fanno perché è nella loro natura risolvere i misteri. Diciamo che come per noi poliziotti » alza la gamba destra e si appoggia allo spigolo della propria scrivania, ultimo boccone di ciambella che finisce e un nuovo movimento a pulirsi le mani. Studia anche Professor mentre parla, lo sguardo va su entrambe le figure, come se volesse cogliere qualche particolare. così simili ma anche così diversi, sembrano aver attirato l'attenzione di Rick. Sembra goffo e stupido, per davvero, ma qualcosa della sua mente brillante ogni tanto scatta fuori. « se fosse a caccia di qualcosa miss.. credo che sarebbe nel luogo sbagliato. » successivamente va su Professor « una persona non smette di essere quel per cui è nato, se al momento non lavora. Io sono anche un medico legale, non smetto di esserlo quando ho un distintivo. La sua eleganza e la sua serietà mi dice che lei deve essere una persona che sul lavoro è molto seria, professionale e integerrima.» indicando Professor « lei che ha una spiccata curiosità. » conclude con un sospiro. « vi chiedo dunque, quali dei profili si addice a voi? » domanda infine.
Emmeline: Lascia che Malcolm faccia le precisazioni qualora ne abbia voglia ma non sembra essere sua intenzione relegarlo al ruolo di spettatore per quell’incontro ed infine non sembra essere nemmeno nelle intenzioni del Detective di cui lei non riesce ad sostenere lo sguardo se non per quello stesso breve istante che anche lui vi ha dedicato; un incontro che pare del tutto fortuito ed assolutamente inutile per cogliere reciprocamente ciò che è necessario. La giovane Bowen se ne va a fissare la lavagna leggendo e rileggendo più volte quelle tre categorie, quasi maniacale in quella ricerca, quasi stese nel frattempo già cominciando a far frullare la mente dentro quella testa rossa. Non si appoggia allo schienale, è composta e dritta sulla schiena in un modo del tutto naturale e confacente all’idea generale che dà di se stessa, scoprendosi forse perfino meno accessibile rispetto ad un Barnes dipinto accuratamente nelle ultime considerazioni di Schezar. Andarne ghiotto da bambino non aiuta certo a levare il velo di rossore che ha in qualche modo ravvivato i tratti bianchi di un viso disteso in una serietà senza tratti marcati, delicatamente e morbidamente impassibile eccezion fatta per quella sola reazione. Rimane in silenzio a far serpeggiare la propria attenzione in ogni angolo senza tuttavia lasciar intendere troppo la propria presenza e quando sposta lo sguardo color ghiaccio, acquoso e trasparente, lo fa infilandolo nella barba scura per poi sfuggire di nuovo, il campo visivo periferico capace di cogliere Malcolm e le sue due dita che ticchettano inesorabilmente « Nessuna delle tre » non esita a rispondere inspirando profondamente per poter sciogliere la matassa del dubbio altrui con il tempo concesso da quel fiato accumulato, non di più né di meno « Avere la possibilità di mettere a disposizione il proprio contributo perché si faccia chiarezza in alcuni casi ed in altri perché alcuni fatti non accadano più, non per esaltazione di un ideale o del proprio ego… » avrebbe forse aggiunto altro ma le labbra rimangono ferme nel tentativo che invece fanno gli occhi di passare nuovamente sullo sguardo scuro del detective « E… c’è solo una cosa che può interessare ad un più che decente giornalista… la verità » abbassa di nuovo il mento, tra le dita della mano sinistra ha ancora il badge che si perde ad osservare per qualche momento rigirandolo svogliatamente mentre gli occhi non assorbono la vista di quel cartellino di plastica o della V stampata sopra
Malcolm: Si limita ad ascoltare tutte le riflessioni sciorinate dal Detective; lo osserva, con una freddezza ammantata di cortesia sociale, anche se lo sguardo non sta continuativamente su di lui ma spesso e volentieri si sposta e vaga sulla scrivania. Non sembrano tangerlo gli aggettivi che pare gli siano stati affibbiati, vi rimane inerte, quasi apatico, senza interesse; almeno in apparenza. Talvolta, proprio per questo motivo, potrebbe sembrare distratto. Annuisce appena, invece, quando Rick afferma che non si smette mai di seguire la propria vocazione, su quello sembra essere d’accordo. Sembra quasi atipico tutto quel silenzio cucito addosso ad un giornalista, un controsenso. Lascia rispondere prima Emmeline, mentre le due dita non smettono di picchiettare sulla coscia; a questo punto le rivolge anche lo sguardo, più volte, fino a che alle ultime parole non lo lascia sul volto giovane per qualche momento in più, a trovarci chissà cosa, pur sapendo che è il suo turno di rispondere. Cosa che fa poco dopo, distogliendo lentamente gli occhi per poi alternarli fra Rick e la scrivania in un breve intervallo di qualche secondo. Breve ma del tutto particolare dentro un discorso fluido. Infine lo sguardo viene puntato addosso a Rick senza più abbassarsi: <La mia collega ha riassunto accuratamente anche il mio pensiero.> dice con una calma glaciale. <Raccontare la verità è il nostro unico sacrosanto dovere. Informare della verità in modo oggettivo e al contempo educativo per l’intelletto e la morale delle persone comuni, è anche la redenzione di una società civile.> commenta con parole nette e – si direbbe – asettiche, al pari di un bisturi che esegue un taglio preciso come solo te lo potresti aspettare da uno così.
