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#ICONA MADRE DI DIO
cristinacapella · 1 month
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Santa Famiglia della Madre di Dio : Santi Anna-Gioachino - Maria Bambina
Icona Famiglia B.V.Maria,S.Anna, S.Gioachino20 X 30 cm, tavola tiglio ,oro 23 kt
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incamminoblog · 2 years
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P. Fabrizio Cristarella Orestano Commento Assunzione Beata Vergine Maria
P. Fabrizio Cristarella Orestano Commento Assunzione Beata Vergine Maria
Assunzione della Beata Vergine Maria (Messa del Giorno)  (15/08/2022) Vangelo: Lc 1,39-56   Il mistero di Maria ci appartiene, ci coinvolge, ci mostra l’esito della storia e ce lo mostra in una di noi; sì, Madre di Dio, sì Immacolata per grazia, ma una di noi. Maria non solo è parte della Chiesa, come il Concilio ci ha detto con chiarezza, ma è anche icona della Chiesa.             Riguardo a…
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Tratto da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO PRIMO - di Gianpiero Menniti
https://www.amazon.it/gp/product/B088QJTT91/ref=dbs_a_def_rwt_bibl_vppi_i2
L'ICONA ALLA ‘MANIERA MODERNA’
L'icona non è un dipinto che narra. E' simbolo del divino. Non osa cogliere il soprannaturale oltre la sua rappresentazione segnica. Eppure, s'impone come presenza sacra e suscita devozione nel credente. L'arte che supera la "maniera greca" compie un passo verso il dogma cristiano dell'incarnazione: Dio abita la realtà. Il divino appare e non è solo presenza: è storia. Ed è trasformazione della storia. Ma l'ultraterreno non può che essere apparizione perfetta, geometrica, strutturale, impeccabile, forma pura, luce esatta. Sentimento chiaro e dunque comprensibile. Come in Piero della Francesca. Ed è in questo solco che l'immagine sacra, anche dopo la rivoluzione pittorica duecentesca, continua a manifestare un profondo carattere iconico, suscitando il medesimo afflato di devozione. Come se l'icona "costantinopolitana" vivesse un tempo nuovo, nel quale l'immanenza del sacro abiti ogni sua mutata espressione estetica. Come icona che giunga nel mondo.
- "Icona di S. Maria in Trastevere" detta anche "Madre di Dio della Clemenza e della Pace" - VI o VII secolo d.C.
- Piero della Francesca (1416 - 1492): "Madonna della Misericordia", Polittico della Misericordia, 1445-1462,  Museo Civico di Sansepolcro
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sebruciasselacitta · 3 years
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Sono il Punk Rock. Icona della scorrettezza. Purezza dell’anticonformismo. Politicamente inadeguato. Cultura giovanile. San Francesco che si spoglia dai beni, Elisabetta Tudor che muore per il popolo. Giovanna D’Arco che va al rogo. Prometeo che ruba il fuoco agli dèi. Sono un bambino con la cresta, Un uomo con le calze a rete, Una donna che si lava dal perbenismo e si sporca di libertà. Sono l’estetica del rifiuto, Il rifiuto dell’appartenenza ad ogni ideologia. Sono Morgana che tua madre disapprova. Contro l’omologazione del “si è sempre fatto così”.
Sono Marilù.
Dio benedica chi se ne frega.
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daoggiallavvenire · 3 years
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Sono il Punk Rock.
Icona della scorrettezza.
Purezza dell'anticonformismo.
Politicamente inadeguato.
Cultura giovanile.
San Francesco che si spoglia dai beni,
Elisabetta Tudor che muore per il popolo.
Giovanna D'Arco che va al rogo.
Prometeo che ruba il fuoco agli dèi.
Sono un bambino con la cresta,
Un uomo con le calze a rete,
Una donna che si lava dal perbenismo e si sporca di libertà.
Sono l'estetica del rifiuto,
Il rifiuto dell'appartenenza ad ogni ideologia.
Sono Morgana che tua madre disapprova.
Contro l'omologazione del "si è sempre fatto così".
Sono Marilù.
Dio benedica chi se ne frega.
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Surbo e la sua “Madonna vestita d’Oro”
Surbo e la sua “Madonna vestita d’Oro”: un patrimonio di fede e tradizioni
Il Martedì dell’Ottava di Pasqua, Surbo festeggia la Madonna di Loreto, sua celeste Patrona
di Vincenza Musardo Talò
  La Puglia, da sempre terra di incontro di luminose civiltà e naturale avanporta dell’Oriente, fin dal sec. XV vanta una consolidata tradizione del culto della Madonna di Loreto e dell’insigne reliquia della Santa Casa. In aggiunta, per il suo essere fin dall’alto medioevo meta di pellegrinaggio verso i numerosi santuari regionali (quello micaelico in primis) e luogo di raduno dei crociati in partenza per la Terra Santa, questa regione ha veicolato in numerosi centri demici del suo esteso territorio il suggestivo narrato della traslazione lauretana e dato testimonianza degli eventi prodigiosi ad essa afferenti. E così, più insistentemente lungo la costa adriatica (divenuta una sorta di baluardo contro i turchi frontalieri, soprattutto a partire dai fatti di Otranto del 1480), dalla Terra di Capitanata all’estremo lembo della Terra d’Otranto, da subito essa ha documentato momenti altissimi di devozione. Numerosi sono i santuari, gli altari di parrocchie o le cappelle urbane e rurali che riferiscono della dedicatio alla Vergine di Loreto, la cui diffusione non appare condizionata da mirate scelte insediative, tanto la rete di simili luoghi di culto mostra una sorta di omogeneità sull’intero territorio regionale, sia pure con una insistenza lungo i litorali dell’Adriatico, da Manfredonia a Santa Maria di Leuca. Il fenomeno cultuale tra i secoli XV e XVII si lega anche a una fioritura dei rituali del pellegrinaggio da parte dei devoti pugliesi.
Di tanto è dato sapere dai Registri dei Doni, conservati presso l’Archivio storico del Santuario lauretano, in cui si attesta un nutrito elenco di doni votivi, offerti dai pellegrini di Puglia o inviati da noti membri delle famiglie feudatarie del tempo, non escluse le commende dei cavalieri di Malta o le Domus dei templari, sommamente devoti alla Madonna di Loreto.
Tralasciando, per ovvi motivi, un più esteso e puntuale tracciato storico delle vicende pugliesi legate a tale indirizzo devozionale, ecco che nel primo Seicento, nei pressi dell’attigua cinta muraria a borea di Lecce, si origina il culto della Vergine di Loreto, praticato da quanti vivevano nel minuscolo casale di Surbo (suburbum), per secoli casale de corpore della città di Lecce.
Un culto che poi si è radicato e alimentato nel tempo; già nel 1724, è attestato che fosse il clero di Surbo e non quello di Lecce a festeggiare, il Martedì dopo Pasqua, presso il vicino santuario di S. Maria di Arurìo, la Gran Madre di Dio venerata non più sotto l’antico titolo di S. Maria di Aurìo ma come S. Maria di Loreto.
  Invece, per quel che attiene il titolo di patrona, pare che la comunità di Surbo abbia preso a invocare il suo patrocinio a partire dal 1838. Non a caso la sua prima solenne celebrazione nel casale di Surbo, si tenne all’indomani della ricomposizione di una contesa, sorta nel 1837 tra il clero della parrocchia di S. Maria del Popolo di Surbo e quello della Chiesa di S. Maria della Porta di Lecce (per inciso, proprio quest’anno ricorre il 180.mo anniversario di quella storica, prima festa della Vergine lauretana a Surbo).
Tuttavia, per trovare l’incipit di tale devozione dei surbini, bisogna rifarsi alla tradizione locale, la quale riferisce di un prodigioso rinvenimento in un fondo vicino alla chiesa di Santa Maria (sec. XI), ubicata nel diruto casale medievale di Aurìo, nato dopo l’arrivo di una comunità di monaci basiliani e spopolatosi intorno al sec. XVI. Il toponimo Aurìo rimanda al termine greco layrion, laura (proprio dei tanti minuscoli cenobi bizantini del Salento greco) e compare per la prima volta in un diploma di epoca normanna, quando nel 1180, Tancredi d’Altavilla ne fa donazione al monastero benedettino dei Santi Niccolò e Cataldo di Lecce.
Stando alla tradizione, ai primi del ‘600, proprio in un fondo limitrofo alla chiesa di S. Maria di Aurìo, un contadino di Surbo rinvenne, in un tronco cavo d’ulivo, una piccola statua in legno scuro, che effigiava una Madonna in apparenza priva delle braccia, col divino Infante. Senza indugio, l’uomo lasciò la campagna e tornò in paese, portando la statua nella chiesa matrice di S. Maria del Popolo, dove accorsero i fedeli, toccati da quell’evento straordinario. Ma con grande sconcerto del popolo, il giorno seguente il prezioso simulacro era scomparso, per poi essere ritrovato nel medesimo luogo, da cui era stato asportato il giorno precedente.
