Il confronto bipolare in un mondo in trasformazione
CAPITOLO 16
Il confronto bipolare in un mondo in trasformazione
1 Dalla crisi alla distensione: gli anni di Kennedy e di Kruscev
Continua la competizione USA-URSS Sul finire degli anni Cinquanta, l’apice della tensione tra le due superpotenze sembrava superato e alcuni segnali suggerivano che il confronto fosse avviato a svolgersi pacificamente, facendo tramontare la costante minaccia al ricorso delle armi.
Il presidente Eisenhower chiuse il suo duplice mandato, nel gennaio 1961, con un discorso in cui metteva in guardia dai pericoli di una eccessiva militarizzazione e dalla perniciosa influenza del «complesso militare-industriale» sulla vita democratica.
Dal canto suo, il leader sovietico Kruscev cominciava a vedere come una priorità il rallentamento delle spese militari, al fine di vincere la sfida contro gli Stati Uniti – come aveva più volte ribadito (➜ CAP. 14) – sul terreno del benessere. In quegli anni, le economie del blocco sovietico erano ancora abbastanza dinamiche da far sembrare realistica questa prospettiva. Inoltre, i sovietici erano reduci da una straordinaria vittoria tecnologica e simbolica: nell’ottobre del 1957 avevano mandato in orbita il primo satellite artificiale, lo «Sputnik» (in russo «compagno di viaggio»).
Nuove frontiere All’inizio del 1961, mentre gli Stati Uniti erano ancora scossi dai successi dei sovietici nella corsa allo spazio, l’avvento alla Casa Bianca del democratico John Fitzgerald Kennedy fu accolto come l’annuncio di un nuovo corso, che segnalava anche i mutamenti recenti intervenuti nella società americana. Per la prima volta un presidente degli Stati Uniti era cattolico ed era il primo a essere nato nel XX secolo: con i suoi 43 anni era (e resta ancora) il più giovane capo dello Stato mai eletto direttamente dal corpo elettorale americano.
La sua vittoria rivelò anche l’importanza politica di un nuovo strumento di comunicazione: la televisione, già bene di consumo di massa negli Stati Uniti (➜ ANCHE CAP. 17). Nel confronto, trasmesso sul piccolo schermo, con il suo antagonista, il repubblicano Richard Nixon, Kennedy apparve più brillante e fotogenico: il suo volto, in qualche misura, si rivelò vincente non meno del suo programma e della sua retorica. Di per sé, il fenomeno della propaganda mediante l’immagine non costituiva una novità, ma risultavano totalmente inedite le dimensioni dello spazio e del tempo in cui si realizzava: la vastità della platea a cui il messaggio visivo si rivolgeva, e lo stile imposto da un mezzo così rapido nel diffonderlo come la televisione.
Kennedy si presentava con un ambizioso programma di rilancio della società americana in senso progressista, che aveva elaborato con l’aiuto di un gruppo di tecnici e di intellettuali della sua stessa generazione, e racchiuso nello slogan «la nuova frontiera». Questa immagine faceva leva su uno dei miti fondatori della nazione americana: la sfida dei pionieri alla «frontiera», ossia la spinta alla colonizzazione del «lontano Ovest» avvenuta nel corso del XIX secolo. La «frontiera» da sfidare nel XX secolo era quella di una migliore democrazia, basata su una reale affermazione dei diritti di cittadinanza, estesa a tutti, e su una più ampia giustizia sociale: contro la povertà, le distanze sociali e soprattutto contro la segregazione razziale di cui erano ancora vittime milioni di cittadini statunitensi di pelle nera (➜ CAP. 14.1 e avanti, PAR. 2).
Si può dire che ci fosse anche una dimensione fisica nella «frontiera» kennediana: il nuovo mondo da raggiungere e colonizzare era lo spazio. Per volontà di Kennedy il programma spaziale americano subì un enorme potenziamento e superò di slancio quello sovietico, fino a riuscire a «conquistare» la Luna, nel luglio 1969.
Il muro di Berlino In politica estera la presidenza Kennedy si rivelò di gran lunga meno innovativa: nel solco dei predecessori, mantenne una retorica dai toni apocalittici nei confronti dell’antagonista sovietico (l’anticomunismo continuava a essere un argomento di forte presa sull’opinione pubblica americana e pertanto cruciale nelle competizioni elettorali), accompagnata tuttavia dalla volontà di non far precipitare il mondo in una guerra letale.
Due gravi crisi internazionali segnarono i primi anni Sessanta. Una ebbe luogo in Europa e riguardava la questione della Germania, che non aveva ancora trovato una definitiva soluzione formale.
Sin dal 1958 Kruscev aveva lanciato un’offensiva diplomatica in merito alla situazione di Berlino, che ufficialmente continuava a essere sottoposta all’occupazione congiunta delle quattro potenze antifasciste, proponendo che la città fosse dichiarata «libera» e smilitarizzata.
Il negoziato di fatto non ebbe neppure inizio, per la manifesta volontà degli Stati Uniti di conservare la propria presenza a Berlino ovest. Dopo che, nel giugno 1961, Kennedy ribadì ancora una volta questo orientamento, Mosca incassò l’insuccesso, autorizzando però il regime di Berlino est a costruire un muro di separazione tra le due parti dell’ex capitale tedesca e a fortificare ulteriormente il resto della frontiera con la Germania ovest. Peraltro le autorità della Germania est premevano da tempo su Mosca in questo senso, per bloccare la fuga di massa dei propri cittadini: tra il 1949 e il 1961 circa 2,5 milioni di tedeschi orientali, perlopiù giovani, erano infatti passati a ovest, principalmente usando il varco berlinese.
Il muro di Berlino fu eretto la notte del 13 agosto 1961: per poco meno di trent’anni, finché non venne abbattuto il 9 novembre 1989 (➜ CAP. 20), sarebbe stato uno dei confini più sorvegliati del mondo, il simbolo della guerra fredda, ma anche la traccia materiale e visibile della mancanza di libertà nel campo sovietico e della miscela di forza e di impotenza – per il progressivo affievolirsi di spinte ideali, di consensi e di prospettive – che caratterizzava le cosiddette «democrazie popolari».
I missili a Cuba L’altra crisi ebbe per scenario l’isola di Cuba che, in seguito alla maldestra reazione degli Stati Uniti alla rivoluzione castrista (➜ CAP. 15.6), era diventata un membro del blocco sovietico, portando la frontiera della guerra fredda a poche miglia marine di distanza dalla costa della Florida.
Temendo il ripetersi di tentativi d’invasione come quello dell’aprile 1961, il governo cubano incrementò le richieste di aiuti militari a Mosca. Non potendo impegnarsi ulteriormente in spese per armi convenzionali, il Cremlino giocò la carta del nucleare e cominciò, nell’estate del 1962, l’installazione di missili sull’isola (dove peraltro, per uno di quegli strani casi che governarono gli equilibri della guerra fredda, gli Stati Uniti ancora conservavano la base navale di Guantanamo, ottenuta in affitto al termine della guerra ispano-americana del 1898).
Nell’ottobre del 1962 gli americani ebbero le prove – grazie a fotografie scattate dai loro aerei spia – e denunciarono pubblicamente la presenza di rampe di lancio missilistiche a Cuba. Per qualche giorno il mondo rimase con il fiato sospeso, temendo lo scoppio della terza guerra mondiale, ma le diplomazie dei due Paesi si mossero dietro le quinte in modo tale da evitare rotture irreparabili, giungendo a una soluzione. L’Unione Sovietica accettò infine di ritirare i missili da Cuba, ottenendo dagli americani la promessa di non invadere l’isola.
Inoltre, pochi mesi dopo gli USA acconsentirono a un’altra richiesta sovietica, quella di smantellare le loro basi missilistiche in Turchia. Kennedy aveva accettato questa seconda condizione a patto che non fosse resa pubblica (ufficialmente i missili che erano in Turchia furono ritirati perché ormai obsoleti). La pace fu salvata dalle mosse di una diplomazia segreta, tuttavia da questo gioco delle parti era soprattutto l’immagine dell’Unione Sovietica a venire intaccata.
Verso la distensione, senza i suoi protagonisti La crisi cubana era stata così grave da spingere i governi delle superpotenze a valorizzare il ruolo dello spionaggio internazionale e a trovare nuovi meccanismi diplomatici per evitare lo scoppio di una guerra nucleare a causa di un fraintendimento o di un errore nella catena di comando.
Erano angosce materiali che occupavano le coscienze e l’immaginario di milioni di cittadini nel mondo e che avrebbe trovato le più disparate manifestazioni sul terreno della cultura e dell’industria dell’intrattenimento, per esempio nella interminabile saga letteraria e cinematografica dell’agente segreto 007 James Bond (il primo film è proprio del 1962), o nel capolavoro di Stanley Kubrick, uscito nel 1964, Il dottor Stranamore, una terribile commedia grottesca in cui un generale americano, guerrafondaio e anticomunista, provoca lo scoppio della guerra a dispetto delle intenzioni del suo presidente, che non riesce più a fermare il corso degli eventi una volta innescati.
Il Cremlino e la Casa Bianca si collegarono tra loro grazie a una linea diretta di telescriventi (un’evoluzione del telegrafo), detta «linea rossa». Finalmente cominciarono dei negoziati per ridurre gli armamenti, arrivando a un primo accordo per il bando dei test nucleari di superficie.
In Germania, le diplomazie accettarono prudentemente la situazione determinatasi sul campo. Kennedy peraltro seppe ravvivare la retorica della guerra fredda: nel corso della sua visita ufficiale a Berlino ovest, nel giugno del 1963, pronunciò un celebre discorso in cui – dichiarandosi egli stesso cittadino di Berlino («Ich bin ein Berliner») – esprimeva la vicinanza di tutto il «mondo libero» ai berlinesi «assediati».
Fu l’ultima grande apparizione di Kennedy sulla scena internazionale. Pochi mesi dopo, il 22 novembre 1963, venne assassinato a Dallas, in Texas, in circostanze mai del tutto chiarite. Questa tragica morte, avvolta in un alone di mistero, lo fece entrare immediatamente nel mito, quello degli eroi portatori di speranza abbattuti a tradimento nel pieno della loro forza e giovinezza.
Un’analisi degli effettivi risultati dei tre anni della sua presidenza peraltro ha indotto molti studiosi ad abbandonare i toni epici della propaganda per abbracciare un’analisi più realistica ed equilibrata: come abbiamo già detto, in politica estera Kennedy seguì un copione piuttosto tradizionale, avviando anche l’impegno americano in Vietnam (➜ CAP. 15.2), mentre l’ambizioso programma di riforme interne dovette attendere il suo successore, Lyndon Johnson, per decollare.
Undici mesi dopo, nell’ottobre del 1964, usciva di scena anche Kruscev. Gli organi del partito costrinsero alle dimissioni il leader sovietico, che pagò un riformismo interno e un dinamismo in politica estera a cui non avevano corrisposto risultati considerati all’altezza. Se lo scacco subito a Cuba svolse un ruolo importante nel determinare l’eclissi di Kruscev, il problema più complesso riguardava però l’inasprimento dei rapporti con la Cina di Mao (➜ ANCHE PAR. 4).
Con la destituzione di Kruscev terminava – secondo alcuni prima ancora che fosse cominciata sul serio – la fase di disgelo della politica e della società sovietiche. Peraltro non si tornò nemmeno all’asprezza della persecuzione staliniana: il tempo delle grandi purghe e dei gulag era finito.
2 La distensione tra problemi interni e instabilità internazionale
La «Great Society» americana e la guerra del Vietnam Negli anni Sessanta e Settanta, il confronto tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica proseguì nel segno della distensione. Alcuni accordi che portarono alla riduzione degli armamenti e all’apertura di relazioni commerciali costituirono i segni più tangibili di questa fase.
D’altra parte, una serie di problemi interni che attraversarono entrambe le superpotenze e nuove crisi «regionali» in cui esse indirettamente si trovarono a fronteggiarsi concorsero a influenzare e a ostacolare questo processo.
In seguito alla morte di Kennedy, alla fine del 1963 il vicepresidente (ovviamente anche lui membro del Partito democratico) Lyndon Johnson assunse la presidenza; l’avrebbe mantenuta fino al 1968, dopo aver vinto le elezioni del 1964. Si sarebbe distinto per due ragioni molto diverse.
Sul piano interno, realizzò il programma di riforme preannunciato da Kennedy. Johnson adottò lo slogan «Great Society», una «grande società», che doveva combattere la povertà e la discriminazione.
Sin dal 1964 promosse il varo del «Civil Rights Act», la Legge federale sui diritti civili, ottenuta anche in seguito all’imponente movimento di protesta della comunità afroamericana (➜ CAP. 17.4). Questa legge conteneva due misure fondamentali:
proibiva le discriminazioni nelle modalità di iscrizione alle liste elettorali (esisteva una serie di espedienti che permettevano alle amministrazioni bianche di escludere i neri dall’esercizio del voto);
dichiarava illegale ogni discriminazione basata sulla razza, il sesso o l’etnia nell’ambito dell’amministrazione e delle attività ed esercizi pubblici (dalle scuole alla frequentazione di hotel, ristoranti, bar ecc.).
Negli anni successivi, una serie di programmi federali (ossia finanziati dal governo centrale) portarono alla realizzazione di misure di welfare state nei campi della sanità, delle pensioni e dell’istruzione. Nel complesso erano misure di minore portata rispetto al modello europeo di welfare, ma ebbero comunque un impatto importante sulla società americana: ridussero le sacche di povertà e le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza.
L’altro evento che segnò la presidenza Johnson fu la guerra del Vietnam. Come abbiamo visto (➜ CAP. 15.2), dal 1965 gli Stati Uniti si ritrovarono pesantemente coinvolti nel conflitto in Indocina. Dopo l’offensiva vietnamita dell’inizio del 1968, Johnson cercò una via d’uscita intavolando trattative che però, inizialmente, non ebbero l’esito sperato. Questo insuccesso lo spinse a ritirarsi dalla vita politica, rinunciando a ricandidarsi (avrebbe potuto farlo perché il suo primo mandato, come presidente subentrato, era durato soltanto tredici mesi). Il capitolo della guerra vietnamita sarebbe stato chiuso dal suo successore, il repubblicano Richard Nixon.
La primavera di Praga Il 1968 segnò un passaggio cruciale anche per il blocco sovietico. Nei primi mesi dell’anno la Cecoslovacchia conobbe un processo di riforma guidato dalla dirigenza del partito, in particolare dal nuovo segretario Alexander Dubcek, che prese le mosse dalla necessità di rendere più flessibile il modello economico di stampo sovietico, ma sfociò rapidamente in un programma che prevedeva la reintroduzione del pluralismo politico (abolendo quindi il regime a partito unico) e una larga libertà d’espressione. Questa proposta dall’alto, che Dubcek definì un «socialismo dal volto umano», incontrò i fermenti politici, culturali e ideali che in quel momento partivano dal basso, cioè dalla società cecoslovacca. Le riforme fiorirono ad aprile – da cui la celebre espressione, coniata in Occidente, di «primavera di Praga» – in contemporanea con l’esplosione della protesta studentesca che stava avvenendo in tutto il mondo industrializzato (➜ CAP. 17).
Malgrado il governo cecoslovacco non avesse nessuna intenzione di uscire dal blocco sovietico (a differenza di quanto aveva dichiarato, nel 1956, il Primo ministro ungherese, scatenando la reazione di Mosca), la dirigenza sovietica giudicò che l’esperimento si era spinto troppo in là. Anche per la pressione dei regimi polacco e tedesco orientale (che, privi di un solido consenso interno, temevano di essere destabilizzati o travolti dall’esempio cecoslovacco), le truppe del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia la notte tra il 20 e il 21 agosto 1968.
La resistenza pacifica opposta dai cecoslovacchi si rivelò inutile e immediatamente cominciò un processo di «normalizzazione». La dirigenza cecoslovacca fu lasciata al suo posto per un altro anno, ma dovette smantellare le riforme varate sino a quel momento. Questo periodo fu reso ancora più angoscioso dall’estrema protesta dello studente Jan Palach che nel gennaio del 1969 si diede fuoco in piazza San Venceslao, nel centro di Praga. Il suo gesto richiamava esplicitamente quello di un «bonzo», un monaco buddista vietnamita che nel 1963 si era dato fuoco a Saigon per protestare contro il governo filoamericano del Vietnam del Sud. Palach collegava così idealmente due lotte contro l’imperialismo e la sopraffazione.
L’URSS di Breznev Nel settembre 1968 Leonid Breznev, che aveva affermato la sua preminenza nell’apparato di potere sovietico dopo alcuni anni di direzione collegiale, diede una sorta di veste formale all’intervento dell’URSS e degli alleati del Patto di Varsavia. La cosiddetta «dottrina Breznev» sosteneva che «la sovranità e il diritto all’autodeterminazione degli Stati socialisti sono subordinati agli interessi del sistema socialista mondiale». In altre parole, il segretario del PCUS dichiarava che la sovranità nazionale dei Paesi del blocco sovietico era limitata e restava subordinata alle valutazioni del Cremlino.
La dichiarazione di Breznev tentava anche di nascondere un fatto evidente: un «sistema socialista mondiale», nel solco della complessa tradizione internazionalista, non esisteva più e tanto meno, dopo la rottura tra Mosca e Pechino (➜ PAR. 4), faceva capo all’URSS. I fatti di Praga non solo spaccarono o indebolirono i grandi partiti comunisti europei, come era già accaduto nel 1956 dopo l’invasione dell’Ungheria, ma li spinsero a prendere maggiori distanze da Mosca, come nel caso del Partito comunista italiano.
Sul piano interno si aggiungevano crescenti difficoltà economiche: il modello dirigista sovietico, capace di trasformare in pochi decenni un Paese fortemente arretrato in una potenza industriale, aveva raggiunto i suoi limiti espansivi. In qualche misura, il sistema industriale sovietico era nato sotto la spinta di un’emergenza continua, dal 1917 alle necessità della ricostruzione e della guerra fredda post-1945, pressato dalla necessità di raggiungere risultati in breve tempo, senza badare a sprechi, inefficienze e costi (di ogni genere, compresi quelli ambientali), e per di più sotto il controllo di un ponderoso apparato burocratico.
Quando quella spinta, materiale e ideale allo stesso tempo, si esaurì, non restavano più risorse o margini per riconvertirsi – in primo luogo dall’industria pesante a quella di consumo –, né per introdurre innovazioni tecnologiche, né per stimolare la crescita della produttività. Ne scaturì un circolo vizioso che rese l’apparato produttivo sempre più inefficiente e pletorico.
Negli anni Sessanta la situazione più critica era quella in cui versava l’agricoltura: la produzione non riusciva a coprire il fabbisogno alimentare del Paese, costretto a importare soprattutto cereali e tecnologie dagli USA, aprendo in questo modo una breccia, probabilmente fatale, nel suo sistema fino ad allora sostanzialmente autarchico e autosufficiente.
L’incremento di esportazioni di materie prime energetiche sostenne in parte la bilancia commerciale, ma d’altra parte queste risorse, drenate dall’apparato militare o sprecate da un sistema burocratico sempre più inefficiente e corrotto, non servirono a ridurre un crescente gap tecnologico con l’Occidente.
Gli anni di Breznev (che sarebbe rimasto al potere fino alla morte, nel 1982) furono pertanto segnati:
da una continua perdita di consenso e fiducia, sia pure ancora in forme dissimulate e silenziose;
dall’ulteriore crescita degli apparati burocratici del partito, sempre più corrotti, dal momento che qualunque cosa doveva passare per le loro mani, e dai quali era scaturita una vera e propria casta privilegiata (la cosiddetta nomenklatura);
dall’evidente incapacità di un’autoriforma del sistema.
Se il blocco sovietico era ormai tenuto insieme soltanto dalla minaccia delle armi, nell’URSS si irrigidirono di nuovo i controlli di polizia, e le autorità soffocarono la dissidenza interna. Tra i casi più celebri a livello internazionale vi fu quello dello scrittore Alexandr Solzenycin (➜ CAP. 14.5), esiliato all’inizio del 1974 (nel 1973 era uscito in Occidente il suo Arcipelago gulag, dove raccontava il sistema dei campi di lavoro sovietici), e quello del fisico Andrej Sacharov, uno dei padri della bomba H sovietica, confinato alla fine degli anni Settanta.
In questo contesto, la politica della distensione diventava un’opportunità anche per il regime sovietico: oltre ad alleggerire il bilancio delle spese militari, permetteva l’apertura di relazioni commerciali sempre più importanti per sostenere i livelli di vita interni, e inoltre consentiva all’URSS di accreditarsi come garante della pace, mantenendo alto il proprio prestigio.
La diplomazia di Nixon e di Kissinger La disponibilità al dialogo era contraccambiata dal nuovo presidente americano, il repubblicano Richard Nixon, eletto nel 1968 dopo una campagna elettorale drammatica, durante la quale venne assassinato Robert «Bob» Kennedy, il fratello dell’ex presidente John, mentre si trovava ancora impegnato nelle primarie del partito democratico.
La distensione si concretizzò nel 1972 in un trattato per la riduzione degli armamenti nucleari, noto come SALT I (sigla per Strategic Arms Limitation Talks, «trattative per la limitazione delle armi strategiche»), per distinguerlo da quello SALT II, di portata minore, siglato nel 1979. Si consideri peraltro che questi trattati ebbero un valore simbolico più che concreto: non soltanto gli arsenali restavano largamente sufficienti a distruggere più volte il pianeta, ma la gara al loro sviluppo tecnologico proseguiva senza soste, rendendo rapidamente obsoleti gli accordi fissati sulla carta.
La politica estera americana, ispirata dal segretario di Stato Henry Kissinger, previde una svolta radicale anche in Asia. L’amministrazione Nixon, come abbiamo detto, uscì dal conflitto vietnamita, tra il 1973 e il 1975 (➜ CAP. 15.2). A questo risultato contribuì una clamorosa apertura verso la Cina popolare – con cui non erano mai state aperte relazioni diplomatiche – avviata sin dal 1969 e coronata da una visita ufficiale a Pechino nel 1972. La base di questa nuova intesa, frutto della cosiddetta «diplomazia del ping pong», era la politica antisovietica: Pechino era in aperta rottura con Mosca e questo schiudeva nuove prospettive per Washington.
Per questo motivo sin dalla fine del 1971 la Cina popolare fu ammessa nella comunità internazionale: accolta nelle Nazioni Unite, prese il posto di Taiwan nel Consiglio di sicurezza (➜ ANCHE CAP. 14.4). Nel 1972 ritirò i suoi aiuti al Vietnam, che restò così legato esclusivamente all’URSS. Infine, Cina e Stati Uniti aprirono importanti relazioni commerciali.
La fine della presidenza Nixon Il processo di distensione conobbe una nuova battuta d’arresto nella seconda metà degli anni Settanta. Vi contribuirono, da un lato, i problemi interni degli Stati Uniti e, dall’altro, una nuova ondata di fermenti e di tensioni provenienti dai Paesi del Terzo Mondo.
Nell’estate del 1974 il presidente Nixon rassegnò le dimissioni, travolto dallo scandalo politico passato alla storia come «il Watergate». Sin dall’estate del 1972, due giornalisti del quotidiano «Washington Post» avevano fatto emergere alcuni elementi che accusavano il presidente di aver condizionato il corso delle elezioni, spiando le mosse dei democratici grazie a microspie piazzate nel loro quartier generale elettorale, l’hotel Watergate di Washington.
Due anni dopo, quando i risultati delle inchieste giudiziarie erano ormai inequivocabili, Nixon si dimise prima di subire una formale incriminazione secondo le procedure previste dalla Costituzione americana.