Rick: Infila la mano dentro al sacchetto del diner, ne estrae un contenitore a forma di bicchiere con cannuccia, ovviamente non spostando lo sguardo da Emma e Professor, ha un piccolo senso di goffaggine, che la cannuccia non arriva alla sua bocca subito ma prima batte sul mento e poi a ridosso del naso, prima di centrare il bersaglio e quindi, iniziare a bere. Sembra che sia un frappè al cioccolato. « bene » quando accenna Emma che non è nessuna delle tre, scoppiando in una leggera risata « sono una capra » ancora sorridendo, mantenendo un atteggiamento di buonumore. Ma si zittisce subito, sentendo che la ragazza sia intenta a proseguire, per lasciarle parola e lasciarla anche spiegare. «comprendo » annuendo un paio di volte con il capo riccioluto e ascoltando quello che gli viene detto. « penso che il mettere al servizio le vostre doti per il bene della verità, sia come da parte nostra, mettere in campo le nostre qualità per il bene della giustizia » risponde, guarda entrambi, sentendo anche la precisazione di Professor e annuendo più volte alle sue parole. « la verità in modo oggettivo. Sono parole forti mister Barnes » ma non è un ammonimento di certo, sembra che stia studiando anche quelle parole, soppesandole con attenzione. « Anche se concordo sul vostro pensiero, sia il suo Mister Barnes e il suo Miss. » sospirando, finendo in qualche momento quel frappè e buttando il contenitore nel bidoncino accanto alla scrivania, facendolo cascare anche con un tonfo secco. « dunque alla luce di questi fatti, possiamo convenire che, sebbene in maniera differente, i nostri obiettivi abbiano molti punti in comune.» si rialza in piedi, andando dietro la scrivania. Toglie il sacchetto e lo appoggia sulla scrivania accanto quella del fratello e poi sposta la sua sedia. «quello che posso proporvi forse è quello che vi ha spinti qui, che ha spinto prima lei Miss e forse anche inconsciamente consapevole anche lei Mister » indica i due e annuisce. « se voleste collaborare con noi, per i casi che vi possono interessare, scegliete voi quali, sareste un buon punto di forza assieme a me e ad altri del dipartimento, per aver più teste al servizio della verità dalla vostra parte e della giustizia dalla nostra. Perché sono convinto che più teste, anche diverse, possano tirare fuori più supposizioni da aggiungere, più punti di vista su un caso, che non unilateralmente da chi lo vive a livello di polizia e diligenza militare come noi » appoggia anche le mani sulla scrivania e le incrocia tra loro. « quindi posso chiedervi se volete accettare il ruolo di collaboratori esterni della Yard? Un contratto che vi permette comunque di collaborare una tantum, secondo le vostre esigenze e secondo i vostri interessi. Ovviamente, avrete anche l'esclusiva su quanto riguarda il rilascio della verità alle masse » conclude brevemente, palleggiando lo sguardo tra i due.
Emmeline: Sa che gli sguardi sono su di lei, a fasi alterne o per quel tempo in più che potrebbe strapparle di dosso qualche brandello di rossore dando troppo a vedere in fin dei conti la capacità non del tutto sopita di avere delle reazioni; le dita intrecciate tra loro e sulla plastica del badge davanti al grembo si sciolgono per andare a raccogliere il sottile filo dorato che disegna un’ampia U davanti al petto sulla stoffa bianca a rigoline nere, una catenina d’oro la cui corda è interrotta solo dalla saldatura di una piccola stella di David le cui punte vengono saggiate coi polpastrelli. Tutto viene incommensurabilmente spazzato via da quella peculiare insostenibilità del decoro quasi patologica che Schezar mostra ad ogni normale movimento, ogni gestualità perfettamente quotidiana incontra una goffaggine che le fa sbuffare d’improvviso un fiotto d’aria sulla scia di un risolino che non nasce tanto per puro divertimento quanto per altro tipo di constatazione e ora… ora riesce a lasciargli le pozze azzurre tranquillamente nello sguardo « Non sarebbe di alcuna utilità risvegliare una coscienza collettiva attraverso un’esposizione filtrata dal giudizio, nella storia troppe lenti d’ingrandimento hanno falsato la conoscenza di ciò che prima era ignoto lasciandolo precluso ad una profonda conoscenza… la sua giustizia è una dea bendata, la nostra verità di trova in fondo ad un pozzo » vecchi miti per esprimere la profondità del significato e l’importanza di quella differenza sostanziale, equità per arrivare ad un giudizio, ricerca per arrivare al fondo del pozzo ed edificare sulla verità un nuovo tempio di coscienza e conoscenza. «Oh no, non una capra, forse troppo tristemente abituato a dei cliché » inspira profondamente ed ora lo osserva prendere grossi sorsi e parlare esponendo con una precisione che nei momenti più semplici non riesce ad avere. Si volta verso Malcolm, quella è una decisione sulla quale sente di dover respirare e lo fa arraffando quanto più tempo può, cercando qualcosa che altrove non potrebbe mai trovare; così diversi eppure così simili, non nasconde quel velo di sorpresa e personale soddisfazione nel conoscere quanto meticolosamente lei abbia riassunto il pensiero altrui « Sarei disposta ad accettare…» è ancora su Malcolm, ancora un momento prima di tornare al detective riccioluto, le dita che smettono di giocare con la piccola stella ed il filo d’oro mentre il profilo attende la risposta di Barnes.