Da subito, le fattezze di quel simulacro richiamarono nei fedeli surbini una certa somiglianza con la Vergine lauretana, giù venerata in tutto il Salento. Ma a Surbo, il culto della Madonna di Loreto nasce – a dire di alcuni studiosi – dalla somiglianza e dalla commistione fonetica tra layrion e Loreto, generando così la successiva assimilazione del culto della Madonna di Aurìo a favore di quello della Madonna lauretana, pur mantenendone la festa nella data antica, il Martedì dopo Pasqua. Tanto, in considerazione del fatto che nel casale basiliano di Aurìo, secondo il Sinassario bizantino, la festa della Madonna cadeva il Martedì dell’Ottava di Pasqua. E parimenti i devoti di Surbo vollero mantenere – e mantengono – in quella data la festa della Madonna di Loreto, che nel tempo si è denominata “Madonna vestita d’Oro”.
Pur tenendo in debito conto queste ipotesi, da parte mia, invece, depongo a favore di un dato più probante, afferente al già consolidato culto lauretano nella cristianissima Lecce del primo ‘600, sotto la cui amministrazione municipale cadeva pure il casale di Surbo. Tra i suoi trenta conventi, erano attivi due monasteri di donne claustrali, che andavano sotto il titolo di Santa Maria di Loreto: quello delle Carmelitane scalze, fondato sul finire del ‘500, e l’altro più tardo delle Cappuccine francescane. In aggiunta, l’influenza devozionale che arrivava da Lecce e l’opera di un qualche zelante predicatore venuto a Surbo, potrebbero aver concorso più verosimilmente a mutare l’antico indirizzo del culto mariano di Aurìo in quello della Vergine di Loreto, di cui vi è traccia materiale anche nei seicenteschi Registri dei Battezzati della Matrice, col dato certo dell’imposizione alle nuove nate del nome Auritana, Auretana, Lauretana e Lauria.
E sempre intorno alla metà del ‘600 o appena dopo è da datarsi una anonima tela, conservata presso la chiesa della Madonna di Loreto in Surbo, il cui tema iconografico tratta del miracolo della traslazione della Santa Casa. Il dipinto, visionato da P. Giuseppe Santarelli – come riferisce O. Scalinci – è da ritenersi posteriore al 1638, anno in cui il re di Francia Luigi XIII donò alla Vergine del Santuario di Loreto una preziosa corona, simile a quella effigiata nella tela di Surbo; mentre in precedenza, la Vergine esibiva una corona a forma di triregno, donata nel 1498 dai devoti di Recanati e che compare sulle teste della Vergine e del Bambino di Loreto fino al 1642.
Ma è dal 1838, che a Surbo partono i primi festeggiamenti della Madonna di Loreto, curati dalla erigenda Confraternita della Beata Maria Vergine Lauretana, che fin dal ‘700 si era embrionalmente costituita con un gruppo di devoti, un Corpo morale. Questa viene giuridicamente istituita nel 1858, con il Regio placet di Ferdinando II, re di Napoli e approvata con la bolla dell’ordinario di Lecce, mons. Nicola Caputo, in data 22 maggio del 1858. Primo priore fu Pietro P. Paladini. In aggiunta, nel 1860, sempre con decreto di Francesco II, viene ordinato al Comune di Surbo di concedere gratuitamente alla Congrega della SS. Vergine di Loreto, un suolo pubblico, destinato all’ampliamento della chiesa-oratorio, che portava il medesimo titolo. Questo periferico edificio di culto, già dedicato a S. Stefano, è attestato fin dal 1610 nei verbali di Santa Visita di mons. Scipione Spina, vescovo di Lecce. Più volte chiusa e poi riaperta al culto, nell’Ottocento perde l’antica intitolatio e prende il titolo mariano. Tanto è certificato nel 1882, quando l’ordinario diocesano, mons. Luigi Zola, visita la chiesa, che si presenta con due altari: quello centrale dedicata alla Madonna di Loreto e l’altro, in cornu Epistulae, dedicato a S. Stefano, primo titolare della chiesa. Al suo interno si custodiva l’antica statua della Madonna bruna e la tela del ‘600, raffigurante il viaggio – da Nazareth a Loreto – della Santa Casa. La Vergine e il Bambino, incoronati, mostrano fattezze celestiali; la Madre appare vestita di un abito rosso con decori dorati e preziosi ricami floreali. Dopo la reale approvazione giuridica del 1858, la locale Confraternita mariana prenderà in custodia detta chiesa, in cui fissa anche il suo oratorio.
In questo luogo sacro abita la statua della bella Madonna vestita d’Oro. E a tal proposito va detto che questa è una riproduzione della statua storica del ‘600, che ebbe in sorte quella di bruciare, quasi un comune destino con quella lauretana, la quale venne pure distrutta nel 1921 da un incendio. Si era negli anni dolorosi della prima guerra mondiale e per l’insistenza di tante famiglie, che avevano i loro cari al fronte, la statua venne tolta dalla teca dell’altare ed esposta alla devozione dei fedeli. La presenza abnorme di candele e lumi votivi fu la causa dell’incendio che distrusse la venerata icona. La riproduzione di un primo manufatto non simigliante a quello distrutto, portò a una seconda statua, bella come l’antica ma di colore chiaro, come oggi è dato osservare. Non una foto rimane a ricordare le fattezze della statua delle origini; pare che una devota avesse messo in salvo sola una manina del Bambinello, che poi custodì sotto campana, ma di cui oggi non vi è traccia.
Venendo all’oggi, caleidoscopica e ricca di rituali segnici è la festa della Madonna vestita d’Oro, che si tiene, ab antiquo il Martedì dell’Ottava di Pasqua, una data simbolica, ricca di riferimenti storici, di fede e di consolidate tradizioni.
I festeggiamenti si aprono il Lunedì dell’Angelo con la spettacolare fòcara serotina, un rito che mi ricorda i falò lauretani della notte del 10 dicembre, accesi a memoria della Venuta della Vergine a Loreto. Nel passato, erano i confratelli che andavano alla questua della legna e accendevano il falò sullo spazio antistante la chiesa, ancora fuori dal centro urbano. Poi, prima dell’alba del Martedì (alle ore tre), i confratelli e alcune pie donne o delle religiose (perché mai avrebbero potuto farlo le mani di uomini), compiono il devoto rito della vestizione della Vergine e del Bambino, che si mostrano integralmente coperti del corredo di monili, mentre la presenza di alcuni carabinieri vigila il prezioso cofanetto degli ori votivi, ogni anno più ricco, perché segno di una consolidata e continua donazione dei devoti.
Dopo il rito quasi privato della vestizione, all’Angelus mattutino, la chiesa della Madonna di Loreto si apre dinanzi a una folla di fedeli in attesa di entrare e rivedere, dopo un anno, la Madonna vestita d’Oro. Con l’arrivo del vescovo, salutata da spari di mortaretti, inni e ovazioni corali e la musica delle bande, ha inizio la processione. Alla folla, alle autorità cittadine e alla Congrega, si uniscono i bambini “vestiti”, le donne devote – scalze e con un cero – che pubblicamente esprimono alla Vergine il loro bisogno di una grazia o di una intercessione; e non mancano segni o gesti di commossa pietà popolare. In questo particolare momento della giornata (bello o brutto che sia il tempo prima e dopo la processione), da sempre, quasi un prodigio, i surbini hanno testimoniato la presenza del sole, che mostra la straordinaria bellezza della Gran Madre di Dio, adorna di una sorta di dalmatica luccicante, fatta di ori, perle e pietre preziose di vario colore. Portata poi nella Chiesa parrocchiale, prima e dopo la celebrazione eucaristica, la Vergine riceve il filiale omaggio del popolo tutto; quindi, la sera del Mercoledì, giorno riservato ai festeggiamenti civili, la statua viene riportata nella sua Chiesa, dove si ripete il rito inverso a quello della vestizione. I confratelli, deposti in luogo sicuro gli ori della loro Madonna, pensano già alla festa dell’anno dopo.
Un ultima riflessione ci viene dal considerare il caso raro, se non unico, della spettacolare dote di gioielli votivi posseduta dalla Madonna lauretana di Surbo. Per noi resta un esempio il Gesù Bambino dell’Aracoeli a Roma (miseramente trafugato) o l’esempio di altre madonne dotate, ma mai in maniera tale da ricoprirle integramente e tanto riccamente di preziosi come la Madonna surbina.