Nuove tensioni in un mondo che cambia La grave crisi politica interna degli USA si accompagnò a una fase di instabilità internazionale che sembrò avvantaggiare l’URSS. All’inizio degli anni Settanta nel campo occidentale mutò infatti la congiuntura economica. In particolare, due clamorosi avvenimenti segnarono il trapasso da una crescita che sembrava inarrestabile a un ciclo depressivo.
1. Nell’agosto del 1971 gli Stati Uniti sospesero la convertibilità del dollaro in oro. Ciò determinò la fine del sistema monetario stabilito con gli Accordi di Bretton Woods nel 1944 (➜ CAP. 14.2) e provocò una lunga fase di caos monetario – dal momento che i valori delle valute nazionali oscillavano tra loro –, con conseguenze sulla stabilità degli scambi internazionali e sui livelli dei prezzi e dell’inflazione (ANCHE CAP. 17.8). La decisione di Washington derivava dalle sue difficoltà di bilancio: la spesa pubblica saliva, soprattutto per finanziare i nuovi programmi di welfare e le spese militari. Inoltre la bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti era passata in deficit: in altre parole, dal 1970 le importazioni avevano superato le esportazioni.
Sin dalla metà degli anni Sessanta, il governo americano aveva fatto fronte alle sue esigenze di spesa stampando dollari, che avevano inondato il mondo e in particolare le banche dei Paesi dell’Europa occidentale. Quando le richieste europee di conversione di dollari in oro cominciarono a crescere, le riserve auree americane cominciarono a calare, spingendo Washington a porre fine al sistema di Bretton Woods.
2. Nel novembre del 1973 l’economia occidentale subì il cosiddetto «shock petrolifero»: in conseguenza della Guerra del Kippur (➜ CAP. 15.4), i Paesi produttori di petrolio riuniti nell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries, ovvero Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, fondata nel 1960) ridussero drasticamente l’esportazione di petrolio verso gli alleati di Israele e, nel giro di un anno, quadruplicarono i prezzi del greggio, che passò da circa 3 dollari al barile a circa 12 dollari al barile. Alla fine degli anni Settanta un secondo shock, seguente alla rivoluzione scoppiata in Iran (➜ PAR. 5), portò il prezzo a circa 35 dollari.
I «miracoli economici» occidentali erano stati possibili anche per il modesto costo dell’energia che ora – improvvisamente, nel giro di sei-sette anni – era aumentata di circa undici volte. E con essa tutto rincarò, perché il costo del petrolio incideva – direttamente o indirettamente – sui costi di produzione e di trasporto di qualsiasi merce.
Pertanto, in virtù delle difficoltà americane e di questa nuova crisi del capitalismo, intorno alla metà degli anni Settanta – malgrado molti segnali potessero indicare anche il contrario – sembrarono aprirsi nuovi spazi politici per l’URSS:
il Vietnam, dopo la definitiva vittoria del 1975, si integrò nel sistema sovietico (nel 1978 entrò anche nel Comecon);
un colpo di Stato militare impose un regime filosovietico in Etiopia;
in Angola e Mozambico l’esito della decolonizzazione portò al potere dei movimenti «nazionalisti-marxisti», sostenuti dalle armi sovietiche;
in America centro-meridionale i movimenti guerriglieri di sinistra sembravano rafforzarsi (ma come abbiamo visto nel CAP. 15.6, gli Stati Uniti, su impulso del segretario di Stato Kissinger, non tardarono a prendere drastiche contromisure);
persino in Europa occidentale, sia pure soltanto per pochi mesi, sembrò che il Portogallo, dopo la rivoluzione che pose fine alla lunga dittatura di stampo fascista, potesse passare nel campo comunista, mentre in Italia preoccupava gli osservatori internazionali la continua avanzata elettorale del Partito comunista italiano che, sotto la guida di Enrico Berlinguer, nel 1976 superò il 34 per cento dei consensi (➜ CAP. 19).
Al di là delle oscillazioni di breve periodo nei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, la questione di maggiore rilievo ormai era un’altra: il bipolarismo est-ovest aveva perduto la capacità di contenere, descrivere e analizzare una situazione mondiale divenuta assai più intrecciata lungo l’asse geopolitico sud-nord e, al tempo stesso, complicata.
Nel mondo comunista, la leadership sovietica declinava. Nel campo occidentale, il rallentamento della crescita economica e la fine del sistema di Bretton Woods ponevano nuovi interrogativi per il futuro. In varie parti del mondo stavano emergendo nuovi centri di potere economico e politico, sia pure ancora inferiori a Mosca e a Washington. A metà degli anni Settanta, il mondo del bipolarismo cominciava tuttavia a cedere il posto a una configurazione diversa.
3 In Europa occidentale: mercato comune e democrazia
Il progetto francese di «terza forza» Nel corso degli anni Sessanta l’Europa occidentale completò il suo straordinario recupero economico e demografico (➜ CAP. 17), mentre le democrazie nazionali si consolidavano e prendevano forma strutture comunitarie sovranazionali ancora limitate a sei Paesi e alla sfera strettamente economica (le Comunità economiche europee).
In questi anni la politica continentale e l’evoluzione delle strutture comunitarie furono segnate dall’ambizione del presidente francese Charles De Gaulle di fare dell’Europa, forte della sua nuova prosperità e stabilità, una «terza forza», autonoma e dello stesso rango di Stati Uniti e Unione Sovietica.
L’idea d’Europa di De Gaulle L’obiettivo di De Gaulle era restituire alla Francia il suo tradizionale ruolo di protagonista della politica internazionale. Tuttavia, egli era consapevole che, nell’era delle superpotenze, questa ambizione doveva passare attraverso un rafforzamento dell’Europa che doveva svincolarsi dall’egemonia politica e militare americana per proporsi come «terza forza» rispetto a USA e URSS, con una propria e autonoma force de frappe («forza d’urto») basata sul potere di dissuasione derivante dal possesso del nucleare. Il presidente francese aveva in mente un’«Europa degli Stati», ovvero una struttura confederale: ogni Stato avrebbe conservato la propria sovranità mentre l’integrazione sarebbe stata realizzata dai governi nazionali, attraverso fitte consultazioni e accordi (da concludere sempre all’unanimità) su questioni specifiche, senza la creazione di strutture sovranazionali, che avrebbero determinato appunto limitazioni alle singole sovranità nazionali. Naturalmente la Francia avrebbe avuto un ruolo guida nel coordinare le relazioni tra i Paesi europei.
A questo scopo, sin dal 1961, la Francia promosse i cosiddetti «vertici europei», riunioni informali dei capi di Stato dei Paesi membri delle Comunità europee, convocate a cadenza irregolare, ma piuttosto serrata. Dal momento che non erano previste dai Trattati di Roma (➜ CAP. 14.6), si configuravano di fatto come un’alternativa alle istituzioni comunitarie, rimettendo in primo piano il ruolo delle singole nazioni rispetto a un’impostazione sovranazionale. L’evidente importanza economica delle Comunità europee fece sì che la loro esistenza non fosse rimessa in discussione; ma così De Gaulle cercava di far evolvere l’integrazione politica secondo il suo progetto confederale.
L’asse franco-tedesco e l’atomica Un altro tassello del progetto di De Gaulle prevedeva il rafforzamento dei rapporti con la Germania ovest che – a meno di vent’anni dalla sconfitta del nazismo – si trovava ancora sotto tutela politica, ma la sua eccezionale crescita economica l’aveva già riportata al rango di grande potenza. La creazione di un asse privilegiato franco-tedesco doveva raggiungere più scopi:
improntare definitivamente le relazioni franco-tedesche alla collaborazione in tutti i campi;
sottrarre la Germania ovest all’egemonia americana;
fare dell’asse franco-tedesco il nucleo dell’Europa politica a venire, permettendo anche lo sviluppo di una politica di difesa autonoma.
Per fare dell’Europa una «terza forza», infatti, sarebbe stato necessario creare una forza militare autonoma, ovvero in grado di sostenere anche un conflitto nucleare. Per questa ragione De Gaulle spinse il programma atomico francese, che arrivò a realizzare il primo test nucleare nel 1960. Allo stesso tempo, si impegnò per la formazione di un’organizzazione di difesa europea svincolata dalla NATO, per una politica di difesa e di sicurezza che non dipendesse più dagli Stati Uniti.
I partner europei, tuttavia, e prima fra tutti proprio la Germania, si guardarono bene dal mettere in discussione l’adesione alla NATO e la protezione degli Stati Uniti, che consideravano l’unica vera garanzia contro il pericolo di un’aggressione sovietica. Il risultato della politica di De Gaulle ebbe una dimensione unicamente nazionale: la Francia, pur continuando a essere membro della NATO, si ritirò dal comando integrato e fece uscire dal Paese tutte le forze NATO che vi erano stanziate.
L’ambiziosa politica di De Gaulle, ispirata ai fasti ormai passati di una grandeur francese ai limiti del velleitarismo, si risolse in una impasse (una situazione senza soluzione) che coinvolse anche le strutture comunitarie, il cui sviluppo restò sostanzialmente bloccato fino al 1969, quando il presidente francese si ritirò dalla scena politica.
L’Ostpolitik di Willy Brandt L’iniziativa di De Gaulle verso l’Europa orientale aprì la strada anche a una svolta nella questione tedesca, che coincise con un cambiamento nel panorama politico della Germania occidentale. Tra il 1966 e il 1969 si concluse infatti il lungo periodo di governo del Partito democristiano, la CDU-CSU, mentre il Partito socialdemocratico, la SPD, assunse la guida del Paese.
La SPD si era preparata a questo passo sin dal 1959 quando, con il cosiddetto programma di Bad Godesberg, aveva ufficialmente abbandonato la dottrina marxista.
Diventato cancelliere nel 1969, il leader socialdemocratico Willy Brandt inaugurò la sua Ostpolitik («politica dell’Est»), che portò ad allacciare rapporti diplomatici con la Germania est (fino a quel momento inesistenti per volontà dei governi della CDU di non avallare l’esistenza di due Germanie) e a concludere una serie di trattati con gli altri Paesi del blocco sovietico.
Nel 1970, con i trattati di Mosca e di Varsavia, la Germania ovest riconobbe il confine fissato con la Polonia nel 1945 e pertanto rinunciò a ogni rivendicazione sugli antichi territori tedeschi orientali. A Varsavia per la firma del trattato, Brandt si inginocchiò spontaneamente davanti al monumento che ricordava la distruzione del ghetto di Varsavia. Questo gesto assunse un valore ancora superiore a quello del trattato tanto da essere considerato il riconoscimento della colpa collettiva del popolo tedesco.
In sostanza, gli accordi stipulati dalla Germania ovest tra il 1970 e il 1973 – che regolavano lo status di Berlino ovest, stabilivano relazioni diplomatiche tra le due Germanie e riconoscevano il confine con la Cecoslovacchia annullando gli accordi di Monaco del 1938 – assolsero la funzione di quel trattato di pace generale che non aveva potuto vedere la luce all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale. Il coronamento di questo percorso si ebbe nel 1973 con l’ammissione di entrambe le Germanie nelle Nazioni Unite.
La fine delle dittature in Grecia, Portogallo e Spagna Intorno alla metà degli anni Settanta si chiusero altre vicende le cui radici affondavano nel periodo interbellico o della Seconda guerra mondiale: terminò, infatti, il periodo delle dittature reazionarie e filofasciste in Grecia, Portogallo e Spagna.
In Grecia, la dittatura – detta «dei colonnelli» perché instaurata in seguito a un colpo di Stato militare – si impose nel 1967. I colonnelli si impadronirono del potere durante una grave crisi politica seguita alla crescita delle opposizioni di sinistra.
Gli Stati Uniti si affrettarono a riconoscere il regime, benché gli alleati europei fossero molto più diffidenti a causa dei metodi polizieschi dei militari, che repressero le opposizioni e violarono sistematicamente i diritti fondamentali.
Un clamoroso fallimento politico e militare travolse nel 1974 i «colonnelli»: i militari tentarono di annettere l’isola di Cipro, diventata indipendente da Londra nel 1960 e abitata da una maggioranza di cultura e lingua greca e da una consistente minoranza turca; proprio per tutelare questa comunità, la Turchia reagì con le armi, sbarcando nel nord dell’isola.
La Grecia tornò quindi alla vita democratica e divenne una repubblica a seguito di un referendum popolare che respinse l’ipotesi di tornare alla monarchia costituzionale ristabilita dopo la guerra.
Nello stesso 1974 anche il Portogallo tornò alla democrazia, dopo la lunga dittatura di stampo fascista imposta da Antonio Salazar nel 1932 (Salazar detenne il potere fino al 1968, quindi gli successe Marcelo Caetano).
Una costosissima guerra coloniale, che sottraeva uomini e risorse a un Paese che restava molto povero, minò il regime. La sua caduta fu determinata, infatti, da un colpo di Stato organizzato il 25 aprile 1974 da un gruppo di giovani ufficiali di idee di sinistra – che avevano fatto esperienza della guerra coloniale in Angola e Mozambico – e sostenuto dal movimento comunista.
L’azione cominciò poco dopo la mezzanotte del 25 aprile 1974 (il segnale venne dato con la trasmissione della canzone, proibita dal regime, Grandola vila morena) e fu incruenta: il regime cedette senza combattere e i portoghesi poterono mettere per davvero dei fiori nelle canne dei fucili, come recitava un celebre slogan pacifista del tempo; questi avvenimenti passarono alla storia come la cosiddetta «rivoluzione dei garofani», che stavano fiorendo proprio in quei giorni di primavera.
Come abbiamo già ricordato, per alcuni mesi si pensò che il comunismo potesse prendere piede in Europa occidentale, in uno dei Paesi membri della NATO. Nell’autunno del 1975, tuttavia, prevalse l’ala più moderata del fronte rivoluzionario che riuscì ad allontanare gli ufficiali più radicali. Il Paese divenne una repubblica parlamentare, in cui si sarebbero alternati governi di centro-destra e socialisti.
Nel 1975 anche la Spagna vide la fine della dittatura, in seguito alla morte di Francisco Franco, che si era imposto nel 1939 al termine della guerra civile (➜ CAP. 9.8).
L’opposizione al regime era cresciuta negli anni Sessanta, durante i quali il Paese aveva conosciuto profondi cambiamenti: uno sviluppo industriale e una graduale modernizzazione anche della società, dovuta, tra le altre cose, all’intensificarsi degli scambi con l’estero (mediante il turismo e i flussi migratori). La Spagna era in fermento: insieme alla forza della classe operaia, cresceva la protesta studentesca e intellettuale, e persino quella del mondo cattolico, attraversato dai cambiamenti in senso progressista promossi dalla Chiesa di papa Giovanni XXIII (➜ CAP. 17.3) che facevano vacillare uno dei principali pilastri del regime.
Avevano ripreso quota anche i movimenti autonomisti e separatisti – basco, catalano e galiziano –, ostili al franchismo per il suo rigido centralismo. Una serie di attentati scosse il Paese e la fine della dittatura fu, in qualche modo, annunciata sin dal 1973 dall’omicidio, da parte dell’organizzazione basca ETA (acronimo di Euskadi Ta Askatasuna, letteralmente «Paese Basco e libertà», ➜ CAP. 17.7), dell’ammiraglio Luis Carrero Blanco, il numero due del regime.
Franco morì nel 1975, designando come suo successore Juan Carlos di Borbone, erede al trono di Spagna vacante dal 1931. Il sovrano intraprese con determinazione il delicato processo di transizione e di democratizzazione del Paese, dove tornarono a essere legali tutti i partiti, fra cui quello comunista, e liberi i sindacati. Nel 1978 il varo della nuova Costituzione fece della Spagna una democrazia a tutti gli effetti, retta da un sistema di monarchia parlamentare.
La Comunità europea al tempo della crisi Negli anni Ottanta tutti e tre i Paesi dell’area mediterranea recuperati alla democrazia entrarono nella Comunità europea: la Grecia sin dal 1981, il Portogallo e la Spagna nel 1986.
La Comunità europea stava ormai cambiando volto, secondo un percorso avviato dopo la complessa stagione segnata dai progetti di De Gaulle, quando i membri della CEE vollero rilanciare il processo di integrazione economica e politica. Questa nuova fase, cominciata nei primi anni Settanta, fu favorita dalla concomitanza di alcuni fattori:
dal raggiungimento degli obiettivi fissati dai Trattati di Roma: già nel corso del 1968 (in anticipo rispetto alla data prevista del 1° gennaio 1970) si varò l’unione doganale che prevedeva l’abolizione dei dazi tra i Paesi membri e l’adozione di una tariffa comune per le importazioni;
dall’allargamento della Comunità che dal 1° gennaio 1973 annoverò anche il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca.
Le discussioni si concentrarono sull’elaborazione di una politica economica e monetaria comune, sempre più urgenti di fronte ai rivolgimenti dei primi anni Settanta. Nel 1979 si arrivò alla creazione del Sistema monetario europeo (SME), che aveva lo scopo di limitare le fluttuazioni dei cambi tra le divise degli Stati membri, anche per evitare che un Paese usasse la svalutazione monetaria per rendere artificialmente più competitive le proprie esportazioni verso Stati in cui il denaro valeva di più (un prodotto importato poteva costare meno dell’equivalente nazionale per il gioco dei cambi di valuta).
Le banche centrali avrebbero dovuto agire in modo da mantenere il valore delle rispettive monete entro una determinata banda di oscillazione. Inoltre, i valori furono calcolati non più sulla base del dollaro ma in relazione a una nuova moneta di conto europea, l’ECU. Questa riforma può essere considerata la base per la nascita della moneta unica europea, l’euro, che sarebbe avvenuta vent’anni dopo (➜ CAP. 21.6).
Sul piano politico, nel 1974 i vertici europei tra i capi di Stato avviati negli anni Sessanta cominciarono ad assumere una veste più formale, definendosi Consigli europei. Continuava in ogni caso il dualismo già messo in luce in precedenza: da una parte organismi per la concertazione tra Stati nazionali; dall’altra la struttura sovranazionale, rappresentata dalle Commissioni (soprattutto dalla Commissione della CEE, la più importante) e dalle altre istituzioni comunitarie.
Nel 1976 gli Stati membri presero la decisione di far eleggere il Parlamento europeo a suffragio universale diretto. Il Parlamento era stato istituito sin dal 1957, come assemblea ristretta i cui deputati erano designati dai Parlamenti nazionali. Ora, a partire dalle elezioni del 1979, l’elettorato di ciascun Paese membro avrebbe votato i propri rappresentanti nazionali (in numero proporzionale alla popolazione).
Questo rafforzamento delle strutture comunitarie in senso democratico aveva più che altro un valore simbolico, dal momento che il Parlamento europeo manteneva ancora soltanto funzioni consultive e non legislative. Al contempo, su un piano più pragmatico, si rafforzò il diritto comunitario, grazie all’azione determinata della Corte di giustizia europea (il tribunale previsto dai Trattati di Roma che sovraintendeva all’applicazione e all’interpretazione del nascente diritto europeo). Sin dagli anni Sessanta la Corte agì affermando tendenzialmente la superiorità delle norme comunitarie su quelle nazionali e inoltre cominciò a estenderle. Si creò così uno spazio giuridico europeo in grado di prefigurare un’integrazione non soltanto economica, ma anche pienamente politica e sociale, aprendo la strada al processo di definizione di una cittadinanza europea, che sarebbe stata introdotta nel 1992.
4 La Cina dalla «rivoluzione culturale» alla morte di Mao Tse-tung
Il fallimento del «grande balzo in avanti» Alla fine degli anni Cinquanta, malgrado i buoni risultati del primo piano quinquennale, la Cina popolare continuava a essere un Paese arretrato sia nel settore industriale sia in quello agricolo. Dalla fine della guerra civile, la popolazione era aumentata a un ritmo molto elevato, passando da circa 540 milioni nel 1950 a circa 640 milioni nel 1960, e questo poneva grossi problemi alimentari e di occupazione: come sfamare e dove impiegare quei milioni di nuove leve?
Nel 1958 la dirigenza cinese, con alla testa Mao Tse-tung, tentò di incrementare il ritmo della crescita, lanciando un programma battezzato il «grande balzo in avanti». L’idea era quella di sviluppare contemporaneamente l’agricoltura e l’industria, sia pesante sia leggera, facendo leva sull’enorme quantità di manodopera disponibile.
La base dell’organizzazione doveva essere la «Comune popolare», un’unità economica-amministrativa che poteva riunire da 4000 a 10.000 famiglie e doveva diventare un complesso agrario e industriale autosufficiente. Con la Comune veniva perfezionata anche la collettivizzazione, dal momento che terre, bestiame, attrezzi, mezzi di produzione, servizi ecc. diventavano proprietà e attività dei membri della Comune.
Il «grande balzo» si animò di una fortissima spinta ideologica, che accordava la priorità agli obiettivi sociali e politici rispetto a quelli strettamente economici. Prima che modernizzare il Paese, doveva creare una società totalmente nuova, egualitaria e anti-individualista, che si spingeva a immaginare l’abolizione, di fatto, del nucleo familiare e della vita privata.
Questo progetto, tuttavia, si risolse in un catastrofico fallimento: i problemi organizzativi, gli errori tecnici (dovuti proprio al primato assoluto accordato all’ideologia, che procedette incurante dei dati oggettivi) e una serie di sfortunate circostanze (una serie di calamità naturali colpirono la Cina riducendo i raccolti) fecero crollare sia la produzione agricola sia quella industriale. Tra il 1959 e il 1961, poi ribattezzati i «tre anni neri», in Cina si ebbero almeno 14 milioni di morti di fame (secondo le cifre ufficiali, ma alcuni studiosi avanzano stime più alte).
La rottura con l’Unione Sovietica In quegli stessi anni Pechino arrivò a rompere con l’Unione Sovietica: il distacco da Mosca equivaleva a una rivendicazione di indipendenza sia nazionale sia ideologica. La Cina intendeva diventare un protagonista autonomo sulla scena internazionale ed elaborare una propria via originale al socialismo. Mao era fortemente critico nei confronti della linea adottata da Kruscev nel 1956: freddo in merito alla destalinizzazione, accusava i sovietici di tradire la rivoluzione, soffocata nelle strutture burocratiche del partito che di fatto riproponeva soltanto una versione diversa e «di Stato» del capitalismo, ed era contrario all’idea di convivenza pacifica. Secondo il «grande timoniere» (uno dei soprannomi con cui era noto Mao) bisognava condurre una politica più aggressiva, perché le potenze capitaliste erano in difficoltà e non ne andava sopravvalutata la forza: erano soltanto «tigri di carta», secondo una sua celebre definizione.
La tensione tra Pechino e Mosca sarebbe cresciuta per tutti gli anni Sessanta, mentre a livello internazionale Pechino, come abbiamo visto (➜ PAR. 2), giunse a un accordo con gli Stati Uniti all’inizio degli anni Settanta, mentre ruppe i rapporti con il regime vietnamita, rimasto filosovietico (➜ CAP. 15.2).
La «rivoluzione culturale» Nel frattempo la Cina visse fortissime tensioni interne. Il fallimento del «grande balzo» aveva fatto emergere un’ala moderata, che tra le sue fila contava anche Deng Xiao-ping, segretario del Partito comunista cinese, e Liu Shaoqi, il presidente della Repubblica (mentre Mao conservava la carica di presidente del Comitato centrale del Partito comunista, cruciale per avere il controllo su tutta l’organizzazione di partito).