Malcolm: Dopo aver dato la sua centellinata opinione, annuisce a Rick che le cataloga come parole forti ma non ha bisogno di dire altro, che Emma completa a modo suo ma su cui nulla si può obiettare. Se non fosse che Emma è semplicemente uno spirito affine, si potrebbe dire orgoglioso di essere stato un buon mentore il nostro giornalista. Vede che lei estrae la stella di David, quel dettaglio conosciuto, e ci giocherella. Malcolm torna dunque a tacere e si limita ad ascoltare le parole del Detective, la sua proposta. Tutto con minuziosa attenzione e bisogna dire che la reazione che muove Emma non è dissimile da quella che si trova a fronteggiare il Professore. Solo che in lui si manifesta esclusivamente con quel picchiettare – finora ininterrotto – delle dita che diventa uno sfregarsi delle mani sulla stoffa e lo sguardo distolto da qualche parte senza importanza. <Sembrate senz’altro di più aperte vedute dei vostri colleghi americani.> si limita a commentare quasi freddamente, con un che di scostante, un nervosismo quasi impercettibile. Una risposta che non è una risposta. Ora come ora non ricambia lo sguardo di Emmeline, ma si è fatto più teso, si smuove appena sulla poltroncina e  le mani vanno brevemente ad aggiustare il nodo della cravatta che non ha alcun bisogno di essere aggiustato. Un tocco praticamente fulmineo e poi le mani di nuovo giù, ordinate sulle cosce; le dita riprendono il loro ticchettio. Ha sentito che Emma “sarebbe” disposta ad accettare; lui sembra indugiare più a lungo di quanto sembrerebbe normale. Non guarda né la collega né il Detective, quando replica un algido: <Avrei necessità di valutare l’offerta per qualche giorno, se è possibile.> un respiro poco più profondo e lo sguardo si posa come sempre glaciale – ma più teso – su Rick.
Rick: Soppesa le varie parole con attenzione. Lui parla troppo, goffo a tratti, chiacchierone dall'altra, contro quella marzialità che entrambi esprimono, anche se quella di Emma a tratti espressiva, dal rossore del volto, al gesto della catenina, che comunque ne denota una personalità che comunque ha un suo colore personale. Mentre Professor, con il suo picchiettare e quella serietà molto accentuata che comunque, dimostra anche una sorta di intelligenza acuta che rilascia a piccole dosi. Guarda entrambi, annuisce prima alle parole di Emma, alla metafora della benda e del pozzo, sorride « non sempre la verità è una dea bendata Miss. Credo che la benda sia come un ricercare a caso e sperare di non inciampare. » alza le sopracciglia, un piccolo sospiro esce dalle labbra e muove direttamente davanti a lui, distende anche le labbra carnose per un momento « La giustizia vera e propria, quella che impongo al dipartimento che gestisco, è quella di una Dea che vede, che ha uno scudo e una lancia, perché combatte. e' una guerriera, come nella maggior parte della rappresentazione iconoclastica dell'antica dea. » spiegando a Emma il suo punto di vista. « la verità che si trova in fondo al pozzo è come l'acqua limpida di superficie che nasconde le impurità, va tirata fuori affinché l'acqua possa essere limpida» alzandosi in piedi dice questo, annuendo poi a quel che sente dire dopo dalla ragazza e sorridendole « sto aspettando solo che qualcuno mi faccia cambiare idea e che i miei cliché siano appunto tali. Mi auguro che possiate essere voi » ammette blandamente. Passa su Professor in particolare in questo momento, annuendo alle sue parole con vigore. « io credo che sia nella natura umana spesso, chiudersi a ciò che non si conosce per timore. Vedere al di là delle proprie paure, può essere la svolta che serve nel mondo » accenna sorridendo anche a Professor e poi aggiunge « Miss Emmeline allora benvenuta a bordo e mister Barnes, si prenda tutto il tempo che le serve per valutare l'offerta. Sa come e dove contattarmi in caso » passando oltre ai due « ora scusatemi, ma ho un brainstorming con gli agenti prima della pausa cena. Spero di vedervi presto in centrale. E vi auguro una buona serata » fa anche un piccolo segno di riverenza, chinando il capo in avanti, dopodiché, salutati e congedati, andrà dall'altra parte del corridoio con l'impegno di rito della sera.
Emmeline:  Annuisce per qualche istante senza riuscire a domare qualche respiro più profondo sapendo bene che sarebbe inutile andare a cercare oltre la cortina di fumo che avvolge tutto ciò che non è manifesto; nessun affanno, nessun dibattersi come un pesce appena pescato che spera nella salvezza delle ultime energie, nulla è al suo posto nemmeno quando le parole del Detective sanciscono l’apertura di una nuova strada. Lei annuisce ma la fronte si corruccia in un’inspiegabile ricerca che deve abbandonare ben presto « Sul fondo anche l’acqua più limpida è scura, in superficie scorre più veloce e trasparente » parole snocciolate con la stessa cura ma in una voce più vacua che si spegne totalmente facendo voltare il viso col mento quasi sopra la spalla. L’appunto sul timore e lo sguardo portato al di là, oltre la cortina, la inchioda lì col viso ancora caldo e lo sguardo piantato a terra da qualche parte tra le gambe della poltrona occupata da Malcolm ed è solo un riflesso di cortesia ed educazione quello che la fa alzare compiendo un cenno della testa « Non si libererà di me tanto facilmente Detective Schezar, ormai sta scommettendo forse più di quanto volesse. Buon proseguimento » una pausa di qualche momento col corpo che ruota e si sposta facendo perno sui talloni, seguendo Rick fino alla sua uscita verso il corridoio. Respira profondamente e si china in silenzio a recuperare la propria borsa, sospirando nell’aggrapparsi alla tracolla e lasciando a Malcolm tutto il tempo di cui può avere bisogno « L’indiscutibile insensatezza di queste giornate » non dice quali né il motivo per cui non riesca a trovare un motivo o un ordine ma è chiaro che la cosa la stia inquietando mentre a piccole dosi tutto diventa stretto. Uno sguardo rispettoso e fugace raggiunge il collega «Andiamo?» cerca conferma perché non andrà da sola, non finché potrà.
