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#Autor Russell Cui
adribosch-fan · 9 months
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¿Está avanzando la autocracia más que la democracia?
Russell Cui señala que el declive de la democracia a nivel mundial durante la última década ha borrado en gran medida 35 años de mejora. El precio de la Libertad es la vigilancia eterna. Thomas Jefferson Aunque estamos viendo el progreso humano en muchos indicadores de bienestar, en la dimensión de la libertad y la democracia, la tendencia es menos clara en las últimas décadas. Los informes…
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artedges · 1 year
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Artedge n. 1. Il Grande Vetro di Mar-Cel Duchamp secondo una lettura post-strutturalista.
Il Grande Vetro di Marcel Duchamp o Richard Mutt o Rose Selavy è probabilmente una delle opere d’arte più significative del XX secolo, ma nessuno lo avrebbe detto nel 1923. Per comprenderne la grandezza è, infatti, opportuno ripercorrere alcune tappe fondamentali di Mar-Cel, la cui frammentazione della propria soggettività è forse il lascito più grande dell’artista. 
Duchamp, il grande Duchamp che conosciamo noi oggi, esordì, fallendo, al XXVIII Salons des Indépendants di Parigi dove, allontanandosi dal Cubismo dei fratelli e pittori già affermati, propose il suo “Nudo che scende le scale”, che risentiva piuttosto di un’estetica futurista. L’opera venne rifiutata dal comitato ed il rifiuto portò Duchamp a vivere un vero e proprio trauma. Nell’estate del 1912 Duchamp si trasferì a Monaco, definita da egli stesso come “la scena della mia completa liberazione”, probabilmente dall’aspetto retinico dell’avanguardia parigina - “retinico” veniva usato dall’artista per indicare la pittura che non impegna la “materia grigia” della mente ed è un aspetto non trascurabile se si vede in Duchamp il padre del Concettualismo, e lo è -. Tuttavia, dopo l’esperienza a Monaco, due furono gli eventi che segnarono principalmente la carriera di Duchamp: l’incontro con Raymond Russel, che mostrò gli stratagemmi con cui combinava caso e scelta e il Salon de la Locomotion, tenutosi a Parigi nel 1912 e al quale confidò all’amico Brancusi “La pittura è finita. Chi può fare meglio di questa elica? Dimmi puoi farlo?”. Probabilmente il Salon de la Locomotion è più pertinente se si parla di readymade. Ciò che interessa a noi è piuttosto il caso, che definisce il Grande Vetro. 
Nel 1915, a causa della Grande Guerra e similmente ad altri artisti, Duchamp si trasferirà come esule a New York e qui comincerà a lavorare intorno, sopra, dentro e fuori al Grande Vetro. “La sposa messa a nudo dai suoi celibi”, nota anche con il nome di Grande Vetro, non era, tecnicamente parlando, un dipinto. Si trattava di un vetro composto da due pannelli a cui si dedicava con molti materiali curiosi: polvere, oggetti di piombo e argento. A tale opera Duchamp lavorava sporadicamente, passando più tempo a creare un clima concettuale intorno alla sua opera attraverso una quantità di note che appuntava nella cosiddetta “Scatola verde”, pubblicata poi nel 1934. Le interpretazioni sul Grande Vetro sono tra le più varie: dal religioso all’erotico, ed in queste poco aiutano le annotazioni quasi febbrili dello stesso autore, che tra l’altro nel 1923 dichiarò conclusa l’opera come “incompiuta”. 
La lettura di Rosalind Krauss -che mi permetto di definire una delle letture più complete mai lette nella storia dell’arte- guarda al Grande Vetro come una fotografia. Krauss dice che sebbene possa sembrare contraddittoria la lettura fotografica dobbiamo tenere in mente due cose: la prima è il forte realismo degli oggetti “fissati” nel vetro e la seconda è l’impenetrabilità dell’allegoria stessa, espressa da un lato da un ingranaggio metallico che ospita i Celibi (in francese “CELibataires” e da qui “MarCEL”), dall’altro da una nuvola amorfa e sempre metallica che ospita la Sposa (in francese “MARiee” e da qui “MARcel”). Ed in questo senso Mar-Cel. Le ambiguità non vennero risolte dopo la pubblicazione delle Note, ma anzi aumentarono le chiavi di lettura dell’opera, prima fondante solo sulla didascalia (”La sposa messa a nudo dai suoi celibi” ). Per questo motivo Krauss va incontro al carattere fotografico che collega i due aspetti del Grande Vetro, ovvero il suo verismo e la sua resistenza all’interpretazione. Sulla base di questo Krauss dice che le fotografie non contengono la loro interpretazione come i dipinti, piuttosto, in quanto prese direttamente dalla realtà, le fotografie sono la manifestazione di un fatto e la loro spiegazione spesso dipende da un testo aggiunto, come la didascalia (in questo caso: la sposa messa a nudo dai suoi celibi). Prima di addentrarsi in questa lettura è opportuna la considerazione di Roland Barthes, che ha definito questo carattere della fotografia come “messaggio senza codice”. Le parole emergono da un fondo di linguaggio organizzato su regole grammaticali e lascito lessicale -quindi da un sistema ben codificato- ed è proprio all’interno di questo sistema che le parole trovano il loro significato: sono simboli per dirlo in termini di semiologia. Le immagini sono icone, perché sono legate ai loro referenti -non per convenzione, come le parole- ma attraverso la somiglianza. L’ultimo di questi segni è l’indice, che è letteralmente causato dal suo referente e per questo intrattiene un legame materiale con esso. 
L’indice è ciò che si trova in Duchamp: le forme coniche dei setacci -la parte dell’apparato dei Celibi in cui vi è condensato il desiderio maschile- è indice della fissazione della polvere depositata sul vetro per mesi; così come i nove spari -raggi del desiderio che penetrano nel regno della Sposa- sono indice di dove hanno colpito la superficie nove fiammiferi; o ancora i pistoni di corrente ad aria -i riquadri dentro la nuvola della Sposa- che rimandano alla stessa tecnica utilizzata per “Tre rammendi-tipo,1913-14”, che fonda sul concetto di caso. Sulla base di questa lettura si può giungere a cogliere il significato dell’opera, che ruota intorno alle questioni che stimolano la produzione di Duchamp: l’indice non implica solo uno spostamento del tipo di segno utilizzato -da iconico a indicale-, ma anche un profondo cambiamento nel processo artistico. In che senso? L’indice, essendo la traccia di un evento -come l’herpes è la traccia di un virus-, è dettato dalla pura casualità: il caso esclude il desiderio dell’artista tradizionale di comporre la propria opera, annullando l’idea di abilità collegata all’artista. L’uso del caso, così come se ne serve Duchamp, meccanizza l’operare dell’artista. Seguendo questo ragionamento, allora, anche "Ruota di bicicletta” e “Scolabottiglie” sono indice di un evento, ovvero del loro incontro con Duchamp. In tal senso il “ripetibile” -oggetto seriale- diventa frutto di un “evento unico”, ovvero il suo incontro -fisico- con l’artista, così come la fotografia è indice -segno- dell’incontro fisico della luce su carta sensibile. 
Silvia Trevisan 
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nusta · 1 year
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In questi giorni sto guardando una serie di video di interventi e interviste di Yuval Noah Harari per capire un pochino il suo approccio (non ho ancora letto i suoi libri, ma mi ha incuriosito il successo che ha riscosso) e devo ammettere che nonostante metà delle cose che dice io le avessi già sentite altrove negli anni passati, è una bella palestra mentale quella che propone e ha un modo molto efficace di sintetizzare alcuni passaggi logici. Dopo un po' ho cominciato a riconoscere alcuni esempi a cui è affezionato, ed alcuni passaggi quindi risultano un pochino ripetitivi, ma devo ammettere che finora è stato un autore interessante da scoprire.
Mi segno a promemoria alcuni dei video che ho visto, e forse vorrei riguardare, e che consiglierei; nel suo canale ce ne sono anche di più brevi, ovviamente, ma negli anni ha avuto l'occasione di fare diversi interventi in diverse circostanze, al di là delle presentazioni dei suoi libri, e personalmente i dialoghi con interlocutori particolari come Russel Brand (e i teenager del pubblico) e Natalie Portman sono quelli che finora ho trovato meno "ingessati" e ripetitivi.
In lista ho pure una conversazione con Neil Gaiman sul potere dello storytelling e sono proprio curiosa di vedere questo confronto.
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lamilanomagazine · 10 months
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Verona, al museo di storia naturale si celebra il naturalista Alfred Russel Wallace
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Verona, al museo di storia naturale si celebra il naturalista Alfred Russel Wallace Venerdì 1° dicembre, in occasione dei 200 anni dalla nascita (8 gennaio 1823) del naturalista co-scopritore della teoria dell’evoluzione e padre della biogeografia, un’occasione di confronto sul ruolo dei Musei di Storia Naturale nella scoperta e nella conservazione della biodiversità e nella promozione della conoscenza scientifica. Alfred Russel Wallace è il naturalista, geografo, biologo ed esploratore britannico che formulò la teoria dell’evoluzione assieme a Charles Darwin. L’incontro scientifico, in programma venerdì 1° dicembre a partire dalle 9.30 alla sala “Sandro Ruffo”, ne celebra la figura e l’opera, ricordando uno dei più grandi scienziati del XIX secolo, pioniere della biogeografia e della zoologia, autore di iconici viaggi esplorativi in Sud America e nell'arcipelago malese. L’evento è organizzato dal Museo di Storia Naturale di Verona in collaborazione con il Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino. L’appuntamento è anche l’occasione per fare il punto sui molti incontri che nell’arco dell’anno si sono susseguiti in vari musei naturalistici nell’ambito di #IniziativaWallace. Prendendo spunto dall’opera di Wallace, le cui collezioni sono conservate e tuttora studiate in importanti spazi espositivi, si parlerà dell’importanza dei musei di storia naturale e il loro ruolo nella scoperta e nella conservazione della biodiversità e nella promozione della conoscenza scientifica. I musei scientifici sono infatti depositari di un patrimonio straordinario di biodiversità e di reperti che documentano le grandi scoperte e le teorie scientifiche. Nel corso della giornata si susseguiranno interventi su vari aspetti, sia della biografia e dell’opera di Wallace, sia dell’uso e dell’importanza delle collezioni naturalistiche per lo studio e la valorizzazione della biodiversità, con particolare attenzione alle collezioni italiane. Fra gli appuntamenti anche la Lecture di George Beccaloni, alle 11.30, coordinatore del Wallace Correspondence Project, che interverrà all'incontro in collegamento da remoto. L'iniziativa è patrocinata da ANMS - Associazione Nazionale Musei Scientifici, Società Italiana di Storia della Scienza e Società Italiana di Biogeografia. La partecipazione alla giornata è libera fino a esaurimento dei posti disponibili in sala. Programma completo. Informazioni sul sito del Museo di storia Naturale.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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rideretremando · 11 months
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«A Wittgenstein piacevano i romanzi gialli, leggerli lo distraeva dalle sue profonde riflessioni. Per un filosofo che aspirava a spiegare tutti i problemi del mondo mediante la logica, una storia che propone un enigma, un omicidio o svariati omicidi, mettiamo, e che si sviluppa in base alle regole del caso e della deduzione, scartando piste false, procedendo per tentativi, indagando sui fatti e i presunti colpevoli, fino a trovare la soluzione e risolvere il mistero (questo è l’assassino e questa la ragione per cui ha commesso il suo delitto) doveva essere gratificante: ci sono una causa, un fine e un metodo; un romanzo giallo su una morte senza spiegazioni, che può essere stata un incidente o un suicidio o un omicidio (ma allora chi l’ha commesso e per quale motivo?) e non risolve l’enigma, ha il sapore di una frode o di una truffa, una storia assurda che non serve nemmeno da cornice o da soggetto per un brutto B-movie, di quelli in cui recitava Sandra Mozarovski».
Così scrive Clara Usón in «L’assassino timido» (Sellerio 2018, cap. iv), un ottimo romanzo che ricostruisce la breve vita appunto di Sandra Mozarovski o Mozarowski (1958-1977), attrice spagnola (il padre era russo, fuggito dall’Urss per motivi politici, e faceva il diplomatico) la cui carriera consistette quasi tutta in brevi apparizioni in film di serie B (in genere sexy-horror nei quali appariva per lo più svestita e quasi inevitabilmente finiva sgozzata), e che morì cadendo misteriosamente da una terrazza. Il romanzo di Clara Usón è assai bello, e ovviamente la morte della ragazza rimane senza spiegazioni (o meglio: con troppe spiegazioni e con l’impossibilità di decidere per una di esse), ma il lettore non rimane insoddisfatto: perché si rende conto che tutto il possibile è stato fatto per togliere il velo al mistero, e non c’è stata dunque truffa né frode, e perché ben presto lo conquistano la solidarietà e la pietà verso la giovane donna che nella Spagna ancora franchista (Francisco Franco morì nel 1975) e ufficialmente cattolicissima e bigottissima, «si guadagnava da vivere bene facendo film che scandalizzavano la sua famiglia», come scrive Usón.
Ma torniamo a Ludwig Wittgenstein. Filosofo dall’intelligenza leggendaria («Il più perfetto esempio di genio che abbia mai conosciuto», scrisse Bertrand Russell nella propria autobiografia) e dalla vita romanzesca, autore di opere difficili e affascinanti, è noto a tutti – è diventato una citazione pop – se non altro per l’aforisma che chiude l’unica opera che pubblicò in vita, nel 1921, a trentadue anni, il «Tractatus logico-philosophicus»: «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere». In realtà, dopo la pubblicazione del «Tractatus» Wittgenstein instancabilmente meditò – come dimostrano i numerosi manoscritti pubblicati dopo la sua morte – proprio su ciò di cui non si può, o non si riesce a, parlare. Ed era, Wittgenstein, un vero appassionato di letteratura gialla: il che, a prima vista, potrebbe sembrare un po’ contraddittorio. E invece no. Le storie raccontate nei romanzi gialli (a lui piacevano soprattutto le storie «hard-boiled»: gialli deduttivi, sì, ma non asettici e quasi striminziti come quelli di Agatha Christie, bensì pieni di rappresentazioni realistiche del crimine, della violenza, e magari anche del sesso: roba «pulp», insomma) non sono «reali» (benché possano essere ispirate a fatti ed eventi reali, eccetera), ma ciò non impedisce loro di essere «qualcosa di cui si può parlare».
Quando, nella mia prima liceo (vi parlo del 1976 o giù di lì), il professor Renato Bortot entrò nell’aula per la prima lezione di filosofia (e noi eravamo, giustamente, piuttosto intimoriti dall’idea di studiare filosofia: io, per dire, sono ancora adesso terrorizzato dalla violenza argomentativa dei filosofi), aprì la porta e si mosse come se stesse spingendo avanti un qualcuno: che non vedevamo. Poi si accomodò alla cattedra e disse: «Vi presento il mio elefantino rosa». Ce ne parlò a lungo, descrivendone l’aspetto e le abitudini (molto divertenti). E così imparammo, o almeno imparai io, e non mi scordai mai la lezione, che si può benissimo parlare di cose che non esistono – o delle quali non si sa se esistono o no: si tratti di elefantini rosa, di ruote celesti, di Dio, dell’Essere, dello Spirito, o dei personaggi di una storia inventata. L’importante è che la narrazione che se ne fa non sia una frode né una truffa. Addirittura, può accadere che un romanzo giallo non porti alla scoperta del colpevole e finisca nel nulla – come certi romanzi di Friedrich Dürrenmatt, da lui raccolti sotto il titolo significativo «Un requiem per il romanzo giallo» –; ma l’autore non deve mai dimenticare di mettere in scena «una causa, un fine e un metodo».
Per esempio, nei «Promessi sposi» ciascun personaggi ha la sua causa, il suo fine e il suo metodo. Don Rodrigo ha la libidine come causa, la vittoria della scommessa con il cugino (il conte Attilio) come fine, e la violenza come metodo. Renzo ha la propria gioia di vivere come causa, l’amore per Lucia – e quindi il matrimonio – come fine, e un suo certo senso di giustizia come metodo. L’innominato ha un greve senso di noia come causa, il desiderio di libertà come fine, e la propria umanità (sepolta, ma ancora viva) come metodo. Don Abbondio ha la fifa come causa, la fifa come fine, e la fifa come metodo."
Giulio Mozzi
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weirdesplinder · 4 years
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Jodi Taylor
Oggi voglio parlarvi di una serie di libri che è arrivata in Italia solo l’anno scorso, ma che io ho letto (il primo libro) diverso tempo fa: le Chronicles of St Mary’s (St Mary's Institute of Historical Research)  di Jodi Taylor, che qui da noi sembra essere stata ribattezzata Serie degli storici curiosi, non chiedetemi perchè.
Di cosa parla la serie: sono le avventure di un gruppo di storici (studenti, dottorandi e professori dell’Istituto St Mary di ricerca storica), che grazie a delle macchine del tempo studiano la storia rivivendola e combinando tanti di quei casini che nemmeno otete immaginare.
E’ una serie segnata da uno spiccato british humor, piena di situazioni assurde e divertenti, quindi se non vi piacciono le cose assurde statetene alla larga. Perchè questi sono romanzi scritti per far ridere.