A differenza di Mao, che sosteneva il primato della politica e dell’ideologia sull’economia (non sarebbe stato lo sviluppo economico a portare alla nascita di una società socialista, ma al contrario l’affermazione di quest’ultima avrebbe prodotto un determinato sviluppo produttivo), il gruppo moderato era convinto della necessità di ridare priorità a criteri economici, per evitare le sciagure dei tre anni precedenti.
Il conflitto tra queste due opzioni si sviluppò sotterraneamente fino a esplodere tra il 1965 e il 1966. Contro i moderati, che erano riusciti a prendere temporaneamente il controllo del Comitato centrale del partito, Mao scatenò un’offensiva ideologica che ebbe pesanti conseguenze pratiche. Per riprendere le redini del partito, si appoggiò sull’esercito e soprattutto sulla gioventù cinese, gli studenti in particolare, che aderirono in massa al movimento delle «guardie rosse».
Sin dal 1964 Mao aveva diffuso su larga scala il suo Libretto rosso, una raccolta di massime rivoluzionarie che esaltavano i valori dell’egualitarismo e del collettivismo (divenne un punto di riferimento ideologico anche per alcuni settori dei movimenti di contestazione sorti in Occidente a partire dal 1968, ➜ CAP. 17).
Quindi nell’estate del 1966 cominciò ufficialmente il movimento della «grande rivoluzione culturale», animato da slogan quali «bombardare il quartier generale». Le masse giovanili ebbero mano libera contro quelle che venivano indicate come le élite intellettuali e burocratiche, in nome di una purezza rivoluzionaria da ristabilire scalzando funzionari e tecnocrati dalle loro posizioni di privilegio che si erano create appunto tradendo la rivoluzione.
La protesta giovanile rovesciò le gerarchie con violenza, costringendo i quadri del partito contrari a Mao a umilianti autocritiche pubbliche, cui seguivano internamenti o periodi di «rieducazione» che, per esempio, prevedevano l’obbligo di svolgere lavori manuali. Tra i vecchi dirigenti che subirono l’epurazione si trovò anche Deng Xiao-ping.
Il Paese piombò in un caos violento. Non esiste un bilancio delle vittime della «rivoluzione culturale», le stime oscillano da qualche decina di migliaia ad alcuni milioni di morti. La spinta delle «guardie rosse» si esaurì progressivamente tra il 1967 e il 1968, anche per l’intervento di Mao che ormai aveva raggiunto lo scopo che si era prefissato: la sconfitta e la rimozione dei moderati.
Verso una nuova Cina Tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, la Cina avviò un consistente recupero economico: la sua agricoltura, benché ancora poco meccanizzata, era diventata più produttiva di quella indiana, mentre la sua industria si collocava, per quantità di prodotto, tra le prime dieci al mondo, benché ancora molto lontana dai livelli statunitensi, europei e sovietici.
A rendere il Paese un potenziale terzo grande polo mondiale contribuiva lo sviluppo del programma atomico: la Cina fece esplodere la sua prima bomba A nel 1964 e la sua prima bomba H nel 1967.
Anche per queste ragioni a metà degli anni Settanta poté riprendere quota la proposta dei sostenitori della linea moderata, o pragmatica, attenta agli indicatori della crescita economica. Intorno al 1974-75, questo gruppo ritrovò il suo vecchio leader Deng Xiao-ping, il quale venne «riabilitato», come moltissimi altri dirigenti caduti in disgrazia durante la rivoluzione culturale.
Dopo la morte di Mao, avvenuta nel 1976, la linea di Deng si impose al vertice della Cina: le questioni economiche divennero prioritarie, venne lanciata la campagna delle «quattro modernizzazioni» (ovvero nell’industria, nell’agricoltura, nella difesa nazionale e nel campo scientifico e tecnologico) e la politica della «porta aperta», che prevedeva l’intensificazione degli scambi commerciali con il mondo capitalista. Allo stesso tempo era abbandonata la collettivizzazione integrale in agricoltura e, all’interno del Paese, si aprivano spazi sempre più consistenti – sia pure attentamente controllati dal Partito – all’economia di mercato.
La Cina cominciava così un programma di modernizzazione guidata dall’alto paragonabile a quello conosciuto dal Giappone nel XIX secolo.
Questo significò procedere anche a una progressiva «demaoizzazione», a tutti i livelli. I successori di Mao accantonarono ogni progetto di società egualitaria per lasciar spazio a un diverso singolare esperimento: quello di uno Stato autoritario e dirigista, guidato da un partito ufficialmente sempre comunista, impegnato a incentivare un impetuoso sviluppo economico, tale da avviare la Cina a diventare la nuova grande superpotenza del XXI secolo.
5 Dall’Estremo al Medio Oriente: modernizzazione e «islam politico»
Il fermento economico e politico dell’Asia Nel corso degli anni Settanta il grande continente asiatico divenne il teatro di altri importanti rivolgimenti che portarono alla ribalta due fenomeni di natura molto diversa, ma entrambi destinati a incidere sugli assetti planetari e a disegnare il volto del mondo in cui viviamo oggi:
alla crescita economica del Giappone, che proseguì anche dopo lo shock petrolifero del 1973, si affiancò quella dei Paesi del Sud-Est asiatico;
dall’Asia centrale al Medio Oriente, si assistette all’ascesa dell’«islam politico», ossia di quei gruppi e movimenti che prendono le mosse dalla fede musulmana per creare uno Stato islamico tradizionalista fondato sui principi della sharia (➜ CAP. 15.3 E 4).
Il Giappone all’avanguardia A differenza di quanto accadde in Europa, il grande «miracolo economico» giapponese non si arrestò all’inizio degli anni Settanta: la crisi petrolifera del 1973 inferse un duro colpo al Paese del Sol Levante, che tuttavia ne risentì meno dei partner occidentali perché la sua industria seppe ristrutturarsi in tempi record, forte anche dei risultati del ventennio precedente.
Il sistema industriale nipponico si pose alla testa di un processo di innovazione che poi si sarebbe diffuso in tutto il mondo occidentale (➜ CAP. 17), fondato sul ricorso a sistemi di automazione (ovvero impiego di robot) e su una nuova organizzazione della produzione che migliorava l’efficienza e la produttività, eliminando sprechi di materie prime e di tempo di lavoro. Il modello giapponese poneva particolare attenzione alla risposta «flessibile» della produzione, secondo i principi del just in time, per cui essa doveva rispondere alla richiesta del mercato, praticamente su ordinazione, e non precederla (cosa che determina forti costi di stoccaggio ed espone al rischio di avere magazzini pieni di merci invendute).
Questo insieme di innovazioni del processo produttivo – denominato «toyotismo» perché teorizzato in particolare nell’ambito del gruppo industriale Toyota – portò al superamento del modello fordista (➜ CAP. 1.2) e al consolidamento del vantaggio competitivo, che il Giappone conservò sugli Stati Uniti e sull’Europa fino a tutti gli anni Ottanta.
Nello stesso periodo, i notevoli investimenti delle aziende e dello Stato nella ricerca e nell’istruzione (alla base della creazione di una manodopera altamente qualificata) si tradussero in una leadership dell’industria giapponese nei settori emergenti dell’elettronica.
Le «tigri asiatiche» La crescita economica giapponese trainò l’area del Sud-Est asiatico dove, a partire dagli anni Sessanta, cominciarono a emergere le economie di quattro Paesi: Corea del Sud, Taiwan, Singapore (che alla fine degli anni Sessanta si era reso indipendente dalla Malesia) e Hong Kong (allora ancora colonia britannica, uno degli ultimi residui dell’imperialismo europeo: sarebbe passata sotto la sovranità della Cina popolare soltanto nel 1997, ➜ CAP. 21.5).
Questi Paesi legarono il loro sviluppo sostanzialmente a una crescita industriale diretta non al mercato interno ma all’esportazione. Alla fine degli anni Ottanta le esportazioni complessive dei quattro Paesi rappresentavano oltre l’8 per cento del commercio mondiale (alla stessa data il Giappone realizzava poco meno del 10 per cento, mentre tutta l’America centro-meridionale assommava poco più del 4 per cento). Questi strabilianti risultati economici – che non conobbero battute d’arresto sino a una crisi sopravvenuta alla fine degli anni Novanta – fecero sì che in Occidente si cominciasse a parlare di «dragoni» o «tigri asiatiche».
A partire dagli anni Ottanta, la crescita economica si diffuse in altri Paesi del Sud-Est asiatico, secondo cronologie diverse; nel novero delle cosiddette «economie emergenti» sarebbero entrate anche la Malesia, l’Indonesia, la Thailandia, le Filippine e, infine, anche il Vietnam e la Cambogia – che lentamente superarono le scorie e i traumi dei conflitti degli anni Settanta.
L’importanza del petrolio Intanto, nel mondo musulmano, tra il Medio Oriente e l’Asia centrale, riprese l’ascesa dell’islam politico, quell’opzione che durante il processo di decolonizzazione era risultata perdente di fronte a modelli di ispirazione occidentale, peraltro appoggiati dalle stesse potenze coloniali.
Si trattava, soprattutto in Medio Oriente, di un’area la cui importanza strategica era costantemente cresciuta insieme con le sue riserve ed esportazioni di petrolio, che alimentavano l’economia mondiale (alla fine della Seconda guerra mondiale, il petrolio mediorientale rappresentava il 7 per cento della produzione mondiale, nel 1973 la quota era giunta al 38 per cento).
I ricavi del petrolio, incrementati in modo esorbitante in seguito allo shock degli anni Settanta, avevano finanziato la stabilità politica di molti Stati dell’OPEC, soprattutto degli Emirati arabi che in quegli anni cominciarono ad assumere l’odierna fisionomia. Si affermavano, infatti, come regimi autoritari capaci di creare consenso interno mediante programmi di investimento (tali anche da attrarre forza lavoro dall’estero), assistenza, istruzione e la cooptazione delle classi medio-alte, impiegate nell’amministrazione. Sulla scena internazionale questi Stati assunsero sempre di più un ruolo da protagonisti perché alle esportazioni di petrolio affiancarono enormi investimenti esteri (dei capitali ottenuti dalla vendita del cosiddetto «oro nero»), nelle stesse economie occidentali, a cominciare da quella statunitense.
Questi impetuosi mutamenti portarono anche forti tensioni, che vennero governate con esiti diversi. Per esempio, la dinastia reale dell’Arabia Saudita, seguendo una politica fortemente conservatrice, fece in modo di mantenere il consenso dei leader religiosi wahabiti, rappresentati della più intransigente ortodossia dell’Islam sunnita, evitando così che diventassero un punto di riferimento per un’opposizione politica in grado di destabilizzare l’assetto raggiunto.
La rivoluzione khomeinista in Iran Le cose andarono diversamente in Iran dove lo scià Reza Pahlavi nel 1953 era stato rimesso sul trono dagli Stati Uniti (➜ CAP. 15.4). Il sovrano avviò una politica di rapida modernizzazione, finanziata dal petrolio, che tuttavia andò incontro a un altrettanto veloce fallimento. Pahlavi fece scelte dissennate (come quella di istituire un costosissimo esercito) e finì per scontentare tutti:
le classi medio-alte tradizionali penalizzate dalla riforma agraria (in verità modesta) e dalla priorità accordata allo sviluppo industriale;
i nuovi ceti urbani e intellettuali legati alla modernizzazione, che diedero vita a un’opposizione politica di stampo laico, in parte liberale e in parte marxista, duramente repressa dalla polizia;
le autorità islamiche (sciite, secondo la confessione musulmana dominante in Iran), ostili alla modernizzazione in senso occidentale (che coinvolgeva ormai anche il diritto di famiglia e il sistema educativo).
Nel 1978 il malcontento si inasprì sia per il carattere autoritario e l’evidente corruzione del regime, sia per una crisi economica legata a investimenti sbagliati. In questo clima, l’opposizione religiosa trovò un punto di riferimento in Ruhallah Khomeini, un ayatollah, ovvero un leader religioso, da tempo impegnato nell’opposizione contro lo scià, e per questo esiliato sin dal 1964, prima in Turchia e in Iraq e poi in Francia. Khomeini sosteneva la necessità di rovesciare la monarchia per stabilire uno Stato islamico.
Nel corso dell’anno, dal suo esilio parigino, Khomeini riuscì a imporsi sulla scena mediatica internazionale come guida della protesta contro lo scià (dal canto suo largamente screditato anche agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, per la sua politica autoritaria). In patria, i discorsi di Khomeini circolavano in testi fotocopiati e incisi nelle audiocassette: anche le rivoluzioni entravano in una nuova era mediatica. Mentre l’opinione pubblica mondiale era ancora attardata dentro le gabbie ideologiche della guerra fredda e imbrigliata nello scontro tra Est e Ovest che, nella sua ormai regolata conflittualità, sembrava quasi un orizzonte rassicurante, si apriva in Iran una nuova faglia del conflitto mondiale che si sarebbe rivelata carica di futuro.
Di fronte al crescere dell’agitazione di massa, in particolare nella capitale Teheran, che portò al blocco del Paese, nel gennaio 1979 lo scià decise di lasciare l’Iran. Il 1° febbraio 1979, Khomeini rientrò a Teheran decidendo le sorti della rivoluzione: i religiosi presero la guida del Paese, eliminando rapidamente le altre forze di opposizione liberali e marxiste che pure erano state protagoniste sino a quel momento.
L’Iran diventò così una Repubblica islamica di stampo teocratico, con una Costituzione che prevedeva la subordinazione delle istituzioni politiche (presidente, governo e Parlamento) alle autorità religiose (la Guida Suprema coadiuvata da un Consiglio dei Saggi); la fonte legislativa era naturalmente la sharia.
Come altre volte nel passato dell’umanità, la storia ritornava a zampillare laddove sembrava una fonte esaurita e dimenticata. In pochi, in quei giorni, se ne accorsero: in parte perché erano intenti a commentare l’ultima installazione dei missili NATO a medio raggio in Europa per contrastare gli SS20 sovietici, in parte poiché erano convinti che quelle sconfinate turbe festanti che alzavano i pugni e si battevano il petto fossero l’ultima manifestazione di un Medioevo perduto e non la prova di una inquietante modernità con cui si sarebbero dovuti confrontare a lungo.
Uno smacco per gli Stati Uniti e l’Occidente Il regime khomeinista si presentò subito come un punto di riferimento per i gruppi islamisti e assunse una posizione risolutamente antiamericana, antioccidentale e antisraeliana. Proprio quando gli Accordi di Camp David tra Egitto e Israele (➜ CAP. 15.4) sembravano aver aperto uno spiraglio per la pacificazione del Medio Oriente, ecco che si presentavano nuove tensioni e crisi.
Nel novembre 1979, a Teheran, un’imponente manifestazione studentesca sfociò nell’assalto contro l’ambasciata americana. Una cinquantina di diplomatici statunitensi si ritrovarono in ostaggio. Nell’aprile 1980 il presidente Carter (che nel 1976 aveva riportato i democratici alla Casa Bianca e nel 1978 patrocinato l’accordo israelo-egiziano) autorizzò un’azzardata operazione di salvataggio, che si concluse con un fallimento.
Questi eventi fecero crollare l’autorevolezza di Carter e condizionarono le elezioni presidenziali del novembre 1980 in cui prevalse il candidato repubblicano Ronald Reagan, con cui sarebbe cominciata una nuova fase politica (➜ CAP. 17).
Le autorità iraniane accettarono di riconsegnare gli ostaggi solo alla fine del gennaio del 1981, dopo l’insediamento del nuovo presidente.
La guerra Iran-Iraq L’avvento del regime sciita a Teheran rinfocolò inoltre la tradizionale tensione con l’Iraq, un altro grande produttore di petrolio del Medio Oriente. Negli stessi mesi in cui in Iran si affermava la rivoluzione khomeinista, a Baghdad si affermava la leadership laica di Saddam Hussein, che si presentava come erede politico del nasserismo e del socialismo arabo (➜ CAP. 15.4).
Sostenitore di un programma di modernizzazione e di occidentalizzazione, Hussein si impose come dittatore di un Paese molto complesso e fragile, perché attraversato da profonde divisioni tribali, etniche e religiose. In particolare la popolazione, di fede islamica, era divisa tra una maggioranza di sciiti e una consistente minoranza di sunniti, che godeva tuttavia di una posizione politica e sociale preminente nel Paese: lo stesso Hussein era sunnita.
La rivoluzione iraniana fece temere a Hussein un «contagio» tra gli sciiti iracheni. A questo motivo di tensione si aggiungevano obiettivi geopolitici ed economici: la volontà di stabilire la supremazia nella regione del Golfo Persico e di accaparrarsi altre zone petrolifere.
Nel settembre 1980 l’Iraq invase l’Iran, avviando una lunga e sanguinosa guerra che si sarebbe conclusa soltanto nel 1988 senza produrre alcuna modifica allo status quo precedente (le stime parlano di circa 1,5 milioni di morti complessivi, molti dei quali giovani caduti al fronte).
Gli Stati Uniti si schierarono ufficialmente con l’Iraq, l’Unione Sovietica con l’Iran, ma in realtà entrambe le superpotenze rifornivano di armi i due contendenti, contando di indebolire regimi considerati comunque poco affidabili.
La questione palestinese e la crescita del fondamentalismo Il regime iraniano rilanciò e radicalizzò ulteriormente anche la lotta contro Israele, condotta facendo ricorso a tecniche di guerriglia e terroristiche sia a livello locale sia internazionale. Per esempio, nel 1982, nel Libano che Israele aveva appena invaso cominciò ad agire il gruppo Hezbollah (letteralmente «partito di Dio»), ispirato dalla predicazione di Khomeini e addestrato e finanziato dall’Iran.
L’anno prima, nel 1981, un militante di un’organizzazione fondamentalista facente capo ai Fratelli musulmani aveva ucciso il presidente egiziano Sadat come ritorsione per la pace stipulata con Israele (Accordi di Camp David, 1978 ➜ CAP. 15.4).
Queste posizioni, che oggi sono classificate sotto le generiche etichette di «fondamentalismo» o «radicalismo islamico», cominciarono a rafforzarsi in tutto il vasto e complesso mondo musulmano. La crescente politicizzazione (o uso politico) dell’Islam, ossia la volontà di costruire un progetto tradizionalista a partire da una fede religiosa, sembrò rappresentare l’inevitabile movimento di ritorno di un pendolo.
Nel corso della decolonizzazione, i principali Paesi musulmani, compreso quelli arabi, avevano abbracciato progetti di Stato laico nazionalista e perlopiù socialisteggiante, che avevano avuto temporaneamente il sopravvento sull’opzione tradizionalista di carattere religioso. Quest’ultima riprendeva quota in una fase critica per le società di quei Paesi, anche a causa delle conseguenze della modernizzazione socio-economica in corso che stava travolgendo le strutture tradizionali (le gerarchie sociali, le attività economiche rurali, l’organizzazione famigliare, i rapporti con l’autorità pubblica).
La serie di fallimenti, le prove di malgoverno e una crescente corruzione che caratterizzavano le classi dirigenti postcoloniali alimentarono lo scontento, dando vita a un circolo vizioso senza apparente via d’uscita.
In questi anni cominciarono a delinearsi altre due caratteristiche dell’islamismo radicale, per certi aspetti contraddittorie.
Per un verso, il mondo musulmano non si mostrava affatto come monolitico, essendo vastissimo, complesso e attraversato da diverse correnti confessionali; queste divisioni interne si riflettevano nella galassia del radicalismo islamico, dove emersero anche profondi antagonismi.
Per un altro, cominciò a emergere una disponibilità «dal basso» a partecipare a un movimento islamico radicale internazionale, che si manifestò per la prima volta nell’afflusso di volontari islamici nella guerra di resistenza antisovietica cominciata in Afghanistan sempre nel 1979.
L’invasione sovietica in Afghanistan Alla fine degli anni Settanta gli schemi del mondo bipolare condizionati dalla guerra fredda e i nuovi fenomeni emergenti nel mondo musulmano si incrociarono sulle montagne dell’Afghanistan dove, nel 1978, in seguito a un colpo di Stato militare, si era imposto un regime di ispirazione comunista e filosovietico. Il governo afghano lanciò un programma di riforme e di modernizzazione dall’alto che buona parte della popolazione accolse malvolentieri. Questo scontento alimentò una resistenza di matrice islamica, sostenuta anche dal vicino Pakistan, dall’Iran e dalla Cina (in chiave antisovietica). Varie regioni del Paese sfuggirono al controllo di Kabul.
L’Unione Sovietica cercò di stabilizzare il regime afghano, guidando anche alcuni cambiamenti al vertice, in cerca di soluzioni mediate e moderate. Di fronte al continuo insuccesso politico, e temendo ormai che la ribellione islamica potesse fare breccia tra le popolazioni musulmane delle repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, il 27 dicembre 1979 l’Armata rossa invase l’Afghanistan. Questa azione surriscaldò immediatamente il clima internazionale: gli Stati Uniti reagirono con ritorsioni simboliche e materiali (decisero di boicottare i giochi olimpici del 1980, ospitati da Mosca, e bloccarono le esportazioni di cereali dirette in Unione Sovietica), ma soprattutto cominciarono a finanziare la guerriglia musulmana in funzione anticomunista e antisovietica, rifornendola di armi moderne attraverso il Pakistan.
Per i sovietici l’Afghanistan rappresentò l’equivalente del Vietnam per gli americani: per quasi dieci anni vi sacrificarono risorse, uomini (circa 50.000 soldati dell’Armata rossa morirono o furono feriti nel conflitto) e orgoglio nazionale senza riuscire a venire a capo della guerriglia islamista.
Il ritiro sovietico avvenne all’inizio del fatidico anno 1989. Letta con le lenti della guerra fredda, l’invasione dell’Afghanistan costituì un errore di calcolo che accelerò la definitiva crisi dell’URSS (➜ CAP. 20).
Oggi, a distanza di tempo, questi eventi si possono leggere anche come un errore di calcolo dell’Occidente, che finanziò e inondò di armi una sorta di «internazionale» del radicalismo islamico pensando di potersene servire senza particolari controindicazioni. Basti pensare che tra quei guerriglieri musulmani foraggiati con armi e denaro dagli Stati Uniti mediante i servizi segreti pakistani ricorre anche il nome di un giovane sceicco saudita, Osama bin Laden, il quale aveva risposto alla chiamata dell’internazionalismo islamico in difesa dell’Afghanistan contro l’imperialismo sovietico nelle fila dei mujaheddin («combattenti per la jihaˉd»).
In realtà, come vedremo nei prossimi capitoli – e come ci raccontano le cronache di oggi – il fondamentalismo islamico si sarebbe affermato come un soggetto autonomo, sfuggendo a ogni tentativo di controllo. Per questa ragione una guerra periferica come quella in Afghanistan, all’apparenza destinata solo ad accompagnare il declino dell’impero sovietico, annunciò invece un’epoca nuova, l’età del cosiddetto «disordine mondiale» in cui siamo ancora immersi che, nel giro di un paio di decenni, avrebbe soppiantato l’«ordine bipolare» della guerra fredda.
1 Dalla crisi alla distensione: gli anni di Kennedy e di Kruscev
Continua la competizione USA-URSS Sul finire degli anni Cinquanta, l’apice della tensione tra le due superpotenze sembrava superato e alcuni segnali suggerivano che il confronto fosse avviato a svolgersi pacificamente, facendo tramontare la costante minaccia al ricorso delle armi.
Il presidente Eisenhower chiuse il suo duplice mandato, nel gennaio 1961, con un discorso in cui metteva in guardia dai pericoli di una eccessiva militarizzazione e dalla perniciosa influenza del «complesso militare-industriale» sulla vita democratica.