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klimt7 · 6 years
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DEMIAN
di Hermann Hesse.
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" Per raccontare la mia storia devo incominciare dal lontano inizio. Se mi fosse possibile, dovrei risalire molto più addietro, fino ai primissimi anni della mia infanzia, e più oltre ancora nelle lontananze della mia origine."
Quando scrivono romanzi, gli scrittori fanno come se fossero Dio e potessero abbracciare con lo sguardo e comprendere la storia di un uomo e riprodurla quasi Dio la narrasse a se stesso, sempre essenziale e senza veli. Io non ne sono capace, come non ne sono capaci gli scrittori. La mia storia però ha per me più importanza di quanta non ne abbia per altri scrittori la loro; è infatti la mia, è la storia di un uomo non inventato e possibile, non ideale o in qualche modo non esistente, ma di un uomo vero, unico, vivente
Certo, che cosa sia un uomo realmente vivo si sa oggi meno che mai, e perciò si ammazzano gli uomini in grandi quantità, mentre ognuno di essi è un tentativo prezioso e unico della natura. Se non fossimo qualcosa più di uomini unici, se si potesse veramente togliere di mezzo ognuno di noi con una pallottola, non ci sarebbe ragione di raccontare storie.
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Ogni uomo però non è soltanto lui stesso; è anche il punto unico, particolarissimo, in ogni caso importante, curioso, dove i fenomeni del mondo s’incrociano una volta sola, senza ripetizione
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Perciò la storia di ogni uomo è importante, eterna, divina, perciò ogni uomo fintanto che vive in qualche modo e adempie il volere della natura è meraviglioso e degno di ogni attenzione.
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In ognuno, lo spirito ha preso forma, in ognuno soffre il creato, in ognuno si crocifigge un Redentore.
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Oggi pochi sanno che cosa sia l’uomo. Molti lo sentono e perciò muoiono con maggior facilità, come io morirò più facilmente quando avrò finito di scrivere questa storia.
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Non posso dire di essere un sapiente. Fui un cercatore e ancora lo sono, ma non cerco più negli astri e nei libri: incomincio a udire gli insegnamenti che fervono nel mio sangue. La mia storia non è amena, non è dolce e armoniosa come le storie inventate, sa di stoltezza e confusione, di follia e sogno, come la vita di tutti gli uomini che non intendono più mentire a se stessi.
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La vita di ogni uomo è una via verso se stesso, il tentativo di una via, l’accenno di un sentiero.
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Nessun uomo è mai stato interamente lui stesso, eppure ognuno cerca di diventarlo, chi sordamente, chi luminosamente, secondo le possibilità. Ognuno reca con se, sino alla fine, residui della propria nascita, umori e gusci d’uovo d’un mondo primordiale. Certuni non diventano mai uomini, rimangono rane, lucertole, formiche. Taluno è uomo sopra e pesce sotto, ma ognuno è una rincorsa della natura verso l’uomo. Tutti noi abbiamo in comune le origini, le madri, tutti veniamo dallo stesso abisso; ma ognuno, tentativo e rincorsa dalle profondità, tende alla propria meta
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Possiamo comprenderci l’un l’altro, ma ognuno può interpretare soltanto se stesso.
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nordend-91-blog · 7 years
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La mia salita al Guide d’Ayas (3420 mt)
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Domenica sera. Sono appena tornato da un breve viaggio. Sono le otto di sera e il cellulare squilla. Il messaggio è un invito che non riesco a rifiutare: ‘‘vieni su in montagna stasera, a casa mia. Dormi qua e domani si parte per il Rifugio Guide d’Ayas’‘. Per le otto e mezza avevo preparato tutto ed ero già in viaggio. Guardo fuori dal finestrino dell’auto. C’è il tramonto con i suoi colori rossastri: davanti a me il mare delle risaie in estate e poco più in là le montagne blu e nere.
Il mattino seguente, alle sette, usciamo di casa. Il mio compagno di viaggio, gentile nell’avermi ospitato, per primo guarda il paesaggio e, come se non l’avesse visto già centinaia di volte, esclama: guarda che meraviglia! E ha ragione. Credo che ci vorrebbero degli anni per abituarsi a quello spettacolo. Tutte le montagne sono verdi, cariche di abeti e pini. Il sole illumina le cime gialle e il cielo sopra di noi è completamente azzurro. La sera prima ero salito in valle completamente al buio, perciò non avevo potuto vedere alcunchè. Ma la mattina seguente erano tutte lì le montagne, come se fossero appena nate intorno alla casa. Usciti dall’uscio aspettiamo un terzo avventuriero.
La partenza è a Saint Jacques, una frazione del comune di Ayas conosciuta anche come Canton des Allemands  per via delle antiche migrazioni walser in quest’area. Il villaggio è raggiungibile grazie a una navetta gratuita che ha come capolinea un piccolo parcheggio vicino a una fonte dove subito mi rifornisco di acqua. Alle 8 meno venti partiamo. Lasciamo il villaggio di Saint Jacques e seguiamo prima una strada, poi un sentiero che ci conducono attraverso altre piccole frazioni composte da pochissime case raggiungibili a piedi. Il percorso si arrampica dolcemente in mezzo al bosco per poi raggiungere un tratto in piano in fondo al quale gli alberi finiscono. Come le tende di un teatro, i rami e le foglie fanno da contorno a una landa pianeggiante con alcune casette adagiate nell’ombra. Superiamo gli ultimi alberi e ci troviamo nello spettacolare Pian di Verra Inferiore.