E’ da credere che tali donativi debbano riferirsi a simbolismi profondamente stratificati nell’immaginario collettivo. Oltre che tributi di ringraziamento, questi – e a me sembra essere il caso di Surbo – sono fondamentalmente chiara manifestazione di una forma di preghiera materializzata, quasi il desiderio di ognuno e di tutti di accorciare le distanze col sacro, calandosi in un rapporto ravvicinato, di devozione diretta con la divinità stessa, tanto è forte il senso di intima appartenenza, a cui pure non è estraneo, ma non preminente, il rito dell’ex voto. Dunque, per il popolo di Surbo, simile corredo di preziosi donativi sarebbe il segno di un (conscio o inconscio) desiderio individuale e corale di stretta e materiale vicinanza con la sua Madonna.
Un atteggiamento collettivo che trova la sua legittima e più alta espressione nella continuità del suo prezioso e delicato omaggio alla Patrona, che si rende visibile nella plurisecolare devozione e soprattutto nella festa più attesa e più bella dell’anno. Ed è questo il momento in cui la devota Surbo condivide, rafforza e rivive i miti antichi delle sue radici, della sua storia e della sua granitica identità comunitaria civile e religiosa insieme.
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Il Cardinal Burke: “Nostra Signora di Guadalupe ci indirizza al mistero dell’Incarnazione”
“Nostra Signora di Guadalupe ci sta costantemente indirizzando verso il mistero dell’Incarnazione che ci dà una speranza incessante e una buona direzione per le nostre vite. Possa intercedere per te in questo suo giorno di festa. Nostra Signora di Guadalupe, stella della nuova evangelizzazione, prega per noi!”. Così ha scritto oggi Sua Eminenza Raymond Leo Cardinal Burke, in occasione della Memoria Facoltativa liturgica dedicata Beata Maria Vergine di Guadalupe.
Con gli oltre venti milioni di pellegrini che lo visitano ogni anno, il santuario di Nostra Signora di Guadalupe, in Messico, ha scritto Maria Di Lorenzo, è il più frequentato e amato di tutta l’America.
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“L’apparizione, nel XVI secolo, della ‘Virgen Morena’ all’indio Juan Diego è un evento che ha lasciato un solco profondo nella religiosità e nella cultura messicana. La basilica ove attualmente si conserva l’immagine miracolosa è stata inaugurata nel 1976. Tre anni dopo è stata visitata dal papa Giovanni Paolo II, che dal balcone della facciata su cui sono scritte in caratteri d’oro le parole della Madonna a Juan Diego: “No estoy yo aqui que soy tu Madre?”, ha salutato le molte migliaia di messicani confluiti al Tepeyac; nello stesso luogo, nel 1990, ha proclamato beato il veggente Juan Diego, che è stato infine dichiarato santo nel 2002”.
Ma cosa è accaduto in quel lontano sedicesimo secolo in Messico?
“La mattina del 9 dicembre 1531, mentre sta attraversando la collina del Tepeyac l’indio Juan Diego è attratto da un canto armonioso di uccelli e dalla visione dolcissima di una Donna che lo chiama per nome con tenerezza. La Signora gli dice di essere “la Perfetta Sempre Vergine Maria, la Madre del verissimo ed unico Dio” e gli ordina di recarsi dal vescovo a riferirgli che desidera le si eriga un tempio ai piedi del colle. Juan Diego corre subito dal vescovo, ma non viene creduto. Tornando a casa la sera, incontra nuovamente sul Tepeyac la Vergine Maria, a cui riferisce il suo insuccesso e chiede di essere esonerato dal compito affidatogli, dichiarandosene indegno. La Vergine gli ordina di tornare il giorno seguente dal vescovo, che, dopo avergli rivolto molte domande sul luogo e sulle circostanze dell’apparizione, gli chiede un segno. La Vergine promette di darglielo l’indomani. Ma il giorno seguente Juan Diego non può tornare: un suo zio, Juan Bernardino, è gravemente ammalato e lui viene inviato di buon mattino a Tlatelolco a cercare un sacerdote che confessi il moribondo; giunto in vista del Tepeyac decide perciò di cambiare strada per evitare l’incontro con la Signora. Ma la Signora è la’, davanti a lui, e gli domanda il perché di tanta fretta. Juan Diego si prostra ai suoi piedi e le chiede perdono per non poter compiere l’incarico affidatogli presso il vescovo, a causa della malattia mortale dello zio. La Signora lo rassicura, suo zio è già guarito, e lo invita a salire sulla sommità del colle per cogliervi i fiori. Juan Diego sale e con grande meraviglia trova sulla cima del colle dei bellissimi “fiori di Castiglia”: è il 12 dicembre, il solstizio d’inverno secondo il calendario giuliano allora vigente, e né la stagione nè il luogo, una desolata pietraia, sono adatti alla crescita di fiori del genere. Juan Diego ne raccoglie un mazzo che porta alla Vergine, la quale però gli ordina di presentarli al vescovo come prova della verità delle apparizioni. Juan Diego ubbidisce e giunto al cospetto del presule, apre il suo mantello e all’istante sulla tilma si imprime e rende manifesta alla vista di tutti l’immagine della S. Vergine. Di fronte a tale prodigio, il vescovo cade in ginocchio, e con lui tutti i presenti. La mattina dopo Juan Diego accompagna il presule al Tepeyac per indicargli il luogo in cui la Madonna ha chiesto le sia innalzato un tempio. Nel frattempo l’immagine, collocata nella cattedrale, diventa presto oggetto di una devozione popolare che si è conservata ininterrotta fino ai nostri giorni. La Dolce Signora che si manifestò sul Tepeyac non vi apparve come una straniera. Ella infatti si presenta come una meticcia o morenita, indossa una tunica con dei fiocchi neri all’altezza del ventre, che nella cultura india denotavano le donne incinte. E’ una Madonna dal volto nobile, di colore bruno, mani giunte, vestito roseo, bordato di fiori. Un manto azzurro mare, trapuntato di stelle dorate, copre il suo capo e le scende fino ai piedi, che poggiano sulla luna. Alle sue spalle il sole risplende sul fondo con i suoi cento raggi. L’attenzione si concentra tutta sulla straordinaria e bellissima icona guadalupana, rimasta inspiegabilmente intatta nonostante il trascorrere dei secoli: questa immagine, che non e’ una pittura, nè un disegno, nè è fatta da mani umane, suscita la devozione dei fedeli di ogni parte del mondo e pone non pochi interrogativi alla scienza, un po’ come succede ormai da anni col mistero della Sacra Sindone.
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La scoperta più sconvolgente al riguardo è quella fatta, con l’ausilio di sofisticate apparecchiature elettroniche, da una commissione di scienziati, che ha evidenziato la presenza di un gruppo di 13 persone riflesse nelle pupille della S. Vergine: sarebbero lo stesso Juan Diego, con il vescovo e altri ignoti personaggi, presenti quel giorno al prodigioso evento in casa del presule. Un vero rompicapo per gli studiosi, un fenomeno scientificamente inspiegabile, che rivela l’origine miracolosa dell’immagine e comunica al mondo intero un grande messaggio di speranza”.
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cristinacapella · 1 year
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incamminoblog · 3 years
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P. Fabrizio Cristarella Orestano
P. Fabrizio Cristarella Orestano
ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA Ap 11,19a 12,1-6a.10ab; Sal 44; 1Cor 15,20-26a; Lc 1,39-56  Il mistero di Maria ci appartiene, ci coinvolge, ci mostra l’esito della storia e ce lo mostra in una di noi; sì, Madre di Dio, sì immacolata per grazia, ma una di noi. Maria non solo è parte della Chiesa, come il Concilio ci ha detto con chiarezza, ma è anche icona della Chiesa.            …
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SENSI DELL'ARTE - di Gianpiero Menniti
L'ICONA ALLA ‘MANIERA MODERNA’
L'icona non è un dipinto che narra. E' simbolo del divino. Non osa cogliere il soprannaturale oltre la sua rappresentazione segnica. Eppure, s'impone come presenza sacra e suscita devozione nel credente. L'arte che supera la "maniera greca" compie un passo verso il dogma cristiano dell'incarnazione: Dio abita la realtà. Il divino appare e non è solo presenza: è storia. Ed è trasformazione della storia. Ma l'ultraterreno non può che essere apparizione perfetta, geometrica, strutturale, impeccabile, forma pura, luce esatta. Sentimento chiaro e dunque comprensibile. Come in Piero della Francesca. Ed è in questo solco che l'immagine sacra, anche dopo la rivoluzione pittorica duecentesca, continua a manifestare un profondo carattere iconico, suscitando il medesimo afflato di devozione. Come se l'icona "costantinopolitana" vivesse un tempo nuovo, nel quale l'immanenza del sacro abiti ogni sua mutata espressione estetica. Come icona che giunga nel mondo.