Dal canto suo, il leader sovietico Kruscev cominciava a vedere come una priorità il rallentamento delle spese militari, al fine di vincere la sfida contro gli Stati Uniti – come aveva più volte ribadito (➜ CAP. 14) – sul terreno del benessere. In quegli anni, le economie del blocco sovietico erano ancora abbastanza dinamiche da far sembrare realistica questa prospettiva. Inoltre, i sovietici erano reduci da una straordinaria vittoria tecnologica e simbolica: nell’ottobre del 1957 avevano mandato in orbita il primo satellite artificiale, lo «Sputnik» (in russo «compagno di viaggio»).
Nuove frontiere All’inizio del 1961, mentre gli Stati Uniti erano ancora scossi dai successi dei sovietici nella corsa allo spazio, l’avvento alla Casa Bianca del democratico John Fitzgerald Kennedy fu accolto come l’annuncio di un nuovo corso, che segnalava anche i mutamenti recenti intervenuti nella società americana. Per la prima volta un presidente degli Stati Uniti era cattolico ed era il primo a essere nato nel XX secolo: con i suoi 43 anni era (e resta ancora) il più giovane capo dello Stato mai eletto direttamente dal corpo elettorale americano.
La sua vittoria rivelò anche l’importanza politica di un nuovo strumento di comunicazione: la televisione, già bene di consumo di massa negli Stati Uniti (➜ ANCHE CAP. 17). Nel confronto, trasmesso sul piccolo schermo, con il suo antagonista, il repubblicano Richard Nixon, Kennedy apparve più brillante e fotogenico: il suo volto, in qualche misura, si rivelò vincente non meno del suo programma e della sua retorica. Di per sé, il fenomeno della propaganda mediante l’immagine non costituiva una novità, ma risultavano totalmente inedite le dimensioni dello spazio e del tempo in cui si realizzava: la vastità della platea a cui il messaggio visivo si rivolgeva, e lo stile imposto da un mezzo così rapido nel diffonderlo come la televisione.
Kennedy si presentava con un ambizioso programma di rilancio della società americana in senso progressista, che aveva elaborato con l’aiuto di un gruppo di tecnici e di intellettuali della sua stessa generazione, e racchiuso nello slogan «la nuova frontiera». Questa immagine faceva leva su uno dei miti fondatori della nazione americana: la sfida dei pionieri alla «frontiera», ossia la spinta alla colonizzazione del «lontano Ovest» avvenuta nel corso del XIX secolo. La «frontiera» da sfidare nel XX secolo era quella di una migliore democrazia, basata su una reale affermazione dei diritti di cittadinanza, estesa a tutti, e su una più ampia giustizia sociale: contro la povertà, le distanze sociali e soprattutto contro la segregazione razziale di cui erano ancora vittime milioni di cittadini statunitensi di pelle nera (➜ CAP. 14.1 e avanti, PAR. 2).
Si può dire che ci fosse anche una dimensione fisica nella «frontiera» kennediana: il nuovo mondo da raggiungere e colonizzare era lo spazio. Per volontà di Kennedy il programma spaziale americano subì un enorme potenziamento e superò di slancio quello sovietico, fino a riuscire a «conquistare» la Luna, nel luglio 1969.
Il muro di Berlino In politica estera la presidenza Kennedy si rivelò di gran lunga meno innovativa: nel solco dei predecessori, mantenne una retorica dai toni apocalittici nei confronti dell’antagonista sovietico (l’anticomunismo continuava a essere un argomento di forte presa sull’opinione pubblica americana e pertanto cruciale nelle competizioni elettorali), accompagnata tuttavia dalla volontà di non far precipitare il mondo in una guerra letale.
Due gravi crisi internazionali segnarono i primi anni Sessanta. Una ebbe luogo in Europa e riguardava la questione della Germania, che non aveva ancora trovato una definitiva soluzione formale.
Sin dal 1958 Kruscev aveva lanciato un’offensiva diplomatica in merito alla situazione di Berlino, che ufficialmente continuava a essere sottoposta all’occupazione congiunta delle quattro potenze antifasciste, proponendo che la città fosse dichiarata «libera» e smilitarizzata.
Il negoziato di fatto non ebbe neppure inizio, per la manifesta volontà degli Stati Uniti di conservare la propria presenza a Berlino ovest. Dopo che, nel giugno 1961, Kennedy ribadì ancora una volta questo orientamento, Mosca incassò l’insuccesso, autorizzando però il regime di Berlino est a costruire un muro di separazione tra le due parti dell’ex capitale tedesca e a fortificare ulteriormente il resto della frontiera con la Germania ovest. Peraltro le autorità della Germania est premevano da tempo su Mosca in questo senso, per bloccare la fuga di massa dei propri cittadini: tra il 1949 e il 1961 circa 2,5 milioni di tedeschi orientali, perlopiù giovani, erano infatti passati a ovest, principalmente usando il varco berlinese.
Il muro di Berlino fu eretto la notte del 13 agosto 1961: per poco meno di trent’anni, finché non venne abbattuto il 9 novembre 1989 (➜ CAP. 20), sarebbe stato uno dei confini più sorvegliati del mondo, il simbolo della guerra fredda, ma anche la traccia materiale e visibile della mancanza di libertà nel campo sovietico e della miscela di forza e di impotenza – per il progressivo affievolirsi di spinte ideali, di consensi e di prospettive – che caratterizzava le cosiddette «democrazie popolari».
I missili a Cuba L’altra crisi ebbe per scenario l’isola di Cuba che, in seguito alla maldestra reazione degli Stati Uniti alla rivoluzione castrista (➜ CAP. 15.6), era diventata un membro del blocco sovietico, portando la frontiera della guerra fredda a poche miglia marine di distanza dalla costa della Florida.
Temendo il ripetersi di tentativi d’invasione come quello dell’aprile 1961, il governo cubano incrementò le richieste di aiuti militari a Mosca. Non potendo impegnarsi ulteriormente in spese per armi convenzionali, il Cremlino giocò la carta del nucleare e cominciò, nell’estate del 1962, l’installazione di missili sull’isola (dove peraltro, per uno di quegli strani casi che governarono gli equilibri della guerra fredda, gli Stati Uniti ancora conservavano la base navale di Guantanamo, ottenuta in affitto al termine della guerra ispano-americana del 1898).
Nell’ottobre del 1962 gli americani ebbero le prove – grazie a fotografie scattate dai loro aerei spia – e denunciarono pubblicamente la presenza di rampe di lancio missilistiche a Cuba. Per qualche giorno il mondo rimase con il fiato sospeso, temendo lo scoppio della terza guerra mondiale, ma le diplomazie dei due Paesi si mossero dietro le quinte in modo tale da evitare rotture irreparabili, giungendo a una soluzione. L’Unione Sovietica accettò infine di ritirare i missili da Cuba, ottenendo dagli americani la promessa di non invadere l’isola.
Inoltre, pochi mesi dopo gli USA acconsentirono a un’altra richiesta sovietica, quella di smantellare le loro basi missilistiche in Turchia. Kennedy aveva accettato questa seconda condizione a patto che non fosse resa pubblica (ufficialmente i missili che erano in Turchia furono ritirati perché ormai obsoleti). La pace fu salvata dalle mosse di una diplomazia segreta, tuttavia da questo gioco delle parti era soprattutto l’immagine dell’Unione Sovietica a venire intaccata.
Verso la distensione, senza i suoi protagonisti La crisi cubana era stata così grave da spingere i governi delle superpotenze a valorizzare il ruolo dello spionaggio internazionale e a trovare nuovi meccanismi diplomatici per evitare lo scoppio di una guerra nucleare a causa di un fraintendimento o di un errore nella catena di comando.
Erano angosce materiali che occupavano le coscienze e l’immaginario di milioni di cittadini nel mondo e che avrebbe trovato le più disparate manifestazioni sul terreno della cultura e dell’industria dell’intrattenimento, per esempio nella interminabile saga letteraria e cinematografica dell’agente segreto 007 James Bond (il primo film è proprio del 1962), o nel capolavoro di Stanley Kubrick, uscito nel 1964, Il dottor Stranamore, una terribile commedia grottesca in cui un generale americano, guerrafondaio e anticomunista, provoca lo scoppio della guerra a dispetto delle intenzioni del suo presidente, che non riesce più a fermare il corso degli eventi una volta innescati.
Il Cremlino e la Casa Bianca si collegarono tra loro grazie a una linea diretta di telescriventi (un’evoluzione del telegrafo), detta «linea rossa». Finalmente cominciarono dei negoziati per ridurre gli armamenti, arrivando a un primo accordo per il bando dei test nucleari di superficie.
In Germania, le diplomazie accettarono prudentemente la situazione determinatasi sul campo. Kennedy peraltro seppe ravvivare la retorica della guerra fredda: nel corso della sua visita ufficiale a Berlino ovest, nel giugno del 1963, pronunciò un celebre discorso in cui – dichiarandosi egli stesso cittadino di Berlino («Ich bin ein Berliner») – esprimeva la vicinanza di tutto il «mondo libero» ai berlinesi «assediati».
Fu l’ultima grande apparizione di Kennedy sulla scena internazionale. Pochi mesi dopo, il 22 novembre 1963, venne assassinato a Dallas, in Texas, in circostanze mai del tutto chiarite. Questa tragica morte, avvolta in un alone di mistero, lo fece entrare immediatamente nel mito, quello degli eroi portatori di speranza abbattuti a tradimento nel pieno della loro forza e giovinezza.
Un’analisi degli effettivi risultati dei tre anni della sua presidenza peraltro ha indotto molti studiosi ad abbandonare i toni epici della propaganda per abbracciare un’analisi più realistica ed equilibrata: come abbiamo già detto, in politica estera Kennedy seguì un copione piuttosto tradizionale, avviando anche l’impegno americano in Vietnam (➜ CAP. 15.2), mentre l’ambizioso programma di riforme interne dovette attendere il suo successore, Lyndon Johnson, per decollare.
Undici mesi dopo, nell’ottobre del 1964, usciva di scena anche Kruscev. Gli organi del partito costrinsero alle dimissioni il leader sovietico, che pagò un riformismo interno e un dinamismo in politica estera a cui non avevano corrisposto risultati considerati all’altezza. Se lo scacco subito a Cuba svolse un ruolo importante nel determinare l’eclissi di Kruscev, il problema più complesso riguardava però l’inasprimento dei rapporti con la Cina di Mao (➜ ANCHE PAR. 4).
Con la destituzione di Kruscev terminava – secondo alcuni prima ancora che fosse cominciata sul serio – la fase di disgelo della politica e della società sovietiche. Peraltro non si tornò nemmeno all’asprezza della persecuzione staliniana: il tempo delle grandi purghe e dei gulag era finito.
2 La distensione tra problemi interni e instabilità internazionale
La «Great Society» americana e la guerra del Vietnam Negli anni Sessanta e Settanta, il confronto tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica proseguì nel segno della distensione. Alcuni accordi che portarono alla riduzione degli armamenti e all’apertura di relazioni commerciali costituirono i segni più tangibili di questa fase.
D’altra parte, una serie di problemi interni che attraversarono entrambe le superpotenze e nuove crisi «regionali» in cui esse indirettamente si trovarono a fronteggiarsi concorsero a influenzare e a ostacolare questo processo.
In seguito alla morte di Kennedy, alla fine del 1963 il vicepresidente (ovviamente anche lui membro del Partito democratico) Lyndon Johnson assunse la presidenza; l’avrebbe mantenuta fino al 1968, dopo aver vinto le elezioni del 1964. Si sarebbe distinto per due ragioni molto diverse.
Sul piano interno, realizzò il programma di riforme preannunciato da Kennedy. Johnson adottò lo slogan «Great Society», una «grande società», che doveva combattere la povertà e la discriminazione.
Sin dal 1964 promosse il varo del «Civil Rights Act», la Legge federale sui diritti civili, ottenuta anche in seguito all’imponente movimento di protesta della comunità afroamericana (➜ CAP. 17.4). Questa legge conteneva due misure fondamentali:
proibiva le discriminazioni nelle modalità di iscrizione alle liste elettorali (esisteva una serie di espedienti che permettevano alle amministrazioni bianche di escludere i neri dall’esercizio del voto);
dichiarava illegale ogni discriminazione basata sulla razza, il sesso o l’etnia nell’ambito dell’amministrazione e delle attività ed esercizi pubblici (dalle scuole alla frequentazione di hotel, ristoranti, bar ecc.).
Negli anni successivi, una serie di programmi federali (ossia finanziati dal governo centrale) portarono alla realizzazione di misure di welfare state nei campi della sanità, delle pensioni e dell’istruzione. Nel complesso erano misure di minore portata rispetto al modello europeo di welfare, ma ebbero comunque un impatto importante sulla società americana: ridussero le sacche di povertà e le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza.
L’altro evento che segnò la presidenza Johnson fu la guerra del Vietnam. Come abbiamo visto (➜ CAP. 15.2), dal 1965 gli Stati Uniti si ritrovarono pesantemente coinvolti nel conflitto in Indocina. Dopo l’offensiva vietnamita dell’inizio del 1968, Johnson cercò una via d’uscita intavolando trattative che però, inizialmente, non ebbero l’esito sperato. Questo insuccesso lo spinse a ritirarsi dalla vita politica, rinunciando a ricandidarsi (avrebbe potuto farlo perché il suo primo mandato, come presidente subentrato, era durato soltanto tredici mesi). Il capitolo della guerra vietnamita sarebbe stato chiuso dal suo successore, il repubblicano Richard Nixon.
La primavera di Praga Il 1968 segnò un passaggio cruciale anche per il blocco sovietico. Nei primi mesi dell’anno la Cecoslovacchia conobbe un processo di riforma guidato dalla dirigenza del partito, in particolare dal nuovo segretario Alexander Dubcek, che prese le mosse dalla necessità di rendere più flessibile il modello economico di stampo sovietico, ma sfociò rapidamente in un programma che prevedeva la reintroduzione del pluralismo politico (abolendo quindi il regime a partito unico) e una larga libertà d’espressione. Questa proposta dall’alto, che Dubcek definì un «socialismo dal volto umano», incontrò i fermenti politici, culturali e ideali che in quel momento partivano dal basso, cioè dalla società cecoslovacca. Le riforme fiorirono ad aprile – da cui la celebre espressione, coniata in Occidente, di «primavera di Praga» – in contemporanea con l’esplosione della protesta studentesca che stava avvenendo in tutto il mondo industrializzato (➜ CAP. 17).
Malgrado il governo cecoslovacco non avesse nessuna intenzione di uscire dal blocco sovietico (a differenza di quanto aveva dichiarato, nel 1956, il Primo ministro ungherese, scatenando la reazione di Mosca), la dirigenza sovietica giudicò che l’esperimento si era spinto troppo in là. Anche per la pressione dei regimi polacco e tedesco orientale (che, privi di un solido consenso interno, temevano di essere destabilizzati o travolti dall’esempio cecoslovacco), le truppe del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia la notte tra il 20 e il 21 agosto 1968.
La resistenza pacifica opposta dai cecoslovacchi si rivelò inutile e immediatamente cominciò un processo di «normalizzazione». La dirigenza cecoslovacca fu lasciata al suo posto per un altro anno, ma dovette smantellare le riforme varate sino a quel momento. Questo periodo fu reso ancora più angoscioso dall’estrema protesta dello studente Jan Palach che nel gennaio del 1969 si diede fuoco in piazza San Venceslao, nel centro di Praga. Il suo gesto richiamava esplicitamente quello di un «bonzo», un monaco buddista vietnamita che nel 1963 si era dato fuoco a Saigon per protestare contro il governo filoamericano del Vietnam del Sud. Palach collegava così idealmente due lotte contro l’imperialismo e la sopraffazione.
L’URSS di Breznev Nel settembre 1968 Leonid Breznev, che aveva affermato la sua preminenza nell’apparato di potere sovietico dopo alcuni anni di direzione collegiale, diede una sorta di veste formale all’intervento dell’URSS e degli alleati del Patto di Varsavia. La cosiddetta «dottrina Breznev» sosteneva che «la sovranità e il diritto all’autodeterminazione degli Stati socialisti sono subordinati agli interessi del sistema socialista mondiale». In altre parole, il segretario del PCUS dichiarava che la sovranità nazionale dei Paesi del blocco sovietico era limitata e restava subordinata alle valutazioni del Cremlino.
La dichiarazione di Breznev tentava anche di nascondere un fatto evidente: un «sistema socialista mondiale», nel solco della complessa tradizione internazionalista, non esisteva più e tanto meno, dopo la rottura tra Mosca e Pechino (➜ PAR. 4), faceva capo all’URSS. I fatti di Praga non solo spaccarono o indebolirono i grandi partiti comunisti europei, come era già accaduto nel 1956 dopo l’invasione dell’Ungheria, ma li spinsero a prendere maggiori distanze da Mosca, come nel caso del Partito comunista italiano.
Sul piano interno si aggiungevano crescenti difficoltà economiche: il modello dirigista sovietico, capace di trasformare in pochi decenni un Paese fortemente arretrato in una potenza industriale, aveva raggiunto i suoi limiti espansivi. In qualche misura, il sistema industriale sovietico era nato sotto la spinta di un’emergenza continua, dal 1917 alle necessità della ricostruzione e della guerra fredda post-1945, pressato dalla necessità di raggiungere risultati in breve tempo, senza badare a sprechi, inefficienze e costi (di ogni genere, compresi quelli ambientali), e per di più sotto il controllo di un ponderoso apparato burocratico.
Quando quella spinta, materiale e ideale allo stesso tempo, si esaurì, non restavano più risorse o margini per riconvertirsi – in primo luogo dall’industria pesante a quella di consumo –, né per introdurre innovazioni tecnologiche, né per stimolare la crescita della produttività. Ne scaturì un circolo vizioso che rese l’apparato produttivo sempre più inefficiente e pletorico.
Negli anni Sessanta la situazione più critica era quella in cui versava l’agricoltura: la produzione non riusciva a coprire il fabbisogno alimentare del Paese, costretto a importare soprattutto cereali e tecnologie dagli USA, aprendo in questo modo una breccia, probabilmente fatale, nel suo sistema fino ad allora sostanzialmente autarchico e autosufficiente.
L’incremento di esportazioni di materie prime energetiche sostenne in parte la bilancia commerciale, ma d’altra parte queste risorse, drenate dall’apparato militare o sprecate da un sistema burocratico sempre più inefficiente e corrotto, non servirono a ridurre un crescente gap tecnologico con l’Occidente.
Gli anni di Breznev (che sarebbe rimasto al potere fino alla morte, nel 1982) furono pertanto segnati:
da una continua perdita di consenso e fiducia, sia pure ancora in forme dissimulate e silenziose;
dall’ulteriore crescita degli apparati burocratici del partito, sempre più corrotti, dal momento che qualunque cosa doveva passare per le loro mani, e dai quali era scaturita una vera e propria casta privilegiata (la cosiddetta nomenklatura);
dall’evidente incapacità di un’autoriforma del sistema.
Se il blocco sovietico era ormai tenuto insieme soltanto dalla minaccia delle armi, nell’URSS si irrigidirono di nuovo i controlli di polizia, e le autorità soffocarono la dissidenza interna. Tra i casi più celebri a livello internazionale vi fu quello dello scrittore Alexandr Solzenycin (➜ CAP. 14.5), esiliato all’inizio del 1974 (nel 1973 era uscito in Occidente il suo Arcipelago gulag, dove raccontava il sistema dei campi di lavoro sovietici), e quello del fisico Andrej Sacharov, uno dei padri della bomba H sovietica, confinato alla fine degli anni Settanta.
In questo contesto, la politica della distensione diventava un’opportunità anche per il regime sovietico: oltre ad alleggerire il bilancio delle spese militari, permetteva l’apertura di relazioni commerciali sempre più importanti per sostenere i livelli di vita interni, e inoltre consentiva all’URSS di accreditarsi come garante della pace, mantenendo alto il proprio prestigio.
La diplomazia di Nixon e di Kissinger La disponibilità al dialogo era contraccambiata dal nuovo presidente americano, il repubblicano Richard Nixon, eletto nel 1968 dopo una campagna elettorale drammatica, durante la quale venne assassinato Robert «Bob» Kennedy, il fratello dell’ex presidente John, mentre si trovava ancora impegnato nelle primarie del partito democratico.
La distensione si concretizzò nel 1972 in un trattato per la riduzione degli armamenti nucleari, noto come SALT I (sigla per Strategic Arms Limitation Talks, «trattative per la limitazione delle armi strategiche»), per distinguerlo da quello SALT II, di portata minore, siglato nel 1979. Si consideri peraltro che questi trattati ebbero un valore simbolico più che concreto: non soltanto gli arsenali restavano largamente sufficienti a distruggere più volte il pianeta, ma la gara al loro sviluppo tecnologico proseguiva senza soste, rendendo rapidamente obsoleti gli accordi fissati sulla carta.
La politica estera americana, ispirata dal segretario di Stato Henry Kissinger, previde una svolta radicale anche in Asia. L’amministrazione Nixon, come abbiamo detto, uscì dal conflitto vietnamita, tra il 1973 e il 1975 (➜ CAP. 15.2). A questo risultato contribuì una clamorosa apertura verso la Cina popolare – con cui non erano mai state aperte relazioni diplomatiche – avviata sin dal 1969 e coronata da una visita ufficiale a Pechino nel 1972. La base di questa nuova intesa, frutto della cosiddetta «diplomazia del ping pong», era la politica antisovietica: Pechino era in aperta rottura con Mosca e questo schiudeva nuove prospettive per Washington.
Per questo motivo sin dalla fine del 1971 la Cina popolare fu ammessa nella comunità internazionale: accolta nelle Nazioni Unite, prese il posto di Taiwan nel Consiglio di sicurezza (➜ ANCHE CAP. 14.4). Nel 1972 ritirò i suoi aiuti al Vietnam, che restò così legato esclusivamente all’URSS. Infine, Cina e Stati Uniti aprirono importanti relazioni commerciali.
La fine della presidenza Nixon Il processo di distensione conobbe una nuova battuta d’arresto nella seconda metà degli anni Settanta. Vi contribuirono, da un lato, i problemi interni degli Stati Uniti e, dall’altro, una nuova ondata di fermenti e di tensioni provenienti dai Paesi del Terzo Mondo.
Nell’estate del 1974 il presidente Nixon rassegnò le dimissioni, travolto dallo scandalo politico passato alla storia come «il Watergate». Sin dall’estate del 1972, due giornalisti del quotidiano «Washington Post» avevano fatto emergere alcuni elementi che accusavano il presidente di aver condizionato il corso delle elezioni, spiando le mosse dei democratici grazie a microspie piazzate nel loro quartier generale elettorale, l’hotel Watergate di Washington.
Due anni dopo, quando i risultati delle inchieste giudiziarie erano ormai inequivocabili, Nixon si dimise prima di subire una formale incriminazione secondo le procedure previste dalla Costituzione americana.
Nuove tensioni in un mondo che cambia La grave crisi politica interna degli USA si accompagnò a una fase di instabilità internazionale che sembrò avvantaggiare l’URSS. All’inizio degli anni Settanta nel campo occidentale mutò infatti la congiuntura economica. In particolare, due clamorosi avvenimenti segnarono il trapasso da una crescita che sembrava inarrestabile a un ciclo depressivo.