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‘‘Qui vengono un sacco di turisti. Di solito mettono un chiosco a forma di limone gigante e moltissima gente si fa portare su con i mezzi. Moltissimi poi vengono qui giusto per andare al lago blu, appena sopra il bosco’‘ mi dice uno dei miei compagni. Ringraziando la fortuna che quel mattino non ci fosse nessuno, guardo il panorama. Sopra il bosco di pini vedo due morene, formatesi grazie agli spostamenti dei ghiacci in passato, e ancor più in là il Grande Ghiacciaio di Verraz coronato dalle sue cime: il Breithorn Orientale, il Roccia Nera, il Castore e il Polluce. Proseguiamo superando le case e rigettandoci nel bosco. Il sentiero taglia la strada sterrata che si arrampica a tornanti. Finalmente arriviamo alla base di una delle due morene, quella più verde e ricca di vegetazione. Qui il percorso torna a salire più ripido, puntando verso la cresta della morena dove il sentiero prosegue regalandoci la vista dell’opera dei ghiacciai.
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Il ghiaccio spostandosi ha accumulato rocce, le ha frantumate e rese lisce, ha scavato giganteschi solchi nella terra dove oggi scorrono i torrenti, ha creato le morene spingendo e ammassando i detriti giù per la montagna come una scopa con la polvere o con dei sassolini. Noi ammiriamo tutta l’opera del ghiaccio e ci sentiamo formiche. I nostri occhi si spalancano per ammirare ogni centimetro di quella bellezza. Un gruppo di stambecchi guarda nella stessa direzione nostra e si lascia ammirare. Continuiamo il cammino: il primo rifugio da conquistare è il Mezzalama (3036 mt). Lo si può vedere facilmente dalla cresta, ma non è così vicino come appare. Aguzzando la vista, in mezzo alle rocce, arroccato su uno sperone, si può già vedere anche il Guide d’Ayas brillare colpito dal sole.
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Al Mezzalama ci rifocilliamo. Le nuvole grigie che si sono accumulate nella Valle del Lys, a oriente della Val d’Ayas dove siamo noi, non riescono a superare la catena di montagne e rimangono lontane da noi. La minaccia della pioggia sembra essere rinviata ancora per qualche ora. Il sentiero prosegue molto diversamente: si passa sopra alle rocce, ogni tanto uso le mani per issarmi su una di esse, la vegetazione consiste in erba molto bassa. Mi sembra di essere in una specie di percorso a ostacoli e mi inizio a divertire sempre di più. La fatica è momentaneamente accantonata. Il nostro arrivo sembra lì, a un metro da noi, eppure c’è ancora tanto da camminare.
Una lingua di ghiaccio e neve, percorsa da piccoli canaletti d’acqua, scende dal ghiacciaio di Verraz e più si abbassa la quota e più affiorano sassi e pietre: noi la attraversiamo cercando il punto più agevole e meno scivoloso. Davanti a noi si staglia l’ultima salita: qui il sentiero passa su una petraia ed è segnato da ometti e bollini con il numero sette disegnati sulla roccia. Il pomeriggio è ormai vicino e noi iniziamo a incrociare lungo il cammino gli alpinisti che si sono avventurati la mattina presto sui 4000: scendono, ci vedono e ci salutano taciturni. Saliamo e io inizio a sentire la fatica. In moltissimi punti ormai salgo a quattro zampe, non per la necessità di arrampicarsi, ma per la mia stanchezza. La pietraia termina. Ma il rifugio è ancora lassù, su quello sperone di roccia. 
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Lo sperone è ripido. Per salire ci sono corde e ponticelli di legno che aiutano. La parte finale è sicuramente quella più divertente di questa avventura, penso mentre salgo. Impreparato finalmente arrivo con i miei compagni al rifugio Guide d’Ayas (3420mt) dopo 4 ore circa di cammino. Dico impreparato perchè ciò che ho successivamente visto davanti a me era qualcosa di completamente nuovo e magnifico ai miei occhi. Il ghiacciaio era tutto davanti a noi a pochi metri: pareti di ghiaccio alte decine di metri, crepe, neve, rocce, le cime imponenti, le nuvole veloci e sopra a tutto il cielo azzurro.
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Dopo aver mangiato un pezzo di gustosa focaccia ligure, decidiamo che è ora di iniziare la discesa. il tempo sta cambiando. Il rientro è magnifico, c’è il tempo per scattare qualche foto in più e per rivivere meglio certe parti del sentiero.
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Quella sera, mentre tornavo verso casa in auto dopo aver lasciato in valle i miei compagni d’avventura, mi è sembrato che dentro di me si fosse insinuato qualcosa: era la nostalgia che già mi colpiva a pochi chilometri dalla mia ripartenza. E io, in auto, ogni tanto mi giravo a guardare l’imbocco della Val d’Aosta e mi scoprivo pensare che già tutto quello che avevo vissuto poco prima mi mancava.