La serie è formata da ben 12 libri, più diverse novelle brevi. In italia al momento sono stati pubblicati solo i primi due romanzi:
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1. La confraternita degli storici curiosi, di Jodi Taylor
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Dietro la facciata apparentemente innocua dell’Istituto di ricerche storiche Saint Mary, si nasconde ben altro genere di lavoro accademico. Guai, però, a parlare di «viaggio nel tempo»: gli storici che lo compiono preferiscono dire che «studiano i maggiori accadimenti nell’epoca in cui sono avvenuti». E, quanto a loro, non pensate che siano solo dei tipi un po' eccentrici: a ben vedere, se li si osserva mentre rimbalzano da un’epoca all’altra, li si potrebbe considerare involontarie calamite-attira-disastri. La prima cosa che imparerete sul lavoro che si svolge al Saint Mary è che al minimo passo falso la Storia vi si rivolterà contro, a volte in modo assai sgradevole. Con una vena di irresistibile ironia, la giovane e intraprendente storica Madeleine Maxwell racconta le caotiche avventure del Saint Mary e dei suoi protagonisti: il direttore Bairstow, il capo Leon Farrell, Markham e tanti altri ancora, che viaggiano nel tempo, salvano il Saint Mary (spesso - anzi sempre - per il rotto della cuffia) e affrontano una banda di pericolosi terroristi della Storia, il tutto senza trascurare mai l’ora del tè. Dalla Londra dell’Undicesimo secolo alla Prima guerra mondiale, dal Cretaceo alla distruzione della Biblioteca di Alessandria, una cosa è certa: ovunque vadano quelli del Saint Mary, scoppierà il finimondo.    
2. Le esoteriche scorribande degli storici curiosi
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Madeleine Maxwell, Max per gli amici, ha scoperto di recente che la sua laurea in storia non l'avrebbe portata necessariamente a condurre una vita sedentaria, al limite della noia. Da quando è stata reclutata dall'Istituto di ricerche storiche Saint Mary, anzi, le ricerche sul campo la catapultano, insieme ai suoi colleghi, da un'epoca a un'altra senza troppe garanzie di far ritorno nel presente. Inviati in missione nella Londra vittoriana per cercare Jack lo Squartatore, gli storici del St. Mary's se la vedono veramente brutta quando è Jack lo Squartatore a trovare loro. Inseguita nelle strade nebbiose di Whitechapel, Max rischia veramente di fare una brutta fine. Di nuovo. E non è che l'inizio: l'inizio di una corsa contro il tempo per salvare il St. Mary's da un nemico pericolosissimo che ne vuole l'annientamento. Un nemico disposto a distruggere la Storia stessa. Dai giardini pensili di Ninive all'isola Mauritius per evitare l'estinzione dei dodo, all'Inghilterra dei Tudor, dove scoprirà una tragedia inedita di Shakespeare con un finale sconvolgente, il gruppo di storici più sgangherati e divertenti della letteratura continuerà le sue scorribande nella Storia, fra scoperte incredibili.
Gli altri libri della serie (senza le novelle brevi che però andrebbero lette), inediti in italiano, in ordine cronologico sono:
  2. A Symphony of Echoes (2013)   3. A Second Chance (2014)   4. A Trail Through Time (2015)   5. No Time Like The Past (2015)   6. What Could Possibly Go Wrong (2015)   7. Lies, Damned Lies, and History (2016)   8. And the Rest is History (2017)   9. An Argumentation of Historians (2018)   10. Hope for the Best (2019)   11. Plan for the Worst (2020)   12. Another Time, Another Place (2021)
La mia opinione: a me di solito le storie assurde piacciono, così come quelle ironiche e strane, ma devo ammettere che quando lo lessi, mi sembra due o tre anni fa, il primo libro di questa serie non mi conquistò e decisi di non continuare a leggere questa serie. Era veramente troppo per me, soprattutto in lingua inglese, non mi sembrava di riuscire a cogliere l’ironia tutta inglese che lo permeava o almeno non del tutto. Mi sembrava sempre mi sfuggisse qualcosa e poi era veramente  ma veramente pieno di fatti e di avventure e la storia correva a ritmi velocissimi. Leggerlo mi sembrò un tour de force. Era bello, ma tanto faticoso. Forse in lungua italiano lo apprezzerrei di più rileggendolo, non so. al momento non ho voglia di imbarcarmi in una serie così lunga, ma questa autrice di per sè mi piace molto, è ironica e scrive bene, perciò se credete che questo genere possa fare per voi. Vi consiglio di provare i suoi libri.
Dopotutto infatti Jodi Taylor è anche autrice di uno dei più bei romanzi che io abbia mai letto:
NOTHING GIRL
Autore: Jodi Taylor
Inedito in italiano
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Trama: Conosciuta come “The Nothing Girl” a causa della sua severa balbuzie e del fatto che i parenti che la crescono non la amano né la stimano, Jenny Dove ancora bambina si rende conto che non mancherebbe a nessuno se morisse, anzi… ed è tentata di lasciarsi andare e smettere di sforzarsi di vivere, quando all’improvviso ad impedirglielo appare Thomas, un mistico cavallo dorato sicurò di sé e anche piuttosto vanitoso che solo lei può vedere. Lui diventerà il suo migliore amico e per anni sarà anche l’unico, finché una volta adulta Thomas le dice che deve imparare a farcela da sola senza di lui, perché non potrà restare per sempre al suo fianco. Jenny ne resta sconvolta, ma lui non intende certo lasciarla da sola, perciò escogita un piano per trovarle un marito e inaspettatamente riesce a farle sposare l'affascinante e caotico Russell Checkland…
La mia opinione: Potremmo definirlo un rosa contemporaneo, ma in realtà è molto di più, prima di finire di leggerlo ho inzuppando ben tre fazzoletti! Ora io non sono una lettrice emotiva giuro, ho pianto pochissime volte leggendo un libro. Ma qui è stato tragico non riuscivo a smettere finita la scena commovente mi calmavo e poi giù che ne succedeva un'altra ho pianto fino alla fine letteralmente. Al che voi pensere sarà un libro tristissimo… Invece no, è proprio l'opposto è ironico e piuttosto ottimista, ma mi ha veramente toccata perchè la protagonista deve superare veramente molte difficoltà, e al suo fianco fin da piccola ha un angelo custode che per lei ha la forma di un cavallo dorato, che la segue e la guida fino all'età adulta, ma non troppo, è lei che deve avere coraggio di superare i suoi limiti e il loro rapporto è dolcissimo. Non si può non amare Thomas, il cavallo appunto, perchè è l'angelo perfetto che sa sempre cosa dire per consolarla e aiutarla e adora lo shopping e…. grazie a lui Jenny si sposerà e finalmente…ma non voglio svelarvi nulla della trama, dovete assolutamente leggere questo libro. Purtroppo è inedito in italiano, ma se sapete leggere in inglese leggetelo, perchè è veramente meraviglioso e dolce e delicato e commovente ma ottimista e ironico insomma l'ho amato tanto ed era tanto che non entusiasmavo così per un libro.
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[ARTICOLO] Dopo una settimana di record superati ci chiediamo: quanto lontano può arrivare il K-Pop?
“Arrivare in cima alle classifiche K-Pop non richiede di certo poco sangue, lacrime e sudore – e ancora di più se superi ogni limite. Pochi gruppi attuali conoscono questa situazione come la conoscono i ragazzi dei BTS, i sette giovani che questa settimana sono diventati il gruppo coreano ad essersi piazzato più in alto nella Billboard 200, oltre a salire nella top 10 e apparire sia nella Billboard 200 che nella Billboard Hot 100. Il loro successo segna un altro passo importante nella lunga campagna nell’industria musicale K-Pop e nell’intera industria dell’intrattenimento coreana con lo scopo di creare un robusto fan base che va ben oltre i confini della Corea del Sud. Ma gli osservatori del K-Pop si sono chiesti: quanto lontano può arrivare questa musica sfacciatamente luccicante, orientata sull’immagine e aggressivamente giovane?
Nonostante sia difficile distinguersi tra gli squadroni di gruppi maschili e femminili che vengono intensamente allenati (e ancora di più messi a lucido) nel 21esimo secolo in Corea, i BTS hanno trovato un modo per risaltare sin dal loro debutto risalente all’estate del 2013. Come ogni artista pop rilevante sono stati esaminati dall’oligarchia del talento del paese. Osservati come prodotto della Big Hit Entertainment, una compagnia fondata da Bang Si-hyuk, autore e partner del migliore creatore di star da record Park Jin-young (conosciuto semplicemente come “JYP”). Prima di arrivare alle audizioni della Big Hit due dei membri erano studenti di una scuola d’arte e due erano rapper underground; la partecipazione del gruppo stesso alla scrittura e produzione delle canzoni, pratica fino ad ora poco usuale nell’altamente specializzato mondo del K-Pop, è una delle ragioni del loro veloce ed enorme successo.
Certamente nessun’altra boy band di qualsiasi nazionalità ha mai rilasciato un singolo ispirato al lavoro dello scrittore tedesco e vincitore di un Nobel Hermann Hesse, come hanno invece descritto i membri dei BTS ‘Blood, Sweat & Tears’ l’anno scorso. Nel video musicale c’è anche un passo di Demian di Hesse, un romanzo conosciuto quasi in tutta la Corea del Sud e amato da varie generazioni. Le parole vengono recitate da Kim Namjoon, conosciuto come ‘Rap Monster’. Il ragazzo che si distingue come la star del gruppo, una specie di intellettuale auto proclamato, che ha ottenuto un alto punteggio nei test del QI e agli esami d’ingresso delle università sud coreane – un grande segno distintivo in una società ossessionata dalle classifiche. È diventato fluente in inglese ed inoltre, di sua stessa iniziativa, ha continuato gli studi di giapponese che tutti i membri dei BTS hanno ricevuto da trainee.
L’apprendimento del giapponese ha richiesto ai BTS – che hanno rilasciato due album nella lingua dei vecchi colonizzatori della Corea – una riflessione sull’insistenza dei produttori K-Pop che sostenevano che il gruppo ha iniziato a sviluppare un fascino internazionale sin dall’inizio. Quello giapponese è un mercato particolarmente allettante non solo perché è il terzo più grande mercato musicale al mondo e nel quale i CD fisici sono ancora venduti per l’equivalente di 20 o 30 dollari americani (diversamente dalla Corea dove le canzoni vengono scaricate per pochi penny), ma anche perché gli indignati che odiano il K-Pop vengono numericamente superati di gran lunga da chi invece ama il genere. Negli ultimi anni le band K-Pop non solo hanno integrato la lingua di altri paesi asiatici ma anche i performer stessi. Nel caso degli Exo, che hanno debuttato due anni prima dei BTS, sei dei dodici membri originali venivano dalla Cina, fattore che non ha sicuramente diminuito il fan base che li ha fatti diventare la boy band più grande al mondo.
Ma fin da quando la musica pop giapponese o “J-pop” ha fallito dopo il momento che aveva goduto della popolarità mondiale negli anni 90, dall’industria K-Pop è arrivato un consiglio saggio che sosteneva che un artista non può veramente avere successo globalmente senza l’uso della lingua inglese. Guidata da un’economia orientata all’esportazione fin dalla sua industrializzazione, la Corea del Sud ha considerato per molto tempo l’inglese come il sine qua non (*condizione senza la quale non si può verificare un evento) per avere successo di larga scala in qualsiasi settore. Di conseguenza il paese spende più soldi di chiunque altro per l’insegnamento dell’inglese, sebbene i risultati non siano sempre notevoli. La tanto pubblicizzata “Korean wave”, che comprende di tutto, dalla musica pop ai drama televisivi fino agli snack, ha finora scavalcato i paesi asiatici più poveri come il Vietnam e le Filippine.
Se il resto del mondo si affezionerà mai alla cultura popolare coreana rimane per ora ancora un interrogativo ma potenzialmente potrebbe avere una redditizia risposta. Il K-Pop ha tentato parecchie strategie per attirare l’ovest anglofono. Una delle ultime tendenze è quella di creare gruppi che contengano uno o due membri di madre lingua inglese, di solito nati in Corea o cresciuti in America. I BTS hanno respinto questa tendenza non solo con l’assenza di membri di madre lingua inglese ma anche con la mancanza di canzoni totalmente in inglese: “DNA” che li ha portati nella Billboard 100 è scritta quasi totalmente in coreano, come la maggior parte del materiale di Wings, l’album che Billboard ha nominato come miglior album K-Pop del 2016.
“Quando il gruppo ha iniziato sembrava funzionare meglio fuori dalla Corea che in Corea,” ha detto Mark Russell, autore di ‘Pop Goes Korea and K-Pop Now’. “Era un po’ strano. Non avevano una vera e propria canzone di grande successo ma c’era qualcosa in loro che faceva impazzire i fan – lo stile, la buona capacità nelle pubbliche relazioni, quella misteriosa qualità da star?” Presto un segno certo che il gruppo stesse maturando un fervente seguito anche a casa è emerso: “Ho cominciato a notare graffiti con scritto il nome ‘BTS’ nei parco giochi in giro per Seoul,” ha detto Russell. Questo non significa che il gruppo dia le spalle all’ovest: oltre alle influenze dell’hip-hop e dell’elettronica utilizzate in modo inusuale e all’avanguardia, il gruppo ha anche collaborato con artisti americani come Andrew Taggart dei The Chainsmokers, (Rap Monster ha individualmente collaborato con Warreng G) e lo scorso fine settembre il DJ Steve Aoki ha annunciato i suoi piani di lavorare con i BTS.
Più che mai avere successo nella cultura popolare coreana ora richiede allo stesso tempo capacità di attirare il mondo e mobilitare gli ascoltatori a casa. Fortunatamente gli ascoltatori coreani sono più che disposti a mobilitarsi. Le prove di ciò vanno dalla presenza di graffiti nei parco giochi agli enormi messaggi, finanziati dai fan club, per i compleanni dei membri dei gruppi che si vedono ogni giorno negli spazi pubblicitari nelle stazioni della metro di Seoul. Russell ha notato che “i fan della musica coreana sono molto appassionati, sono riusciti a far entrare in classifica le nuove tracce per un giorno o due” con il loro potere, amplificato dall’altamente sviluppata tecnologia dei social media della nazione. “Quindi la vera sfida sarà la longevità.”
In un periodo in cui la produzione di musica senza limiti sta crescendo insieme al concetto di fandom musicale, una domanda può sorgere sulla rilevanza dei traguardi raggiunti nella Billboard come indicatore di prospettiva di successo di un gruppo K-Pop. “Molti artisti hanno successo nelle classifiche Billboard ma non riescono a riempire una sala da concerto, per non parlare di uno stadio,” ha detto Russell, “ma gli artisti coreani riempiono già gli stadi.”
Nessuno può dire con certezza quale stadio riempiranno la prossima volta e che tipo di fan si presenteranno, come nessuno – per primi tutti i coreani – potevano prevedere l’incredibile successo mondiale di ‘Gangnam Style’ di PSY, una canzone quasi totalmente in coreano che prende in giro i ‘nuovi ricchi’ di Seoul.
“Ho visto persone che negli ultimi 20 anni hanno costantemente sbagliato (previsioni) per quanto riguarda il K-Pop. Non vedo alcuna ragione per la quale ora questo dovrebbe finire,” ha detto Russell. “È un’industria iper-competitiva ma questo aiuta anche a dare tanta vitalità. Non ci scommetterei contro.””
Traduzione a cura di Bangtan Italian Channel Subs (©CiHope) | ©nprmusic
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lospeakerscorner · 4 years
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Sabato 5 settembre alle ore 20 la 48esima edizione di Positano Premia la Danza – Léonide Massine
POSITANO (SA)  – La perla della costiera amalfitana diventa ancora una vola capitale della danza il cielo di Positano brillerà con le etòiles di  Positano premia la danza. Il balletto internazionale si connetterà con il mondo nella 48esima edizione da sabato 5 settembre alle ore 20.
Sul sagrato della Chiesa di Santa Maria Assunta eventi  live e digitali celebreranno il  palmarès 2020 particolarmente prestigioso con speciali riconoscimenti  a Anthony Dowell, il danseur noble del balletto britannico e Viengsay Valdes, erede artistica di Alicia Alonso.
Due le performance live previste:
Giancarlo Giannini, che sarà insignito del  Premio Vespoli, omaggerà i miti dell’arte coreutica che hanno amato la divina costiera
il sassofonista Marco Zurzolo, che riceverà il Premio Musica per la colonna sonora – interpretatat dal vivo –  del film tv di Rai1 In Punta di piedi di Alessandro D’Alatri.
In un anno in cui per effetto della pandemia si è dovuto rinunciare al tradizionale gala sulla spiaggia grande che guarda all’isola di Li Galli, luogo del cuore di Massine e Nureyev,  i riconoscimenti più antichi  della danza internazionale sono stati regolarmente assegnati. Un segnale di resistenza da parte di tutta l’equipe di Positano premia la Danza, che dà continuità ad un albo d’oro unico.