- "Icona di S. Maria in Trastevere" detta anche "Madre di Dio della Clemenza e della Pace" - VI o VII secolo d.C.
- Piero della Francesca (1416 - 1492): "Madonna della Misericordia", Polittico della Misericordia, 1445-1462,  Museo Civico di Sansepolcro
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Francavilla Fontana, città mariana per vocazione. Gli Imperiali e la chiesa di Santa Maria delle Grazie
1. Chiesa di Santa Maria delle Grazie (XVII secolo) (Foto di Alessandro Rodia)
  di Mirko Belfiore
Francavilla Fontana, città mariana per vocazione, contava ben nove luoghi di culto dedicati alla Vergine: chiese, complessi conventuali, santuari o piccole cappelle rurali, sparse fra il centro abitato e l’agro circostante. La constatazione di così numerosi siti religiosi dedicati a questa forma di devozione non deve risultare eccessivo, se si vanno a rintracciare tutte le chiavi di lettura di un contesto storico e antropologico così eterogeneo.
Il punto di partenza è sicuramente rappresentato dal mito fondativo, radicatosi fin dai primi anni del XIV secolo. Esso si basa su una tradizione che affonda le sue origini nel “miracoloso” rinvenimento di un’icona bizantina raffigurante la Vergine Odighítria (colei che conduce) e che sempre secondo la tradizione venne ritrovata in una chiesa diruta, durante una battuta di caccia a cui prese parte Filippo I d’Angiò principe di Taranto (14 settembre 1310).
Il culto di questa specifica iconografia cristiana ebbe molta fortuna in Puglia fin dai tempi della dominazione bizantina e in particolar modo fra la Valle d’Itria e il Salento. Questa affermazione è suffragata dalle molte analogie che la leggenda francavillese possiede con altri miti fondativi dell’area (es. Madonna della Scala di Massafra e la Vergine di Cerrate) ma deve essere comunque letta insieme a quella strategia di ripopolamento con fini giurisdizionali, di difesa e fiscali, voluta dalla dinastia angioina e volta a circoscrivere in aree più logisticamente accessibili, tutte quelle comunità “disperse” nei casali disseminati lungo l’Ager Uritanus.
Un disegno feudale ben orchestrato che venne realizzato tramite l’azione congiunta di due manovre politiche: da una parte, creando una narrazione leggendaria “in serie” che potesse fare da richiamo e spingere le popolazioni interessate a spostarsi verso il nuovo centro, dall’altra garantendo alle stesse una sequela di esenzioni in materia fiscale con l’aggiunta di concessioni e privilegi, da qui il toponimo “Franca-Villa”.
La sintesi architettonica di tutto questo processo è sicuramente da ricollegare nelle linee e nei volumi della Collegiata del Santissimo Rosario (modificata in quelle che erano le forme tardomedievali con gli stilemi baroccheggianti allora in voga, perché ricostruita dopo il terremoto del 1743), dove ancora oggi si conserva la succitata icona bizantina che, seppur controversa dal punto di vista storico-artistico, rimane sicuramente l’emblema principe della profonda devozione mariana del popolo francavillese e di quel lungo processo insediativo poc’anzi accennato.
Da non dimenticare l’apporto e il ruolo che ebbero gli ordini mendicanti nella costruzione di alcune strutture ancora oggi riscontrabili nel tessuto urbano, come i Frati francescani e i Padri carmelitani. Essi ubicarono le loro rispettive “case” fuori le mura cinquecentesche e fondarono con l’apporto feudale e il sostegno della popolazione due importanti complessi conventuali: Santa Maria del Carmine e Maria Santissima della Croce.
A tutto ciò, infine, dobbiamo aggiungere come fosse pratica diffusa invocare l’intercessione della Madre di Dio contro ogni tipo di calamità. Anche in questo caso non mancano gli esempi nelle comunità circostanti, una fra tutte Taranto, dove la Vergine venne eletta a patrona della città dopo i terremoti del 1710 e del 1743.
A Francavilla, la comunità innalzò piccoli siti devozionali come manifestazione religiosa e segno di fede, realizzati o sul luogo dell’accadimento stesso o in aree extramoenia che poi finirono per essere inglobate nel centro abitato in espansione: la chiesa di Santa Maria dei Grani, posta sulla strada per Villa Castelli, la chiesetta della Madonna degli Ulivi, sita nell’antico quartiere di Casalvetere e la piccola cappella della Madonna della Neve, incastonata nel centro storico. A conclusione di questo breve excursus trovo interessante menzionare un edificio che, oltre a sottolineare il rapporto fra la famiglia feudale degli Imperiali e il culto della Vergine, rappresenta un unicum architettonico poco approfondito fra quelli presenti: la chiesa di Santa Maria delle Grazie.
2. Madonna della Fontana (Icona bizantina, XIV secolo, affresco, Francavilla Fontana, chiesa Matrice).
  Il suo nome è legato a uno dei tanti eventi “miracolosi” che costellano la storia dell’abitato francavillese e che trova come protagonista un membro di quella dinastia feudale di origine genovese che per più di due secoli governò la città e l’area circostante: Aurelia Imperiali.
Nacque nel 1646 dal matrimonio fra Brigida Grimaldi e Michele II, primo principe di Francavilla e quarto marchese di Oria, e venne data in sposa a solo 16 anni (1662) all’ottavo duca di Martina Franca, Petraccone V Caracciolo, esponente di una delle più importanti dinastie nobiliari del Meridione.
Quest’unione matrimoniale presenta i classici connotati di un vero e proprio disegno dinastico, volto a stringere legami non solo di sangue ma anche di borsa con le famiglie più prestigiose del Vicereame napoletano. Parte di quella cospicua componente genovese radicatasi nel Mezzogiorno d’Italia, il casato degli Imperiali seppe ritagliarsi un ruolo di forza in un dei mercati fra i più prolifici del Sistema Imperiale spagnolo, anche legando i propri interessi a dinastie potenti e influenti come i Caracciolo, che potevano favorire un più rapido inserimento nel substrato sociale regnicolo.
Gli stessi Caracciolo avevano dignità di nobiltà fra i Sedili di Napoli (Seggio di Capuana), organo amministrativo a cui anche la famiglia Imperiali assurse autonomamente il 4 gennaio del 1743. Il raggiungimento di questo traguardo sociale decretò il compimento di un altro disegno di integrazione che li vide protagonisti nel Sud Italia fin dalla seconda metà del XVI secolo, evento quest’ultimo, suggellato dal trasferimento dei principi Michele IV ed Eleonora Borghese nella capitale partenopea. Al contempo non dimentichiamo che queste nozze portarono una boccata di ossigeno agli stessi Duchi di Martina Franca, i quali ricevettero in dote una cospicua somma (60.000 ducati), reimpiegata in buona parte per coprire i numerosi debiti contratti con l’acquisto del feudo di Mottola.
A differenza delle altre leggende cittadine, che in maniera diffusa vanno a comporre la genesi di alcuni degli eventi e degli edifici più rilevanti di Francavilla, la narrazione che vede protagonista la principessina Aurelia rimane una delle vulgate fra le più enigmatiche.
Poco dopo aver lasciato la città, la carrozza che conduceva lei e il suo seguito venne ostacolata lungo il suo percorso da un terreno paludoso particolarmente insidioso; Ed è proprio in questo frangente che la leggenda si fonde con il misticismo, perché solo grazie all’intercessione della Vergine Maria, il gruppo di viaggiatori poté scampare da morte certa visto il gravoso pericolo accorso. Che verità e mito vadano a confondersi con la visione fortemente cristiana della quotidianità dell’epoca, questo non deve sorprenderci, visto che molti sono quegli elementi che possono far presupporre come questa piccola “epopea” possa essere stata creata ad hoc come possibile tentativo di “santificazione” di un’area ben precisa. Il sito dell’accadimento miracoloso si ricollega indubbiamente al luogo dove oggi sorge l’edificio, posto lungo una delle vie di comunicazione che portano all’insediamento di Ceglie Messapica (Viale delle Grazie) e a meno di un chilometro da una delle porte di accesso delle mura settecentesche (Porta Cappuccini o Porta Nuova), il tutto inserito lungo la direttrice che conduce a Martina Franca.
Per quanto riguarda il contesto temporale, grazie a una serie di disegni conservati presso l’Archivio di Stato di Napoli e di probabile mano dello scultore francavillese Carlo Francesco Centonze, possiamo inserire il tutto in un lasso di tempo compreso fra la prima metà e la seconda metà del XVII secolo, nella fattispecie tra il 1649 e il 1662. Ciò comunque non dissipa i dubbi sulle suddette tempistiche, visto che tra la possibile fase costruttiva e la narrazione stessa i tempi non coincidono, dal momento che alla prima data rilevata (1649) Aurelia non aveva che solo 3 anni.