1. Nell’agosto del 1971 gli Stati Uniti sospesero la convertibilità del dollaro in oro. Ciò determinò la fine del sistema monetario stabilito con gli Accordi di Bretton Woods nel 1944 (➜ CAP. 14.2) e provocò una lunga fase di caos monetario – dal momento che i valori delle valute nazionali oscillavano tra loro –, con conseguenze sulla stabilità degli scambi internazionali e sui livelli dei prezzi e dell’inflazione (ANCHE CAP. 17.8). La decisione di Washington derivava dalle sue difficoltà di bilancio: la spesa pubblica saliva, soprattutto per finanziare i nuovi programmi di welfare e le spese militari. Inoltre la bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti era passata in deficit: in altre parole, dal 1970 le importazioni avevano superato le esportazioni.
Sin dalla metà degli anni Sessanta, il governo americano aveva fatto fronte alle sue esigenze di spesa stampando dollari, che avevano inondato il mondo e in particolare le banche dei Paesi dell’Europa occidentale. Quando le richieste europee di conversione di dollari in oro cominciarono a crescere, le riserve auree americane cominciarono a calare, spingendo Washington a porre fine al sistema di Bretton Woods.
2. Nel novembre del 1973 l’economia occidentale subì il cosiddetto «shock petrolifero»: in conseguenza della Guerra del Kippur (➜ CAP. 15.4), i Paesi produttori di petrolio riuniti nell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries, ovvero Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, fondata nel 1960) ridussero drasticamente l’esportazione di petrolio verso gli alleati di Israele e, nel giro di un anno, quadruplicarono i prezzi del greggio, che passò da circa 3 dollari al barile a circa 12 dollari al barile. Alla fine degli anni Settanta un secondo shock, seguente alla rivoluzione scoppiata in Iran (➜ PAR. 5), portò il prezzo a circa 35 dollari.
I «miracoli economici» occidentali erano stati possibili anche per il modesto costo dell’energia che ora – improvvisamente, nel giro di sei-sette anni – era aumentata di circa undici volte. E con essa tutto rincarò, perché il costo del petrolio incideva – direttamente o indirettamente – sui costi di produzione e di trasporto di qualsiasi merce.
Pertanto, in virtù delle difficoltà americane e di questa nuova crisi del capitalismo, intorno alla metà degli anni Settanta – malgrado molti segnali potessero indicare anche il contrario – sembrarono aprirsi nuovi spazi politici per l’URSS:
il Vietnam, dopo la definitiva vittoria del 1975, si integrò nel sistema sovietico (nel 1978 entrò anche nel Comecon);
un colpo di Stato militare impose un regime filosovietico in Etiopia;
in Angola e Mozambico l’esito della decolonizzazione portò al potere dei movimenti «nazionalisti-marxisti», sostenuti dalle armi sovietiche;
in America centro-meridionale i movimenti guerriglieri di sinistra sembravano rafforzarsi (ma come abbiamo visto nel CAP. 15.6, gli Stati Uniti, su impulso del segretario di Stato Kissinger, non tardarono a prendere drastiche contromisure);
persino in Europa occidentale, sia pure soltanto per pochi mesi, sembrò che il Portogallo, dopo la rivoluzione che pose fine alla lunga dittatura di stampo fascista, potesse passare nel campo comunista, mentre in Italia preoccupava gli osservatori internazionali la continua avanzata elettorale del Partito comunista italiano che, sotto la guida di Enrico Berlinguer, nel 1976 superò il 34 per cento dei consensi (➜ CAP. 19).
Al di là delle oscillazioni di breve periodo nei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, la questione di maggiore rilievo ormai era un’altra: il bipolarismo est-ovest aveva perduto la capacità di contenere, descrivere e analizzare una situazione mondiale divenuta assai più intrecciata lungo l’asse geopolitico sud-nord e, al tempo stesso, complicata.
Nel mondo comunista, la leadership sovietica declinava. Nel campo occidentale, il rallentamento della crescita economica e la fine del sistema di Bretton Woods ponevano nuovi interrogativi per il futuro. In varie parti del mondo stavano emergendo nuovi centri di potere economico e politico, sia pure ancora inferiori a Mosca e a Washington. A metà degli anni Settanta, il mondo del bipolarismo cominciava tuttavia a cedere il posto a una configurazione diversa.
3 In Europa occidentale: mercato comune e democrazia
Il progetto francese di «terza forza» Nel corso degli anni Sessanta l’Europa occidentale completò il suo straordinario recupero economico e demografico (➜ CAP. 17), mentre le democrazie nazionali si consolidavano e prendevano forma strutture comunitarie sovranazionali ancora limitate a sei Paesi e alla sfera strettamente economica (le Comunità economiche europee).
In questi anni la politica continentale e l’evoluzione delle strutture comunitarie furono segnate dall’ambizione del presidente francese Charles De Gaulle di fare dell’Europa, forte della sua nuova prosperità e stabilità, una «terza forza», autonoma e dello stesso rango di Stati Uniti e Unione Sovietica.
L’idea d’Europa di De Gaulle L’obiettivo di De Gaulle era restituire alla Francia il suo tradizionale ruolo di protagonista della politica internazionale. Tuttavia, egli era consapevole che, nell’era delle superpotenze, questa ambizione doveva passare attraverso un rafforzamento dell’Europa che doveva svincolarsi dall’egemonia politica e militare americana per proporsi come «terza forza» rispetto a USA e URSS, con una propria e autonoma force de frappe («forza d’urto») basata sul potere di dissuasione derivante dal possesso del nucleare. Il presidente francese aveva in mente un’«Europa degli Stati», ovvero una struttura confederale: ogni Stato avrebbe conservato la propria sovranità mentre l’integrazione sarebbe stata realizzata dai governi nazionali, attraverso fitte consultazioni e accordi (da concludere sempre all’unanimità) su questioni specifiche, senza la creazione di strutture sovranazionali, che avrebbero determinato appunto limitazioni alle singole sovranità nazionali. Naturalmente la Francia avrebbe avuto un ruolo guida nel coordinare le relazioni tra i Paesi europei.
A questo scopo, sin dal 1961, la Francia promosse i cosiddetti «vertici europei», riunioni informali dei capi di Stato dei Paesi membri delle Comunità europee, convocate a cadenza irregolare, ma piuttosto serrata. Dal momento che non erano previste dai Trattati di Roma (➜ CAP. 14.6), si configuravano di fatto come un’alternativa alle istituzioni comunitarie, rimettendo in primo piano il ruolo delle singole nazioni rispetto a un’impostazione sovranazionale. L’evidente importanza economica delle Comunità europee fece sì che la loro esistenza non fosse rimessa in discussione; ma così De Gaulle cercava di far evolvere l’integrazione politica secondo il suo progetto confederale.
L’asse franco-tedesco e l’atomica Un altro tassello del progetto di De Gaulle prevedeva il rafforzamento dei rapporti con la Germania ovest che – a meno di vent’anni dalla sconfitta del nazismo – si trovava ancora sotto tutela politica, ma la sua eccezionale crescita economica l’aveva già riportata al rango di grande potenza. La creazione di un asse privilegiato franco-tedesco doveva raggiungere più scopi:
improntare definitivamente le relazioni franco-tedesche alla collaborazione in tutti i campi;
sottrarre la Germania ovest all’egemonia americana;
fare dell’asse franco-tedesco il nucleo dell’Europa politica a venire, permettendo anche lo sviluppo di una politica di difesa autonoma.
Per fare dell’Europa una «terza forza», infatti, sarebbe stato necessario creare una forza militare autonoma, ovvero in grado di sostenere anche un conflitto nucleare. Per questa ragione De Gaulle spinse il programma atomico francese, che arrivò a realizzare il primo test nucleare nel 1960. Allo stesso tempo, si impegnò per la formazione di un’organizzazione di difesa europea svincolata dalla NATO, per una politica di difesa e di sicurezza che non dipendesse più dagli Stati Uniti.
I partner europei, tuttavia, e prima fra tutti proprio la Germania, si guardarono bene dal mettere in discussione l’adesione alla NATO e la protezione degli Stati Uniti, che consideravano l’unica vera garanzia contro il pericolo di un’aggressione sovietica. Il risultato della politica di De Gaulle ebbe una dimensione unicamente nazionale: la Francia, pur continuando a essere membro della NATO, si ritirò dal comando integrato e fece uscire dal Paese tutte le forze NATO che vi erano stanziate.
L’ambiziosa politica di De Gaulle, ispirata ai fasti ormai passati di una grandeur francese ai limiti del velleitarismo, si risolse in una impasse (una situazione senza soluzione) che coinvolse anche le strutture comunitarie, il cui sviluppo restò sostanzialmente bloccato fino al 1969, quando il presidente francese si ritirò dalla scena politica.
L’Ostpolitik di Willy Brandt L’iniziativa di De Gaulle verso l’Europa orientale aprì la strada anche a una svolta nella questione tedesca, che coincise con un cambiamento nel panorama politico della Germania occidentale. Tra il 1966 e il 1969 si concluse infatti il lungo periodo di governo del Partito democristiano, la CDU-CSU, mentre il Partito socialdemocratico, la SPD, assunse la guida del Paese.
La SPD si era preparata a questo passo sin dal 1959 quando, con il cosiddetto programma di Bad Godesberg, aveva ufficialmente abbandonato la dottrina marxista.
Diventato cancelliere nel 1969, il leader socialdemocratico Willy Brandt inaugurò la sua Ostpolitik («politica dell’Est»), che portò ad allacciare rapporti diplomatici con la Germania est (fino a quel momento inesistenti per volontà dei governi della CDU di non avallare l’esistenza di due Germanie) e a concludere una serie di trattati con gli altri Paesi del blocco sovietico.
Nel 1970, con i trattati di Mosca e di Varsavia, la Germania ovest riconobbe il confine fissato con la Polonia nel 1945 e pertanto rinunciò a ogni rivendicazione sugli antichi territori tedeschi orientali. A Varsavia per la firma del trattato, Brandt si inginocchiò spontaneamente davanti al monumento che ricordava la distruzione del ghetto di Varsavia. Questo gesto assunse un valore ancora superiore a quello del trattato tanto da essere considerato il riconoscimento della colpa collettiva del popolo tedesco.
In sostanza, gli accordi stipulati dalla Germania ovest tra il 1970 e il 1973 – che regolavano lo status di Berlino ovest, stabilivano relazioni diplomatiche tra le due Germanie e riconoscevano il confine con la Cecoslovacchia annullando gli accordi di Monaco del 1938 – assolsero la funzione di quel trattato di pace generale che non aveva potuto vedere la luce all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale. Il coronamento di questo percorso si ebbe nel 1973 con l’ammissione di entrambe le Germanie nelle Nazioni Unite.
La fine delle dittature in Grecia, Portogallo e Spagna Intorno alla metà degli anni Settanta si chiusero altre vicende le cui radici affondavano nel periodo interbellico o della Seconda guerra mondiale: terminò, infatti, il periodo delle dittature reazionarie e filofasciste in Grecia, Portogallo e Spagna.
In Grecia, la dittatura – detta «dei colonnelli» perché instaurata in seguito a un colpo di Stato militare – si impose nel 1967. I colonnelli si impadronirono del potere durante una grave crisi politica seguita alla crescita delle opposizioni di sinistra.
Gli Stati Uniti si affrettarono a riconoscere il regime, benché gli alleati europei fossero molto più diffidenti a causa dei metodi polizieschi dei militari, che repressero le opposizioni e violarono sistematicamente i diritti fondamentali.
Un clamoroso fallimento politico e militare travolse nel 1974 i «colonnelli»: i militari tentarono di annettere l’isola di Cipro, diventata indipendente da Londra nel 1960 e abitata da una maggioranza di cultura e lingua greca e da una consistente minoranza turca; proprio per tutelare questa comunità, la Turchia reagì con le armi, sbarcando nel nord dell’isola.
La Grecia tornò quindi alla vita democratica e divenne una repubblica a seguito di un referendum popolare che respinse l’ipotesi di tornare alla monarchia costituzionale ristabilita dopo la guerra.
Nello stesso 1974 anche il Portogallo tornò alla democrazia, dopo la lunga dittatura di stampo fascista imposta da Antonio Salazar nel 1932 (Salazar detenne il potere fino al 1968, quindi gli successe Marcelo Caetano).
Una costosissima guerra coloniale, che sottraeva uomini e risorse a un Paese che restava molto povero, minò il regime. La sua caduta fu determinata, infatti, da un colpo di Stato organizzato il 25 aprile 1974 da un gruppo di giovani ufficiali di idee di sinistra – che avevano fatto esperienza della guerra coloniale in Angola e Mozambico – e sostenuto dal movimento comunista.
L’azione cominciò poco dopo la mezzanotte del 25 aprile 1974 (il segnale venne dato con la trasmissione della canzone, proibita dal regime, Grandola vila morena) e fu incruenta: il regime cedette senza combattere e i portoghesi poterono mettere per davvero dei fiori nelle canne dei fucili, come recitava un celebre slogan pacifista del tempo; questi avvenimenti passarono alla storia come la cosiddetta «rivoluzione dei garofani», che stavano fiorendo proprio in quei giorni di primavera.
Come abbiamo già ricordato, per alcuni mesi si pensò che il comunismo potesse prendere piede in Europa occidentale, in uno dei Paesi membri della NATO. Nell’autunno del 1975, tuttavia, prevalse l’ala più moderata del fronte rivoluzionario che riuscì ad allontanare gli ufficiali più radicali. Il Paese divenne una repubblica parlamentare, in cui si sarebbero alternati governi di centro-destra e socialisti.
Nel 1975 anche la Spagna vide la fine della dittatura, in seguito alla morte di Francisco Franco, che si era imposto nel 1939 al termine della guerra civile (➜ CAP. 9.8).
L’opposizione al regime era cresciuta negli anni Sessanta, durante i quali il Paese aveva conosciuto profondi cambiamenti: uno sviluppo industriale e una graduale modernizzazione anche della società, dovuta, tra le altre cose, all’intensificarsi degli scambi con l’estero (mediante il turismo e i flussi migratori). La Spagna era in fermento: insieme alla forza della classe operaia, cresceva la protesta studentesca e intellettuale, e persino quella del mondo cattolico, attraversato dai cambiamenti in senso progressista promossi dalla Chiesa di papa Giovanni XXIII (➜ CAP. 17.3) che facevano vacillare uno dei principali pilastri del regime.
Avevano ripreso quota anche i movimenti autonomisti e separatisti – basco, catalano e galiziano –, ostili al franchismo per il suo rigido centralismo. Una serie di attentati scosse il Paese e la fine della dittatura fu, in qualche modo, annunciata sin dal 1973 dall’omicidio, da parte dell’organizzazione basca ETA (acronimo di Euskadi Ta Askatasuna, letteralmente «Paese Basco e libertà», ➜ CAP. 17.7), dell’ammiraglio Luis Carrero Blanco, il numero due del regime.
Franco morì nel 1975, designando come suo successore Juan Carlos di Borbone, erede al trono di Spagna vacante dal 1931. Il sovrano intraprese con determinazione il delicato processo di transizione e di democratizzazione del Paese, dove tornarono a essere legali tutti i partiti, fra cui quello comunista, e liberi i sindacati. Nel 1978 il varo della nuova Costituzione fece della Spagna una democrazia a tutti gli effetti, retta da un sistema di monarchia parlamentare.
La Comunità europea al tempo della crisi Negli anni Ottanta tutti e tre i Paesi dell’area mediterranea recuperati alla democrazia entrarono nella Comunità europea: la Grecia sin dal 1981, il Portogallo e la Spagna nel 1986.
La Comunità europea stava ormai cambiando volto, secondo un percorso avviato dopo la complessa stagione segnata dai progetti di De Gaulle, quando i membri della CEE vollero rilanciare il processo di integrazione economica e politica. Questa nuova fase, cominciata nei primi anni Settanta, fu favorita dalla concomitanza di alcuni fattori:
dal raggiungimento degli obiettivi fissati dai Trattati di Roma: già nel corso del 1968 (in anticipo rispetto alla data prevista del 1° gennaio 1970) si varò l’unione doganale che prevedeva l’abolizione dei dazi tra i Paesi membri e l’adozione di una tariffa comune per le importazioni;
dall’allargamento della Comunità che dal 1° gennaio 1973 annoverò anche il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca.
Le discussioni si concentrarono sull’elaborazione di una politica economica e monetaria comune, sempre più urgenti di fronte ai rivolgimenti dei primi anni Settanta. Nel 1979 si arrivò alla creazione del Sistema monetario europeo (SME), che aveva lo scopo di limitare le fluttuazioni dei cambi tra le divise degli Stati membri, anche per evitare che un Paese usasse la svalutazione monetaria per rendere artificialmente più competitive le proprie esportazioni verso Stati in cui il denaro valeva di più (un prodotto importato poteva costare meno dell’equivalente nazionale per il gioco dei cambi di valuta).
Le banche centrali avrebbero dovuto agire in modo da mantenere il valore delle rispettive monete entro una determinata banda di oscillazione. Inoltre, i valori furono calcolati non più sulla base del dollaro ma in relazione a una nuova moneta di conto europea, l’ECU. Questa riforma può essere considerata la base per la nascita della moneta unica europea, l’euro, che sarebbe avvenuta vent’anni dopo (➜ CAP. 21.6).
Sul piano politico, nel 1974 i vertici europei tra i capi di Stato avviati negli anni Sessanta cominciarono ad assumere una veste più formale, definendosi Consigli europei. Continuava in ogni caso il dualismo già messo in luce in precedenza: da una parte organismi per la concertazione tra Stati nazionali; dall’altra la struttura sovranazionale, rappresentata dalle Commissioni (soprattutto dalla Commissione della CEE, la più importante) e dalle altre istituzioni comunitarie.
Nel 1976 gli Stati membri presero la decisione di far eleggere il Parlamento europeo a suffragio universale diretto. Il Parlamento era stato istituito sin dal 1957, come assemblea ristretta i cui deputati erano designati dai Parlamenti nazionali. Ora, a partire dalle elezioni del 1979, l’elettorato di ciascun Paese membro avrebbe votato i propri rappresentanti nazionali (in numero proporzionale alla popolazione).
Questo rafforzamento delle strutture comunitarie in senso democratico aveva più che altro un valore simbolico, dal momento che il Parlamento europeo manteneva ancora soltanto funzioni consultive e non legislative. Al contempo, su un piano più pragmatico, si rafforzò il diritto comunitario, grazie all’azione determinata della Corte di giustizia europea (il tribunale previsto dai Trattati di Roma che sovraintendeva all’applicazione e all’interpretazione del nascente diritto europeo). Sin dagli anni Sessanta la Corte agì affermando tendenzialmente la superiorità delle norme comunitarie su quelle nazionali e inoltre cominciò a estenderle. Si creò così uno spazio giuridico europeo in grado di prefigurare un’integrazione non soltanto economica, ma anche pienamente politica e sociale, aprendo la strada al processo di definizione di una cittadinanza europea, che sarebbe stata introdotta nel 1992.
4 La Cina dalla «rivoluzione culturale» alla morte di Mao Tse-tung
Il fallimento del «grande balzo in avanti» Alla fine degli anni Cinquanta, malgrado i buoni risultati del primo piano quinquennale, la Cina popolare continuava a essere un Paese arretrato sia nel settore industriale sia in quello agricolo. Dalla fine della guerra civile, la popolazione era aumentata a un ritmo molto elevato, passando da circa 540 milioni nel 1950 a circa 640 milioni nel 1960, e questo poneva grossi problemi alimentari e di occupazione: come sfamare e dove impiegare quei milioni di nuove leve?
Nel 1958 la dirigenza cinese, con alla testa Mao Tse-tung, tentò di incrementare il ritmo della crescita, lanciando un programma battezzato il «grande balzo in avanti». L’idea era quella di sviluppare contemporaneamente l’agricoltura e l’industria, sia pesante sia leggera, facendo leva sull’enorme quantità di manodopera disponibile.
La base dell’organizzazione doveva essere la «Comune popolare», un’unità economica-amministrativa che poteva riunire da 4000 a 10.000 famiglie e doveva diventare un complesso agrario e industriale autosufficiente. Con la Comune veniva perfezionata anche la collettivizzazione, dal momento che terre, bestiame, attrezzi, mezzi di produzione, servizi ecc. diventavano proprietà e attività dei membri della Comune.
Il «grande balzo» si animò di una fortissima spinta ideologica, che accordava la priorità agli obiettivi sociali e politici rispetto a quelli strettamente economici. Prima che modernizzare il Paese, doveva creare una società totalmente nuova, egualitaria e anti-individualista, che si spingeva a immaginare l’abolizione, di fatto, del nucleo familiare e della vita privata.
Questo progetto, tuttavia, si risolse in un catastrofico fallimento: i problemi organizzativi, gli errori tecnici (dovuti proprio al primato assoluto accordato all’ideologia, che procedette incurante dei dati oggettivi) e una serie di sfortunate circostanze (una serie di calamità naturali colpirono la Cina riducendo i raccolti) fecero crollare sia la produzione agricola sia quella industriale. Tra il 1959 e il 1961, poi ribattezzati i «tre anni neri», in Cina si ebbero almeno 14 milioni di morti di fame (secondo le cifre ufficiali, ma alcuni studiosi avanzano stime più alte).
La rottura con l’Unione Sovietica In quegli stessi anni Pechino arrivò a rompere con l’Unione Sovietica: il distacco da Mosca equivaleva a una rivendicazione di indipendenza sia nazionale sia ideologica. La Cina intendeva diventare un protagonista autonomo sulla scena internazionale ed elaborare una propria via originale al socialismo. Mao era fortemente critico nei confronti della linea adottata da Kruscev nel 1956: freddo in merito alla destalinizzazione, accusava i sovietici di tradire la rivoluzione, soffocata nelle strutture burocratiche del partito che di fatto riproponeva soltanto una versione diversa e «di Stato» del capitalismo, ed era contrario all’idea di convivenza pacifica. Secondo il «grande timoniere» (uno dei soprannomi con cui era noto Mao) bisognava condurre una politica più aggressiva, perché le potenze capitaliste erano in difficoltà e non ne andava sopravvalutata la forza: erano soltanto «tigri di carta», secondo una sua celebre definizione.
La tensione tra Pechino e Mosca sarebbe cresciuta per tutti gli anni Sessanta, mentre a livello internazionale Pechino, come abbiamo visto (➜ PAR. 2), giunse a un accordo con gli Stati Uniti all’inizio degli anni Settanta, mentre ruppe i rapporti con il regime vietnamita, rimasto filosovietico (➜ CAP. 15.2).
La «rivoluzione culturale» Nel frattempo la Cina visse fortissime tensioni interne. Il fallimento del «grande balzo» aveva fatto emergere un’ala moderata, che tra le sue fila contava anche Deng Xiao-ping, segretario del Partito comunista cinese, e Liu Shaoqi, il presidente della Repubblica (mentre Mao conservava la carica di presidente del Comitato centrale del Partito comunista, cruciale per avere il controllo su tutta l’organizzazione di partito).
A differenza di Mao, che sosteneva il primato della politica e dell’ideologia sull’economia (non sarebbe stato lo sviluppo economico a portare alla nascita di una società socialista, ma al contrario l’affermazione di quest’ultima avrebbe prodotto un determinato sviluppo produttivo), il gruppo moderato era convinto della necessità di ridare priorità a criteri economici, per evitare le sciagure dei tre anni precedenti.
Il conflitto tra queste due opzioni si sviluppò sotterraneamente fino a esplodere tra il 1965 e il 1966. Contro i moderati, che erano riusciti a prendere temporaneamente il controllo del Comitato centrale del partito, Mao scatenò un’offensiva ideologica che ebbe pesanti conseguenze pratiche. Per riprendere le redini del partito, si appoggiò sull’esercito e soprattutto sulla gioventù cinese, gli studenti in particolare, che aderirono in massa al movimento delle «guardie rosse».