Il Comune di Positano ha potuto i contare sulla disponibilità della prestigiosa giuria del premio composta dal coordinatore Alfio Agostini (direttore di Ballet2000), Valeria Crippa (Corriere della Sera), Brigitte Lefevre (direttore Festival de Cannes), Nina Loory e Laura Valente (Prix Benois de la dance del Bolshoj MOSCA/Massine ITALIA), Roger Salas (El Pais).
Ogni premiato ha realizzato un messaggio video di ringraziamento e una clip originale: contributi emozionanti e dall’alto valore artistico che come un abbraccio virtuale, da New York a Mosca, da Cuba a Londra,  giungeranno a Positano nella sera del 5 settembre. Sarà possibile infatti  seguire il premio in diretta sui canali social del Premio, dove si alterneranno la diretta live dal sagrato e i contributi video.
Palmarès Positano Premia la Danza 2020  
Anthony Dowell, danseur noble per eccellenza, è senza dubbio il più grande danzatore classico inglese della sua generazione. Direttore artistico del Royal Ballet di Londra, a Dowell va il premio nato dal gemellaggio tra il Prix Benois de la Danse di Mosca e il Premio Massine di Positano.
Il Premio Positano di quest’anno va a
Viengsay Valdés, danzatrice principale e Direttrice del Balletto Nazionale di Cuba. Il Premio che riceve vuol essere anche un omaggio alla Memoria di Alicia Alonso,leggenda del balletto mondiale fino alla sua scomparsa nell’ottobre dello scorso anno, all’età di 99 anni. Alicia Alonso nel 2012 fu anch’essa insignita del Premio, che venne a ritirare di persona.
Alyona Kovalyova. Nata a San Pietroburgo, si è formata all’illustre Accademia Vaganova, ma è passata poi al Balletto del Teatro Bolshoi di Mosca, dove si è imposta in una serie crescente di ruoli culminata in quello da protagonista del Lago dei Cigni dal 2017.
Marcelino Sambé. Portoghese, ha studiato al Conservatorio di Lisbona e alla Royal Ballet School di Londra. Oggi Principal dancerdel Royal Ballet, è divenuto popolare anche per il suo impegno umanitario e sociale.
Oleg Ivenko, giovane danzatore russo di origine ucraina, formatosi in Bielorussia e oggi primo ballerino dell’Opera di Kazan, si è messo in luce in diversi concorsi, ma ha acquisito una notorietà internazionale dal 2018, come interprete del ruolo di Rudolf Nureyev nel film White Crowdi Ralph Fiennes.
Valentine Colasante. Formatasi alla scuola francese, è l’unica italiana attualmente col titolo di étoiledell’Opéra di Parigi dove ha già interpretato i maggiori ruoli del repertorio classico e moderno.
Alejandro Virelles. Cubano, formatosi nel Balletto Nazionale di Cuba, è oggi primo ballerino della compagnia dello Staatsoper di Berlino.
Roger Cuadrado. Spagnolo di Barcellona, solista del Balletto Nazionale Ceco a Praga, si è fatto notare recentemente in un programma di coreografie di repertorio internazionale ma qui ispirate…all’uso della mascherina.
Giacomo Castellana. Nato a Palermo, diplomato alla scuola del Teatro Bolshoi di Mosca, è oggi solista di spicco del Balletto dell’Opera di Roma, dove si è messo in luce nei ruoli principali dei titoli delle scorse stagioni.
Nicoletta Manni Classe 1991, è  oggi una professionista tra le più affermate su scala internazionale. Nata a Galatina,provincia di Lecce, a 12 anni è stata ammessa alla scuola di ballo dell’Accademia Teatro alla Scala di Milano, dove diventa prima ballerina a soli 22 anni. 
Timofej Andrijashenko, lettone, classe 1994,  dopo aver iniziato a studiare danza all’età di 9 anni presso l’Accademia Nazionale Statale di Riga. Andrijashenko, vincitore di numerosi concorsi internazionali, nonché Medaglia d’oro al concorso più importante del mondo, quello del Bolshoi di Mosca, è Primo Ballerino al Teatro Alla Scala.
Martina Arduino. Torinese, formatasi all’Accademia del Teatro alla Scala di Milano, è oggi prima ballerina della compagnia milanese, dove è stata notata da pubblico e critica nei ruoli maggiori delle produzioni di questi anni.
Artemiy Belyakov.Diplomato all’Accademia di Balletto del Teatro Bolshoi di Mosca, è entrato a far parte della prestigiosa compagnia dove si è presto imposto come uno dei più brillanti giovani della troupe. Oggi ne è primo ballerino, segnalato come una delle grandi promesse del balletto russo attuale.
Julie Guibert. Francese, ha studiato danza classica ma ha trovato la sua vocazione nella danza moderna e contemporanea, facendo parte tra l’altro del Cullberg Ballet di Stoccolma e del Balletto dell’Opéra di Lione. Si è affermata come interprete di Mats Ek, William Forsythe, Russell Maliphant, Maguy Marin… Da quest’anno è direttrice artistica del Ballet de l’Opéra de Lyon.
Il Premio speciale Positano va alla creazione originale Vivianesque di Gennaro Cimmino. Produzione  di KORPER per lo  speciale omaggio del coreografo al drammaturgo Raffaele Viviani  a settant’anni dalla sua scomparsa.  Partendo da un inedito accostamento, mai sperimentato prima sull’opera di Viviani,  in Vivianesque convivono  tutti i linguaggi della scena contemporanea: teatro, musica e soprattutto la danza.
Ha così commentato Michele De Lucia, Sindaco di Positano: « Questa è un’edizione particolare del Premio Massine: abbiamo sentito il dovere di non interrompere la storia del riconoscimento più antico e prestigioso del mondo della danza e di confermare un appuntamento con l’arte e con le emozioni, da vivere con gioia e sicurezza. Il Palmarès dei premiati è di livello altissimo, i loro messaggi  ci hanno  commosso e incoraggiato. Ringrazio la giuria, i grandi artisti che saranno con noi e tutti coloro che hanno lavorato per rendere possibile questo evento prezioso, un abbraccio virtuale del mondo a Positano, con l’augurio di tornare presto a celebrare le  stelle della danza sulla spiaggia grande, come accade da quasi mezzo secolo.»
Per gentile concessione del Museo e Archivio Storico della Fondazione Teatro di San Carlo dal 2017, il simbolo della manifestazione è anche quest’anno un bozzetto di scena di Paolo Ricci realizzato per il balletto Petrushka, riprodotto in carta pergamenata. La pittura del poliedrico artista attivo a Napoli, autore di molti lavori per il teatro, incontrò uno dei titoli più significativi della stagione dei Ballets Russes già coreografato da Massine e di cui Nureyev fu tra gli interpreti ideali.
Breve storia del Premio
Positano richiama i più grandi artisti della danza sin dagli anni ’20 del secolo scorso quando vi si stabilì un collaboratore di Diaghilev, seguito da Lifar, Bakst, Nijinsky, Stravinsky (oltre a personaggi del mondo artistico come Picasso e Cocteau). Léonide Massine, il ballerino/coreografo dei Ballets Russes, s’innamorò del luogo e Diaghilev gli donò le antistanti isole dette Li Galli. Per le sue strade hanno passeggiato personaggi come Serghei Diaghilev, Vaslav Nižinskij e Rudolf Nureyev che fece di Li Galli un’amata residenza. Il 2 agosto 1969 nasce il Premio Positano. Dieci anni dopo la prima edizione, alla morte di Léonide Massine, il premio venne intitolato alla sua memoria. La manifestazione ha premiato negli anni (impossibile citarli tutti) celebri artisti, da Margot Fonteyn a Nureyev, da Maurice Béjart a Ekaterina Maximova, Carla Fracci, Luciana Savignano, Elisabetta Terabust, Alessandra Ferri, Roberto Bolle, Mikhail Baryshnikov, Alicia Alonso, Lutz Förster, Vladimir Vassiliev. Nel 2019 il Premio alla Carriera  è andato a Nacho Duato, danzatrice dell’anno Svetlana Zakharova.
Si ringrazia lo sponsor tecnico di questa edizione 2020, Foto Ema s.a.s
Per maggiori informazioni: www.positanopremialadanza.it
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Positano capitale della Danza Sabato 5 settembre alle ore 20 la 48esima edizione di Positano Premia la Danza - Léonide Massine…
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Online le prime foto con Robert Pattinson e Tom Holland nel prossimo film Netflix The Devil at the Time.
Tra pochi giorni arriverà Project Power, ultimo grande progetto cinematografico Netflix con Jamie Foxx, che verrà seguito da The Devil at the Time, in arrivo il 18 settembre 2020.
Il film in questione è tratto dall’omonimo romanzo di Donald Ray Pollock, adattato dal grande schermo da Paulo e Antonio Campos, con quest’ultimo anche alla regia, e con un cast ricco di grandi nomi tra cui Robert Pattinson, Tom Holland, Jason Calrke, Mia Wasikowska, Bill Skarsgård e Riley Keough.
Leggi anche: Robert Pattinson rivela qualche dettaglio di Tenet
Quest’oggi Entertainment Weekly ha pubblicato le prime immagini tratte dal film in arrivo il mese prossimo sulla celebre piattaforma, del quale vi riportiamo anche la sinossi della trama subito sotto la galleria.
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La Seconda guerra mondiale è finita e il soldato semplice Willard Russell sta tornando a casa dopo essere stato spedito a combattere nel Pacifico, con negli occhi ancora tutto l’orrore per quello che ha visto. La corriera fa una sosta a Meade, Ohio, e William si ferma a mangiare in un ristorante. Non conosce il nome della cameriera che l’ha servito ma sa che se ne è innamorato e qualche settimana dopo torna da lei e la sposa. Insieme fanno un figlio, bellissimo: Arvin. Arviri Russell è il protagonista di questo primo magistrale romanzo di Donald Ray Pollock, autore della folgorante raccolta di racconti Kno-ckemstiff. Lo vediamo crescere e muoversi tra misere catapecchie e chiese che sono templi dell’ipocrisia e del male, lo seguiamo con il dito sulla carta geografica degli Stati Uniti, e contemporaneamente assistiamo allo svolgersi di altre esistenze maledette, destinate, per uno scherzo della sorte, a incrociarsi con la sua, fino all’inatteso, sconvolgente finale.
The Devil at the Time arriverà su Netflix il 18 settembre 2020, con Antonio Campos alla regia, su una sceneggiatura di Paulo e Antonio Campos, tratta dall’omonimo libro di Donald Ray Pollock, e con Max Born, Randall Poster, Riva Marker e Jake Gyllenhall come produttori.
La fotografia è a cura di Lol Crawley, mentre la colonna sonora è composta da Danny Bensi e Saunder Jurriaans.
Nel cast Tom Holland (Arvin Russell), Robert Pattinson (Preston Teagardin), Riley Keough (Sandy Henderson), Haley Bennett (Charlotte Russell), Bill Skarsgård (Willard Russell), Sebastian Stan (Lee Bodecker), Mia Wasikowska (Helen Hatton) e Jason Clarke (Carl Henderson).
The Devil at the Time: Robert Pattinson e Tom Holland nelle prime foto del prossimo film Netflix Online le prime foto con Robert Pattinson e Tom Holland nel prossimo film Netflix The Devil at the Time…
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lamilanomagazine · 2 years
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Formula 1, gara del gran premio del Messico: vince Verstappen davanti ad Hamilton e Perez
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Formula 1, gara del gran premio del Messico: vince Verstappen davanti ad Hamilton e Perez. Sul circuito “Hermanos RodrÍguez” di Città del Messico Verstappen parte in pole position davanti a Russel, Hamilton, l’eroe di casa Perez e Sainz con Leclerc che scatta dalla settima posizione. Allo spegnimento dei semafori a girare in prima posizione alla prima curva è Verstappen davanti a Hamilton, Perez, Russel, Sainz e Leclerc. Verstappen, autore di una buonissima partenza e con gomma rossa, tenta di scappare. Leclerc e Sainz si ingaggiano in un bel duello in partenza, ma lo spagnolo tiene la posizione. Al quarto giro il campione del mondo fa già il vuoto ai danni degli inseguitori, ma Hamilton non molla e tenta di passare in modalità “hammer time” per entrare in zona DRS a meno di un secondo dal leader del gran premio. Le Ferrari fanno fatica a tenere il ritmo dei primi 4 e iniziano a crollare di prestazioni. Nelle retrovie la lotta fra Alonso e Bottas è divertente, così come quella fra Ricciardo, Zhou e Vettel per la dodicesima posizione. Max Verstappen allunga imponendo un ritmo forsennato alla corsa guadagnando decimi su Hamilton giro dopo giro. Al ventiquattresimo giro il primo pilota a rientrare ai box per il cambio gomme è Perez. Due giri dopo rientra anche Verstappen per montare gomma gialla e andare su una strategia di due soste. Al ventinovesimo giro rientra anche Leclerc per montare gomma gialla, in un weekend in cui il rosso, di solito brillante, della Ferrari è diventato opaco complici i problemi al turbo cambiato la settimana scorsa in America. Hamilton rientra al trentesimo giro e monta gomma bianca per cercare di avere un vantaggio a fine corsa, mentre Sainz sceglie la gomma gialla. Verstappen è un martello e a metà corsa ha otto secondi di vantaggio su Lewis Hamilton che viene ingaggiato da Perez. I piloti della Mercedes si lamentano con il box della decisione fatta sulle gomme ritenute dai piloti sbagliate. La gara è statica e le posizioni rimangono invariate. Al cinquantunesimo giro di settantuno Ricciardo e Tsunoda ingaggiano un duello, ma il pilota giapponese, chiudendo la traiettoria all’australiano della McLaren, gli finisce contro ed è costretto al ritiro, mentre a Ricciardo viene inflitta una penalità di 10 secondi. Al sessantacinquesimo giro si ferma Fernando Alonso per un problema al motore e viene esposta la virtual safety car. Quest’oggi la gara non si è “accesa nelle posizioni che contano”, mentre sono stati più avvincenti i duelli nelle retrovie. A vincere è, come al solito, Max Verstappen davanti ad Hamilton e Sergio Perez. Non bene le Ferrari con Sainz quinto e Leclerc sesto. Max Verstappen, con la vittoria di oggi, raggiunge la quattordicesima vittoria in una sola singola stagione, record assoluto di tutti i tempi. Mai nessuno come lui.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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pangeanews · 4 years
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“Sono un vecchio anarchico e credo che lo Stato sia un male”. Mario Vargas Llosa dialoga con Borges
Il primo Nobel sudamericano avrebbe dovuto andare a Jorge Luis Borges, sappiamo come è andata, cioè che andò a Gabriela Mistral prima e a Miguel Ángel Asturias poi, ci sono certi scrittori per cui la Svezia, francamente, non è degna. Dieci anni fa il Nobel fu assegnato a Mario Vargas Llosa, peruviano, altro ‘carattere’ politico rispetto a Borges – fu candidato alle presidenziali del suo Paese nel 1990 –, altra poetica, è tra i grandi narratori viventi. Per festeggiare l’evento, Vargas Llosa – classe 1936 – pubblica con Alfaguara Medio siglo con Borges, che, immagino, sarà molto presto tradotto in Italia. Nel frattempo, pubblico un pezzo del dialogo che Vargas Llosa ha tenuto con Borges, era il 1981 (lo stesso anno, scirocco letterario, in cui Liliana Heker, la grande scrittrice argentina, fa un’altra intervista a JLB, che sono riuscito a far tradurre per Castelvecchi).
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Nella giustificazione al libro, che raccoglie “articoli, conferenze, recensioni e appunti che testimoniano mezzo secolo di letture di un autore che è stato per me fonte di un inesauribile piacere intellettuale”, Vargas Llosa dice qualcosa di non banale (il virgolettato tradotto lo è). “Ho sempre letto Borges non soltanto con l’esaltazione che suscita un grande scrittore, ma con una nostalgia ineffabile, con la sensazione che qualcosa di quel suo universo abbagliante mi sarà sempre negato, nonostante la mia ammirazione”. Da scrittore si ama uno scrittore proprio perché è agli antipodi, perché la sua originalità è anomala, infine irraggiungibile. Di un grande artista si ama il fatto che rispecchia i nostri limiti. Nessun artista cerca un suo pari, un omologo: si anela al diverso, all’assolutamente altro. La scrittura non educa né consola: devia, percuote, turba.
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In ogni caso, un grande scrittore non chiede conferme, si confronta con uno più grande – non ha paura della vertigine, e l’autentico narcisismo non ammette portaborse né lacchè.
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Certo, siamo alle briciole delle briciole dei titani. Intendo: anche i pezzi d’intonaco di una basilica letteraria ci paiono oro, icone, roba da mettere sotto teca. Così, gli appunti casuali, le interviste, le lettere di grandi autori di un dì. Divoriamo i frammenti per incapacità di incauto, di grandezza. Viviamo in un cimitero di dinosauri. Non è che manchino le ‘grandi opere’: non ci sono occhi – incide più un rutto televisivo che la nuova Iliade. Ma il piagnisteo, nell’orda del caos, è schifoso. Dicevo, a una rara amica: non è più il tempo di ‘essere più bravi di’; conosco poeti, nascosti nel loro operare da forgiatori di spade, che starebbero in qualsiasi canone – ma non vi sono. E allora? A noi è dato porgere il fuoco – piccola fiamma che si confonde tra pollice e mignolo – a chi verrà, facendogli trovare un alfabeto raffinato, è sufficiente, che altra grazia possiamo attendere? Quindi, ha senso tuffarci in una antica maestria, in un addestramento. (d.b.)