Bisogna aggiungere poi che dall’analisi dei suddetti prospetti, i dubbi che essi non siano dei veri e propri progetti ma dei rilievi di qualcosa di già esistente, aumentano inevitabilmente gli interrogativi in materia. Ragionando in maniera del tutto ipotetica, possiamo provare a dire che o il mito si sia sviluppato successivamente all’edificazione della struttura o che lo stesso nasca e si perda fra i meandri della tradizione cittadina come parte di quel gruppo di racconti difficilmente verificabili.
Se invece vogliamo rintracciare elementi a sostegno della veridicità della narrazione possiamo constatare alcuni dati fattuali. In primis, le croniche difficoltà che i viaggi dell’epoca erano soliti avere, il fatto che la stessa Aurelia si recò frequentemente a Martina Franca o viceversa a Francavilla in visita ai suoi familiari e infine, che l’area in cui l’edificio si posiziona presenta tutte le caratteristiche morfologiche dei terreni argillosi, condizione quest’ultima che viene avvalorata non solo dall’idrografia dell’agro francavillese, particolarmente ricca di falde acquifere, ma anche dalla presenza del Canale Reale, posto a pochi km dal luogo preso in esame e che all’epoca contava su di una portata sicuramente più consistente di quella attuale.
Tutto questo discorso storico-dinastico, seppure molto interessante, non può distogliere dal forte fascino che questo piccolo gioiello architettonico alimenta, se valutiamo anche il contesto feudale e artistico in cui esso si generò. A sostegno della commissione artistica voluta da Casa Imperiali, possiamo evidenziare di come il Centonze, scultore e progettista molto attivo in Terra d’Otranto, lo si possa ricollegare anche alle famose vedute a “volo d’uccello” realizzate nel 1643, sempre su commissione di Michele II, e che ritraggono le Terre di Francavilla, Oria e Casalnuovo, documentazione quest’ultima che conferma ulteriormente l’attività dell’artista presso la corte feudale.
Ciò che stupisce più di tutti è sicuramente la struttura, un’inedita pianta ottagonale sviluppata su due livelli, su cui poggia l’elegante cupola, chiusa in alto da un sobrio lanternino cieco. L’ampio tamburo si posiziona su di un basamento leggermente aggettante, da cui si dipana un piccolo ballatoio perimetrato da una ringhiera in metallo. Due eleganti scalinate poste sul lato sud mettono in collegamento l’edificio con il piano strada. A questo livello si aprono le quattro aperture con arcate a tutto sesto che in maniera simmetrica si raccordano con la serie di portali posti al primo piano, racchiusi fra eleganti cornici quadrangolari con motivi alla greca. A rendere il complesso meno compatto contribuiscono sia le quattro nicchie contenenti statue di santi che le quattro monofore strombate, decorazioni che con la loro semplicità regalano armoniosità al prospetto.
Nella ricostruzione della genesi costruttiva del plesso bisogna tenere a mente di come il progettista o i progettisti, tennero sicuramente in considerazione l’opera di Sebastiano Serlio: “I Sette libri dell’architettura” (XV secolo). Questo trattato di architettura ebbe molta risonanza all’epoca e grazia alla sua ampia tiratura a stampa, ebbe la capacità di diffondere con uno stile pratico e facilmente assimilabile oltre che gli schemi della tradizione classica anche gli elementi di novità portati dalla moderna architettura quattro-cinquecentesca, risultando molto utile nel reperire tipi di strutture non molto diffuse in determinate regioni. Seppur interessante per la comprensione dei motivi che portarono alla costruzione di questo edificio, bisogna sicuramente ridimensionare l’ipotesi dello studioso Giorgio Martucci, il quale ipotizza l’utilizzo di questa struttura come mausoleo dove raccogliere le spoglie dei defunti di Casa Imperiali.
Ciò non può trovare riscontro, visto che le fonti d’archivio attestano con certezza di come l’antica chiesa dei Padri francescani conventuali (poi intitolata a Sant’Alfonso Maria de’ Liguori) ospitasse la cappella di Sant’Antonio, oggi non più identificabile ma che durante il governo feudale, accolse alcune importanti figure come: Michele II (morto nel 1664), Andrea I (1678), Michele III (1738) con sua moglie Irene Delfina Simiana, e Michele IV (1782).
A ciò dobbiamo aggiungere di come altri luoghi situati lontani dai feudi atavici, divennero l’ultima dimora di altri componenti: Andrea II (1734, Santuario dei Padri agostiniani a Pianezza, Torino), Davide I (1575, Abbazia di San Benigno, Genova, oggi scomparsa) e i Cardinali Lorenzo (1673), Giuseppe Renato (1737) (Chiesa di Sant’Agostino, Roma) e Cosimo (1764) (chiesa di Santa Cecilia in Trastevere, Roma).
3. Palazzo ducale di Martina Franca (XVII secolo)
3. Palazzo ducale di Martina Franca (XVII secolo)
  Lo studio qui intrapreso vuole essere punto di partenza per un’analisi più approfondita del tempio religioso in questione, con lo scopo di fare un po’ di luce su alcuni dei quesiti ancora esistenti, uno su tutti la scelta costruttiva che ha portato all’utilizzo della pianta ottagonale. Questo tipo di configurazione architettonica si inserisce nel nugolo di quegli edifici a pianta centrale tanto diffusi in Italia, ma che in un’area come quella salentina presenta una certa unicità, ancor di più se osserviamo un territorio come la Terra d’Otranto.
A noi francavillesi, che fra i tanti capolavori del nostro cospicuo patrimonio artistico abbiamo ereditato anche quest’insolito quanto straordinario edificio, non rimane che perseguire l’importante compito di salvaguardia e valorizzazione che ci aspetta.
L’obiettivo che ci dobbiamo prefiggere non deve rimanere esulato solo al riappropriarsi di un bene culturale così importante, ma deve diventare uno degli elementi imprescindibili dell’offerta turistica locale, la quale potrà avvalersi della fruizione di questa struttura per poter meglio spiegare come Francavilla divenne vero centro pulsante di tutta la Terra d’Otranto, punto di incontro fra le province del Nord e del Sud della Puglia e sede di una delle corti fra le più vivaci di tutto il Regno di Napoli.
4. Prospetto_ pianta datata 1649_ particolare delle scalinate (Carlo Francesco Centonze, XVII secolo, Napoli, Archivio di Stato).
  APPENDICE DOCUMENTARIA
Archivio di Stato di Napoli (=ASN), Allodiali, I serie, Inventario delle carte del già “Archivio de Stati Allodiali esistenti in detto archivio”, f. 42, cc. 16,18,26.
BIBLIOGRAFIA
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V. Basile, Gli Imperiali in terra d’Otranto. Architettura e trasformazione urbane a Manduria, Francavilla Fontana e Oria tra XVI e XVIII secolo, Congedo editore, Galatina 2008.
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S. Serlio (Autore), F. P. Fiore (a cura di), L’architettura: i libri 1º e 7º. Extraordinario nelle prime edizioni, Edizioni il Polifilo, Milano 2001.
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M. Manieri Elia, Architettura barocca, in “La puglia tra barocco e rococò”, Electa, Milano 1982.
A. Foscarini, Armerista e notiziario delle Famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra D’Otranto (oggi province di Lecce, Brindisi e Taranto) estinte e viventi, edizioni A. Forni, Bologna 1971.
L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, editori Vincenzo Manfredi e Giovanni de Bonis, Napoli 1797-1805, ristampa anastatica Bologna 1969-1971, libro IV.
D. Gallo, Origine e vicende della città di Massafra, Off.na Cromotipografica Aldina, Napoli 1914.
H. Delhaye, S. I. Bollandis, Le leggende agiografiche, Firenze 1910.
P. Palumbo, Storia di Francavilla Fontana, Lecce 1869, ristampa anastatica, ed. Arnaldo Forni, Bari 1901.
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tiseguiro · 4 years
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Il filo rosso
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Maria Madre della Chiesa
Per disposizione di papa Francesco la memoria della Beata Vergine Maria Madre della Chiesa viene, a parture da l’anno scorso, celebrata all’indomani della solennità della Pentecoste. Questo titolo fu voluto da papa Paolo VI alla fine del Concilio Vaticano II1. Nel tempo del ministero petrino come Vescovo di Roma di papa Francesco, alcune decisioni riguardo alla Liturgia sono assai significative. La memoria di san Giuseppe, sposo di Maria in tutte le preghiere eucaristiche; l’elevazione del grado della festa di santa Maria Maddalena con il titolo di <apostola degli apostoli>; il superamento della restrizione del rito della lavanda dei piedi che escludeva le donne; infine, questa memoria mariana all’indomani della Pentecoste. Se volessimo rintracciare il filo rosso di queste scelte liturgiche che esprimono e, al contempo, richiedono un incremento di intelligenza spirituale, potremmo dire che si tratta del filo scarlatto della tenerezza come motore della vita e quindi anche di una sana spiritualità. Proprio la Madre di Dio che, spesso, è stata e purtroppo continua ad essere icona di una spiritualità disincarnata e angelicata, diventa il modello di una discepolanza del Vangelo fatta di carne, di sangue, di vita… di amore concreto e ardente.