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esecconstant · 7 years
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1. Pensa che si muore e che prima di morire tutti hanno diritto a un attimo di bene. Non è che puoi pensarci sempre, pensaci qualche volta, anche solo una volta al giorno. Lascia che salga un filo di pietà verso gli altri, verso il fatto che hanno il tuo stesso destino. 2. Ascolta con clemenza il mondo nei suoi sbadigli e nei suoi furori. La bellezza dell’indecisione, della sonnolenza. La bellezza di chi freme. 3. Prendi coscienza del tuo sfinimento e dello sfinimento altrui. Quando parliamo di crisi, quando parliamo di povertà non dobbiamo mai dimenticare la stanchezza senza sogni in cui molti trascorrono la loro vita. 4. Scordati ogni giorno di te stesso e guarda con ammirazione le volpi, le poiane, il vento, il grano. Impara a chinarti su un mendicante, ad accarezzare un cane, a non distogliere gli occhi e il passo. Senti la sofferenza di una formica schiacciata sotto i piedi. 5. Cerca continuamente parole migliori, senza credere troppo né alle tue né a quelle degli altri. La parola non è una merce da prendere al mercato. Le parole migliori quando le pronunciamo hanno il fiato della paura e della lietezza, non sono le parole per amministrare la giornata. 6. Impara a sentire l’energia del dolore, della vecchiaia, della povertà e della disperazione. L’energia degli uomini viene dal vento contrario, non dalle spinte, non dagli imbrogli, non dai favori. La nostra bellezza non si realizza quando veniamo riconosciuti, quando veniamo premiati. Il nostro lato immenso si apre quando diciamo l’affanno, quando vediamo l’affanno degli altri. La politica non parla mai del dolore, della vecchiaia, della disperazione. E con questo si condanna a una penosa irrilevanza. 7. Vivi nascosto, coltiva il tuo rigore e lotta fino a rimanere senza fiato. Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, dai tutto te stesso, senza avarizia, senza remore. L’aria è piena di miracoli, ci sono i santi, baci grandi possono arrivare e pianti, il giorno non è un gioco a scansare, ma è un impigliarsi, struggersi, cadere nel mondo, mirare verso l’alto. 8. Considera la vita nella sua miseria e non nella sua grandezza. La miseria di un corpo che si ammala, di una ragione che è una tana di formiche morte. Noi non abbiamo niente, non avremo mai niente, se non la nostra miseria, il nostro essere senza scampo. Possiamo anche contendere qualcosa agli altri, possiamo organizzarci per darci l’illusione di avere forze e speranze e progetti. Dobbiamo avere l’onestà di considerare che si tratta di giochi. La politica è uno di questi giochi e tende a essere un gioco ignobile. 9. Diffida della freddezza stitica, dei cuori rinsecchiti. Evita i commerci umani, non limitarti a galleggiare. Mentre tu muori pensa alla bellezza del sole e della luce, pensa che chi ti nega l’amore può darlo ad altre persone, pensa intensamente che la vita non è di nessuno. I nostri corpi stanno in mezzo alla vita, possiamo accostarli, sentire e far sentire le parole. Il lato immenso è in ognuno, può essere un’immensità piccola o grande, ma sempre di immensità di tratta. A volte per fiorire abbiamo bisogno di essere ignorati. Forse un fiore, se ci mettiamo tutti attorno ad aspettare che sbocci perderebbe la forza di sbocciare. 10. Sorridi di questa umanità che si aggroviglia su se stessa e cedi la strada agli alberi. – Franco Arminio
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jamariyanews · 7 years
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Preve: “Femminismo organico al capitalismo”
9 marzo 2017
Il patriarcalismo in Europa esiste solo come residuo di un tempo ormai trascorso, al di fuori forse di alcune comunità musulmane immigrate in cui padri-padroni cer­cano di imporre alle mogli e alle figlie le loro scelte reli­giose e matrimoniali. La tendenza generale della società capitalistica è quella del superamento del patriarcalismo, che pure ha caratterizzato non solo le società precapitali­stiche, ma anche la prima fase proto-borghese del capita­lismo stesso, in cui ci imbattiamo nel sospetto positivistico verso le donne (Comte, Nietzsche, Weininger), seguito dalla sistematizzazione psicoanalitica di Freud, che sareb­be stata impossibile al di fuori del contesto borghese e patriarcale in cui è stata concepita. Ma oggi il patriarcalismo, appunto per la sua natura vetero-borghese, è del tutto incompatibile con un dominio integrale della forma di merce, che non sopporterebbe tabù sorti in un’epoca precedente.
Il modo in cui oggi il capitalismo affronta la questione femminile è fondato su una mescolanza di maschilismo e femminismo. Lungi dall’essere opposte, queste determinazioni sono del tutto complementari. Il profilo “maschi­lista” prevale nel processo di accesso del sesso femminile a tutti i ruoli possibili all’interno della produzione capitalistica. Questo profilo semplicemente inserisce nei tradizio­nali ruoli maschili esseri androgini di entrambi i sessi.
Il profilo “femminista”, che nulla ha a che fare con il vecchio e nobile processo di emancipazione femminile del perio­do eroico borghese e socialista, tende ad un vero e proprio obiettivo strategico della produzione capitalistica, la guer­ra fra i sessi e la correlata diminuzione della solidarietà fra maschi e femmine. Per questa ragione, sono veramente illusi coloro (penso a Immanuel Wallerstein) che inserisco­no il femminismo nel novero dei cosiddetti movimenti “antisistemici” e anticapitalistici. Al contrario, il femmini­smo rappresenta una delle correnti meno comunitarie e più organiche al capitalismo che esistano. Questa tesi può sembrare scandalosa e perciò occorre dilungarsi un po’ per motivarla. A questo scopo, bisogna risalire ab ovo, cioè agli inizi del processo storico (a mio avviso innegabile) di subordinazione del sesso femminile all’ordine maschile della società.
Due mi sembrano essere le concezioni teoriche che negano il carattere integralmente storico della subordinazione delle donne all’ordine maschile della società. In primo luogo, la teoria sociobiologistica del cosiddetto “dimorfismo”, secondo la quale la subordinazione delle donne sarebbe dovuta alla minore forza fisica del corpo femminile rispetto a quello maschile, che si sarebbe poi duplicata in una gerarchia di ruoli fissi di dominio e obbedienza.