***
Se dovessi fare il nome di uno scrittore in lingua spagnola del nostro tempo che lascerà un segno profondo nella letteratura, citerei il poeta, narratore, saggista argentino che condivide il nome con Graciela Borges, cioè Jorge Luis Borges. La manciata di libri che ha scritto sono concisi, perfetti, come un anello, pare che non manchi nulla, che nulla sia superfluo e continuano ad avere una enorme influenza su chi scrive, in qualsiasi lingua. Le sue storie fantastiche, che accadano nella Pampa o a Buenos Aires, in Cina o a Londra, in luoghi irreali o veritieri, denotano la stessa potente immaginazione, la stessa formidabile cultura dei suoi saggi sul tempo, sul linguaggio dei Vichinghi… Ma l’erudizione di Borges non ha nulla di accademico, è sempre qualcosa di insolito, di brillante, di divertente, un’avventura dello spirito.
L’intervista che Borges mi ha concesso si è svolta nel suo modesto appartamento, nel centro di Buenos Aires, dove vive, insieme a un factotum che gli fa da guida da quando ha perso la vista, e un gatto, che chiama Beppo, perché così, mi dice, si chiamava il gatto di un poeta inglese che ama: Lord Byron.
Ho visto che nella sua biblioteca non ci sono i suoi libri: come mai?
Ho molta cura della mia biblioteca. Chi sono io per stare insieme a Schopenhauer…
Non ci sono neanche i libri che hanno scritto su di lei…
Un professore di Mendoza pubblicò un libro, Borges, enigma y clave. L’ho letto per capire quale fosse la chiave dell’enigma. Non ne ho letti altri. Alicia Jurado ha scritto un libro su di me. L’ho ringraziata dicendole, “So che è un buon libro, ma l’argomento non mi interessa; o forse, mi interessa troppo, quindi non lo leggerò”.
È anni che volevo chiederle una cosa. Scrivo romanzi e mi ferisce sempre una sua frase, molto bella ma abbastanza offensiva per un romanziere, che dice più o meno coì: “Un romanzo è l’esperienza sconfortante di chi allunga per cinquecento pagine una cosa che può formulare in una frase”.
È un errore, un errore formulato per me. Per pigrizia. Per incompetenza.
Eppure lei è un grande lettore di romanzi…
…no, ne ho letti pochissimi.
Ma i romanzi compaiono spesso nelle sue opere.
Mi ha sconfitto Thackeray. Invece, mi piace Dickens.
Le piace Conrad…
È tra i pochi eccezionali, tra le rare eccezioni. Come Henry James, un grande narratore, un romanziere di altro calibro.
Ma tra gli autori per lei più importanti, un romanziere non c’è. Mi dica un poeta o un narratore o un saggista per lei decisivo.
Contano anche i racconti.
Certo.
Non credo che “Le mille e una notte” sia un romanzo, giusto? È una antologia infinita.
Il vantaggio del romanzo è che tutto può esserlo. Il romanzo è cannibale, ingoia tutti i generi.
Lei conosce l’origine della parola “cannibale”?
No…
Interessante. Caribe, che da caríbal e quindi caníbal, cannibale.
Quindi è una parola di origine latinoamericana…
Se toglie “latino”. Erano una tribù di indios, i caribe, parola indigena da cui viene il Calibano di Shakespeare.
Alcune sue dichiarazioni politiche mi lasciano perplesso, però quando parla del nazionalismo ha tutta la mia ammirazione. Credo che lei abbia parlato sempre con lucidità di questo tema.
Eppure l’ho sostenuto. Ho scritto dei bassifondi di Buenos Aires, dei duelli con il coltello, dei payadores… ho scritto milonghe… tutto è degno di entrare nella letteratura.
Io mi riferivo al nazionalismo politico…
Questo è un errore, perché se desideri una cosa rispetto a un’altra vuol dire che non la desideri realmente. Se desidero l’Inghilterra rispetto alla Francia sbaglio: dovrei volere entrambi i paesi, secondo le mie possibilità.
Ha fatto molte dichiarazioni contro le ostilità tra Argentina e Cile…
Dico di più. Pur essendo nipote e pronipote di militari e, più indietro, di conquistatori, non mi importa, sono pacifista. Credo che la guerra, in ogni caso, sia un crimine. Quand’anche ammettessimo una guerra ‘giusta’ essa spalancherebbe le porte a centinaia di altre, ingiustificate. Non mi ero reso conto di quanto Bertrand Russell, Gandhi, Romain Rolland avessero ragione a opporsi alla guerra – forse ci vuole più coraggio a opporsi a una guerra che a prendervi parte.
Qual è il regime politico ideale per Borges?
Sono un vecchio anarchico spenceriano e credo che lo Stato sia un male, ma al momento è un male necessario. Se fossi un dittatore, mi dimetterei tornando alla mia modestissima letteratura, perché non ho soluzioni da offrire. Sono una persona sconcertata, sfiduciata, come tutti i miei connazionali.
Ma si dice anarchico, un uomo che difende la sovranità dell’individuo contro lo Stato…
Certo, ma non ne siamo degni. Non credo che questo paese sia degno della democrazia o dell’anarchia. Forse potrebbe attuarsi in Giappone o nei paesi scandinavi. Qui le elezioni sarebbero un maleficio, non procurerebbero altro che l’ennesimo Frondizi o altri…
Quello che dice è in contrasto con le sue dichiarazioni sulla pace, sulla ferocia delle torture…
Sono dichiarazioni di ordine etico, inutili, in fondo, non aiutano nessuno. Possono giovare alla mia coscienza ma poco altro. Se fossi al governo, non saprei cosa fare, siamo in un vicolo cieco.
C’è un politico, oggi, che ammira?
Come si possono ammirare i politici? Sono persone che si impegnano ad accordarsi, a corrompere, a sorridere, a essere fotogeniche, e popolari.
Quali tipi umani ama Borges, allora? Gli avventurieri, forse…
Forse un tempo, ora non so. Forse singoli avventurieri, individui.
È felice del suo destino?
No non sono felice, ma con un altro destino sarei un’altra persona. Come dice Spinoza, “ogni cosa desidera la solitudine del proprio essere”. Insisto a essere Borges – non so perché.
Non ha nostalgia di cose che non ha fatto per aver scelto una vita puramente intellettuale?
No. Alla lunga, viviamo tutto ciò che è importante vivere.
Suppongo che ciò le abbia suggerito un grado di distacco dalle cose materiali. Lo si vede nella sua casa, lei vive praticamente come un monaco, la sua camera da letto pare la cella di un trappista, la sua austerità è estrema.
Il lusso mi pare volgare.
Cosa sono i soldi per lei?
Libri. Viaggi.
Ma… non ha mai lavorato per guadagnare? Non le interessa il denaro?
Pare che non riesca a fare soldi. Certo, la prosperità è preferibile all’indigenza, altrimenti non hai altro pensiero che il denaro. Se sei ricco puoi pensare ad altro. Non sono mai stato ricco. Lo furono, i miei avi: abbiamo perso molto, molto è stato confiscato, ma non credo che oggi abbia importanza.
Il suo interesse per le letterature nordiche, l’anglosassone ha a che fare con…
La nostalgia.
…il fatto che l’Argentina sia un paese quasi privo di passato.
Credo di sì. La nostalgia dell’Europa che un europeo non può sentire perché è spagnolo, inglese, francese, tedesco, italiano… La nostalgia forse è una delle nostre più grandi ricchezze.
Mario Vargas Llosa
*In copertina: Mario Vargas Llosa; la fotografia è tratta da qui
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italianaradio · 5 years
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Star Wars: svelata la verità sulla paternita di Anakin Skywalker
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Star Wars: svelata la verità sulla paternita di Anakin Skywalker
Star Wars: svelata la verità sulla paternita di Anakin Skywalker
Star Wars: svelata la verità sulla paternita di Anakin Skywalker
Star Wars: L’Ascesa di Skywalker ha sollevato tutta una serie di interrogativi in merito all’intera saga degli Skywalker. Nonostante si tratti del capitolo che ha chiuso un arco narrativo iniziato ben 42 anni fa, alcune domande sulla celebre saga sono rimaste ancora senza una risposta. Adesso però, uno dei quesiti più antichi e discussi all’interno del fandom di Guerre Stellari, sembra aver finalmente trovato una soluzione.
L’Imperatore Palpatine è davvero il padre di Anakin Skywalker? La nascista di Anakin è stata soltanto il frutto dell’ennesimo utilizzo improprio della Forza da parte di Darth Sidious? Un membro dello story group della Lucasfilm, Matt Martin, è intervenuto in merito alla questione e, via Twitter, in risposta ad un fan, ha dichiarato quanto segue:
“Posso dirti con certezza, in qualità di persona che ha lavorato al fumetto, che al 100% non c’è alcun tipo di implicazione. Non sto dicendo che non ci sia un errore di interpretazione logico al quale i fan stiano approdando. Sto solo affermando con certezza che non è corretto.”
Di seguito potete leggere lo scambio di battute tra Matt Martin e il fan. Se non siete degli esperti della saga, vi riassumiamo brevemente a cosa fanno riferimento le parole di Martin: un fumetto collegato alla saga e pubblicato alcuni anni fa, “Darth Vader 25”, mostrava Sidious manipolare l’utero di Shmi Skywalker, la mamma di Anakin. I fan hanno sempre pensato che ciò confermasse in qualche modo che il Signore dei Sith avesse effettivamente “creato” Anakin Skywalker e dato così iniziato al suo piano.
Adesso Matt Martin e lo scrittore Charles Soule, autore del fumetto, hanno demolito questa teoria. Martin ha affermato che “quella scena avviene solo nella testa di Anakin”, mentre Soule ha dichiarato che “il Lato Oscuro della Forza non è un narratore affidabile”. Allo stato attuale delle cose, i fan si sono divisi: alcuni credono alle parole di Martin e Soule, altri continuano a sostenere la loro teoria. Voi cose ne pensate? Se è vero che Sidious non ha creato Anakin, come pensate che Darth Vader sia venuto alla luce senza una figura paterna?
Star Wars: L’Ascesa di Skywalker, leggi la recensione
Lucasfilm e il regista J.J. Abrams uniscono ancora una volta le forze per condurre gli spettatori in un epico viaggio verso una galassia lontana lontana con Star Wars: L’Ascesa di Skywalker, l’avvincente conclusione dell’iconica saga degli Skywalker, in cui nasceranno nuove leggende e avrà luogo la battaglia finale per la libertà.
Il cast del film comprende Carrie Fisher, Mark Hamill, Adam Driver, Daisy Ridley, John Boyega, Oscar Isaac, Anthony Daniels, Naomi Ackie, Domhnall Gleeson, Richard E. Grant, Lupita Nyong’o, Keri Russell, Joonas Suotamo, Kelly Marie Tran, con Ian McDiarmid e Billy Dee Williams.
Diretto da J.J. Abrams e prodotto da Kathleen Kennedy, Abrams e Michelle Rejwan, Star Wars: L’Ascesa di Skywalker è scritto da J.J. Abrams e Chris Terrio, mentre Callum Greene, Tommy Gormley e Jason McGatlin sono i produttori esecutivi.
Fonte: ComicBookMovie
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Star Wars: svelata la verità sulla paternita di Anakin Skywalker
Star Wars: L’Ascesa di Skywalker ha sollevato tutta una serie di interrogativi in merito all’intera saga degli Skywalker. Nonostante si tratti del capitolo che ha chiuso un arco narrativo iniziato ben 42 anni fa, alcune domande sulla celebre saga sono rimaste ancora senza una risposta. Adesso però, uno dei quesiti più antichi e discussi all’interno […]
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Stefano Terracina
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I volti di Adolf Eichmann
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I volti di Adolf Eichmann
Molti criminali nazisti ebbero un aspetto assolutamente ordinario. A dispetto della propaganda di regime, neppure Adolf Hitler fece eccezione. Friedrich Reck-Malleczewen, un intellettuale nostalgico del kaiser disgustato dallo spettacolo di folle di tedeschi osannanti la svastica, confidò al proprio diario che il führer aveva l’aria di un “bigliettaio di tram” dal viso floscio, sformato, gelatinoso, livido e malaticcio.
Lo sguardo miope ed assorto del sanguinario reichsführer delle SS, Heinrich Himmler, fu paragonato a quello di un mite maestro di provincia.
Durante il processo di Norimberga, un avvocato americano descrisse il comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, come una persona all’apparenza normale come può esserlo un commesso di drogheria. Molti internati polacchi confermarono questa impressione. Lo psichiatra che interrogò Höss subito dopo la sua cattura, rimase scosso dal pensiero che lo sterminio di oltre un milione di persone potesse essere stato commesso da un uomo così banale. Lo stesso sbigottimento provò un ufficiale britannico quando notificò l’atto di accusa a Walter Funk, “…un individuo insignificante, basso, flaccido, calvo, con un viso paffuto ed ovale…”, che durante la guerra aveva diretto il ministero dell’Economia e la Reichsbank.
A Gerusalemme, nell’aprile del 1961, un altro e ben più feroce “criminale da scrivania” come Adolf Eichmann stupì tutti i commentatori per il suo aspetto ordinario e dimesso. Lo scrittore Moshe Pearlman si sentì quasi truffato vedendo comparire alla sbarra un uomo qualunque di mezza età e non il mostro che aveva immaginato. Il filosofo e matematico Bertrand Russell, autore nel 1954 del best seller “Il flagello della svastica”, vide in Eichmann lo stereotipo del burocrate anonimo e senza volto. La stessa impressione ebbe il giurista Telford Taylor, che poteva vantare una notevole esperienza in fatto di criminali nazisti, avendo ricoperto l’incarico di assistente di Robert H. Jackson, capo del collegio di accusa americano al processo di Norimberga.
Dopo la sentenza, persino il pubblico ministero israeliano Gideon Hausner, che aveva compiuto ogni sforzo per presentare Eichmann alla corte in termini demoniaci, dovette ammettere che “…il suo portamento da leader della Gestapo era scomparso e non c’era alcun indizio della sua forza diabolica e poco che indicasse la sua fin troppo nota malvagità, la sua arroganza e la sua capacità di compiere il male.”.
Al coro di stupore si unì anche l’inviata a Gerusalemme della rivista “New Yorker”, la filosofa ebrea tedesca Hannah Arendt che presentò Eichmann come un uomo terribilmente normale. All’amico, confidente e collega Karl Jaspers lo dipinse non come un’aquila, ma piuttosto come un fantasma chiuso in gabbia, reso ancor più fragile e vulnerabile da un fastidioso raffreddore che lo costringeva a soffiarsi il naso in continuazione. Un’immagine ben lontana da quella del superuomo ariano, sadico e fanatico, diffusa prima del processo dalla stampa e dalla pubblicistica.
Il “cacciatore di nazisti” Simon Wiesenthal, per evitare il rischio che pubblico e giuria potessero provare pietà per un uomo così ordinario ed all’apparenza inoffensivo, propose di far comparire in aula Eichmann in uniforme delle SS. Il suo consiglio rimase ovviamente inascoltato, lasciando all’opinione pubblica mondiale che seguiva le udienza in TV l’arduo compito di conciliare il ritratto dell’aguzzino sadico tratteggiato dagli instant book usciti prima del processo con l’immagine di quell’uomo di mezza età, miope e dalla calvizie incipiente, che prendeva meticolosamente appunti chiuso in una gabbia di vetro antiproiettile e si ostinava a ripetere di essere stato soltanto un esperto di trasporti. Ad accrescere l’imbarazzo ed il disorientamento di milioni di spettatori contribuì anche l’inserimento relativamente recente di Eichmann nel novero dei più esecrabili nemici dell’umanità. Alla fine della guerra il suo nome era infatti quasi sconosciuto agli Alleati e non compariva nell’elenco dei grandi criminali da processare a Norimberga. Fu Dieter Wisliceny, un subordinato di Eichmann, ad indicarlo per la prima volta nel novembre del 1945 come un personaggio chiave nell’attuazione della “soluzione finale della questione ebraica”. Le deposizioni rese da Höss nel marzo del 1946 fornirono ulteriori conferme, ma non furono sufficienti a destare l’attenzione né degli inquirenti, che non assegnarono alcuna priorità alla sua ricerca, né della stampa, che continuò ad ignorarlo, né degli storici, che fino alla metà degli anni ’50 si limitarono tutt’al più a citarlo come un amministratore incolore del genocidio. Neppure Wiesenthal, che a Mathausen aveva sentito nominare Eichmann come artefice della deportazione degli ebrei ungheresi, si rese immediatamente conto dell’importanza del suo ruolo. La lettura degli atti del processo di Norimberga gli aprì gli occhi quando ormai era troppo tardi. Con l’intensificarsi della “guerra fredda” l’interesse degli Alleati per la ricerca dei criminali nazisti era bruscamente calato, così come la pressione dell’opinione pubblica europea, assorbita dai problemi della ricostruzione e dall’incubo della minaccia comunista.