La prima lettura di questa memoria ci porta lontano e ci ricorda che la nostra umanità non è solo il frutto della creazione, ma anche il segno di una partecipazione della nostra umanità all’opera continua della creazione quale tappa ineludibile di ogni cammino di santità. All’aurora della storia, Eva viene acclamata: <madre di tutti i viventi> (Gen 3, 20). Prima di richiedere per se stesso il titolo di padre o per il Creatore, Adamo riconosce meravigliosamente questo titolo alla donna con cui è chiamato, persino dopo aver sperimentato il dramma del peccato, a trasmettere il dono della vita. Dall’alto della croce, il nuovo Adamo, Cristo Signore come testamento di tenerezza non fa altro che donare al discepolo amato una presenza che assicuri la continuità della relazione e dell’amore: <Ecco tua madre>. La reazione del discepolo amato diventa il modello della vocazione della Chiesa: <l’accolse con sé> (Gv 19, 27). Come ci ricordano gli Atti degli Apostolo il ruolo di Maria come ogni madre è quello di tenere <insieme> gli apostoli con gli altri discepoli e discepole (At 1, 14) per creare uno spazio di vita aperto a tutti e in cui tutti sono benvenuti e benvoluti.
In un racconto così si commenta l’icona dell’Annunciazione del Signore in cui è chiaramente visibile il filo tessuto dalle mani operose di Maria: <”Secondo voi, perché Maria ha un gomitolo in mano?”. Dopo un po’ di silenzio, aveva risposto il monaco: “Il gomitolo fa vedere che questa donna, questa santa donna, la Vergine, sta tessendo la carne del Verbo di Dio, a quel Verbo che fu sin dal principio e per mezzo del quale tutto è stato creato”>2. Venerando e invocando Maria come Madre della Chiesa vogliamo continuare come Lei e con Lei a filare quel filo rosso con cui vogliamo tessere ogni giorno la tunica di un’umanità sempre più tenera e pacificata per la gioia di tutti gli uomini e le donne che attendono la loro consolazione anche attraverso di noi.
Signore Gesù, dall’alto della croce ci hai donato Maria come madre perché non dimentichiamo mai che tu sei la nostra unica vera Madre che ci rigenera ogni giorno alla vita vera. Donaci di essere figli e di imparare ogni giorno ad essere fratelli.
http://www.lavisitation.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2301:il-filo-rosso-b&catid=10:oggi-e-la-parola&Itemid=113&lang=it
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ildiariodibeppe · 4 years
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Dare un nome
San Giuseppe
(2Sam 7 passim // Sal 88 // Rm 4 passim // Mt 1 oppure Lc 2)
Nell’annunciazione a Giuseppe secondo Matteo, l’angelo senza nome aiuta quest’uomo a passare dalla paura di dover rinunciare al suo sogno d’amore con Maria, alla gioia di poter sognare ancora più in grande. A Giuseppe viene data l’opportunità di iscrivere il suo amore in modo ancora più radicale nel disegno globale dell’amore tra Dio e l’umanità, tanto da diventare una storia assolutamente unica e non solo rara: <ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati> (Mt 1, 21). Dare il nome, nella tradizione biblica, ha un senso profondissimo e altissimo che suppone un’intimità di desiderio e di destino condiviso. In Giuseppe contempliamo il mistero della redenzione di ogni sogno della nostra umanità chiamato a trasfigurarsi in segno di un amore più grande che ci precede e ci accompagna. Per Giuseppe, l’accoglienza di Gesù come suo figlio e di Maria, non più solo come sua sposa amata e desiderata, ma come il segno di un compimento ben più grande della bellezza del proprio piccolo grande amore, è stata una vera trasfigurazione. Così il desiderio di ogni uomo di farsi un nome fino alla totale confusione di Babele si trasforma nella semplice accettazione di “dare un nome” attraverso la propria carne, il proprio sangue eppure ben più in là della propria carne e del proprio sangue perché <Eredi dunque si diventa in virtù della fede, perché sia secondo la grazia, e in tal modo la promessa sia sicura> (Rm 4, 16).
Giuseppe incarna la possibilità che una creatura possa diventare icona dello stesso Creatore accettando e impegnandosi radicalmente in una cura che esige la castità di chi accetta di superare ogni forma di possesso sull’altro: <Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio> (2Sam 7, 14). Non c’è proprio spazio per una condiscendenza malaticcia che, come dice Claudel, parlando di Giuseppe <fa sorridere gli uomini superiori>. Il parallelo con Abramo va pesato con la memoria di ciò che avvenne sul monte Moria e di ciò che avvenne nel cuore di Giuseppe, quando dovette rivedere il suo sogno senza rinunciarvi, non senza rinunciare. In Giuseppe, padre del Signore, possiamo contemplare non un’umanità dimezzata dalla rinuncia al coronamento di un sogno d’amore secondo il proprio desiderio e le proprie prospettiva, ma un’umanità portata a compimento attraverso un’accoglienza generosa del bisogno e della necessità dell’altro – la madre e il bambino – che rende quest’uomo persona fino in fondo.
Leggendo i Vangeli certamente scopriamo sempre di più e sempre meglio il volto e i sentimenti del Signore Gesù, ma non possiamo e non dobbiamo dimenticare che l’umanità di Cristo fu forgiata alla scuola di questo padre che seppe portare, fino in fondo, il peso del proprio ruolo senza mai imporsi eppure accompagnando senza mai tirarsi indietro. La tradizione non ci tramanda neppure una parola di Giuseppe, forse perché molte delle sue parole – almeno le più importanti – sono quelle che amò ripetere il Signore confermandole sempre con quei gesti appresi nell’intimità virile e tenera della casa e della bottega di Nazaret.
Oggi contempliamo, Signore, la silenziosa grandezza di Giuseppe, tuo padre nel cuore, capace di non cercare di “farsi un nome”, ma generoso nell'accogliere te, misterioso Dono a cui donare un nome. A Giuseppe, che senza sprecare parole è vissuto sempre della viva Parola che tu sei, chiediamo oggi aiuto per essere essenziali, generosi, fedeli alla Parola e amanti del Dono a cui offrire tutta la nostra vita. Kyrie eleison!
http://www.lavisitation.it/index.php?option=com_users&view=registration&layout=complete&Itemid=142&lang=it
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Juan Diego, il santo che vide il tramonto del Quinto Sole
Gli ultimi anni dell’Impero Azteco, sacerdoti pagani dediti ai sacrifici umani, l’angoscia di Aquila Parlante. Cioè colui che passerà alla storia come san Juan Diego, il veggente delle apparizioni della Madonna di Guadalupe, convertitosi dopo l’arrivo di Cortés e compagni. Un romanzo storico di Matteo Soldi, Il tramonto del Quinto Sole, alza il sipario su quegli eventi lontani. Liberandoli dalle leggende nere.
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di Marco Iannaccone (31-12-2019)
Ci sono romanzi che hanno il potere di gettarci in un’altra realtà, in mondi perduti e lontanissimi, travolti dal tempo e dalla storia immergendoci nelle esperienze di persone che hanno vissuto mondi radicalmente alternativi al nostro. A questa categoria appartiene l’appassionante Il tramonto del Quinto Sole di Matteo Soldi (Ares, 2019), un autore che ha vinto una scommessa difficile: immaginare gli ultimi anni di vita dell’Impero Azteco vivendoli con gli occhi di un suo rappresentante, Aquila Parlante (Cuauhtlatoatzin), che il mondo ha conosciuto come Juan Diego, proclamato santo nel 2002 da Giovanni Paolo II.
È, infatti, questa, la storia dell’indio che vide la Vergine nelle apparizioni poi dette della «Madonna di Guadalupe», sulla collina del Tepeyac, tra il 9 e 12 dicembre del 1531. Grazie alla penna di Soldi ci troviamo a vivere i colori e la quotidianità di un popolo che - sono gli storici a dircelo - viveva in un universo precario, nel terrore di una realtà che doveva essere continuamente nutrita dall’effusione di sangue sacrificale. Migliaia di persone giovani e in buona salute morivano sugli altari dei templi aztechi e poi, in buona parte, venivano ritualmente mangiati. Una classe di sacerdoti temutissimi era fanaticamente devota a quella pratica. E quando la carestia, la siccità e le malattie divorano le messi, i sacerdoti reagiscono aumentando i sacrifici per placare gli dèi.