Sin dal 1964 Mao aveva diffuso su larga scala il suo Libretto rosso, una raccolta di massime rivoluzionarie che esaltavano i valori dell’egualitarismo e del collettivismo (divenne un punto di riferimento ideologico anche per alcuni settori dei movimenti di contestazione sorti in Occidente a partire dal 1968, ➜ CAP. 17).
Quindi nell’estate del 1966 cominciò ufficialmente il movimento della «grande rivoluzione culturale», animato da slogan quali «bombardare il quartier generale». Le masse giovanili ebbero mano libera contro quelle che venivano indicate come le élite intellettuali e burocratiche, in nome di una purezza rivoluzionaria da ristabilire scalzando funzionari e tecnocrati dalle loro posizioni di privilegio che si erano create appunto tradendo la rivoluzione.
La protesta giovanile rovesciò le gerarchie con violenza, costringendo i quadri del partito contrari a Mao a umilianti autocritiche pubbliche, cui seguivano internamenti o periodi di «rieducazione» che, per esempio, prevedevano l’obbligo di svolgere lavori manuali. Tra i vecchi dirigenti che subirono l’epurazione si trovò anche Deng Xiao-ping.
Il Paese piombò in un caos violento. Non esiste un bilancio delle vittime della «rivoluzione culturale», le stime oscillano da qualche decina di migliaia ad alcuni milioni di morti. La spinta delle «guardie rosse» si esaurì progressivamente tra il 1967 e il 1968, anche per l’intervento di Mao che ormai aveva raggiunto lo scopo che si era prefissato: la sconfitta e la rimozione dei moderati.
Verso una nuova Cina Tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, la Cina avviò un consistente recupero economico: la sua agricoltura, benché ancora poco meccanizzata, era diventata più produttiva di quella indiana, mentre la sua industria si collocava, per quantità di prodotto, tra le prime dieci al mondo, benché ancora molto lontana dai livelli statunitensi, europei e sovietici.
A rendere il Paese un potenziale terzo grande polo mondiale contribuiva lo sviluppo del programma atomico: la Cina fece esplodere la sua prima bomba A nel 1964 e la sua prima bomba H nel 1967.
Anche per queste ragioni a metà degli anni Settanta poté riprendere quota la proposta dei sostenitori della linea moderata, o pragmatica, attenta agli indicatori della crescita economica. Intorno al 1974-75, questo gruppo ritrovò il suo vecchio leader Deng Xiao-ping, il quale venne «riabilitato», come moltissimi altri dirigenti caduti in disgrazia durante la rivoluzione culturale.
Dopo la morte di Mao, avvenuta nel 1976, la linea di Deng si impose al vertice della Cina: le questioni economiche divennero prioritarie, venne lanciata la campagna delle «quattro modernizzazioni» (ovvero nell’industria, nell’agricoltura, nella difesa nazionale e nel campo scientifico e tecnologico) e la politica della «porta aperta», che prevedeva l’intensificazione degli scambi commerciali con il mondo capitalista. Allo stesso tempo era abbandonata la collettivizzazione integrale in agricoltura e, all’interno del Paese, si aprivano spazi sempre più consistenti – sia pure attentamente controllati dal Partito – all’economia di mercato.
La Cina cominciava così un programma di modernizzazione guidata dall’alto paragonabile a quello conosciuto dal Giappone nel XIX secolo.
Questo significò procedere anche a una progressiva «demaoizzazione», a tutti i livelli. I successori di Mao accantonarono ogni progetto di società egualitaria per lasciar spazio a un diverso singolare esperimento: quello di uno Stato autoritario e dirigista, guidato da un partito ufficialmente sempre comunista, impegnato a incentivare un impetuoso sviluppo economico, tale da avviare la Cina a diventare la nuova grande superpotenza del XXI secolo.
5 Dall’Estremo al Medio Oriente: modernizzazione e «islam politico»
Il fermento economico e politico dell’Asia Nel corso degli anni Settanta il grande continente asiatico divenne il teatro di altri importanti rivolgimenti che portarono alla ribalta due fenomeni di natura molto diversa, ma entrambi destinati a incidere sugli assetti planetari e a disegnare il volto del mondo in cui viviamo oggi:
alla crescita economica del Giappone, che proseguì anche dopo lo shock petrolifero del 1973, si affiancò quella dei Paesi del Sud-Est asiatico;
dall’Asia centrale al Medio Oriente, si assistette all’ascesa dell’«islam politico», ossia di quei gruppi e movimenti che prendono le mosse dalla fede musulmana per creare uno Stato islamico tradizionalista fondato sui principi della sharia (➜ CAP. 15.3 E 4).
Il Giappone all’avanguardia A differenza di quanto accadde in Europa, il grande «miracolo economico» giapponese non si arrestò all’inizio degli anni Settanta: la crisi petrolifera del 1973 inferse un duro colpo al Paese del Sol Levante, che tuttavia ne risentì meno dei partner occidentali perché la sua industria seppe ristrutturarsi in tempi record, forte anche dei risultati del ventennio precedente.
Il sistema industriale nipponico si pose alla testa di un processo di innovazione che poi si sarebbe diffuso in tutto il mondo occidentale (➜ CAP. 17), fondato sul ricorso a sistemi di automazione (ovvero impiego di robot) e su una nuova organizzazione della produzione che migliorava l’efficienza e la produttività, eliminando sprechi di materie prime e di tempo di lavoro. Il modello giapponese poneva particolare attenzione alla risposta «flessibile» della produzione, secondo i principi del just in time, per cui essa doveva rispondere alla richiesta del mercato, praticamente su ordinazione, e non precederla (cosa che determina forti costi di stoccaggio ed espone al rischio di avere magazzini pieni di merci invendute).
Questo insieme di innovazioni del processo produttivo – denominato «toyotismo» perché teorizzato in particolare nell’ambito del gruppo industriale Toyota – portò al superamento del modello fordista (➜ CAP. 1.2) e al consolidamento del vantaggio competitivo, che il Giappone conservò sugli Stati Uniti e sull’Europa fino a tutti gli anni Ottanta.
Nello stesso periodo, i notevoli investimenti delle aziende e dello Stato nella ricerca e nell’istruzione (alla base della creazione di una manodopera altamente qualificata) si tradussero in una leadership dell’industria giapponese nei settori emergenti dell’elettronica.
Le «tigri asiatiche» La crescita economica giapponese trainò l’area del Sud-Est asiatico dove, a partire dagli anni Sessanta, cominciarono a emergere le economie di quattro Paesi: Corea del Sud, Taiwan, Singapore (che alla fine degli anni Sessanta si era reso indipendente dalla Malesia) e Hong Kong (allora ancora colonia britannica, uno degli ultimi residui dell’imperialismo europeo: sarebbe passata sotto la sovranità della Cina popolare soltanto nel 1997, ➜ CAP. 21.5).
Questi Paesi legarono il loro sviluppo sostanzialmente a una crescita industriale diretta non al mercato interno ma all’esportazione. Alla fine degli anni Ottanta le esportazioni complessive dei quattro Paesi rappresentavano oltre l’8 per cento del commercio mondiale (alla stessa data il Giappone realizzava poco meno del 10 per cento, mentre tutta l’America centro-meridionale assommava poco più del 4 per cento). Questi strabilianti risultati economici – che non conobbero battute d’arresto sino a una crisi sopravvenuta alla fine degli anni Novanta – fecero sì che in Occidente si cominciasse a parlare di «dragoni» o «tigri asiatiche».
A partire dagli anni Ottanta, la crescita economica si diffuse in altri Paesi del Sud-Est asiatico, secondo cronologie diverse; nel novero delle cosiddette «economie emergenti» sarebbero entrate anche la Malesia, l’Indonesia, la Thailandia, le Filippine e, infine, anche il Vietnam e la Cambogia – che lentamente superarono le scorie e i traumi dei conflitti degli anni Settanta.
L’importanza del petrolio Intanto, nel mondo musulmano, tra il Medio Oriente e l’Asia centrale, riprese l’ascesa dell’islam politico, quell’opzione che durante il processo di decolonizzazione era risultata perdente di fronte a modelli di ispirazione occidentale, peraltro appoggiati dalle stesse potenze coloniali.
Si trattava, soprattutto in Medio Oriente, di un’area la cui importanza strategica era costantemente cresciuta insieme con le sue riserve ed esportazioni di petrolio, che alimentavano l’economia mondiale (alla fine della Seconda guerra mondiale, il petrolio mediorientale rappresentava il 7 per cento della produzione mondiale, nel 1973 la quota era giunta al 38 per cento).
I ricavi del petrolio, incrementati in modo esorbitante in seguito allo shock degli anni Settanta, avevano finanziato la stabilità politica di molti Stati dell’OPEC, soprattutto degli Emirati arabi che in quegli anni cominciarono ad assumere l’odierna fisionomia. Si affermavano, infatti, come regimi autoritari capaci di creare consenso interno mediante programmi di investimento (tali anche da attrarre forza lavoro dall’estero), assistenza, istruzione e la cooptazione delle classi medio-alte, impiegate nell’amministrazione. Sulla scena internazionale questi Stati assunsero sempre di più un ruolo da protagonisti perché alle esportazioni di petrolio affiancarono enormi investimenti esteri (dei capitali ottenuti dalla vendita del cosiddetto «oro nero»), nelle stesse economie occidentali, a cominciare da quella statunitense.
Questi impetuosi mutamenti portarono anche forti tensioni, che vennero governate con esiti diversi. Per esempio, la dinastia reale dell’Arabia Saudita, seguendo una politica fortemente conservatrice, fece in modo di mantenere il consenso dei leader religiosi wahabiti, rappresentati della più intransigente ortodossia dell’Islam sunnita, evitando così che diventassero un punto di riferimento per un’opposizione politica in grado di destabilizzare l’assetto raggiunto.
La rivoluzione khomeinista in Iran Le cose andarono diversamente in Iran dove lo scià Reza Pahlavi nel 1953 era stato rimesso sul trono dagli Stati Uniti (➜ CAP. 15.4). Il sovrano avviò una politica di rapida modernizzazione, finanziata dal petrolio, che tuttavia andò incontro a un altrettanto veloce fallimento. Pahlavi fece scelte dissennate (come quella di istituire un costosissimo esercito) e finì per scontentare tutti:
le classi medio-alte tradizionali penalizzate dalla riforma agraria (in verità modesta) e dalla priorità accordata allo sviluppo industriale;
i nuovi ceti urbani e intellettuali legati alla modernizzazione, che diedero vita a un’opposizione politica di stampo laico, in parte liberale e in parte marxista, duramente repressa dalla polizia;
le autorità islamiche (sciite, secondo la confessione musulmana dominante in Iran), ostili alla modernizzazione in senso occidentale (che coinvolgeva ormai anche il diritto di famiglia e il sistema educativo).
Nel 1978 il malcontento si inasprì sia per il carattere autoritario e l’evidente corruzione del regime, sia per una crisi economica legata a investimenti sbagliati. In questo clima, l’opposizione religiosa trovò un punto di riferimento in Ruhallah Khomeini, un ayatollah, ovvero un leader religioso, da tempo impegnato nell’opposizione contro lo scià, e per questo esiliato sin dal 1964, prima in Turchia e in Iraq e poi in Francia. Khomeini sosteneva la necessità di rovesciare la monarchia per stabilire uno Stato islamico.
Nel corso dell’anno, dal suo esilio parigino, Khomeini riuscì a imporsi sulla scena mediatica internazionale come guida della protesta contro lo scià (dal canto suo largamente screditato anche agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, per la sua politica autoritaria). In patria, i discorsi di Khomeini circolavano in testi fotocopiati e incisi nelle audiocassette: anche le rivoluzioni entravano in una nuova era mediatica. Mentre l’opinione pubblica mondiale era ancora attardata dentro le gabbie ideologiche della guerra fredda e imbrigliata nello scontro tra Est e Ovest che, nella sua ormai regolata conflittualità, sembrava quasi un orizzonte rassicurante, si apriva in Iran una nuova faglia del conflitto mondiale che si sarebbe rivelata carica di futuro.
Di fronte al crescere dell’agitazione di massa, in particolare nella capitale Teheran, che portò al blocco del Paese, nel gennaio 1979 lo scià decise di lasciare l’Iran. Il 1° febbraio 1979, Khomeini rientrò a Teheran decidendo le sorti della rivoluzione: i religiosi presero la guida del Paese, eliminando rapidamente le altre forze di opposizione liberali e marxiste che pure erano state protagoniste sino a quel momento.
L’Iran diventò così una Repubblica islamica di stampo teocratico, con una Costituzione che prevedeva la subordinazione delle istituzioni politiche (presidente, governo e Parlamento) alle autorità religiose (la Guida Suprema coadiuvata da un Consiglio dei Saggi); la fonte legislativa era naturalmente la sharia.
Come altre volte nel passato dell’umanità, la storia ritornava a zampillare laddove sembrava una fonte esaurita e dimenticata. In pochi, in quei giorni, se ne accorsero: in parte perché erano intenti a commentare l’ultima installazione dei missili NATO a medio raggio in Europa per contrastare gli SS20 sovietici, in parte poiché erano convinti che quelle sconfinate turbe festanti che alzavano i pugni e si battevano il petto fossero l’ultima manifestazione di un Medioevo perduto e non la prova di una inquietante modernità con cui si sarebbero dovuti confrontare a lungo.
Uno smacco per gli Stati Uniti e l’Occidente Il regime khomeinista si presentò subito come un punto di riferimento per i gruppi islamisti e assunse una posizione risolutamente antiamericana, antioccidentale e antisraeliana. Proprio quando gli Accordi di Camp David tra Egitto e Israele (➜ CAP. 15.4) sembravano aver aperto uno spiraglio per la pacificazione del Medio Oriente, ecco che si presentavano nuove tensioni e crisi.
Nel novembre 1979, a Teheran, un’imponente manifestazione studentesca sfociò nell’assalto contro l’ambasciata americana. Una cinquantina di diplomatici statunitensi si ritrovarono in ostaggio. Nell’aprile 1980 il presidente Carter (che nel 1976 aveva riportato i democratici alla Casa Bianca e nel 1978 patrocinato l’accordo israelo-egiziano) autorizzò un’azzardata operazione di salvataggio, che si concluse con un fallimento.
Questi eventi fecero crollare l’autorevolezza di Carter e condizionarono le elezioni presidenziali del novembre 1980 in cui prevalse il candidato repubblicano Ronald Reagan, con cui sarebbe cominciata una nuova fase politica (➜ CAP. 17).
Le autorità iraniane accettarono di riconsegnare gli ostaggi solo alla fine del gennaio del 1981, dopo l’insediamento del nuovo presidente.
La guerra Iran-Iraq L’avvento del regime sciita a Teheran rinfocolò inoltre la tradizionale tensione con l’Iraq, un altro grande produttore di petrolio del Medio Oriente. Negli stessi mesi in cui in Iran si affermava la rivoluzione khomeinista, a Baghdad si affermava la leadership laica di Saddam Hussein, che si presentava come erede politico del nasserismo e del socialismo arabo (➜ CAP. 15.4).
Sostenitore di un programma di modernizzazione e di occidentalizzazione, Hussein si impose come dittatore di un Paese molto complesso e fragile, perché attraversato da profonde divisioni tribali, etniche e religiose. In particolare la popolazione, di fede islamica, era divisa tra una maggioranza di sciiti e una consistente minoranza di sunniti, che godeva tuttavia di una posizione politica e sociale preminente nel Paese: lo stesso Hussein era sunnita.
La rivoluzione iraniana fece temere a Hussein un «contagio» tra gli sciiti iracheni. A questo motivo di tensione si aggiungevano obiettivi geopolitici ed economici: la volontà di stabilire la supremazia nella regione del Golfo Persico e di accaparrarsi altre zone petrolifere.
Nel settembre 1980 l’Iraq invase l’Iran, avviando una lunga e sanguinosa guerra che si sarebbe conclusa soltanto nel 1988 senza produrre alcuna modifica allo status quo precedente (le stime parlano di circa 1,5 milioni di morti complessivi, molti dei quali giovani caduti al fronte).
Gli Stati Uniti si schierarono ufficialmente con l’Iraq, l’Unione Sovietica con l’Iran, ma in realtà entrambe le superpotenze rifornivano di armi i due contendenti, contando di indebolire regimi considerati comunque poco affidabili.
La questione palestinese e la crescita del fondamentalismo Il regime iraniano rilanciò e radicalizzò ulteriormente anche la lotta contro Israele, condotta facendo ricorso a tecniche di guerriglia e terroristiche sia a livello locale sia internazionale. Per esempio, nel 1982, nel Libano che Israele aveva appena invaso cominciò ad agire il gruppo Hezbollah (letteralmente «partito di Dio»), ispirato dalla predicazione di Khomeini e addestrato e finanziato dall’Iran.
L’anno prima, nel 1981, un militante di un’organizzazione fondamentalista facente capo ai Fratelli musulmani aveva ucciso il presidente egiziano Sadat come ritorsione per la pace stipulata con Israele (Accordi di Camp David, 1978 ➜ CAP. 15.4).
Queste posizioni, che oggi sono classificate sotto le generiche etichette di «fondamentalismo» o «radicalismo islamico», cominciarono a rafforzarsi in tutto il vasto e complesso mondo musulmano. La crescente politicizzazione (o uso politico) dell’Islam, ossia la volontà di costruire un progetto tradizionalista a partire da una fede religiosa, sembrò rappresentare l’inevitabile movimento di ritorno di un pendolo.
Nel corso della decolonizzazione, i principali Paesi musulmani, compreso quelli arabi, avevano abbracciato progetti di Stato laico nazionalista e perlopiù socialisteggiante, che avevano avuto temporaneamente il sopravvento sull’opzione tradizionalista di carattere religioso. Quest’ultima riprendeva quota in una fase critica per le società di quei Paesi, anche a causa delle conseguenze della modernizzazione socio-economica in corso che stava travolgendo le strutture tradizionali (le gerarchie sociali, le attività economiche rurali, l’organizzazione famigliare, i rapporti con l’autorità pubblica).
La serie di fallimenti, le prove di malgoverno e una crescente corruzione che caratterizzavano le classi dirigenti postcoloniali alimentarono lo scontento, dando vita a un circolo vizioso senza apparente via d’uscita.
In questi anni cominciarono a delinearsi altre due caratteristiche dell’islamismo radicale, per certi aspetti contraddittorie.
Per un verso, il mondo musulmano non si mostrava affatto come monolitico, essendo vastissimo, complesso e attraversato da diverse correnti confessionali; queste divisioni interne si riflettevano nella galassia del radicalismo islamico, dove emersero anche profondi antagonismi.
Per un altro, cominciò a emergere una disponibilità «dal basso» a partecipare a un movimento islamico radicale internazionale, che si manifestò per la prima volta nell’afflusso di volontari islamici nella guerra di resistenza antisovietica cominciata in Afghanistan sempre nel 1979.
L’invasione sovietica in Afghanistan Alla fine degli anni Settanta gli schemi del mondo bipolare condizionati dalla guerra fredda e i nuovi fenomeni emergenti nel mondo musulmano si incrociarono sulle montagne dell’Afghanistan dove, nel 1978, in seguito a un colpo di Stato militare, si era imposto un regime di ispirazione comunista e filosovietico. Il governo afghano lanciò un programma di riforme e di modernizzazione dall’alto che buona parte della popolazione accolse malvolentieri. Questo scontento alimentò una resistenza di matrice islamica, sostenuta anche dal vicino Pakistan, dall’Iran e dalla Cina (in chiave antisovietica). Varie regioni del Paese sfuggirono al controllo di Kabul.
L’Unione Sovietica cercò di stabilizzare il regime afghano, guidando anche alcuni cambiamenti al vertice, in cerca di soluzioni mediate e moderate. Di fronte al continuo insuccesso politico, e temendo ormai che la ribellione islamica potesse fare breccia tra le popolazioni musulmane delle repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, il 27 dicembre 1979 l’Armata rossa invase l’Afghanistan. Questa azione surriscaldò immediatamente il clima internazionale: gli Stati Uniti reagirono con ritorsioni simboliche e materiali (decisero di boicottare i giochi olimpici del 1980, ospitati da Mosca, e bloccarono le esportazioni di cereali dirette in Unione Sovietica), ma soprattutto cominciarono a finanziare la guerriglia musulmana in funzione anticomunista e antisovietica, rifornendola di armi moderne attraverso il Pakistan.
Per i sovietici l’Afghanistan rappresentò l’equivalente del Vietnam per gli americani: per quasi dieci anni vi sacrificarono risorse, uomini (circa 50.000 soldati dell’Armata rossa morirono o furono feriti nel conflitto) e orgoglio nazionale senza riuscire a venire a capo della guerriglia islamista.
Il ritiro sovietico avvenne all’inizio del fatidico anno 1989. Letta con le lenti della guerra fredda, l’invasione dell’Afghanistan costituì un errore di calcolo che accelerò la definitiva crisi dell’URSS (➜ CAP. 20).
Oggi, a distanza di tempo, questi eventi si possono leggere anche come un errore di calcolo dell’Occidente, che finanziò e inondò di armi una sorta di «internazionale» del radicalismo islamico pensando di potersene servire senza particolari controindicazioni. Basti pensare che tra quei guerriglieri musulmani foraggiati con armi e denaro dagli Stati Uniti mediante i servizi segreti pakistani ricorre anche il nome di un giovane sceicco saudita, Osama bin Laden, il quale aveva risposto alla chiamata dell’internazionalismo islamico in difesa dell’Afghanistan contro l’imperialismo sovietico nelle fila dei mujaheddin («combattenti per la jihaˉd»).
In realtà, come vedremo nei prossimi capitoli – e come ci raccontano le cronache di oggi – il fondamentalismo islamico si sarebbe affermato come un soggetto autonomo, sfuggendo a ogni tentativo di controllo. Per questa ragione una guerra periferica come quella in Afghanistan, all’apparenza destinata solo ad accompagnare il declino dell’impero sovietico, annunciò invece un’epoca nuova, l’età del cosiddetto «disordine mondiale» in cui siamo ancora immersi che, nel giro di un paio di decenni, avrebbe soppiantato l’«ordine bipolare» della guerra fredda.
1 Dalla crisi alla distensione: gli anni di Kennedy e di Kruscev
Continua la competizione USA-URSS Sul finire degli anni Cinquanta, l’apice della tensione tra le due superpotenze sembrava superato e alcuni segnali suggerivano che il confronto fosse avviato a svolgersi pacificamente, facendo tramontare la costante minaccia al ricorso delle armi.
Il presidente Eisenhower chiuse il suo duplice mandato, nel gennaio 1961, con un discorso in cui metteva in guardia dai pericoli di una eccessiva militarizzazione e dalla perniciosa influenza del «complesso militare-industriale» sulla vita democratica.
Dal canto suo, il leader sovietico Kruscev cominciava a vedere come una priorità il rallentamento delle spese militari, al fine di vincere la sfida contro gli Stati Uniti – come aveva più volte ribadito (➜ CAP. 14) – sul terreno del benessere. In quegli anni, le economie del blocco sovietico erano ancora abbastanza dinamiche da far sembrare realistica questa prospettiva. Inoltre, i sovietici erano reduci da una straordinaria vittoria tecnologica e simbolica: nell’ottobre del 1957 avevano mandato in orbita il primo satellite artificiale, lo «Sputnik» (in russo «compagno di viaggio»).