Soltanto la spavalda determinazione con cui, nel maggio del 1960, lo stato d’Israele sfidò il diritto internazionale, autorizzando il suo servizio segreto a rapire Eichmann in Argentina, convinse la stampa mondiale ad occuparsi del responsabile del dipartimento IV B4 dell’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA). A ridosso del processo vennero pubblicate, in diverse lingue, decine di biografie di Eichmann che, in mancanza di informazioni attendibili, fecero ampie concessioni al sensazionalismo. Alcune invenzioni furono ripetute così tante volte da diventare certezze, come la fandonia, suggerita da Wisliceny, secondo cui il fanatico antisemitismo di Eichmann sarebbe stato generato da un trauma infantile: lo scherno dei compagni di scuola che lo additavano come un ebreo. Simili grossolane interpretazioni si ispiravano, semplificandole sino all’involontaria parodia, alle teorie psicologiche sul nazismo, molto accreditate negli anni ’40 e ’50. Lasciando trasparire uno schema interpretativo comune alle biografie di tutti i gerarchi nazisti, a cominciare dallo stesso Hitler, Eichmann veniva ritratto come un disadattato ed un fallito, capace di trasformare la propria frustrazione in odio fanatico per il popolo ebraico. La compiaciuta descrizione di episodi, spesso non verificabili, di sadismo, brutalità e perversione sessuale completavano a fosche tinte il quadro di una personalità demoniaca.
Il pubblico ministero Hausner non seppe e non volle rinunciare ad una rappresentazione così sensazionalistica di Eichmann, ritenendo, erroneamente, che avrebbe giovato alla sua tesi accusatoria. Alla mostruosità dell’olocausto non poteva che corrispondere una incarnazione del male assoluto, anche se, al posto di fauci, zanne, artigli ed occhi iniettati d’odio, aveva le fattezze di un qualunque impiegato di mezza età.
Hausner diede ampio risalto ad episodi insignificanti o addirittura dubbi al solo scopo di dimostrare la personalità arrogante e brutale dell’imputato. Analizzando le attività dell’ufficio per l’emigrazione ebraica di Vienna, chiese conto ad Eichmann degli schiaffi inferti, in preda ad un accesso d’ira, al dottor Josef Löewenherz, capo della comunità ebraica viennese. Pur in assenza di prove certe, come riconobbe la stessa corte, si affrettò ad accusare Eichmann di aver ordinato l’esecuzione, nel 1944, di un giovane ebreo colpevole del furto di alcuni frutti nel giardino della sua villa di Budapest.
Oltre ad indugiare sul cliché dell’aguzzino sadico e spietato, Hausner si spinse a rappresentare Eichmann, fingendo di ignorarne la modesta posizione gerarchica, come la molla del genocidio: “… era la sua parola che metteva in azione le camere a gas; lui sollevava il telefono e i vagoni partivano verso i centri di sterminio; era la sua firma a suggellare il destino di migliaia di persone.”.
L’atto di accusa, articolato in quindici capi, non si limitò a contemplare le attività svolte dal dipartimento IV B4 diretto da Eichmann, già di per sé così mostruose da garantire la condanna dell’imputato e la sua perenne esecrazione, ma comprese anche un ampio catalogo di imputazioni che costituiva una sorta di summa delle sofferenze e delle atrocità subite dal popolo ebraico durante il regime nazista. Eichmann fu perciò chiamato a rispondere di una quantità sconcertante di crimini odiosi: dall’istigazione della “notte dei cristalli” nel novembre del 1938 alla pianificazione dello sterminio nella conferenza di Wannsee nel gennaio del 1942, dall’ordine di impiegare il gas Zyklon B nelle camere a gas all’efferatezze commesse dagli Einsatzgruppen in Russia nel 1941, dalle disumane condizioni di vita nei lager alle marce della morte, dalle sterilizzazioni di massa agli aborti coatti, dalla spoliazione degli ebrei europei alla loro riduzione in schiavitù, dalla deportazione di mezzo milione di polacchi, di decine di migliaia di zingari e di 140.000 sloveni all’assassinio di 100 bambini deportati dalla cittadina boema di Lidice. Alcuni capi di imputazione non furono altro che pretesti per moltiplicare le testimonianze sulla barbarie nazista, lasciando in ombra il ruolo dell’imputato. Nella terrificante grandiosità dell’affresco generale gli elementi probatori della sua colpevolezza a tratti quasi svanirono.
Nelle centoventuno udienze del processo sfilarono un centinaio di testimoni per l’accusa, tutti ansiosi di raccontare la loro storia d’orrore. Alcune deposizioni assunsero quasi i caratteri di conferenze sull’olocausto, altre riproposero stralci di memorie di deportazione e di prigionia già da tempo pubblicati. Incurante del richiamo della corte a non tracciare dispersivi “quadri generali” ed a rientrare nei binari tradizionali della procedura penale, Hausner si ostinò a chiamare a deporre testi il cui legame con Eichmann era talvolta vago se non evanescente. Zindel Grynszpan, padre di Herschel autore dell’assassinio di vom Rath, che aveva offerto alle SS, nel novembre del 1938, il pretesto per la “Notte dei cristalli”, riferì la sua vicenda personale benché fosse evidente che Eichmann non aveva avuto parte alcuna nell’organizzazione del pogrom e non vi aveva neppure preso parte. Il poeta e scrittore Abba Kovner, che aveva militato nella resistenza ebraica in Ucraina, fu ascoltato soltanto perché asseriva di aver appreso da un sergente tedesco che all’interno della Wehrmacht circolavano voci sull’importanza di Eichmann nell’organizzazione dello sterminio. Ben cinquantatre testimoni si dilungarono sulla tragedia degli ebrei in Lituania ed in Polonia, dove però l’autorità di Eichmann era stata quasi nulla. Pur di portare in aula l’eroica resistenza del ghetto di Varsavia, Hausner non esitò a sacrificare la pertinenza con le responsabilità dirette del dipartimento IV B4; e non fu l’unica volta che accadde. Altri sedici testimoni descrissero le atroci condizioni di vita di Auschwitz, Treblinka, Chelmno e Majdanek su cui, a differenza di quanto avvenne per il “ghetto per vecchi” di Theresienstadt, l’imputato non poté minimamente influire.
La sentenza non mancò di stigmatizzare l’inconsistenza della connessione di Eichmann con alcuni capi di imputazione, come a proposito del suo presunto controllo sugli Einsatzgruppen o sulle condizioni di vita nei lager, ma Hausner raggiunse comunque il suo scopo: raccontare al mondo l’olocausto.
Se le ampie concessioni del procuratore al cliché del sadico aguzzino nazista furono influenzate in parte dalle pressioni e dalle aspettative dell’opinione pubblica israeliana ed in parte dalle semplificazioni operate dalla pubblicistica, l’enfatizzazione del ruolo di Eichmann come pretesto per tracciare difronte al mondo intero un bilancio generale dell’enormità dell’olocausto rispose invece alla volontà del governo di Ben Gurion che, superate le iniziali preoccupazioni per il clamore internazionale suscitato dal rapimento del criminale nazista, si era convinto a trasformare il processo in una dimostrazione dell’imperativo dell’esistenza dello stato ebraico.
Con chiaro intento provocatorio, ma cogliendo pienamente il significato esemplare che il processo avrebbe dovuto assumere per ribadire la legittimità dello stato d’Israele, Wiesenthal propose che Eichmann fosse chiamato a dichiararsi colpevole o innocente difronte alla corte sei milioni di volte, una per ciascuna delle vittime dell’olocausto. Hausner respinse ovviamente una procedura così irrituale, ma si guardò bene sia dal rinunciare alla spettacolarizzazione del processo, sia dall’ergersi a difensore del principio della separazione tra potere esecutivo e giudiziario. Come membro del governo, in veste di ministro della Giustizia, accettò infatti di buon grado le indicazioni di Gurion circa la necessità di ammorbidire i riferimenti al popolo tedesco, per non incrinare gli ottimi rapporti con il cancelliere Adenauer, di non approfondire troppo il ruolo dei consigli ebraici nell’organizzazione delle deportazioni e di tacere l’imbarazzante partecipazione dello stesso Gurion ai negoziati avviati tra nazisti e sionisti in Ungheria nel 1944.
Tali omissioni indignarono Hannah Arendt che denunciò ai lettori del “New Yorker gli intenti mistificatori del processo, arrivando a sostenere che il popolo ebraico durante il Terzo Reich aveva dovuto difendersi da due terribili nemici: i nazisti ed i consigli ebraici, soprattutto quelli più permeabili agli ideali sionisti. Gli uni animati da un odio inestinguibile verso gli ebrei, gli altri disposti a tutto pur di compiacere le autorità, entrambi vittime di un collasso morale generato dallo stato totalitario hitleriano. Attirandosi gli strali del World Jewish Congress, scrisse: “Ovunque c’erano ebrei, c’erano stati capi ebraici riconosciuti e questi capi, quasi senza eccezioni, avevano collaborato con i nazisti, in un modo o nell’altro, per una ragione o per l’altra. La verità vera era che se il popolo ebraico fosse stato realmente disorganizzato e senza capi, dappertutto ci sarebbe stato caos e disperazione, ma le vittime non sarebbero state quasi sei milioni. …circa la metà si sarebbero potute salvare se non avessero seguito le istruzioni dei Consigli ebraici.”.
In questa chiave di lettura il genocidio non era semplicemente il risultato più aberrante di secoli di antisemitismo, ma la tragica conseguenza del potere totalitario che aveva rimosso il confine tra bene e male e corrotto la coscienza di ebrei e gentili, di funzionari nazisti come Eichmann e di funzionari ebraici come il dottor Rudolf Kastner che in Ungheria “…salvò esattamente 1684 persone al prezzo di circa 476.000 vittime.”. Pertanto il processo ad un burocrate della “soluzione finale” non avrebbe dovuto diventare un pretesto per celebrare le immani sofferenze del popolo ebraico, ma una occasione per esecrare l’orrore dello stato totalitario di cui l’olocausto non era che un’espressione.
Con altrettanta fermezza la Arendt denunciò l’esagerazione strumentale del ruolo di Eichmann nella persecuzione del popolo ebraico. Il principale ostacolo all’obiettivo di Gurion e di Hausner di rendere credibile che Eichmann fosse stato la molla dello sterminio, e non un semplice esecutore, era costituito dalla sua modesta posizione nella gerarchia dell’establishment nazista. Senza risultare mai convincente, fin dalle prime udienze Hausner si affannò a mettere in guardia il pubblico e la corte sul fatto che il grado di Obersturmbannführer delle SS, tenente colonnello, ricoperto dall’imputato non rispecchiava affatto la sua posizione di potere, che era in realtà unica, tale da consentirgli di trattare con i ministri del governo nazista, i capi di stato stranieri ed i vertici della Wehrmacht. Moltiplicò i suoi sforzi per indicare Eichmann come la forza motrice e l’organizzatore della conferenza di Wannsee, in cui furono appianate tutte le dispute interministeriali che rischiavano di inceppare la macchina dello sterminio. A queste forzature che stravolgevano la realtà, trasformavano il segretario della conferenza di Wannsee nel suo ideatore, ignoravano la gerarchia, elevavano un tenente colonnello, una rotellina nella macchina di morte nazista, a deus ex machina di una delle più grandi tragedie della storia dell’umanità, la Arendt reagì proponendo un altro stereotipo, non meno mistificatorio. Costruì sulla banalità di Eichmann un edificio filosofico, piegando i fatti alle sue esigenze teoriche, scrivendo un ottimo libro di filosofia ed un pessimo libro di storia. Creò un Eichmann altrettanto artificioso ed abnorme di quello Hausner, facendone la sintesi dell’uomo totalitario, dalla coscienza annullata e perciò capace, senza neppure rendersene conto, di qualsiasi disumana atrocità. Tracciò un profilo della personalità dell’imputato, destinato ad influenzare per decenni la riflessione di intellettuali ed accademici, assistendo ad appena quattro udienze. Le fu sufficiente gettare uno sguardo nella gabbia di vetro in cui era confinato il genocida ed ascoltare qualche parola del suo tedesco burocratico per avere la conferma di ciò che la sua teoria sullo stato totalitario corruttore di uomini e di coscienze le imponeva di vedere. Senza perdere troppo tempo in faticosi riscontri documentali si sentì subito pronta a fornire un’interpretazione della vita di Adolf Eichmann.
Facendo riferimento di sfuggita ad una dozzina di perizie psichiatriche, senza neppure degnarsi di menzionarne gli autori, la Arendt si premurò di sgombrare il campo dalle frettolose affermazioni della pubblicistica e di porre la pietra angolare del suo edificio filosofico: Eichmann non era né uno psicopatico, né un fanatico, ma un uomo normale, non aveva mai nutrito alcun odio verso gli ebrei e non aveva abbracciato la causa nazista per convinzione. Si era lasciato come inghiottire dal nazismo quasi senza accorgersene, mosso soltanto dal desiderio di crearsi una prospettiva di carriera rispettabile e di scrollarsi di dosso la sgradevole sensazione di sentirsi un fallito. Minimizzando l’influenza del background ultranazionalista ed antisemita in cui Eichmann era cresciuto, fingendo di ignorare che nel 1932 il partito nazista austriaco, diviso al suo interno, litigioso ed ancora ben lontano dal potere, non poteva apparire a nessun giovane ambizioso una scelta vincente per il futuro, la Arendt inventò il mito del nazista per opportunismo che si appunta la svastica al bavero della giacca senza conoscere né il programma, né l’ideologia di Hitler. A dispetto di ogni verosimiglianza, neppure l’addestramento delle SS, notoriamente incentrato sull’ossessivo indottrinamento ideologico antisemita, aveva potuto secondo la filosofa tedesca instillare l’odio nell’animo di Eichmann.
Per sprofondare il suo personaggio nel grigiore burocratico la Arendt gli negò arbitrariamente ogni traccia di idealismo ed ogni capacità di pensiero autonomo e scelse il carrierismo, con il suo ovvio corollario di piaggeria verso i superiori, come spiegazione universale del suo agire: “Se in una cosa egli credette sino alla fine, fu nel successo, il distintivo fondamentale della ‘buona società’ come la intendeva lui. Tipico fu l’ultimo giudizio che espresse sul conto di Hitler…‘avrà anche sbagliato su tutta la linea, ma una cosa è certa: fu un uomo capace di farsi strada e di salire dal grado di caporale dell’esercito al rango di Führer di una nazione di quasi ottanta milioni di persone… . Il suo successo bastò da solo a dimostrarmi che dovevo sottostargli.’.”.
“La banalità del male” dipinse il ritratto di un arrampicatore sociale, pronto a riconoscere in Hitler non il baluardo della razza ariana, il demiurgo della nuova Europa judenrein, liberata dagli ebrei, ma soltanto un uomo che si era fatto da sé. Presentò la vicenda professionale di Eichmann come una continua lotta per l’affermazione, senza l’assillo di qualsiasi scrupolo di coscienza. Quando da esperto di emigrazione forzata gli era stato imposto di tramutarsi in attuatore della “soluzione finale” si era allineato prontamente, cercando, come sempre, di fare del proprio meglio per ottenere l’encomio dei superiori. Leggi, regolamenti, ordini e disposizioni provenienti dalle legittime autorità gli avevano fornito tutte le giustificazioni di cui aveva bisogno per reprimere ogni remora morale e rendersi complice dello sterminio di milioni di persone. Nulla aveva potuto turbare il suo serafico distacco, generato dalla convinzione di agire come un cittadino ligio alla legge, cioè alla volontà del führer. Per la Arendt, l’odio ed il fanatismo non avevano sfiorato Eichmann neppure nell’autunno del 1944 in Ungheria quando, tra le macerie del Reich, aveva osato sfidare l’autorità di Himmler, ormai deciso a porre un freno al genocidio, organizzando le marce della morte, cioè il trasferimento a piedi da Budapest verso Vienna di colonne di migliaia di ebrei laceri, affamati ed infreddoliti.
L’episodio ungherese, palesemente rivelatore di una personalità tutt’altro che gregaria e scevra d’odio e di fanatismo, costrinse la Arendt a qualche acrobazia logica, ma non la convinse comunque a mettere in discussione il suo profilo di Eichmann, anzi le offrì l’occasione di renderlo ancora più suggestivo, come può esserlo l’immagine di un ingranaggio che una volta messo in moto non può più fermarsi, qualunque cosa accada.
Hannah Arendt accettò come veritiere le affermazioni di Eichmann che parevano confermare il suo profilo, ad esempio quelle in cui aveva paragonato il suo stato d’animo dopo la conferenza di Wannsee alla libertà da ogni senso di colpa di Ponzio Pilato, e liquidò invece come assurde ed insignificanti vanterie quelle che lo smentivano: “Chiunque poteva vedere che quell’uomo non era un mostro, ma era difficile non sospettare che fosse un buffone.”. Utilizzò la scorciatoia della millanteria per svilire il significato dello spirito di iniziativa dimostrato da Eichmann nell’organizzazione dell’ufficio per l’emigrazione ebraica di Vienna nel 1938, della carica di entusiasmo e di energia con cui aveva sviluppato nel 1940 il progetto volto al trasferimento degli ebrei in Madagascar, delle non comuni doti amministrative di cui aveva dato prova tra il 1942 ed il 1944 nei vari paesi in cui aveva scatenato la sua burocratica ferocia sulle comunità ebraiche; in questo modo rese più convincente la leggenda della rotellina passiva dello sterminio, impersonale, facilmente sostituibile, ed altrettanto facilmente riproducibile in qualsiasi stato totalitario, in ogni tempo.