Aquila Parlante è angosciato. Vive in un mondo corrusco e grandioso, che Soldi ci descrive con colori forti e scene potenti. Seguiamo il protagonista nei suoi spostamenti, dalla campagna a Tenochtitlán, dove lavora per un ricco mercante, il Caimano. Sentiamo l’angoscia di Aquila Parlante quando si avvicina al Tempio Grande, la sua immensa scalinata emana un terribile tanfo di morte per via dei continui sacrifici. Quando assiste a un rituale cruentissimo per la prima volta sente il bisogno di chiudere gli occhi: è stanco, tormentato, nell’aria c’è uno sfinimento che prelude a rivolgimenti grandiosi.
Così, quando arriva Cortés con i suoi compagni - gente strana e scintillante, non dèi ma uomini, la cui venuta pare essere stata anticipata - si scatena una guerra sanguinosa: guerra con gli spagnoli ma anche guerra civile, tra vari popoli del Messico. Così il mondo degli aztechi si sfalda e tramonta per sempre. Aquila Parlante si converte nel 1524, completamente e convintamente. Più tardi assiste a fenomeni prodigiosi. Intanto, a migliaia ogni mese, i Mexica si convertono.
Il libro riesce ad alzare il sipario che ci separa da quegli eventi lontani e tremendi dove la ferocia degli uomini, di molti uomini, si unisce alla santità di altri, al prodigio, all’apparizione dell’icona acheropita della Vergine di Guadalupe, madre che rinnova la vita laddove sorgevano i templi aztechi. Sul suo libro, Matteo Soldi ha accettato di rispondere ad alcune domande.
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Matteo Soldi, da cosa scaturisce l’idea di questo libro? Quando Cortés giunse in vista di Tenochtitlán, il protagonista, Aquila Parlante, era un nobile, una persona distinta. Era un azteco consapevole della cosmogonia del suo popolo, delle atrocità dei suoi riti, soggetto alle leggi e alle usanze di una civiltà dominata da contrasti stridenti: da un lato primitiva e dall’altro raffinata. Dopo la conquista e il massacro, si è ritrovato senza nulla. Eppure... si è votato volontariamente e completamente al Dio dei conquistatori nel giro di pochi mesi, con un entusiasmo tale da farlo giungere in breve alle vette della santità. Per gli Aztechi l’arrivo degli Spagnoli fu uno shock culturale spaventoso, come se noi domani vedessimo atterrare delle astronavi aliene: per loro, infatti, quello in cui vivevano era “Cem Anahuac”, l’Unico Mondo. Per questo dapprima pensarono che si trattasse di dèi incarnati, e che Cortés non fosse altro che Quetzalcoatl, il dio buono di cui il popolo serbava un ricordo ancestrale ma del quale il clero temeva il ritorno. Quando si sono accorti che si trattava di uomini, tutto crollò loro addosso. Se da un lato questo minò la fiducia nei propri dèi, dall’altro innescò una reazione talmente fiera da trasformare in pochi mesi un popolo timoroso in un solo immenso esercito irriducibile. Da qui il precipitare della situazione, la Notte Triste, la guerra senza quartiere, il massacro finale.
Come si è documentato per scrivere il romanzo? Il suo è un romanzo storico, molte circostanze sono vere? Mi è stato utilissimo il libro di Bernal Diaz del Castillo, La vera storia della conquista della Nuova Spagna, che ha il pregio di raccontare l’impresa con effetto quasi cinematografico tipico del testimone oculare. Poi ho approfondito leggendo e consultando molti altri testi, antichi e moderni, per conoscere usi e costumi, storia, strutture sociali, vita quotidiana. Ho letto anche Qui si racconta dedicato alle apparizioni del Tepeyac di Antonio Valeriano. Faccio un inciso: questo autore era un azteco, nipote di Montezuma, poi professore di latino e governatore di Città del Messico per 35. Lo dico come suggerimento di riflessione per chi crede alla Leggenda Nera. Quindi sì, è un romanzo storico, documentato. I personaggi sono coinvolti in prima persona nella macrostoria, sul proscenio della quale li faccio a turno comparire. In filigrana resta però sempre Aquila Parlante, che in qualche modo campeggia con la sua gigantesca statura.
Addirittura gigantesca? Direi di sì. Quest’uomo, nella sua umiltà, è stato scelto dalla Vergine per un ruolo chiave di restaurazione e redenzione di un popolo intero. Roba da far tremare i polsi. Consideri che nei dieci anni seguenti le apparizioni, i battesimi sono aumentati esponenzialmente fino a cifre da capogiro (si parla di 9.000.000 di battezzati in dieci anni!), un contrappasso rispetto al parossismo di sacrifici umani caratterizzante il decennio precedente la conquista, dovuto allo sciagurato tentativo di esorcizzare il divinato ritorno di Quetzalcoatl.
Che esperienza è stata per lei scrivere questo libro? Scrivere per me è sempre miscela di... “tormento ed estasi”. Ma la soddisfazione del parto finale è stata grande. La vera difficoltà l’ho trovata all’inizio dell’avventura: riuscirò mai ad animare in modo credibile i personaggi di un mondo scomparso e assolutamente altro da noi?
Cosa può dirci di Cortés? Quello che oggi non si può dire…
Ci provi... Fu uomo della sua epoca. Peccatore, avventuriero pure. Talvolta senza scrupoli. Eppure, cristiano convinto, ha fatto di tutto per annettere pacificamente il Messico e per fermare i massacri, con le buone prima di dover ricorrere alle cattive.
Troppo cattive, si pensa. Si tenga presente che il propulsore dell’imperialismo azteco era la fame di vittime sacrificali da reperire ai danni delle altre popolazioni. Di fronte a quei massacri spaventosi non è forse doveroso intervenire? Chi si sognerebbe oggi di stigmatizzare gli Alleati per aver voluto fermare Hitler con l’esercito? Cortés poi è l’uomo, per dirla con Juan Marilles, che ha inventato il Messico moderno, con audaci riforme, ma soprattutto con la fusione tra Castigliani e indigeni. Anche se poi, caduto in disgrazia presso la Corona, il progetto è in parte abortito.
Ci sono diversi personaggi inventati. Come sono nati? La mia guida è stato questo motto: scrivere solo cose vere o verosimili. Per esempio Atlixcatzin, detto il Caimano, è un realistico esponente della classe dei mercanti, che costituiva, nel variegato panorama sociale dell’epoca, una realtà temuta e disprezzata al tempo stesso. Fucina di spiriti liberi e menti astute, guardinghe e spietate.
In esergo c’è la trascrizione di un canto azteco, e al capitolo dieci un prigioniero canta un motivo triste. Nel contesto di oppressione superstiziosa e di terrore in cui viveva, all’azteco restavano poche consolazioni: il fungo allucinogeno, la danza rituale e la poesia melodica. Quella in esergo è autentica, quella al capitolo decimo invece me la sono inventata cercando di renderla verosimile.
Le apparizioni del Tepeyac sono state approvate ufficialmente dalla Chiesa? Le apparizioni riconosciute con decreto sono appena quindici. Guadalupe fa parte invece di quelle riconosciute ‘di fatto’ cioè senza che ci sia stato bisogno di un decreto: l’erezione di una chiesa nel punto indicato dal veggente, l’innalzamento alla dignità di basilica, l’ostensione perpetua della tilma acheropita, il culto plurisecolare, i miracoli, l’istituzione nel 1667 della festività della Vergine di Guadalupe con ufficio e Messa propri, l’esser diventato il santuario mariano più frequentato al mondo, la canonizzazione del veggente... parlano da soli.
Per chiudere: qual è il vero scopo del libro? Raccontare con l’ingranaggio di un romanzo scorrevole il mistero di una conversione di massa, esplosiva. Di cui Juan Diego è stato il miracoloso innesco.