Nuove frontiere All’inizio del 1961, mentre gli Stati Uniti erano ancora scossi dai successi dei sovietici nella corsa allo spazio, l’avvento alla Casa Bianca del democratico John Fitzgerald Kennedy fu accolto come l’annuncio di un nuovo corso, che segnalava anche i mutamenti recenti intervenuti nella società americana. Per la prima volta un presidente degli Stati Uniti era cattolico ed era il primo a essere nato nel XX secolo: con i suoi 43 anni era (e resta ancora) il più giovane capo dello Stato mai eletto direttamente dal corpo elettorale americano.
La sua vittoria rivelò anche l’importanza politica di un nuovo strumento di comunicazione: la televisione, già bene di consumo di massa negli Stati Uniti (➜ ANCHE CAP. 17). Nel confronto, trasmesso sul piccolo schermo, con il suo antagonista, il repubblicano Richard Nixon, Kennedy apparve più brillante e fotogenico: il suo volto, in qualche misura, si rivelò vincente non meno del suo programma e della sua retorica. Di per sé, il fenomeno della propaganda mediante l’immagine non costituiva una novità, ma risultavano totalmente inedite le dimensioni dello spazio e del tempo in cui si realizzava: la vastità della platea a cui il messaggio visivo si rivolgeva, e lo stile imposto da un mezzo così rapido nel diffonderlo come la televisione.
Kennedy si presentava con un ambizioso programma di rilancio della società americana in senso progressista, che aveva elaborato con l’aiuto di un gruppo di tecnici e di intellettuali della sua stessa generazione, e racchiuso nello slogan «la nuova frontiera». Questa immagine faceva leva su uno dei miti fondatori della nazione americana: la sfida dei pionieri alla «frontiera», ossia la spinta alla colonizzazione del «lontano Ovest» avvenuta nel corso del XIX secolo. La «frontiera» da sfidare nel XX secolo era quella di una migliore democrazia, basata su una reale affermazione dei diritti di cittadinanza, estesa a tutti, e su una più ampia giustizia sociale: contro la povertà, le distanze sociali e soprattutto contro la segregazione razziale di cui erano ancora vittime milioni di cittadini statunitensi di pelle nera (➜ CAP. 14.1 e avanti, PAR. 2).
Si può dire che ci fosse anche una dimensione fisica nella «frontiera» kennediana: il nuovo mondo da raggiungere e colonizzare era lo spazio. Per volontà di Kennedy il programma spaziale americano subì un enorme potenziamento e superò di slancio quello sovietico, fino a riuscire a «conquistare» la Luna, nel luglio 1969.
Il muro di Berlino In politica estera la presidenza Kennedy si rivelò di gran lunga meno innovativa: nel solco dei predecessori, mantenne una retorica dai toni apocalittici nei confronti dell’antagonista sovietico (l’anticomunismo continuava a essere un argomento di forte presa sull’opinione pubblica americana e pertanto cruciale nelle competizioni elettorali), accompagnata tuttavia dalla volontà di non far precipitare il mondo in una guerra letale.
Due gravi crisi internazionali segnarono i primi anni Sessanta. Una ebbe luogo in Europa e riguardava la questione della Germania, che non aveva ancora trovato una definitiva soluzione formale.
Sin dal 1958 Kruscev aveva lanciato un’offensiva diplomatica in merito alla situazione di Berlino, che ufficialmente continuava a essere sottoposta all’occupazione congiunta delle quattro potenze antifasciste, proponendo che la città fosse dichiarata «libera» e smilitarizzata.
Il negoziato di fatto non ebbe neppure inizio, per la manifesta volontà degli Stati Uniti di conservare la propria presenza a Berlino ovest. Dopo che, nel giugno 1961, Kennedy ribadì ancora una volta questo orientamento, Mosca incassò l’insuccesso, autorizzando però il regime di Berlino est a costruire un muro di separazione tra le due parti dell’ex capitale tedesca e a fortificare ulteriormente il resto della frontiera con la Germania ovest. Peraltro le autorità della Germania est premevano da tempo su Mosca in questo senso, per bloccare la fuga di massa dei propri cittadini: tra il 1949 e il 1961 circa 2,5 milioni di tedeschi orientali, perlopiù giovani, erano infatti passati a ovest, principalmente usando il varco berlinese.
Il muro di Berlino fu eretto la notte del 13 agosto 1961: per poco meno di trent’anni, finché non venne abbattuto il 9 novembre 1989 (➜ CAP. 20), sarebbe stato uno dei confini più sorvegliati del mondo, il simbolo della guerra fredda, ma anche la traccia materiale e visibile della mancanza di libertà nel campo sovietico e della miscela di forza e di impotenza – per il progressivo affievolirsi di spinte ideali, di consensi e di prospettive – che caratterizzava le cosiddette «democrazie popolari».
I missili a Cuba L’altra crisi ebbe per scenario l’isola di Cuba che, in seguito alla maldestra reazione degli Stati Uniti alla rivoluzione castrista (➜ CAP. 15.6), era diventata un membro del blocco sovietico, portando la frontiera della guerra fredda a poche miglia marine di distanza dalla costa della Florida.
Temendo il ripetersi di tentativi d’invasione come quello dell’aprile 1961, il governo cubano incrementò le richieste di aiuti militari a Mosca. Non potendo impegnarsi ulteriormente in spese per armi convenzionali, il Cremlino giocò la carta del nucleare e cominciò, nell’estate del 1962, l’installazione di missili sull’isola (dove peraltro, per uno di quegli strani casi che governarono gli equilibri della guerra fredda, gli Stati Uniti ancora conservavano la base navale di Guantanamo, ottenuta in affitto al termine della guerra ispano-americana del 1898).
Nell’ottobre del 1962 gli americani ebbero le prove – grazie a fotografie scattate dai loro aerei spia – e denunciarono pubblicamente la presenza di rampe di lancio missilistiche a Cuba. Per qualche giorno il mondo rimase con il fiato sospeso, temendo lo scoppio della terza guerra mondiale, ma le diplomazie dei due Paesi si mossero dietro le quinte in modo tale da evitare rotture irreparabili, giungendo a una soluzione. L’Unione Sovietica accettò infine di ritirare i missili da Cuba, ottenendo dagli americani la promessa di non invadere l’isola.
Inoltre, pochi mesi dopo gli USA acconsentirono a un’altra richiesta sovietica, quella di smantellare le loro basi missilistiche in Turchia. Kennedy aveva accettato questa seconda condizione a patto che non fosse resa pubblica (ufficialmente i missili che erano in Turchia furono ritirati perché ormai obsoleti). La pace fu salvata dalle mosse di una diplomazia segreta, tuttavia da questo gioco delle parti era soprattutto l’immagine dell’Unione Sovietica a venire intaccata.
Verso la distensione, senza i suoi protagonisti La crisi cubana era stata così grave da spingere i governi delle superpotenze a valorizzare il ruolo dello spionaggio internazionale e a trovare nuovi meccanismi diplomatici per evitare lo scoppio di una guerra nucleare a causa di un fraintendimento o di un errore nella catena di comando.
Erano angosce materiali che occupavano le coscienze e l’immaginario di milioni di cittadini nel mondo e che avrebbe trovato le più disparate manifestazioni sul terreno della cultura e dell’industria dell’intrattenimento, per esempio nella interminabile saga letteraria e cinematografica dell’agente segreto 007 James Bond (il primo film è proprio del 1962), o nel capolavoro di Stanley Kubrick, uscito nel 1964, Il dottor Stranamore, una terribile commedia grottesca in cui un generale americano, guerrafondaio e anticomunista, provoca lo scoppio della guerra a dispetto delle intenzioni del suo presidente, che non riesce più a fermare il corso degli eventi una volta innescati.
Il Cremlino e la Casa Bianca si collegarono tra loro grazie a una linea diretta di telescriventi (un’evoluzione del telegrafo), detta «linea rossa». Finalmente cominciarono dei negoziati per ridurre gli armamenti, arrivando a un primo accordo per il bando dei test nucleari di superficie.
In Germania, le diplomazie accettarono prudentemente la situazione determinatasi sul campo. Kennedy peraltro seppe ravvivare la retorica della guerra fredda: nel corso della sua visita ufficiale a Berlino ovest, nel giugno del 1963, pronunciò un celebre discorso in cui – dichiarandosi egli stesso cittadino di Berlino («Ich bin ein Berliner») – esprimeva la vicinanza di tutto il «mondo libero» ai berlinesi «assediati».
Fu l’ultima grande apparizione di Kennedy sulla scena internazionale. Pochi mesi dopo, il 22 novembre 1963, venne assassinato a Dallas, in Texas, in circostanze mai del tutto chiarite. Questa tragica morte, avvolta in un alone di mistero, lo fece entrare immediatamente nel mito, quello degli eroi portatori di speranza abbattuti a tradimento nel pieno della loro forza e giovinezza.
Un’analisi degli effettivi risultati dei tre anni della sua presidenza peraltro ha indotto molti studiosi ad abbandonare i toni epici della propaganda per abbracciare un’analisi più realistica ed equilibrata: come abbiamo già detto, in politica estera Kennedy seguì un copione piuttosto tradizionale, avviando anche l’impegno americano in Vietnam (➜ CAP. 15.2), mentre l’ambizioso programma di riforme interne dovette attendere il suo successore, Lyndon Johnson, per decollare.
Undici mesi dopo, nell’ottobre del 1964, usciva di scena anche Kruscev. Gli organi del partito costrinsero alle dimissioni il leader sovietico, che pagò un riformismo interno e un dinamismo in politica estera a cui non avevano corrisposto risultati considerati all’altezza. Se lo scacco subito a Cuba svolse un ruolo importante nel determinare l’eclissi di Kruscev, il problema più complesso riguardava però l’inasprimento dei rapporti con la Cina di Mao (➜ ANCHE PAR. 4).
Con la destituzione di Kruscev terminava – secondo alcuni prima ancora che fosse cominciata sul serio – la fase di disgelo della politica e della società sovietiche. Peraltro non si tornò nemmeno all’asprezza della persecuzione staliniana: il tempo delle grandi purghe e dei gulag era finito.
2 La distensione tra problemi interni e instabilità internazionale
La «Great Society» americana e la guerra del Vietnam Negli anni Sessanta e Settanta, il confronto tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica proseguì nel segno della distensione. Alcuni accordi che portarono alla riduzione degli armamenti e all’apertura di relazioni commerciali costituirono i segni più tangibili di questa fase.
D’altra parte, una serie di problemi interni che attraversarono entrambe le superpotenze e nuove crisi «regionali» in cui esse indirettamente si trovarono a fronteggiarsi concorsero a influenzare e a ostacolare questo processo.
In seguito alla morte di Kennedy, alla fine del 1963 il vicepresidente (ovviamente anche lui membro del Partito democratico) Lyndon Johnson assunse la presidenza; l’avrebbe mantenuta fino al 1968, dopo aver vinto le elezioni del 1964. Si sarebbe distinto per due ragioni molto diverse.
Sul piano interno, realizzò il programma di riforme preannunciato da Kennedy. Johnson adottò lo slogan «Great Society», una «grande società», che doveva combattere la povertà e la discriminazione.
Sin dal 1964 promosse il varo del «Civil Rights Act», la Legge federale sui diritti civili, ottenuta anche in seguito all’imponente movimento di protesta della comunità afroamericana (➜ CAP. 17.4). Questa legge conteneva due misure fondamentali:
proibiva le discriminazioni nelle modalità di iscrizione alle liste elettorali (esisteva una serie di espedienti che permettevano alle amministrazioni bianche di escludere i neri dall’esercizio del voto);
dichiarava illegale ogni discriminazione basata sulla razza, il sesso o l’etnia nell’ambito dell’amministrazione e delle attività ed esercizi pubblici (dalle scuole alla frequentazione di hotel, ristoranti, bar ecc.).
Negli anni successivi, una serie di programmi federali (ossia finanziati dal governo centrale) portarono alla realizzazione di misure di welfare state nei campi della sanità, delle pensioni e dell’istruzione. Nel complesso erano misure di minore portata rispetto al modello europeo di welfare, ma ebbero comunque un impatto importante sulla società americana: ridussero le sacche di povertà e le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza.
L’altro evento che segnò la presidenza Johnson fu la guerra del Vietnam. Come abbiamo visto (➜ CAP. 15.2), dal 1965 gli Stati Uniti si ritrovarono pesantemente coinvolti nel conflitto in Indocina. Dopo l’offensiva vietnamita dell’inizio del 1968, Johnson cercò una via d’uscita intavolando trattative che però, inizialmente, non ebbero l’esito sperato. Questo insuccesso lo spinse a ritirarsi dalla vita politica, rinunciando a ricandidarsi (avrebbe potuto farlo perché il suo primo mandato, come presidente subentrato, era durato soltanto tredici mesi). Il capitolo della guerra vietnamita sarebbe stato chiuso dal suo successore, il repubblicano Richard Nixon.
La primavera di Praga Il 1968 segnò un passaggio cruciale anche per il blocco sovietico. Nei primi mesi dell’anno la Cecoslovacchia conobbe un processo di riforma guidato dalla dirigenza del partito, in particolare dal nuovo segretario Alexander Dubcek, che prese le mosse dalla necessità di rendere più flessibile il modello economico di stampo sovietico, ma sfociò rapidamente in un programma che prevedeva la reintroduzione del pluralismo politico (abolendo quindi il regime a partito unico) e una larga libertà d’espressione. Questa proposta dall’alto, che Dubcek definì un «socialismo dal volto umano», incontrò i fermenti politici, culturali e ideali che in quel momento partivano dal basso, cioè dalla società cecoslovacca. Le riforme fiorirono ad aprile – da cui la celebre espressione, coniata in Occidente, di «primavera di Praga» – in contemporanea con l’esplosione della protesta studentesca che stava avvenendo in tutto il mondo industrializzato (➜ CAP. 17).
Malgrado il governo cecoslovacco non avesse nessuna intenzione di uscire dal blocco sovietico (a differenza di quanto aveva dichiarato, nel 1956, il Primo ministro ungherese, scatenando la reazione di Mosca), la dirigenza sovietica giudicò che l’esperimento si era spinto troppo in là. Anche per la pressione dei regimi polacco e tedesco orientale (che, privi di un solido consenso interno, temevano di essere destabilizzati o travolti dall’esempio cecoslovacco), le truppe del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia la notte tra il 20 e il 21 agosto 1968.
La resistenza pacifica opposta dai cecoslovacchi si rivelò inutile e immediatamente cominciò un processo di «normalizzazione». La dirigenza cecoslovacca fu lasciata al suo posto per un altro anno, ma dovette smantellare le riforme varate sino a quel momento. Questo periodo fu reso ancora più angoscioso dall’estrema protesta dello studente Jan Palach che nel gennaio del 1969 si diede fuoco in piazza San Venceslao, nel centro di Praga. Il suo gesto richiamava esplicitamente quello di un «bonzo», un monaco buddista vietnamita che nel 1963 si era dato fuoco a Saigon per protestare contro il governo filoamericano del Vietnam del Sud. Palach collegava così idealmente due lotte contro l’imperialismo e la sopraffazione.
L’URSS di Breznev Nel settembre 1968 Leonid Breznev, che aveva affermato la sua preminenza nell’apparato di potere sovietico dopo alcuni anni di direzione collegiale, diede una sorta di veste formale all’intervento dell’URSS e degli alleati del Patto di Varsavia. La cosiddetta «dottrina Breznev» sosteneva che «la sovranità e il diritto all’autodeterminazione degli Stati socialisti sono subordinati agli interessi del sistema socialista mondiale». In altre parole, il segretario del PCUS dichiarava che la sovranità nazionale dei Paesi del blocco sovietico era limitata e restava subordinata alle valutazioni del Cremlino.
La dichiarazione di Breznev tentava anche di nascondere un fatto evidente: un «sistema socialista mondiale», nel solco della complessa tradizione internazionalista, non esisteva più e tanto meno, dopo la rottura tra Mosca e Pechino (➜ PAR. 4), faceva capo all’URSS. I fatti di Praga non solo spaccarono o indebolirono i grandi partiti comunisti europei, come era già accaduto nel 1956 dopo l’invasione dell’Ungheria, ma li spinsero a prendere maggiori distanze da Mosca, come nel caso del Partito comunista italiano.
Sul piano interno si aggiungevano crescenti difficoltà economiche: il modello dirigista sovietico, capace di trasformare in pochi decenni un Paese fortemente arretrato in una potenza industriale, aveva raggiunto i suoi limiti espansivi. In qualche misura, il sistema industriale sovietico era nato sotto la spinta di un’emergenza continua, dal 1917 alle necessità della ricostruzione e della guerra fredda post-1945, pressato dalla necessità di raggiungere risultati in breve tempo, senza badare a sprechi, inefficienze e costi (di ogni genere, compresi quelli ambientali), e per di più sotto il controllo di un ponderoso apparato burocratico.
Quando quella spinta, materiale e ideale allo stesso tempo, si esaurì, non restavano più risorse o margini per riconvertirsi – in primo luogo dall’industria pesante a quella di consumo –, né per introdurre innovazioni tecnologiche, né per stimolare la crescita della produttività. Ne scaturì un circolo vizioso che rese l’apparato produttivo sempre più inefficiente e pletorico.
Negli anni Sessanta la situazione più critica era quella in cui versava l’agricoltura: la produzione non riusciva a coprire il fabbisogno alimentare del Paese, costretto a importare soprattutto cereali e tecnologie dagli USA, aprendo in questo modo una breccia, probabilmente fatale, nel suo sistema fino ad allora sostanzialmente autarchico e autosufficiente.
L’incremento di esportazioni di materie prime energetiche sostenne in parte la bilancia commerciale, ma d’altra parte queste risorse, drenate dall’apparato militare o sprecate da un sistema burocratico sempre più inefficiente e corrotto, non servirono a ridurre un crescente gap tecnologico con l’Occidente.
Gli anni di Breznev (che sarebbe rimasto al potere fino alla morte, nel 1982) furono pertanto segnati:
da una continua perdita di consenso e fiducia, sia pure ancora in forme dissimulate e silenziose;
dall’ulteriore crescita degli apparati burocratici del partito, sempre più corrotti, dal momento che qualunque cosa doveva passare per le loro mani, e dai quali era scaturita una vera e propria casta privilegiata (la cosiddetta nomenklatura);
dall’evidente incapacità di un’autoriforma del sistema.
Se il blocco sovietico era ormai tenuto insieme soltanto dalla minaccia delle armi, nell’URSS si irrigidirono di nuovo i controlli di polizia, e le autorità soffocarono la dissidenza interna. Tra i casi più celebri a livello internazionale vi fu quello dello scrittore Alexandr Solzenycin (➜ CAP. 14.5), esiliato all’inizio del 1974 (nel 1973 era uscito in Occidente il suo Arcipelago gulag, dove raccontava il sistema dei campi di lavoro sovietici), e quello del fisico Andrej Sacharov, uno dei padri della bomba H sovietica, confinato alla fine degli anni Settanta.
In questo contesto, la politica della distensione diventava un’opportunità anche per il regime sovietico: oltre ad alleggerire il bilancio delle spese militari, permetteva l’apertura di relazioni commerciali sempre più importanti per sostenere i livelli di vita interni, e inoltre consentiva all’URSS di accreditarsi come garante della pace, mantenendo alto il proprio prestigio.
La diplomazia di Nixon e di Kissinger La disponibilità al dialogo era contraccambiata dal nuovo presidente americano, il repubblicano Richard Nixon, eletto nel 1968 dopo una campagna elettorale drammatica, durante la quale venne assassinato Robert «Bob» Kennedy, il fratello dell’ex presidente John, mentre si trovava ancora impegnato nelle primarie del partito democratico.
La distensione si concretizzò nel 1972 in un trattato per la riduzione degli armamenti nucleari, noto come SALT I (sigla per Strategic Arms Limitation Talks, «trattative per la limitazione delle armi strategiche»), per distinguerlo da quello SALT II, di portata minore, siglato nel 1979. Si consideri peraltro che questi trattati ebbero un valore simbolico più che concreto: non soltanto gli arsenali restavano largamente sufficienti a distruggere più volte il pianeta, ma la gara al loro sviluppo tecnologico proseguiva senza soste, rendendo rapidamente obsoleti gli accordi fissati sulla carta.
La politica estera americana, ispirata dal segretario di Stato Henry Kissinger, previde una svolta radicale anche in Asia. L’amministrazione Nixon, come abbiamo detto, uscì dal conflitto vietnamita, tra il 1973 e il 1975 (➜ CAP. 15.2). A questo risultato contribuì una clamorosa apertura verso la Cina popolare – con cui non erano mai state aperte relazioni diplomatiche – avviata sin dal 1969 e coronata da una visita ufficiale a Pechino nel 1972. La base di questa nuova intesa, frutto della cosiddetta «diplomazia del ping pong», era la politica antisovietica: Pechino era in aperta rottura con Mosca e questo schiudeva nuove prospettive per Washington.
Per questo motivo sin dalla fine del 1971 la Cina popolare fu ammessa nella comunità internazionale: accolta nelle Nazioni Unite, prese il posto di Taiwan nel Consiglio di sicurezza (➜ ANCHE CAP. 14.4). Nel 1972 ritirò i suoi aiuti al Vietnam, che restò così legato esclusivamente all’URSS. Infine, Cina e Stati Uniti aprirono importanti relazioni commerciali.
La fine della presidenza Nixon Il processo di distensione conobbe una nuova battuta d’arresto nella seconda metà degli anni Settanta. Vi contribuirono, da un lato, i problemi interni degli Stati Uniti e, dall’altro, una nuova ondata di fermenti e di tensioni provenienti dai Paesi del Terzo Mondo.
Nell’estate del 1974 il presidente Nixon rassegnò le dimissioni, travolto dallo scandalo politico passato alla storia come «il Watergate». Sin dall’estate del 1972, due giornalisti del quotidiano «Washington Post» avevano fatto emergere alcuni elementi che accusavano il presidente di aver condizionato il corso delle elezioni, spiando le mosse dei democratici grazie a microspie piazzate nel loro quartier generale elettorale, l’hotel Watergate di Washington.
Due anni dopo, quando i risultati delle inchieste giudiziarie erano ormai inequivocabili, Nixon si dimise prima di subire una formale incriminazione secondo le procedure previste dalla Costituzione americana.
Nuove tensioni in un mondo che cambia La grave crisi politica interna degli USA si accompagnò a una fase di instabilità internazionale che sembrò avvantaggiare l’URSS. All’inizio degli anni Settanta nel campo occidentale mutò infatti la congiuntura economica. In particolare, due clamorosi avvenimenti segnarono il trapasso da una crescita che sembrava inarrestabile a un ciclo depressivo.
1. Nell’agosto del 1971 gli Stati Uniti sospesero la convertibilità del dollaro in oro. Ciò determinò la fine del sistema monetario stabilito con gli Accordi di Bretton Woods nel 1944 (➜ CAP. 14.2) e provocò una lunga fase di caos monetario – dal momento che i valori delle valute nazionali oscillavano tra loro –, con conseguenze sulla stabilità degli scambi internazionali e sui livelli dei prezzi e dell’inflazione (ANCHE CAP. 17.8). La decisione di Washington derivava dalle sue difficoltà di bilancio: la spesa pubblica saliva, soprattutto per finanziare i nuovi programmi di welfare e le spese militari. Inoltre la bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti era passata in deficit: in altre parole, dal 1970 le importazioni avevano superato le esportazioni.
Sin dalla metà degli anni Sessanta, il governo americano aveva fatto fronte alle sue esigenze di spesa stampando dollari, che avevano inondato il mondo e in particolare le banche dei Paesi dell’Europa occidentale. Quando le richieste europee di conversione di dollari in oro cominciarono a crescere, le riserve auree americane cominciarono a calare, spingendo Washington a porre fine al sistema di Bretton Woods.