L’intuizione della Arendt di universalizzare la figura di Eichmann, attraverso una lettura ideologica dei fatti e dei documenti ed una astrazione dal contesto storico, parve trovare, negli anni ’60, una conferma scientifica negli esperimenti sul comportamento dei soggetti sottoposti all’autorità condotti presso l’università di Yale dallo psicologo sociale Stanley Milgram. Posti difronte all’ordine, impartito da una autorità percepita come legittima, di eseguire azioni in conflitto con i propri valori etici, gli individui selezionati non si erano in maggioranza tirati indietro, anzi avevano obbedito ciecamente. L’estrazione sociale ed il livello di istruzione non avevano influito sul comportamento; il grado di obbedienza era invece crollato quando i soggetti avevano potuto vedere da vicino gli effetti del loro agire. L’immagine del “killer da scrivania”, che chiuso nel suo ufficio sigla documenti, sposta carte ed attiva processi senza rendersi conto delle sofferenze da lui generate, e proprio per questo è portato ad obbedire anche agli ordini più mostruosi, pareva quindi corroborata da un riscontro scientifico sperimentale. Confortati dai risultati di Milgram, intellettuali, accademici e larga parte dell’opinione pubblica finirono per accettare come una verità irrefutabile l’interpretazione secondo cui Eichmann sarebbe stato un uomo qualunque e chiunque avrebbe potuto essere Eichmann, spostando dal singolo individuo all’autorità dello stato il peso della responsabilità per i crimini contro l’umanità. Ancora oggi tale presunta verità continua a sedurre, nonostante l’evidenza sia degli aspetti arbitrari e mistificatori della teoria della “Banalità del male”, sia dell’assoluta incomparabilità tra gli ordini immorali impartiti da Milgram in laboratorio e la mostruosità dei crimini nazisti, su cui oltretutto influirono elementi storici, politici e culturali non riproducibili.
Pur rifuggendo da ogni astrazione filosofica e da ogni pretesa di svelare i segreti della psiche umana, anche il difensore di Eichmann, Robert Servatius, un attempato avvocato di Colonia che, difendendo senza successo Fritz Sauckel a Norimberga, si era guadagnato una certa reputazione come paladino legale dei nazisti, sposò la tesi della rotellina passiva nella grandiosa macchina di morte del Terzo Reich. Dopo aver contestato il fondamento giuridico del processo, sollevando dubbi sull’imparzialità dei giudici, in quanto ebrei, sulla competenza della corte ad emettere una sentenza su crimini commessi ben prima della nascita dello stato ebraico e sulla legalità del trasferimento di Eichmann in Israele, Servatius dichiarò che l’imputato era stato soltanto un ufficiale che aveva eseguito degli ordini ed applicato delle leggi dello stato. Chiese quindi il non luogo a procedere ed il proscioglimento di Eichmann, dal momento che la responsabilità di ogni eventuale crimine commesso era da attribuire allo stato tedesco ed alla sua leadership politica e non ad un misero funzionario.
La corte rigettò queste richieste, ma non poté impedire alla difesa di perseverare nella strategia di presentare Eichmann come un personaggio minore, privo di qualsiasi potere decisionale e discrezionale, mettendo in risalto le esagerazioni e le insinuazioni di Hausner, attraverso efficaci controinterrogatori dei testimoni dell’accusa. Servatius riuscì a far apparire vaghe, contraddittorie e tendenziose alcune deposizioni che avrebbero dovuto invece essere accolte come autorevoli ed oggettive; seppe sfruttare ogni occasione per ribadire la posizione subordinata del suo assistito; confutò specifiche accuse, dimostrando l’estraneità di Eichmann tanto allo sterminio dei bambini di Lidice, quanto all’assassinio del giovane ebreo ungherese sorpreso a rubare della frutta. Tuttavia l’efficacia della sua lunga esperienza forense fu indebolita non solo dall’impossibilità, a causa delle ristrette risorse del collegio di difesa, di analizzare una mole enorme di documenti, ma anche dalla verbosità e dalla controproducente puntigliosità burocratica del suo assistito. David Cesarani osserva:”Eichmann sembrava incapace di rispondere a una domanda con un semplice sì o no. Si imbarcava in spiegazioni prolisse, punteggiate da innumerevoli frasi subordinate che lasciavano il traduttore e gli stessi giudici disorientati sul significato di ciò che intendeva dire.”.
Servatius affidò grande importanza alla ricostruzione della catena di comando della “soluzione finale”, ma la deposizione del suo assistito risultò tutt’altro che convincente ed illuminante. Eichmann si sforzò di far comprendere la modestia della sua posizione gerarchica esponendo, in un gergo burocratico quasi impenetrabile, ben diciassette tabelle multicolori che non fecero altro che creare maggiore confusione e suggerire l’idea che stesse nascondendo le sue reali responsabilità dietro una spessa cortina fumogena di competenze, ruoli e funzioni.
Eichmann in prigione
Ancora più controproducente risultò l’ostinazione dell’imputato a dipingersi come un esperto di emigrazione con profonde e sincere simpatie sioniste. Come segno del suo interesse per l’ebraismo, citò la richiesta, avanzata ai suoi superiori nel 1936, di una sovvenzione con cui sostenere i costi di un ciclo di lezioni di yiddish. Irritò pubblico e giuria rivendicando con orgoglio di aver reso possibile l’emigrazione di due terzi degli ebrei austriaci, passando sotto silenzio la loro sistematica spoliazione. Interrogato in merito al progetto Madagascar, azzardò un paragone, involontariamente provocatorio, con le idee di Theodor Herzl, padre del sionismo. Suscitando mormorii in aula affermò: ”Il mio unico sforzo era … suggerire in ogni modo che da qualche parte – come ho detto più e più volte – si mettesse una terra sotto i piedi degli ebrei.”. Senza preoccuparsi di sfidare il ridicolo, finse di non rendersi conto del carattere implicitamente genocida dello sradicamento di quattro milioni di europei per ammassarli in un’isola semiselvaggia, priva di risorse ed infrastrutture e per giunta sottoposta al controllo poliziesco delle SS. Si trattò certamente di una goffa finzione, dal momento che, su scala ben più ridotta, Eichmann nell’autunno del 1939 aveva personalmente organizzato il trasferimento forzato di appena qualche migliaio di ebrei austriaci, polacchi e moravi nello sperduto villaggio di Nisko, nei pressi di Lublino, con esiti disastrosi in termini di vittime causate da malattie, disagi, malnutrizione e maltrattamenti delle SS.
Eichmann descrisse la conferenza di Wannsee, a cui ribadì di aver partecipato come semplice relatore e senza nessun potere decisionale, come la definitiva sconfitta del suo sogno “sionista” di una ordinata emigrazione ebraica ed al tempo stesso come l’assoluzione da qualsiasi responsabilità penale personale, poiché in quell’occasione i vertici politici avevano impartito gli ordini di sterminio. Tentò di dimostrare la propria riluttanza ad obbedire ai nuovi orientamenti della politica nazista, dichiarando di aver chiesto a più riprese e senza successo un trasferimento ad altri incarichi, ma non fu in grado di esibire alcun documento a suo favore. Sconsolato affermò: “Quando la leadership di uno stato è buona, il subordinato è fortunato. Io sono stato sfortunato, perché a quel tempo il capo dello stato aveva emesso l’ordine di sterminare gli ebrei”.
Pur respingendo ogni accusa sul piano legale, riconobbe la propria colpa morale, ma non risultò affatto convincente, poiché non rinunciò al suo consueto tono glaciale e liquidò il rimorso come una consolazione per bambini. Anche sforzandosi di dimostrare di avere una coscienza tormentata non perse l’occasione per ribadire di essere una vittima e nulla più: “Esprimo il mio dolore e la mia denuncia per le attività di sterminio contro gli ebrei ordinate a quei tempi dai leader tedeschi. Però personalmente non potevo fare diversamente o di più. Io ero solo uno strumento nelle mani di poteri più forti e di forze più grandi e di un destino inesorabile.”.
Dietro la maschera del sionista divenuto genocida suo malgrado, tra parziali ammissioni, spudorate menzogne, ipocriti accenni a conflitti interiori sopiti nell’obbedienza, autoinganni ed amnesie selettive, Eichmann lasciò fugacemente intravvedere un altro volto: quello di un nazista che aveva consapevolmente accettato di diventare complice dello sterminio del popolo ebraico. I giudici di Gerusalemme, costretti sulla base delle evidenze processuali a ridimensionare le iperboli di Hausner, lo colsero, descrivendo Eichmann come un nazista convinto, colmo di un “odio freddo e calcolatore rivolto al popolo ebraico”, che aveva mentito per evitare la condanna, dimostrando le stesse qualità di cui aveva dato prova come responsabile del dipartimento IV B4: “una mente vigile, abilità di adattarsi a qualsiasi situazione difficile, astuzia, facilità di parola.”. I giornalisti, i commentatori ed il pubblico ministero, troppo impegnati ad innalzare simboli, ad inseguire astrazioni filosofiche, ad additare aberrazioni psicologiche, a trovare conferme a preconcetti ideologici, guardarono altrove.
Alla luce di una visione più complessa e documentata del Terzo Reich e della “soluzione finale”, la storiografia ha cercato recentemente di indagare sul volto nazista di Eichmann. Secondo l’approfondita analisi di David Cesarani, per diventare complice di crimini contro l’umanità Eichmann non assecondò un istinto innato, ma effettuò una scelta che, ad un certo momento della sua carriera di SS ed in una precisa fase della guerra hitleriana, intesa come lotta per la sopravvivenza della Germania e con essa della razza ariana, gli parve inevitabile. Accettò il genocidio spinto non solo dal senso del dovere, dal desiderio di rispettare il giuramento di fedeltà prestato, ma anche dalla convinzione, instillata nel suo animo da anni di indottrinamento nazista, secondo cui gli ebrei erano irriducibili nemici della razza ariana e perciò dovevano essere annientati.
Forse Eichmann non mentì del tutto quando dichiarò di aver avuto qualche sussulto di coscienza difronte alla “soluzione finale”, ma certamente non rifiutò la carriera del genocida, probabilmente con le stesse motivazioni di tante altre SS. Nessuna delle immani sofferenze inflitte al popolo ebraico riuscì ad impedirgli di svolgere i compiti assegnatigli con il massimo dell’impegno e con febbrile dedizione.
La strategia difensiva della rotellina dello sterminio, passiva e priva di odio, che ispirò così profondamente la Arendt, fu un’invenzione con ben pochi contatti con la realtà. Dopo la lettura della sentenza di condanna Eichmann confidò al suo legale: “E’ qualcosa che non mi aspettavo affatto, non mi aspettavo che non mi credessero per niente. Naturalmente io non ero la rotellina più piccola, e non sopporto più di sentire la parola ‘rotellina’, perché non è vero. Ma d’altra parte non ero neppure la molla.”.
Hitler, ossessionato dall’incubo della cospirazione ebraica, ordinò il genocidio, Himmler ed Heyndrich, ai vertici dell’apparato poliziesco del regime, ne pianificarono le direttrici, Eichmann ne divenne il direttore generale, affrontando con energia continui conflitti di competenza, beghe amministrative, cavilli giuridici e problemi organizzativi apparentemente insormontabili. Una mole di lavoro che avrebbe inceppato qualsiasi rotellina passiva, non sorretta da una robusta fede nazista. Eichmann invece portò a termine il suo compito, mostrando qualità superiori a quelle di un banale carrierista. Probabilmente il comandate di Auschwitz non esagerò tracciandone un ritratto vulcanico: “Era sulla trentina, molto vivace e attivo, sempre pieno di energia. Andava macchinando continuamente nuovi piani e continuamente era a caccia di innovazioni e di miglioramenti. Era incapace di starsene quieto. La sua ossessione era la questione ebraica.”.
Eichmann non fu esattamente il plenipotenziario per la “soluzione finale” immaginato da Hausner, quanto piuttosto un funzionario con gravosi compiti di collegamento e controllo. Il suo ruolo fu operativo, non rimase chiuso in ufficio a timbrare carte, si mosse frenetico da un capo all’altro dell’Europa per spronare e controllare il suo personale affinché il programma di sterminio tracciato in alto loco non subisse intoppi, visitò più volte i lager, poté vedere con i propri occhi l’orrore celato dietro le formule burocratiche, quasi materialmente spinse gli ebrei sui treni della morte. Come dimostrano i fatti d’Ungheria, non affievolì il suo impeto neanche quando l’edificio del Terzo Reich era sul punto di crollare ed una parte della leadership nazista tentava di far sparire le tracce dell’olocausto per aprirsi uno spiraglio verso il futuro.
L’incessante indottrinamento antisemita del regime nazista produsse effetti da un capo all’altro della catena di comando. Prima di impiccarsi nella sua cella, sottraendosi così alla sentenza dei giudici di Norimberga, Robert Ley, a capo del Fronte del Lavoro, l’organizzazione nata dalla nazificazione dei sindacati, scrisse: “Siamo finiti con il vedere tutto con occhi antisemiti. Era diventato un complesso… . Noi nazionalsocialisti vedevamo nelle lotte adesso alle nostre spalle solo una guerra contro gli ebrei, non contro i francesi, gli inglesi, gli americani o i russi. Credevamo che fossero tutti solo strumenti degli ebrei…”. Interrogato a Norimberga sulle radici del suo antisemitismo, un criminale come Höss spiegò: “…era qualcosa di scontato che gli ebrei avessero la colpa di tutto… . Come vecchio nazionalsocialista fanatico, io ho preso tutto come un dato di fatto … esattamente come un cattolico crede nei dogmi della sua chiesa. Era semplicemente la verità senza riserve, io non avevo dubbi in merito. Ero assolutamente convinto che gli ebrei fossero al polo opposto rispetto al popolo tedesco e che prima o poi ci sarebbe stato uno scontro tra il nazionalsocialismo e l’ebraismo mondiale … Ma tutti erano convinti di questo; era questo che si sentiva e si leggeva in giro.”
Anche scendendo la scala gerarchica sino all’ultima delle SS, risulta evidente che il genocidio non fu attuato da robot disumanizzati, ma da individui disciplinati che condividevano con i propri superiori le finalità degli ordini che eseguivano. Giunto al termine della sua vita, Oskar Groening, un graduato delle SS che aveva prestato servizio ad Auschwitz, ha raccontato al documentarista della BBC Laurence Rees la propria reazione quando scoprì quale orribile destino attendeva gli ebrei considerati non abili al lavoro: “Era inimmaginabile. Riuscii a comprenderlo del tutto solo quando fui di guardia agli oggetti di valore e alle valige alla selezione. Se devo dirla tutta fu uno shock che ci volle tempo per smaltire. Ma non bisogna dimenticare che ben prima del 1933 … la propaganda di quando ero ragazzo, sui mezzi di comunicazione e nella società in cui vivevamo, ci diceva che gli ebrei erano stati la causa della Prima guerra mondiale e alla fine avevano anche ‘pugnalato la Germania alle spalle’. E che gli ebrei erano responsabili dello stato di miseria in cui si trovava la Germania. Eravamo convinti che ci fosse una grande cospirazione ebraica contro di noi e quella visione del mondo trovava espressione ad Auschwitz. Bisognava evitare quello che era successo con la Prima guerra mondiale, cioè che gli ebrei ci facessero di nuovo precipitare nella miseria. I nemici interni dovevano essere uccisi, sterminati se necessario. E tra queste due battaglie, quella dichiarata al fronte e quella sul fronte interno, non c’era alcuna differenza. Stavamo sterminando dei nemici.”.
Eichmann mostrò, come osserva Cesarani, la sua intima e consapevole adesione al genocidio quando a Berlino nell’aprile del 1945 dichiarò ai suoi collaboratori del dipartimento IV B4 che sarebbe sceso con gioia nella tomba sapendo di aver contribuito allo sterminio di milioni di ebrei. Durante il processo di Gerusalemme, incalzato da Hausner non smentì di aver pronunciato una frase simile, ritenuta dalla Arendt nulla più che la melodrammatica vanteria di un uomo oppresso dalla mediocrità, si affrettò però a precisare di essersi riferito ai milioni di nemici del Reich, in particolare ai russi. Tuttavia alla domanda del pubblico ministero se nemico ed ebreo fossero per lui sinonimi Eichmann non esitò a rispondere affermativamente.