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laterradihayk · 7 years
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Seminario artistico dedicato alla Madre di Dio della tenerezza (a cura di Levon Nersesjan)
Seminario artistico dedicato alla Madre di Dio della tenerezza (a cura di Levon Nersesjan)
Seminario artistico dedicato alla Madre di Dio della tenerezza (a cura di Levon Nersesjan) SERIATE, sabato 18 marzo 2017, Orari: 10-11.30 / 14-16.30  Seminario artistico a cura di Levon Nersesjan  L’icona della Tenerezza La Madre di Dio di Vladimir – storia, culto, iconografia di uno dei capolavori assoluti della pittura mondiale Icona della Theotokos di Vladimir, o Madre di Dio della tenerezza…
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valoriontinuit · 4 years
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Anno domini. Fuga… dalla metafisica di Antonietta Fulvio Anno zero. Anno Domini. Comunque lo si voglia chiamare, l’inizio della cronologia coincidente con la nascita di Gesù Cristo segna un passagg…
Anno domini. Fuga… dalla metafisica di Antonietta Fulvio Anno zero. Anno Domini. Comunque lo si voglia chiamare, l’inizio della cronologia coincidente con la nascita di Gesù Cristo segna un passaggio epocale. Spartiacque tra vecchio e nuovo, fu l’inizio del crollo della Roma imperiale che non riuscì gestire il cambiamento sociale derivante dalla diffusione del Cristianesimo. Sulla scia di queste riflessioni sulla Storia, e su alcune tra le pagine più importanti del Nuovo Testamento, nel suo atelier a Specchia, Luigi De Giovanni si sofferma a parlare mentre lentamente la tela bianca sul suo cavalletto si riempie di segni... simboli, caratteri...colori. Appena un mese fa ha concluso una personale inaugurata per la Giornata del Contemporaneo dal titolo Tracce. Era partito da un’indagine sull’evoluzione di oggetti radicalmente modificati dal progresso tecnologico e usati, attraverso anche il recupero della memoria contadina, come pretesto per riflettere sulla società. Il passato e il presente. Ma al centro sempre e solo l’uomo, comunque artefice del proprio destino ma anche strettamente legato agli altri, perché l’uomo animale sociale non può vivere da solo. Ed è in relazione agli altri che l’uomo scopre le proprie capacità come i propri limiti e nel suo personale cammino lascia sempre qualche traccia dietro di sé. Tracce che vengono da un mondo interiore dove trova spazio il proprio credo spirituale e umano. Questo l’assunto di partenza di un nuovo ciclo di lavori, dedicati al tema della Natività. “Non si può non ricordare il Natale tralasciando il martirio, la morte, il motivo per cui Dio inviò suo Figlio sulla terra. La sua nascita è legata alla rinascita, alla vittoria sulla morte grazie alla Resurrezione, icona di libertà dal peccato. La figura di Pilato è emblematica come la frase che pronunciò presentando il Cristo flagellato - Ecce homo disse - pensando che aver ridotto il Nazareno ad una maschera grondante di sangue fosse bastato ai farisei. Pilato avrebbe avuto il potere di cambiare il corso degli eventi ma non lo fece. Non riuscì a gestire il potere e, purtroppo anche se con formule diverse, la storia si ripete continuamente. Il Natale mi porta ad una riflessione sul ruolo del cristianesimo, sulla Crocifissione che è inscindibile dalla Natività e sul senso dell’esistenza in generale.” La natività è da sempre un tema molto frequentato nell’arte che vanta capolavori assoluti: dalla rappresentazione affrescata da Giotto nella Cappella Scrovegni di Padova, alla tela di Lorenzo Lotto, ad esempio, che dipinse la devozione della Sacra famiglia inserendo in un angolo buio della grotta proprio il crocifisso. Alla Natività, purtroppo persa, del Caravaggio che dipinse una Vergine, donna e madre ancora prostrata dalla fatica del parto mentre guarda il suo Divino Bambino: in quella posa che non ha nulla di santo è racchiusa tutta la santità dell’evento ma anche l’inevitabile senso del dolore, di quel presagio di morte che è scritto anche nel destino del figlio di Dio. Sovrapposta alla precedente festività pagana del Sol Invictus, o a quella Ebraica detta Hanukkah, entrambe celebrate il 25 dicembre, la nascita di Gesù Bambino è la festa che celebra il miracolo della vita, l’unico che vede protagonisti anche noi poveri mortali; ma Cristo nasce per un miracolo ancora più grande, la Resurrezione che implica il sacrificio, il dolore, la morte. “La vita è un insieme di emozioni e sensazioni contrastanti. É amore e disperazione, gioia e dolore, ma anche lotta e tensione verso la felicità. E’ quel che io chiamo il problema delle 24 ore.” E dal destino di dolore che Cristo trae la sua forza, ecco perché l’artista non sceglie di rappresentare il momento della nascita ma il simbolo del sacrificio, passaggio obbligato e scritto dall’Onnipotente perché quella frattura tra Dio e l’Uomo potesse essere colmata. Come per la personale Tracce, l’artista sceglie di realizzare accanto ad alcune tele una composizione risultante dall’ assemblaggio di dodici moduli - 12 i mesi dell’anno, 12 gli apostoli - un enorme quadrato dove la tradizionale rappresentazione della Natività lascia il posto ad una composizione nuova, provocatoria. Al centro della tela una grande croce, rossa. E poi la frase Ecce Homo, le sigle SPQR, INRI che campeggiano in lungo e largo sulla tela, sovrapponendosi in alcuni punti, richiamando inevitabilmente l’attenzione sui loro significati reconditi. Il colore rosso sembra zampillare come stille di sangue, l’idea del sacrificio è intrinseca nella forma stessa della croce, affiancata da due scale: la scala di Nicodemo diventa per l’artista simbolo dello status sociale: “l’evento religioso della Crocifissione si insinua nella Storia, ne diventa parte integrante la persecuzione del Cristianesimo per la Roma imperiale fu un grande errore politico, l’inizio della fine... i Romani avevano già sconfitto altri popoli in precedenza inglobando la loro cultura; si pensi ad esempio a Cartagine, ma con Israele le cose andarono diversamente”. D’altra parte un sistema schiavista quale era l’impero avrebbe mai potuto accettare la religione che riteneva tutti gli uomini uguali? che gli ultimi sarebbero stati i primi? che bisognava amare il prossimo come se stessi? “L’uomo per natura è egoista e, nonostante siano passati tre millenni, senza contare i precedenti, pensa solo al proprio benessere, fa niente se per raggiungerlo deve schiacciare gli altri. Non è un caso che il pesce, simbolo di Cristo nell’iconografia cristiana, sia raffigurato in una forma ben lontana dalla stilizzazione classica perché nella sua grossezza ho voluto rappresentare la falsa ambizione di essere detentori della conoscenza. Da questo punto di vista siamo ancora nelle caverne, il nostro sguardo è dentro la grotta, non fuori. Le paure ancestrali che ci portiamo dentro sono sempre in agguato, la paura del buio come della solitudine, della sofferenza, della morte opprimono il nostro esistere e rendono sempre più problematiche le nostre 24 ore”. Il blu, colore spirituale per eccellenza, predomina nelle tele dove elementi simbolici come le scale rappresentano una società che continua a vivere in precario equilibrio tra croci che non sono grondanti di sangue ma, bianche o azzurre, rappresentano l’uomo con gli insoluti interrogativi di sempre, quelli che fecero nascere nell’antica Grecia la filosofia.... interrogativi come croci sparse nello spazio pittorico che diventa metafora del mondo, del tempo che viviamo. Il segno sempre più incisivo e materico definisce volumi che si sovrappongono sul piano in un rincorrersi di linee curve e spezzate quasi ad evocare il percorso difficile e tortuoso che è la vita per ogni singolo individuo e, per esteso, della comunità intera. I colori intensi, quasi violenti, diventano espressione dei sentimenti, delle passioni, delle sensazioni che affollano la mente e il cuore dell’uomo di tutti i tempi. Lo sguardo che l’artista prima rivolgeva ai luoghi dello spazio sono sempre più introiettati al proprio sentire, all’io che cerca di farsi strada tra il groviglio di pensieri che la vita stessa scatena. Ogni tanto qualche giallo/lampo di luce suggerisce il legittimo interrogativo ma una via di fuga esiste? “É la metafisica, il sogno. - La risposta decisa dell’artista- É nella spiritualità che l’uomo ritrova il coraggio e la determinazione per affrontare i propri demoni, di vivere la propria esistenza riscoprendo la consapevolezza che la forza della rinascita è la libertà del pensiero. Come insegna il messaggio evangelico la libertà nasce dalla sofferenza, dal dolore.” L’allestimento, curato dall’architetto Stefania Branca, affianca alla modulazione pittorica un’installazione così come accaduto nelle recenti personali tenutesi nell’atelier che, da luogo di ideazione e realizzazione dell’opera, si fa anche spazio interattivo con il pubblico. In virtù di un percorso che continua, tracce di gesso renderanno bianca la pavimentazione dove tra santini e rosari, icone di fede, ognuno potrà almeno per un momento riflettere sul significato più autentico del Natale. Un Natale lontano dalla festa consumistica, e non solo per il clima di recessione, ma perché traccia di una spiritualità ritrovata.
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