In secondo luogo, ed in modo molto più sofisticato della precedente, la teoria strutturalistica di Lévi-Strauss, per cui tutte le società umane si basano sulle leggi dello scambio, e lo scambio fondamentale sarebbe appunto quello delle donne fra i diversi gruppi. Senza scendere nei particolari, queste due concezioni mi sembrano carenti, e lo sono per un unico motivo, che è quello della sottovalutazione del carattere “generico” della produzione umana di società.
I sostenitori del determinismo del dimorfismo fisico, infatti, sottovalutano l’importanza del momento sociale e simbolico nella fissazione dei ruoli umani nella divisione del lavoro. I sostenitori dello strutturalismo, invece, finiscono con il negare l’elemento dialettico che ad un certo punto modifica in modo qualitativo le stesse forme comunitarie della riproduzione umana. Gli esseri umani, infatti, non sono api, formiche e termiti che, per informazione genetica acquisita, riproducono sempre lo stesso schema di socializzazione etologica (alveari, formicai, termitai). Con questo, ovviamente, non intendo affatto liquidare le argomentazioni dei dimorfisti e degli strutturalisti che so essere molto sapienti e nutrite di ripetute osservazioni comparative, ma solo affermare la mia preferenza per una spiegazione di tipo storico-genetico.
È noto che i classici del marxismo, ed in particolare Engels, si sono occupati dell’origine storica dell’oppressione femminile, ma dovettero farlo all’interno dello schema positivistico di spiegazione sociale. Già Bachofen, nel 1861 , aveva fatto l’ipotesi di un primitivo matriarcato, ossia di un primitivo potere delle donne sugli uomini, a partire da un’analisi comparativa dei miti di fondazione e della presenza esorbitante di divinità femminili. La mentalità positivistica odiava la contraddizione, e le pareva allora assurdo che potessero coesistere potere degli uomini e fondamento religioso matriarcale. Come può infatti un patriarcato materiale fondarsi su un matriarcato ideale?
A distanza di oltre un secolo, l’antropologia attuale si è fatta più cauta e sofisticata. Mancando qui lo spazio per una discussione delle diverse tesi proposte, arriverò subito alla conclusione che mi sembra più plausibile. Mi pare che si possano distinguere tre diversi momenti evolutivi, tutti interni a una strutturazione ancora “comunitaria” della società. In un primo momento storico, durato probabilmente molto a lungo, la scarsissima divisione del lavoro e la terribile brevità della vita umana comportarono una fortissima eguaglianza di mansioni e di consumi fra i due sessi, per cui si può dire che non solo in quelle comunità non c’era ancora classismo, ma neppure una vera divisione funzionale del lavoro fra i sessi. In un secondo momento storico, con l’invenzione delle armi da lancio, di nuove tecniche di caccia da un lato, e dell’agricoltura dall’altro, ci fu presumibilmente un approfondimento nella divisione del lavoro nella comunità.
Questo non portò ancora a un ordine sociale di classi, ma forse già di “Iignaggi”, cioè di discendenze materne e paterne con annesse abitudini generalizzate di abitazione e di convivenza familiare. In proposito, per aprire una breve parentesi sulla società greca, la condizione sociale migliore delle donne nell’aristocratica Sparta piuttosto che nella democratica Atene, era dovuta proprio alla sopravvivenza di costumi prevalenti in questa seconda fase, dal momento che gli spartiati mangiavano e dormivano in comunità maschili ma le donne non erano escluse né dagli spettaco­li, né soprattutto dalla ginnastica (come peraltro avviene anche nella dittatura eugenetica di Platone).
In un terzo momento, infine, si stabilizzarono effettivamente (anche se non in tutte le società del mondo) le clas­si sociali, la proprietà privata e l’ordine simbolico maschi­le della società, che peraltro coesistette sempre con l’esi­stenza di divinità femminili. Trascuro qui i pur affascinan­ti dettagli della storia degli ultimi due millenni, in cui le donne non cessarono mai di resistere e di rivendicare le loro sfere indipendenti di azione e di movimento, per giungere all’oggi.
Faccio solo notare che il sesso femmini­le, pur oppresso e discriminato in vari modi, ha spesso esercitato il ruolo di “custode simbolico della comunità” contro le derive individualistiche. Questo non può essere ridotto alla spiegazione per cui gli uomini avrebbero “costretto” le donne a occuparsi di cose comunitarie come i bambini e i vecchi, mentre loro si davano ad occupazioni più nobili. Al contrario, ritengo che l’esercizio del ruolo comunitario da parte delle donne sia stato proprio frutto di una autonoma “saggezza di specie”, che lo storicismo non può capire e non capirà mai, ma che resta un imprescindibile elemento di spiegazione materiale della storia.
Il passaggio storico dalla tarda società signorile euro­pea alla prima società capitalistica proto-borghese vide un peggioramento della posizione sociale delle donne. Anche questo non è un fatto sorprendente. L’accumulazione capitalistica primitiva mette in primo piano virtù militari e competitive fortemente maschili, ed è del tutto normale che una concezione fortemente proprietaria e individualistica porti ad estendere il diritto di proprietà anche alla moglie e ai figli. L’Ottocento ci offre un incredibile florile­gio antologico di pregiudizi e di banalità verso il sesso femminile, per cui è utile porsi delle domande storiche radicali.
O tutti questi personaggi ottocenteschi erano solo dei misogini, oppure, se vogliamo evitare spiegazioni vir­tuose ma tautologiche, dobbiamo concludere che l’instau­razione originaria dell’ordine capitalistico non poteva che accompagnarsi a un raddoppiamento simbolico patriarca­le fondato sull’illusione dell’eternizzazione dell’ordine maschile. Si trattava però di un momento temporaneo e non certo di una caratteristica permanente del funziona­mento dell’ordine capitalistico.