Alcuni anni prima di essere rapito, ritenendosi ormai al sicuro e dimenticato da tutti, Eichmann accettò di registrare ore ed ore di conversazioni sulla “soluzione finale” con il giornalista di origine olandese Willem Sassen, con cui condivideva oltre alla lingua la passata militanza nazista. In un clima di confidenze tra camerati, opportunamente surriscaldato dal cognac, si lasciò andare a dichiarazioni rivelatrici della sua determinazione genocida. Si dolse di non essere riuscito a superare tutti gli ostacoli che avevano ritardato ed intralciato il suo lavoro. Ricordò invece con soddisfazione le occasioni in cui, come in Ungheria, le deportazioni si erano svolte rapidamente ed ordinatamente. Tracciando un bilancio della sua battaglia per l’attuazione della “soluzione finale”, Eichmann affermò: “No, non ho assolutamente rimpianti e non mi cospargo il capo di cenere. Nei quattro mesi durante i quali hai presentato tutta la materia, durante i quali hai cercato di rinfrescarmi la memoria, mi sono tornate in mente molte cose. Sarebbe troppo facile, e potrei ragionevolmente farlo per ingraziarmi l’opinione pubblica corrente, recitare la parte di un Saulo che è diventato un Paolo. Ma devo dirti che non posso farlo, perché il mio essere più profondo rifiuta di dire che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato. No: devo dirti in tutta sincerità che, se dei 10,3 milioni di ebrei … ne avessimo uccisi 10,3 milioni, io sarei soddisfatto. Direi: ‘Benissimo. Abbiamo sterminato un nemico’.”.
Forse al momento di salire sul patibolo l’unico dilemma che turbò la coscienza nazista di Eichmann fu quello espresso in termini poetici da Primo Levi:
“Salterai nel sepolcro allegramente?
O ti dorrai come in ultimo l’uomo operoso si duole, cui fu la vita breve per l’arte sua troppo lunga, dell’opera tua trista non compiuta, dei tredici milioni ancora vivi?”
Bibliografia
D. CESARANI, Adolf Eichmann. Anatomia di un criminale., Milano, Mondadori, 2007.
H. ARENDT, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 2010.
P. LEVI, Opere: Romanzi e poesie, vol. II, Torino, Einaudi, 1988.
M. PEARLMAN, E’ Lui: Eichmann, Milano, Mondadori, 1961.
M. PEARLMAN, Cattura e processo di Eichmann, Torino, UTET, 2006.
Q. REYNOLDS, Il ministro della morte. La storia di Adolf Eichmann, Milano, Bompiani, 1961.
J. DONOVAN, Eichmann. Man of Slaughter, New York, 1960.
C. CLARKE, Eichmann. The Savage Truth, London, 1960.
R. LUMSDEN, Himmler’s black order. A history of the SS 1923-45, Sutton Publishing Limited, 1997.
L. REES, Auschwitz. I nazisti e la soluzione finale, Milano, Mondadori, 2006.
R. OVERY, Interrogatori. Come gli Alleati hanno scoperto la terribile realtà del Terzo Reich, Milano, Mondadori, 2008.
E. A. JOHNSON, K. H. REUBAND, La Germania sapeva. Terrore, genocidio, vita quotidiana. Una storia orale, Milano, Mondadori, 2008.
R. J. EVANS, Il Terzo Reich al potere 1933-39, Milano, Mondadori, 2010.
D. J. GOLDHAGEN, I volenterosi carnefici di Hitler, Milano, Mondadori, 1997.
D. ENGEL, L’olocausto, Bologna, Il Mulino, 2005.
G. GOZZINI, La Strada per Auschwitz. Documenti e interpretazioni sullo sterminio nazista, Milano, Mondadori, 1996.
R. HILBERG, Carnefici, vittime, spettatori. La persecuzione degli ebrei 1933-1945., Milano, Mondadori, 1994.
G. KNOPP, Olocausto, Milano, Casa Editrice Corbaccio, 2003.
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retegenova · 6 years
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LA DICIANNOVESIMA EDIZIONE DEL FESTIVAL NAZIONALE DEL DOPPIAGGIO VOCI NELL’ OMBRA, MANIFESTAZIONE INTERNAZIONALE E DI SPICCO CON UNA RETE DI OLTRE CENTO REALTA’, PORTERA’ A SAVONA DAL 18 AL 20  OTTOBRE IL GOTHA DEL DOPPIAGGIO ITALIANO E INTERNAZIONALE. TRA I PREMIATI RITA SAVAGNONE E FRANCESCO PANNOFINO. 
  Si terrà dal 18 al 20 di ottobre 2018, a Savona, la diciannovesima esima edizione de Il Festival Nazionale del Doppiaggio VOCI nell’Ombra, la più importante manifestazione a livello europeo dedicata al mondo del doppiaggio cinetelevisivo e degli audiovisivi, nella consapevolezza che il doppiaggio italiano è sicuramente, a livello di professionalità, il migliore in assoluto. Per quindici anni ha avuto la direzione artistica del critico Claudio G.Fava; dal 2014  è organizzato da Risorse – Progetti & Valorizzazione, sotto la direzione di Tiziana Voarino,  ha rilanciato il Festival anche grazie ad un’ampia rete di collaborazioni e di relazioni internazionali, oltre un centinaio.
Il Festival è sostenuto da SIAE, dalla Fondazione De Mari, dalla Regione Liguria con la collaborazione del Comune di Savona e il contributo del Comune di Cairo Montenotte. Top sponsor è Quidam – eccellenza nella lavorazione del vetro piano per edilizia e per arredamento di design. Tra gli sponsor: la storica società di doppiaggio Sefit Cdc Group ed il NUOVO IMAIE; ODS la cooperativa di Operatori del Doppiaggio e Spettacolo,  Binari Sonori e Synthesis – principali studi  specializzati nella localizzazione dei videogiochi in Italia e VIX VOCAL la app che fornisce servizi per il doppiaggio. La manifestazione gode del patrocinio del Ministero dei beni e per le attività culturali, di UNICOM della Provincia di Savona, del Campus di Savona e dell’Università di Genova, dell’Università di Milano Bicocca, del Conservatorio di Milano, dell’Università di Bologna con il D.I.T. di Forlì, della Scuola Civica per interpreti e traduttori di Milano, dell’Orientale di Napoli. Sempre maggiori i partner stranieri, in particolare i dipartimenti di trasposizione multimediale come la russa Rufilms e l’Università Aerospaziale di San Pietroburgo, l’Università Sophie Antipolis di Nizza e l‘Università di Strasburgo con ITIRI. E ancora AIDAC (Associazione Italiana dialogisti e adattatori cinetelevisivi), ADAP (Associazione doppiatori e attori pubblicitari), AGIS e Agis Scuola, Genova Liguria Film Commission, Land (Local Audiovisual Network & Development), Confassociazioni International, Confassociazioni Cinema Arte Teatro, Rete Impresa, Ufficio Scolastico Regionale e CCIAA Riviere di Liguria. Altri sponsor Hotel Marea, Picasso Gomme e Boutique della Birra.
Come Regione Liguria siamo contenti di poter sostenere un evento importante e consolidato come il Festival Nazionale del Doppiaggio, Voci nell’Ombra, – spiega Ilaria Cavo, assessore alla cultura di Regione Liguria – una manifestazione che non è solo longeva, ma ha anche il merito di essere cresciuta e di essersi evoluta, con il passare delle edizioni, sino ad accreditarsi come una delle più importanti manifestazioni a livello europeo dedicate al mondo del doppiaggio cinetelevisivo e degli audiovisivi. Il doppiaggio italiano è unanimemente riconosciuto come il migliore in assoluto e quindi deve farci gonfiare il petto d’orgoglio il fatto che uno dei massimi eventi europei in materia si tenga, ormai da quasi due decenni, nella nostra regione. D’altronde anche per una questione di dna, da liguri, è impossibile non provare empatia per una manifestazione che porta alla ribalta tratti tipici della nostra cultura, come la creatività e la componente autorale. Abbiamo una lunghissima tradizione e tanti interpreti storici: il Festival Nazionale del Doppiaggio Voci nell’Ombra è qui anche per rimarcare questo saldo legame con il territorio
In veste di direttore, Tiziana Voarino aggiunge: ”Siamo orgogliosi delle partnership che riusciamo ad ampliare, anche a livello internazionale. Cerchiamo di far evolvere continuamente il Festival dal punto di vista della rete costruita – sono attualmente oltre cento le realtà in rete -,  dei media e dei device adottati, con lo scopo di valorizzare il patrimonio che è ormai Voci nell’Ombra: si qualifica come la prima consistente operazione nel settore cinema e audiovisivo in Italia in grado di aver portato alle luci della ribalta il mondo e le professioni collegate al doppiaggio.  Il festival sottolineerà anche in maniera strategica il forte legame con il territorio in cui si svolge, facilitando altresì il riconoscimento di quello che per Savona costituirà un vero e proprio  brand, mentre per la Regione Liguria insieme al Festival di Sanremo, al Premio Tenco, alla Scuola  dei  cantautori  genovesi,  al  progetto  realizzato negli ultimi anni dalla Regione  Cantautori  nelle scuole , il Festival Nazionale del Doppiaggio si collocherà sempre più nel solco di una lunga tradizione  che  vede  la  voce e la parte autorale  come  assoluta  protagonista  della cultura ligure, e contribuisce attivamente alla visione della Liguria come la “Regione della Voce”
Il neo assessore alla cultura del Comune di Savona Doriana Rodino dichiara “Per il Comune di Savona questo è un appuntamento fisso che ogni anno siamo felici di poter ospitare. L’organizzazione impeccabile e gli ospiti di qualità che danno vita al Festival sono i punti di forza di un evento unico nel suo genere a cui non si può mancare”, mentre il  sindaco di Cairo Montenotte Paolo Lambertini sottolinea  che “la realizzazione di Voci a Cairo rappresenta un’ importante opportunità per la Città di Cairo e per la sua comunità di entrare nel circuito della più longeva e rilevante manifestazione italiana dedicata al doppiaggio, coerente con l’apertura del “Ferrania Film Museum
La Serata d’Onore con consegna dei Premi si svolgerà al Teatro Chiabrera di Savona sabato 20 ottobre, alle ore 21, presentata per la prima volta dalla giornalista Patrizia Caregnato e da una nota voce della radio, storico conduttore del Festival Maurizio di Maggio di Radio Montecarlo. Molti gli ospiti noti. Moltissime le categorie di premi, oltre venticinque riconoscimenti consegnati, tra cui il PREMIO SIAE destinato al giovane adattatore di indiscusso talento.  Quest’anno a riceverlo sarà una giovane adattatrice di cartoni animati la trentenne triestina Beatrice De Caro Carella A partire dal 2015, infatti, la Società Italiana degli Autori ed Editori sostiene il Festival nell’ambito di una politica dedicata a promuovere e a valorizzare i nuovi talenti e il loro percorso formativo e lavorativo. Anche la giuria ha nuovi membri e nuove sezioni. Il presidente Steve della Casa e il presidente onorario Enrico Lancia erano entrambi carissimi amici di Claudio G. Fava. Gli altri componenti sono Baba Richerme, Renato Venturelli, Francesco Gallo, Alessandro Boschi, Fabio Melelli, Massimo Giraldi, Antonio Genna e Tiziana Voarino. Selezioneranno i film e i prodotti televisivi, della stagione appena trascorsa, meritevoli dei Premi “Anelli d’Oro” (l’anello di pellicola era la vecchia unità di misura del doppiaggio, attualmente sostituito dal meno poetico time code) per le varie categorie del doppiaggio sia per il cinema sia per la televisione: miglior voce protagonista maschile e femminile, miglior voce non protagonista, miglior doppiaggio generale. Le nuove sezioni sono: Adattamento cinema e televisione, Videogiochi, Spot pubblicitari, Prodotti di animazione, Audiolibri, Programmi televisivi e dallo scorso anno Voce Radiofonica con Jocelyn giurato. Tra gli altri giurati delle nuove sezioni: Dody Nicolussi di Sky, Arturo Villone autore radio televisivo per Rai e Mediaset. 
Novità assoluta dell’anno è l’introduzione della sezione dedicata ai food and cooking show con il Premio ARTkitchens sostenuto dal top sponsor Quidam per promuovere una nuova linea di alta qualità di top da cucina, in vetro.  Quest’anno il Premio andrà alla voce italiana del recentemente scomparso Anthony Bourdain sempre in viaggio alla ricerca di ricette in tutto il mondo. La voce è Maurizio Trombini, famoso per essere anche la voce della trasmissione televisiva cult “Lucignolo”.
Altro premio novità è il Premio Vix Vocal sostenuto dall app che fornisce servizi per il settore, ideata da Eleonora de Angelis e Massimiliano Torsani, che sarà consegnata a Simone Mori per l’entusiasmo e la professionalità profusi nel suo lavoro:  doppiatore tra gli altri di Ice Cube, Omar Sy, David Shwimmer  (il Ross della serie cult Friends) in nomination anche per la direzione di doppiaggio di Ocean’ s 8.
Tra i doppiatori presenti nelle oltre quarantacinque nomination, o che riceveranno menzioni speciali: Luca Biagini voce tra gli altri di John Malkovich, Colin Firth e Kevin Kline; Sandro Acerbo voce tra gli altri di  Brad Pitt, Will Smith, Nicolas Cage; Antonella Giannini voce tra gli altri di Frances McDormand; Laura Langhi voce  tra gli altri di Hilary Swank; il doppiatore Riccardo Rossi voce tra gli altri di Adam Sendler, Jhonny Depp, Ben Affleck, Matt Damon; Massimo Lodolo voce tra gli altri di Tim Roth, Vincent Cassel, Andy Garcia ed una miriade di voce riconoscibilissime e uniche.
Saranno anche consegnate, oltre al Premio SIAE, la Targa Claudio G. Fava alla carriera che andrà a Rita Savagnone e a Francesco Pannofino.  Rita Savagnone è stata sposata con l’icona del doppiaggio italiano Ferruccio Amendola e madre dell’attore Claudio Amendola. La Savagnone ha dato la voce alle più importanti attrici del cinema Liza Minnelli, Vanessa Redgrave, Whoopi Goldberg, Shirley MacLaine, Elizabeth Taylor, Eva Marie Saint, Debbie Reynolds, Romy Schneider, Kathy Bates, Kim Novak, Raquel Welch e Greta Garbo ed anche Sophia Loren.
Francesco Pannofino è ligure di nascita, e precisamente a Pieve di Teco (IM), si è poi trasferito a Roma. Ormai anche attore affermato del cinema e della televisione, protagonista della serie Boris e Nero Wolfe, tra gli altri è stato la voce di  George Clooney, Denzel Washington, Matt Schulze, Kurt Russell, Antonio Banderas, Mickey Rourke, Tom Hanks, Daniel Day-Lewis, Jean-Claude Van Damme e Wesley Snipes.
La Targa Bruno Astori, l’ideatore del Festival, votata con la app del Festival “Risorse on air – Festival del Doppiaggio” ha in nomination sei voci (in allegato voci e personaggi che interpretano, tra gli altri) che ambiscono al titolo di voce emergente del doppiaggio italiano, ciascuna con il proprio seguito di fan che si scateneranno a supportarli sui social.
La targa alla carriera di adattatore dialoghista sarà consegnata a Filippo Ottoni , adattatore e direttore di doppiaggio di molti importanti film e prodotti televisivi . Per molti anni è stato presidente dell’Aidac.
È confermato lo speciale appuntamento del blog talk al NuovoFilmStudio giovedì 20 alle 21, mentre venerdì mattina al Liceo Scientifico Orazio Grassi di Savona si svolgerà una lectio magistralis tenuta da doppiatori e adattatori; lo scientifico inoltre partecipa al Festival con una convenzione di alternanza scuola lavoro.
Venerdì sera il Festival si sposta a Cairo Montenotte con Voci a Cairo per un evento caratterizzato dalla proiezione di contributi video appartenenti alla storia del doppiaggio italiano, intimamente connessi allo sviluppo della cinematografia e quindi collegati con il “Ferrania Film Museum” (il Museo dedicato alla pellicola allestito presso Palazzo Scarampi), e dalla presentazione di libri riguardanti il doppiaggio e il cinema.
Sabato mattina alla Feltrinelli  un appuntamento particolare con Alessio Bertallot. Nel suo intervento Il Dj 2.0 : nuovi metodi di divulgazione musicale  spazierà dall’illustrare il suo progetto dell’emittente radiofonica Casa Bertallot all’ultimo lavoro con Baricco con cui ha permesso alla sua opera letteraria e spettacolo teatrale Novecento di sbarcare su una piattaforma come Spotify con un progetto precursore ed originale.
Sabato pomeriggio un intero spazio sarà riservato alle interviste delle voci famose, mentre sabato sera dopo la Serata d’Onore, grazie all’intervento del Mare Hotel, i doppiatori si ritroveranno su invito a Voci a Mezzanotte al Bistrot Marea.
Chicca di questa edizione il convegno internazionale dal  Dal multimediale al cross-mediale Le nuove piattaforme a confronto con le vecchie forme di linguaggio:interazioni, contaminazioni, invenzioni e protocolli alternativi Tra i partecipanti più attesi la Prof.ssa Marina Chikhanova  dell’Università Areospaziale di San Pietroburgo e la rappresentanza russa della RuFIlms, la principale realtà russa del settore trasposizione multimedia
Anche i premi sono stati pensati per valorizzare e quindi  sono opere di artisti del territorio: Laura Tarabocchia, Vanessa Cavallaro, Quidam, Gianluca Cutrupi.  Si aggiungono quattro artisti di Arte Pozzo a cura di Angela Maioli e sono: Lorenzo Bersini, Nino Caré. Anna Rota Milani e Piero Vicari
  Con l’iniziativa di aiuti umanitari Operazione Stella, da sempre collegata al Festival, quest’anno il sabato saranno vendute le magliette con il logo “Genova nel Cuore” e il ricavato sarà interamente devoluto a favore delle emergenze che il crollo del ponte Morandi ha provocato alla città.
Tutti gli appuntamenti sono a ingresso gratuito fino a esaurimento posti.
  L’appuntamento è quindi nella Città di Savona, nel cuore del Ponente Ligure, dove si riunirà il gotha del doppiaggio italiano.
  Savona, 9 ottobre 2017
  Direzione e Comunicazione
Tiziana Voarino
Contatti: cell. 349 3260319 e-mail [email protected]
    Cooperativa Battelieri del Porto di Genova
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NOMINATION FESTIVAL NAZIONALE DELL DOPPIAGGIO LA DICIANNOVESIMA EDIZIONE DEL FESTIVAL NAZIONALE DEL DOPPIAGGIO VOCI NELL' OMBRA, MANIFESTAZIONE INTERNAZIONALE E DI SPICCO CON UNA RETE DI OLTRE CENTO REALTA’, PORTERA’ A SAVONA DAL 18 AL 20  OTTOBRE IL GOTHA DEL DOPPIAGGIO ITALIANO E INTERNAZIONALE.
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viaggiatricepigra · 6 years
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Consiglio del Giorno: Mai Più Senza, di Giuseppe Calzi
Titolo: Mai Più Senza Autore: Giuseppe Calzi Casa Editrice: Dz Edizioni Pubblicazione: Maggio Contatti: www.sussurriamezzanotte.altervista.org https://www.facebook.com/GiuseppeCalziAutore/ https://twitter.com/Giuseppe_Calzi Il passato non può tornare, il passato non può essere cambiato. Nemmeno i sogni hanno un tale potere. Eppure i sogni possono cambiare qualcosa di molto più importante: presente e futuro. Quali nefaste conseguenze si potrebbero scatenare nell’esistenza di un individuo privato della possibilità di sognare? Gregory Leali vive a New Castle, nel cuore del piccolo e riservato stato del Delaware, Stati Uniti. La sua vita, solo all’apparenza tranquilla e priva di preoccupazioni, in realtà sta sprofondando e qualcosa è sul punto di aprire una piccola porta, dimenticata socchiusa da troppo tempo nella sua testa. E’ qualcosa di terribile, di assolutamente inspiegabile. E’ una sensazione forte, capace di scatenare un terrore impossibile da affrontare, tanto meno da vincere. Ha già provato il sapore sgradevole e oltre modo inquietante di certe emozioni che scavano nella sua personalità, ma quando? Eventi passati tornano in superficie, galleggiano sopra il pelo dell’acqua, come il cadavere di uno sconosciuto che Greg rinviene al Punto, il parco cittadino di New Castle. C’è davvero un sottile filo che lega tra loro momenti lontani della sua esistenza? Nero e silenzio, ecco cosa si nasconde dietro quella maledetta porta. Gregory sa benissimo che chiudere gli occhi e provare anche solo a concepire un nero e un silenzio tali va ben oltre i limiti della follia. Essere avvolti dalla mancanza totale dei sensi e da un vuoto assoluto, eppure pienamente consapevoli e coscienti di sé… Eventi inspiegabili, una serie di indizi ambivalenti e l’incontro con Michael Russell, personaggio disarmante e per certi versi complice e inquisitore allo stesso tempo, porteranno Gregory all’apertura di una serie di cassetti chiusi a chiave all’interno dalla sua mente, dai quali emergeranno spicchi di ricordi di un passato che pareva perso e dimenticato, come se non fosse mai esistito. L’amico Vince Costello e la nuova vicina di casa, Violet Alnwick, saranno in grado di spezzare le trame di un destino segnato da qualcosa successo al Gregory di un tempo, al bambino che fu Greg? Nero e silenzio devono essere affrontati, perché questa per Gregory è l’ultima fermata. E l’esito di tutto ciò non può che passare dall’ultimo ricordo, dall’ultimo sogno vissuto, da qualcosa che era stato spezzato ai tempi di un’infanzia lontana. Da un profondo rapporto di amicizia rimosso e cancellato dalla brutalità del destino. La sottile linea che separa vittoria e sconfitta, vita e morte, potrebbe spezzarsi da un momento all’altro.   Estratto - Greg con Michael Russell alla Taverna No, Michael Russell non poteva capire. Nessuno poteva capire. «Da quanto tempo stai andando avanti così?» insistette guardandolo negli occhi. Gregory cercò di sfuggire a quello sguardo a metà strada tra l’ammonitore e il divertito. Il brusio del locale sembrava sempre più vago. Il mal di testa si stava trasformando in un ritmico pulsare delle tempie, come quella sensazione strana, ma eccitante, che gli capitava spesso quando era ragazzo, seduto in uno dei carrelli delle montagne russe, lungo la lenta salita che conduceva il convoglio sulla sommità della struttura. Si sentiva come se quel viaggio a tutta velocità, ancorati a un’esile lingua d’acciaio, potesse davvero avere inizio da un momento all’altro. E se doveva essere, che fosse. Si aggrappò alla barra di metallo in attesa della discesa da imboccare e rispose: «Un paio di settimane. Forse un mese o giù di lì». Era possibile continuare a mentire, nonostante i buoni propositi? Ne seguì una risata distorta da parte di Michael, un suono carico di qualcosa di molto simile allo scherno. Quella risata ebbe l’effetto di dare un altro strattone verso l’alto al convoglio. Greg poteva quasi sentire l’aria tra i capelli, la stessa che da ragazzo lo riempiva di adrenalina e lo caricava d’attesa. Michael lo fissava con quegli occhi scuri e quel volto spigoloso che a Greg davano l’impressione di essere severi e benevoli allo stesso tempo. «Da quanto?» «Non lo so esattamente», rispose alzando le spalle. «Mesi, Gregory? Io credo anni.» Cosa poteva saperne quello sconosciuto? «Situazioni come la tua si trascinano per molto tempo. Ma arriva un momento in cui devi prendere una decisione.» Il volto di Greg era immobile. Sembrava quasi che quell’uomo potesse leggergli dentro. E se ci fosse passato anche quel tizio prima di lui? «Era da tempo che non mi accadeva di pensare a qualcosa di così angosciante», disse Gregory mentre vedeva il culmine di quella montagna russa venirgli incontro. Michael annuì, come per incoraggiarlo a parlare. Alle loro spalle, il vociare della gente, il tintinnio di bicchieri e piatti spostati, il rumore del legno sotto le suole delle scarpe, erano diventati suoni lontani e alieni. Era come se lui e Michael Russell si stessero allontanando. «Così buio», proseguì Greg nonostante la gola riarsa che gli rendeva difficile tenere un tono di voce normale. «Il nero e il silenzio sono cose impossibili da accettare. Fanno impazzire. All’inizio pensi che sia come chiudere gli occhi ed essere in una stanza buia e priva di rumore…» Fece una pausa e deglutì, gli occhi fuori dalle orbite. La secchezza in fondo alla gola era quasi dolorosa. Il convoglio era davvero prossimo al culmine. A breve sarebbe arrivato quell’intenso istante di sospensione, il momento in cui la salita termina e si è consapevoli che il mondo sta per iniziare a scorrerti di fianco a una velocità impensabile lungo quella sottile striscia d’acciaio, l’unico vincolo tangibile con il suolo. L’unico vincolo tangibile con la realtà. «Niente di più sbagliato. Ti spingi un poco oltre e senti che quel buio e quel silenzio sono neri, sono inconsistenti, non esistono punti di riferimento. Non hai occhi, non hai orecchi; assolutamente nessun odore, il gusto non esiste e quel nero non può nemmeno essere annusato o toccato. Il concetto di tatto non è previsto. Tu non esisti, sei solo parte del nero. Ma sai quale è la cosa che più ti manda in orbita il cervello quando arrivi a quel punto?» La discesa era iniziata, l’aria in faccia gli toglieva il respiro. Era su una montagna russa infernale
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the-entangler · 7 years
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Fahrenheit 451 finisce sul più bello
«Benvenuto tra noi dal regno dei morti.»
Montag fece un cenno di assenso e Granger riprese: «Tanto vale che tu faccia la conoscenza di noi tutti, ora. Questo è Fred
Clement, ex titolare della cattedra Thomas Hardy nell'Università di Cambridge, prima che questa diventasse un Istituto di Tecnologia Atomica. Quest'altro è il prof. Simmons dell'University College, Los Angeles, specialista delle Opere di Ortega y Gasset; il professor West, qui, ha svolto una bell'attività nel campo dell'etica, ch'è una disciplina antichissima, ormai, per la Columbia University molti anni or sono. Quanto al Reverendo Padover, questo qui, nel dare una serie di conferenze, una trentina d'anni fa, perse tutto il suo gregge, per le idee esposte, da una domenica all'altra. Fa il vagabondo con noi già da parecchio tempo. Quanto al sottoscritto: pubblicai un libro intitolato: Le Dita nel Guanto; del Giusto Rapporto tra l'individuo e la Società, per cui, eccomi qua, come vedi. Benvenuto, Montag!»
«Ma io non appartengo al vostro mondo» disse finalmente Montag, lentamente. «Io sono stato solo un idiota per tutta la mia vita!»
«Oh, siamo avvezzi a cose del genere. Tutti noi abbiamo commesso la specie giusta di errori, diversamente non saremmo qui. Quando eravamo singoli, separati individui, non avevamo altro che una gran rabbia in corpo. Io presi a pugni un milite del fuoco, venuto a bruciare la mia biblioteca, anni fa. Da allora, sono un fuorilegge. Vuoi dunque essere dei nostri, Montag?»
«Sì.» «Che cosa hai da offrire?» «Nulla. Credevo di avere parte dell'Ecclesiaste e forse un po' dell'Apocalisse da dare, ma ormai non ho nemmeno più questi.»
«Il Libro dell'Ecclesiaste sarebbe una cosa magnifica. Dove lo avevi?» «Qui» e Montag si toccò la fronte. «Ah» sorrise Granger, annuendo. «Che cosa c'è di male? Non è giusto, forse?» disse Montag. «Più che giusto: perfetto!» Granger si volse al Reverendo: «Abbiamo un Libro dell'Ecclesiaste?»
«Uno solo. Presso un certo Harris, a Youngstown.» «Montag», e Granger strinse forte la spalla di Montag. «Sii prudente. Abbi cura della tua salute. Se dovesse succedere qualcosa a Harris, tu sei il Libro dell'Ecclesiaste. Vedi come sei diventato importante da un minuto a questa parte?»
«Ma non me lo ricordo più!»
«No, niente mai si perde veramente. E poi conosciamo qualche sistema per liberarti dei tuoi disturbi di trasmissione.»
«Ma ho già tanto cercato di ricordare!»
«Non sforzarti oltre. Ti ritornerà in mente, quando ne avremo bisogno. Tutti noi abbiamo la memoria fotografica, ma sprechiamo l'intera esistenza a imparare a rimuovere le cose che in questa nostra memoria si contengono. Il nostro Simmons, qui, ha lavorato per vent'anni sul problema ed ora abbiamo il metodo mediante il quale ricordare tutto quanto s'è letto una volta. Ti piacerebbe, uno di questi giorni, Montag, leggere la Repubblica di Platone?»
«Ma certo!»
«Sono io la Repubblica di Platone. Vuoi leggere Marc'Aurelio? Il professor Simmons è Marc'Aurelio.»
«Molto lieto» disse Simmons. «Piacere» disse Montag. «Voglio presentarti Jonathan Swift, autore di quel malvagio libro politico, I Viaggi di Gulliver! E quest'altro è Charles Darwin, e questo è Schopenhauer, e questo è Einstein, e questo al mio fianco è il signor Albert Schweitzer, un pensatore di gran cuore, davvero! Qui ci siamo tutti, Montag: Aristofane, il Mahatma Gandhi, Gautama Buddha, e Confucio, Thomas Love Peacok, Thomas Jefferson, Lincoln, se permetti. Siamo anche Matteo, Marco, Luca e Giovanni.»
Tutti intorno risero sommessamente. «Impossibile» disse Montag. «Oh, possibilissimo, anzi!» rispose Granger con un sorriso. «Perché anche noi siamo dei bruciatori di libri. Leggevamo i libri e poi li bruciavamo, per paura che ce li trovassero in casa. I microfilm non servivano, eravamo sempre in viaggio, non volevamo dover sotterrare il film in attesa di ritornare. Sempre il rischio di essere scoperti! Meglio tenersi tutto quanto in testa, dove nessuno può venire a vedere o sospettare nulla! Noi siamo tutti pezzi e bocconi di storia, letteratura, codice internazionale, Byron, Tom Paine, Machiavelli o Gesù Cristo, ecco tutto. Ed è tardi. Ed è scoppiata la guerra. E noi siamo qui, nella foresta, e la città è laggiù, tutta avvolta nel suo mantello di mille colori. Che cosa pensi, Montag?»
«Penso che devo essere stato un demente nel cercar di ottenere le cose coi miei metodi, seminando libri nelle case degli incendiari per poi denunciarli.»
«Tu hai fatto quello che dovevi fare. Il sistema, se applicato su scala nazionale, avrebbe dato ottimi risultati. Ma il nostro metodo è più semplice e, crediamo, migliore. Tutto quello che vogliamo fare è di conservare intatta, al sicuro, la cultura che pensiamo ci occorrerà. Non abbiamo nessuna intenzione per il momento di incitare o infuriare chicchessia. Perché se saremo uccisi, la cultura sarà distrutta forse definitivamente. Noi siamo cittadini modello, nel nostro modo speciale; percorriamo gli antichi binari, dormiamo la notte sulle colline e la popolazione delle città ci lascia vivere. Ogni tanto, siamo fermati e frugati, ma non abbiamo nulla sulle nostre persone che possa incriminarci. La nostra organizzazione è flessibile, molto elastica e articolata; alcuni di noi hanno subito interventi di chirurgia plastica sul volto e sui polpastrelli. Ora abbiamo un compito orribile a cui attendere: aspettare che la guerra cominci ad essere combattuta e con la stessa rapidità giunga alla sua consumazione. Non è piacevole, ma d'altra parte noi siamo il Governo, noi siamo la minoranza degli strambi che gridano nel deserto. Quando la guerra sarà finita, forse potremo essere di qualche utilità al mondo.»
«Credi davvero che allora il mondo ascolterà?»
«Se non ascolterà, dovremo semplicemente aspettare ancora. Trasmetteremo i libri ai nostri figli, oralmente, e lasceremo ai nostri figli il compito di fare altrettanto coi loro discendenti. Naturalmente, molte cose andranno perdute, con questo sistema. Ma non puoi obbligare la gente ad ascoltare, se non vuole. Dovrà tuttavia venire a noi a suo tempo, chiedendosi che cosa esattamente sia accaduto e perché il mondo sia scoppiato in aria sotto il suo governo. Non può durare così.»
«Ma in quanti di voi altri siete?»
«A migliaia, sulle autostrade, lungo le ferrovie abbandonate, vagabondi all'esterno, biblioteche dentro. Non è una cosa che sia stata progettata fin dal principio. Ognuno aveva un libro che voleva ricordare e che ha ricordato. Quindi, per un periodo di circa vent'anni, ci siamo incontrati, durante le nostre peregrinazioni, connettendo così la nostra amplissima ed elastica rete e gettando le basi di un piano. La cosa più importante che abbiamo dovuto piantarci duramente in testa fu che noi non contavamo, non eravamo importanti, non dovevamo considerarci e non dovevamo essere dei maestri: non dovevamo sentirci superiori a nessuno al mondo. Non siamo che sopracoperte di volumi, privi d'ogni altra importanza che non sia quella d'impedire alla polvere di seppellire i volumi. Alcuni dei nostri vivono in piccole città, in paesi e villaggi: il Capitolo Primo, il Walden di Thoreau, abita a Green River, il Capitolo Secondo a Willow Farm, Maine; diamine, c'è un paesino nel Maryland, con soltanto ventisette abitanti, nessuna bomba colpirà mai quel villaggio, che rappresenta la raccolta completa dei Saggi di un uomo chiamato Bertrand Russell. E quando la guerra sarà finita, uno di questi giorni, o uno di questi anni, si potranno riscrivere i libri, e la gente sarà chiamata, le persone verranno ad una ad una a recitare quello che sanno e noi ristamperemo ogni cosa, fino a quando le tenebre di un nuovo Medio Evo non ci costringeranno a ricominciare tutto da capo. Ma questa è la cosa meravigliosa dell'uomo: che non si scoraggia mai, l'uomo, o non si disgusta mai fino al punto di rinunciare a rifar tutto da capo, perché sa, l'uomo, quanto tutto ciò sia importante e quanto valga la pena di essere fatto.»
Tratto da “Fahrenheit 451″, di Ray Bradbury.
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