Come il capitalismo ha bisogno, per il suo “innesco”, di un soggetto sociale collettivo denominato “borghesia”, così ha bisogno di un ornamento simbolico patriarcale, non a caso caratterizzato da uomini muniti di barba e baffi, da un lato, e di donne strette e soffocate in busti di stecche di balena, dall’altro. Se guardiamo gli sbiaditi dagherrotipi color seppia delle foto di fine Ottocento, notiamo che i caratteri sessuali maschili e femminili, sia pure coperti, sono infinitamente più marcati di quanto avviene in qualunque immagine pornografica di oggi.
AI contempo, il corpo femminile non è ancor trasformato in oggetto di consumo, ma è caratterizzato da una estremiz­zazione della femminilità sia fisica che spirituale. Prostituta e/o madre di famiglia, la donna non cerca anco­ra di mimetizzarsi in un ruolo maschile e non ha neppure bisogno di dichiarare una guerra compensativa contro il maschio.
In questo contesto, che era classista ma in parte ancora comunitario, era inevitabile che si sviluppasse un movi­mento per l’eguaglianza dei diritti fra donne e uomini, che interessò parallelamente sia il movimento operaio e socialista che le correnti liberali e democratiche dette “borghesi”. Questo movimento portò progressivamente il sesso femminile non solo al suffragio universale e alla eleggibilità delle cariche, ma anche e soprattutto all’acces­so alle professioni maschili più prestigiose. Naturalmente, il fatto che le donne arrivassero prima all’insegnamento e soltanto dopo alla facoltà di medicina, ci permette di sta­bilire senza errori la gerarchia simbolica e soprattutto di reddito che l’ordine maschile aveva organizzato nei secoli precedenti.
I movimenti fascisti e nazionalsocialisti cercarono, tran­ne eccezioni, di ricacciare le donne nella sfera del privato familiare e della irrilevanza pubblica. Si trattava di una posizione antistorica perché nessun comunitarismo moderno può essere proposto senza tener conto di alcuni dati irreversibili dello sviluppo umano, fra cui – sintomo sicuro del processo di universalizzazione mondiale in corso – c’è prima di tutto l’eguaglianza sia giuridica che simbolica tra i sessi. E ricordo qui la lotta di Hegel, pen­satore fino in fondo comunitarista, contro il comunitari­smo retrogrado e gerarchico dei “vecchi ceti” signorili e feudali.
Lo scenario attuale, che deve essere compreso fino in fondo nella sua dinamica disgregativa di ogni possibile comunità umana, è quello della complementarietà, raramente avvertita come tale, fra il maschilismo mimetico e il femminismo separatistico. Il primo si copre sotto l’ideolo­gia economica del produttivismo e dell’aziendalismo, mentre il secondo si copre sotto una metafisica astorica del differenzialismo e della guerra tra i sessi. Bisogna dunque studiare non solo queste due forme ideologiche separate, ma soprattutto la loro essenziale complementarietà.
Per la prima volta nella storia dell’umanità la figura asessuata dell’imprenditore realizza i sogni (o gli incubi) dell’androgino puro. Il ruolo dell’imprenditore capitalistico, che in origine era un ruolo di tipo maschile esemplificato sui precedenti ruoli maschili del guerriero e del mercante, si apre al sesso femminile, ma pretende da questo sesso una iniziazione che lo porti infine a una forma di maschilismo mimetico. In questo senso, le pubblicità tele­visive di donne in carriera sono assolutamente esilaranti.
L’irruzione, alcuni decenni fa, del femminismo separa­tistico deve essere fatta oggetto di ipotesi storica e genea­logica. Proprio quando il processo di emancipazione fem­minile si stava realizzando, anche sulla base della coltiva­zione del complesso di colpa del maschio, si delinea uno strano movimento che nega la storia ed adotta una ideo­logia astorica di tipo differenzialistico, che assomiglia sini­stramente al dimorfismo ontologico e biologico dei tradi­zionali sostenitori della legittimità del dominio maschile sulle donne.
Da un punto di vista generale, il femminismo di tipo universitario si situa all’interno di una generalizza­ta reazione contro la storia che percorre il ventennio 1970­-1990, e che non può essere disgiunto dalla ricaduta delle delusioni rivoluzionarie del decennio precedente. Il fem­minismo ci aggiunge una reazione furiosa contro l’intero universo sociale e comunitario (necessariamente compo­sto da uomini e donne). Come avviene per tutti i miti differenzialistici dell’origine, il femminismo presenta una natura estremamente individualistica. Una delle prime teoriche del femminismo italiano, Carla Lonzi, debutta con un libro intitolato Sputiamo su HegeL. Mai obiettivo fu scelto tanto bene, in quanto colpendo Hegel si colpisce al cuore la migliore forma filosofica di comunitarismo moderno.
Laddove la guerra fra le classi disturbava pur sempre l’economia, la guerra fra i sessi non la disturba affatto. Oggi sembra che – per fortuna – il femminismo sia in declino e le residue femministe vengono mobilitate per avallare i bombardamenti sull’Afghanistan in nome della liberazione dal burka e dal chador. Il senso della storia uni­versale non è più orientato dall’ideale di una comunità umana senza classi e senza sfruttamento, ma dal passaggio dal velo islamico alla minigonna. E chi si contenta gode.
(da “Elogio del comunitarismo” di Costanzo Preve. “Controcorrente”, Napoli, 2006) Preso da: http://ift.tt/2n3iN1k http://ift.tt/2ngbbYY
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