2. Nel novembre del 1973 l’economia occidentale subì il cosiddetto «shock petrolifero»: in conseguenza della Guerra del Kippur (➜ CAP. 15.4), i Paesi produttori di petrolio riuniti nell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries, ovvero Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, fondata nel 1960) ridussero drasticamente l’esportazione di petrolio verso gli alleati di Israele e, nel giro di un anno, quadruplicarono i prezzi del greggio, che passò da circa 3 dollari al barile a circa 12 dollari al barile. Alla fine degli anni Settanta un secondo shock, seguente alla rivoluzione scoppiata in Iran (➜ PAR. 5), portò il prezzo a circa 35 dollari.
I «miracoli economici» occidentali erano stati possibili anche per il modesto costo dell’energia che ora – improvvisamente, nel giro di sei-sette anni – era aumentata di circa undici volte. E con essa tutto rincarò, perché il costo del petrolio incideva – direttamente o indirettamente – sui costi di produzione e di trasporto di qualsiasi merce.
Pertanto, in virtù delle difficoltà americane e di questa nuova crisi del capitalismo, intorno alla metà degli anni Settanta – malgrado molti segnali potessero indicare anche il contrario – sembrarono aprirsi nuovi spazi politici per l’URSS:
il Vietnam, dopo la definitiva vittoria del 1975, si integrò nel sistema sovietico (nel 1978 entrò anche nel Comecon);
un colpo di Stato militare impose un regime filosovietico in Etiopia;
in Angola e Mozambico l’esito della decolonizzazione portò al potere dei movimenti «nazionalisti-marxisti», sostenuti dalle armi sovietiche;
in America centro-meridionale i movimenti guerriglieri di sinistra sembravano rafforzarsi (ma come abbiamo visto nel CAP. 15.6, gli Stati Uniti, su impulso del segretario di Stato Kissinger, non tardarono a prendere drastiche contromisure);
persino in Europa occidentale, sia pure soltanto per pochi mesi, sembrò che il Portogallo, dopo la rivoluzione che pose fine alla lunga dittatura di stampo fascista, potesse passare nel campo comunista, mentre in Italia preoccupava gli osservatori internazionali la continua avanzata elettorale del Partito comunista italiano che, sotto la guida di Enrico Berlinguer, nel 1976 superò il 34 per cento dei consensi (➜ CAP. 19).
Al di là delle oscillazioni di breve periodo nei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, la questione di maggiore rilievo ormai era un’altra: il bipolarismo est-ovest aveva perduto la capacità di contenere, descrivere e analizzare una situazione mondiale divenuta assai più intrecciata lungo l’asse geopolitico sud-nord e, al tempo stesso, complicata.
Nel mondo comunista, la leadership sovietica declinava. Nel campo occidentale, il rallentamento della crescita economica e la fine del sistema di Bretton Woods ponevano nuovi interrogativi per il futuro. In varie parti del mondo stavano emergendo nuovi centri di potere economico e politico, sia pure ancora inferiori a Mosca e a Washington. A metà degli anni Settanta, il mondo del bipolarismo cominciava tuttavia a cedere il posto a una configurazione diversa.
3 In Europa occidentale: mercato comune e democrazia
Il progetto francese di «terza forza» Nel corso degli anni Sessanta l’Europa occidentale completò il suo straordinario recupero economico e demografico (➜ CAP. 17), mentre le democrazie nazionali si consolidavano e prendevano forma strutture comunitarie sovranazionali ancora limitate a sei Paesi e alla sfera strettamente economica (le Comunità economiche europee).
In questi anni la politica continentale e l’evoluzione delle strutture comunitarie furono segnate dall’ambizione del presidente francese Charles De Gaulle di fare dell’Europa, forte della sua nuova prosperità e stabilità, una «terza forza», autonoma e dello stesso rango di Stati Uniti e Unione Sovietica.
L’idea d’Europa di De Gaulle L’obiettivo di De Gaulle era restituire alla Francia il suo tradizionale ruolo di protagonista della politica internazionale. Tuttavia, egli era consapevole che, nell’era delle superpotenze, questa ambizione doveva passare attraverso un rafforzamento dell’Europa che doveva svincolarsi dall’egemonia politica e militare americana per proporsi come «terza forza» rispetto a USA e URSS, con una propria e autonoma force de frappe («forza d’urto») basata sul potere di dissuasione derivante dal possesso del nucleare. Il presidente francese aveva in mente un’«Europa degli Stati», ovvero una struttura confederale: ogni Stato avrebbe conservato la propria sovranità mentre l’integrazione sarebbe stata realizzata dai governi nazionali, attraverso fitte consultazioni e accordi (da concludere sempre all’unanimità) su questioni specifiche, senza la creazione di strutture sovranazionali, che avrebbero determinato appunto limitazioni alle singole sovranità nazionali. Naturalmente la Francia avrebbe avuto un ruolo guida nel coordinare le relazioni tra i Paesi europei.
A questo scopo, sin dal 1961, la Francia promosse i cosiddetti «vertici europei», riunioni informali dei capi di Stato dei Paesi membri delle Comunità europee, convocate a cadenza irregolare, ma piuttosto serrata. Dal momento che non erano previste dai Trattati di Roma (➜ CAP. 14.6), si configuravano di fatto come un’alternativa alle istituzioni comunitarie, rimettendo in primo piano il ruolo delle singole nazioni rispetto a un’impostazione sovranazionale. L’evidente importanza economica delle Comunità europee fece sì che la loro esistenza non fosse rimessa in discussione; ma così De Gaulle cercava di far evolvere l’integrazione politica secondo il suo progetto confederale.
L’asse franco-tedesco e l’atomica Un altro tassello del progetto di De Gaulle prevedeva il rafforzamento dei rapporti con la Germania ovest che – a meno di vent’anni dalla sconfitta del nazismo – si trovava ancora sotto tutela politica, ma la sua eccezionale crescita economica l’aveva già riportata al rango di grande potenza. La creazione di un asse privilegiato franco-tedesco doveva raggiungere più scopi:
improntare definitivamente le relazioni franco-tedesche alla collaborazione in tutti i campi;
sottrarre la Germania ovest all’egemonia americana;
fare dell’asse franco-tedesco il nucleo dell’Europa politica a venire, permettendo anche lo sviluppo di una politica di difesa autonoma.
Per fare dell’Europa una «terza forza», infatti, sarebbe stato necessario creare una forza militare autonoma, ovvero in grado di sostenere anche un conflitto nucleare. Per questa ragione De Gaulle spinse il programma atomico francese, che arrivò a realizzare il primo test nucleare nel 1960. Allo stesso tempo, si impegnò per la formazione di un’organizzazione di difesa europea svincolata dalla NATO, per una politica di difesa e di sicurezza che non dipendesse più dagli Stati Uniti.
I partner europei, tuttavia, e prima fra tutti proprio la Germania, si guardarono bene dal mettere in discussione l’adesione alla NATO e la protezione degli Stati Uniti, che consideravano l’unica vera garanzia contro il pericolo di un’aggressione sovietica. Il risultato della politica di De Gaulle ebbe una dimensione unicamente nazionale: la Francia, pur continuando a essere membro della NATO, si ritirò dal comando integrato e fece uscire dal Paese tutte le forze NATO che vi erano stanziate.
L’ambiziosa politica di De Gaulle, ispirata ai fasti ormai passati di una grandeur francese ai limiti del velleitarismo, si risolse in una impasse (una situazione senza soluzione) che coinvolse anche le strutture comunitarie, il cui sviluppo restò sostanzialmente bloccato fino al 1969, quando il presidente francese si ritirò dalla scena politica.
L’Ostpolitik di Willy Brandt L’iniziativa di De Gaulle verso l’Europa orientale aprì la strada anche a una svolta nella questione tedesca, che coincise con un cambiamento nel panorama politico della Germania occidentale. Tra il 1966 e il 1969 si concluse infatti il lungo periodo di governo del Partito democristiano, la CDU-CSU, mentre il Partito socialdemocratico, la SPD, assunse la guida del Paese.
La SPD si era preparata a questo passo sin dal 1959 quando, con il cosiddetto programma di Bad Godesberg, aveva ufficialmente abbandonato la dottrina marxista.
Diventato cancelliere nel 1969, il leader socialdemocratico Willy Brandt inaugurò la sua Ostpolitik («politica dell’Est»), che portò ad allacciare rapporti diplomatici con la Germania est (fino a quel momento inesistenti per volontà dei governi della CDU di non avallare l’esistenza di due Germanie) e a concludere una serie di trattati con gli altri Paesi del blocco sovietico.
Nel 1970, con i trattati di Mosca e di Varsavia, la Germania ovest riconobbe il confine fissato con la Polonia nel 1945 e pertanto rinunciò a ogni rivendicazione sugli antichi territori tedeschi orientali. A Varsavia per la firma del trattato, Brandt si inginocchiò spontaneamente davanti al monumento che ricordava la distruzione del ghetto di Varsavia. Questo gesto assunse un valore ancora superiore a quello del trattato tanto da essere considerato il riconoscimento della colpa collettiva del popolo tedesco.
In sostanza, gli accordi stipulati dalla Germania ovest tra il 1970 e il 1973 – che regolavano lo status di Berlino ovest, stabilivano relazioni diplomatiche tra le due Germanie e riconoscevano il confine con la Cecoslovacchia annullando gli accordi di Monaco del 1938 – assolsero la funzione di quel trattato di pace generale che non aveva potuto vedere la luce all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale. Il coronamento di questo percorso si ebbe nel 1973 con l’ammissione di entrambe le Germanie nelle Nazioni Unite.
La fine delle dittature in Grecia, Portogallo e Spagna Intorno alla metà degli anni Settanta si chiusero altre vicende le cui radici affondavano nel periodo interbellico o della Seconda guerra mondiale: terminò, infatti, il periodo delle dittature reazionarie e filofasciste in Grecia, Portogallo e Spagna.
In Grecia, la dittatura – detta «dei colonnelli» perché instaurata in seguito a un colpo di Stato militare – si impose nel 1967. I colonnelli si impadronirono del potere durante una grave crisi politica seguita alla crescita delle opposizioni di sinistra.
Gli Stati Uniti si affrettarono a riconoscere il regime, benché gli alleati europei fossero molto più diffidenti a causa dei metodi polizieschi dei militari, che repressero le opposizioni e violarono sistematicamente i diritti fondamentali.
Un clamoroso fallimento politico e militare travolse nel 1974 i «colonnelli»: i militari tentarono di annettere l’isola di Cipro, diventata indipendente da Londra nel 1960 e abitata da una maggioranza di cultura e lingua greca e da una consistente minoranza turca; proprio per tutelare questa comunità, la Turchia reagì con le armi, sbarcando nel nord dell’isola.
La Grecia tornò quindi alla vita democratica e divenne una repubblica a seguito di un referendum popolare che respinse l’ipotesi di tornare alla monarchia costituzionale ristabilita dopo la guerra.
Nello stesso 1974 anche il Portogallo tornò alla democrazia, dopo la lunga dittatura di stampo fascista imposta da Antonio Salazar nel 1932 (Salazar detenne il potere fino al 1968, quindi gli successe Marcelo Caetano).
Una costosissima guerra coloniale, che sottraeva uomini e risorse a un Paese che restava molto povero, minò il regime. La sua caduta fu determinata, infatti, da un colpo di Stato organizzato il 25 aprile 1974 da un gruppo di giovani ufficiali di idee di sinistra – che avevano fatto esperienza della guerra coloniale in Angola e Mozambico – e sostenuto dal movimento comunista.
L’azione cominciò poco dopo la mezzanotte del 25 aprile 1974 (il segnale venne dato con la trasmissione della canzone, proibita dal regime, Grandola vila morena) e fu incruenta: il regime cedette senza combattere e i portoghesi poterono mettere per davvero dei fiori nelle canne dei fucili, come recitava un celebre slogan pacifista del tempo; questi avvenimenti passarono alla storia come la cosiddetta «rivoluzione dei garofani», che stavano fiorendo proprio in quei giorni di primavera.
Come abbiamo già ricordato, per alcuni mesi si pensò che il comunismo potesse prendere piede in Europa occidentale, in uno dei Paesi membri della NATO. Nell’autunno del 1975, tuttavia, prevalse l’ala più moderata del fronte rivoluzionario che riuscì ad allontanare gli ufficiali più radicali. Il Paese divenne una repubblica parlamentare, in cui si sarebbero alternati governi di centro-destra e socialisti.
Nel 1975 anche la Spagna vide la fine della dittatura, in seguito alla morte di Francisco Franco, che si era imposto nel 1939 al termine della guerra civile (➜ CAP. 9.8).
L’opposizione al regime era cresciuta negli anni Sessanta, durante i quali il Paese aveva conosciuto profondi cambiamenti: uno sviluppo industriale e una graduale modernizzazione anche della società, dovuta, tra le altre cose, all’intensificarsi degli scambi con l’estero (mediante il turismo e i flussi migratori). La Spagna era in fermento: insieme alla forza della classe operaia, cresceva la protesta studentesca e intellettuale, e persino quella del mondo cattolico, attraversato dai cambiamenti in senso progressista promossi dalla Chiesa di papa Giovanni XXIII (➜ CAP. 17.3) che facevano vacillare uno dei principali pilastri del regime.
Avevano ripreso quota anche i movimenti autonomisti e separatisti – basco, catalano e galiziano –, ostili al franchismo per il suo rigido centralismo. Una serie di attentati scosse il Paese e la fine della dittatura fu, in qualche modo, annunciata sin dal 1973 dall’omicidio, da parte dell’organizzazione basca ETA (acronimo di Euskadi Ta Askatasuna, letteralmente «Paese Basco e libertà», ➜ CAP. 17.7), dell’ammiraglio Luis Carrero Blanco, il numero due del regime.
Franco morì nel 1975, designando come suo successore Juan Carlos di Borbone, erede al trono di Spagna vacante dal 1931. Il sovrano intraprese con determinazione il delicato processo di transizione e di democratizzazione del Paese, dove tornarono a essere legali tutti i partiti, fra cui quello comunista, e liberi i sindacati. Nel 1978 il varo della nuova Costituzione fece della Spagna una democrazia a tutti gli effetti, retta da un sistema di monarchia parlamentare.
La Comunità europea al tempo della crisi Negli anni Ottanta tutti e tre i Paesi dell’area mediterranea recuperati alla democrazia entrarono nella Comunità europea: la Grecia sin dal 1981, il Portogallo e la Spagna nel 1986.
La Comunità europea stava ormai cambiando volto, secondo un percorso avviato dopo la complessa stagione segnata dai progetti di De Gaulle, quando i membri della CEE vollero rilanciare il processo di integrazione economica e politica. Questa nuova fase, cominciata nei primi anni Settanta, fu favorita dalla concomitanza di alcuni fattori:
dal raggiungimento degli obiettivi fissati dai Trattati di Roma: già nel corso del 1968 (in anticipo rispetto alla data prevista del 1° gennaio 1970) si varò l’unione doganale che prevedeva l’abolizione dei dazi tra i Paesi membri e l’adozione di una tariffa comune per le importazioni;
dall’allargamento della Comunità che dal 1° gennaio 1973 annoverò anche il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca.
Le discussioni si concentrarono sull’elaborazione di una politica economica e monetaria comune, sempre più urgenti di fronte ai rivolgimenti dei primi anni Settanta. Nel 1979 si arrivò alla creazione del Sistema monetario europeo (SME), che aveva lo scopo di limitare le fluttuazioni dei cambi tra le divise degli Stati membri, anche per evitare che un Paese usasse la svalutazione monetaria per rendere artificialmente più competitive le proprie esportazioni verso Stati in cui il denaro valeva di più (un prodotto importato poteva costare meno dell’equivalente nazionale per il gioco dei cambi di valuta).
Le banche centrali avrebbero dovuto agire in modo da mantenere il valore delle rispettive monete entro una determinata banda di oscillazione. Inoltre, i valori furono calcolati non più sulla base del dollaro ma in relazione a una nuova moneta di conto europea, l’ECU. Questa riforma può essere considerata la base per la nascita della moneta unica europea, l’euro, che sarebbe avvenuta vent’anni dopo (➜ CAP. 21.6).
Sul piano politico, nel 1974 i vertici europei tra i capi di Stato avviati negli anni Sessanta cominciarono ad assumere una veste più formale, definendosi Consigli europei. Continuava in ogni caso il dualismo già messo in luce in precedenza: da una parte organismi per la concertazione tra Stati nazionali; dall’altra la struttura sovranazionale, rappresentata dalle Commissioni (soprattutto dalla Commissione della CEE, la più importante) e dalle altre istituzioni comunitarie.
Nel 1976 gli Stati membri presero la decisione di far eleggere il Parlamento europeo a suffragio universale diretto. Il Parlamento era stato istituito sin dal 1957, come assemblea ristretta i cui deputati erano designati dai Parlamenti nazionali. Ora, a partire dalle elezioni del 1979, l’elettorato di ciascun Paese membro avrebbe votato i propri rappresentanti nazionali (in numero proporzionale alla popolazione).
Questo rafforzamento delle strutture comunitarie in senso democratico aveva più che altro un valore simbolico, dal momento che il Parlamento europeo manteneva ancora soltanto funzioni consultive e non legislative. Al contempo, su un piano più pragmatico, si rafforzò il diritto comunitario, grazie all’azione determinata della Corte di giustizia europea (il tribunale previsto dai Trattati di Roma che sovraintendeva all’applicazione e all’interpretazione del nascente diritto europeo). Sin dagli anni Sessanta la Corte agì affermando tendenzialmente la superiorità delle norme comunitarie su quelle nazionali e inoltre cominciò a estenderle. Si creò così uno spazio giuridico europeo in grado di prefigurare un’integrazione non soltanto economica, ma anche pienamente politica e sociale, aprendo la strada al processo di definizione di una cittadinanza europea, che sarebbe stata introdotta nel 1992.
4 La Cina dalla «rivoluzione culturale» alla morte di Mao Tse-tung
Il fallimento del «grande balzo in avanti» Alla fine degli anni Cinquanta, malgrado i buoni risultati del primo piano quinquennale, la Cina popolare continuava a essere un Paese arretrato sia nel settore industriale sia in quello agricolo. Dalla fine della guerra civile, la popolazione era aumentata a un ritmo molto elevato, passando da circa 540 milioni nel 1950 a circa 640 milioni nel 1960, e questo poneva grossi problemi alimentari e di occupazione: come sfamare e dove impiegare quei milioni di nuove leve?
Nel 1958 la dirigenza cinese, con alla testa Mao Tse-tung, tentò di incrementare il ritmo della crescita, lanciando un programma battezzato il «grande balzo in avanti». L’idea era quella di sviluppare contemporaneamente l’agricoltura e l’industria, sia pesante sia leggera, facendo leva sull’enorme quantità di manodopera disponibile.
La base dell’organizzazione doveva essere la «Comune popolare», un’unità economica-amministrativa che poteva riunire da 4000 a 10.000 famiglie e doveva diventare un complesso agrario e industriale autosufficiente. Con la Comune veniva perfezionata anche la collettivizzazione, dal momento che terre, bestiame, attrezzi, mezzi di produzione, servizi ecc. diventavano proprietà e attività dei membri della Comune.
Il «grande balzo» si animò di una fortissima spinta ideologica, che accordava la priorità agli obiettivi sociali e politici rispetto a quelli strettamente economici. Prima che modernizzare il Paese, doveva creare una società totalmente nuova, egualitaria e anti-individualista, che si spingeva a immaginare l’abolizione, di fatto, del nucleo familiare e della vita privata.
Questo progetto, tuttavia, si risolse in un catastrofico fallimento: i problemi organizzativi, gli errori tecnici (dovuti proprio al primato assoluto accordato all’ideologia, che procedette incurante dei dati oggettivi) e una serie di sfortunate circostanze (una serie di calamità naturali colpirono la Cina riducendo i raccolti) fecero crollare sia la produzione agricola sia quella industriale. Tra il 1959 e il 1961, poi ribattezzati i «tre anni neri», in Cina si ebbero almeno 14 milioni di morti di fame (secondo le cifre ufficiali, ma alcuni studiosi avanzano stime più alte).
La rottura con l’Unione Sovietica In quegli stessi anni Pechino arrivò a rompere con l’Unione Sovietica: il distacco da Mosca equivaleva a una rivendicazione di indipendenza sia nazionale sia ideologica. La Cina intendeva diventare un protagonista autonomo sulla scena internazionale ed elaborare una propria via originale al socialismo. Mao era fortemente critico nei confronti della linea adottata da Kruscev nel 1956: freddo in merito alla destalinizzazione, accusava i sovietici di tradire la rivoluzione, soffocata nelle strutture burocratiche del partito che di fatto riproponeva soltanto una versione diversa e «di Stato» del capitalismo, ed era contrario all’idea di convivenza pacifica. Secondo il «grande timoniere» (uno dei soprannomi con cui era noto Mao) bisognava condurre una politica più aggressiva, perché le potenze capitaliste erano in difficoltà e non ne andava sopravvalutata la forza: erano soltanto «tigri di carta», secondo una sua celebre definizione.
La tensione tra Pechino e Mosca sarebbe cresciuta per tutti gli anni Sessanta, mentre a livello internazionale Pechino, come abbiamo visto (➜ PAR. 2), giunse a un accordo con gli Stati Uniti all’inizio degli anni Settanta, mentre ruppe i rapporti con il regime vietnamita, rimasto filosovietico (➜ CAP. 15.2).
La «rivoluzione culturale» Nel frattempo la Cina visse fortissime tensioni interne. Il fallimento del «grande balzo» aveva fatto emergere un’ala moderata, che tra le sue fila contava anche Deng Xiao-ping, segretario del Partito comunista cinese, e Liu Shaoqi, il presidente della Repubblica (mentre Mao conservava la carica di presidente del Comitato centrale del Partito comunista, cruciale per avere il controllo su tutta l’organizzazione di partito).
A differenza di Mao, che sosteneva il primato della politica e dell’ideologia sull’economia (non sarebbe stato lo sviluppo economico a portare alla nascita di una società socialista, ma al contrario l’affermazione di quest’ultima avrebbe prodotto un determinato sviluppo produttivo), il gruppo moderato era convinto della necessità di ridare priorità a criteri economici, per evitare le sciagure dei tre anni precedenti.
Il conflitto tra queste due opzioni si sviluppò sotterraneamente fino a esplodere tra il 1965 e il 1966. Contro i moderati, che erano riusciti a prendere temporaneamente il controllo del Comitato centrale del partito, Mao scatenò un’offensiva ideologica che ebbe pesanti conseguenze pratiche. Per riprendere le redini del partito, si appoggiò sull’esercito e soprattutto sulla gioventù cinese, gli studenti in particolare, che aderirono in massa al movimento delle «guardie rosse».
Sin dal 1964 Mao aveva diffuso su larga scala il suo Libretto rosso, una raccolta di massime rivoluzionarie che esaltavano i valori dell’egualitarismo e del collettivismo (divenne un punto di riferimento ideologico anche per alcuni settori dei movimenti di contestazione sorti in Occidente a partire dal 1968, ➜ CAP. 17).
Quindi nell’estate del 1966 cominciò ufficialmente il movimento della «grande rivoluzione culturale», animato da slogan quali «bombardare il quartier generale». Le masse giovanili ebbero mano libera contro quelle che venivano indicate come le élite intellettuali e burocratiche, in nome di una purezza rivoluzionaria da ristabilire scalzando funzionari e tecnocrati dalle loro posizioni di privilegio che si erano create appunto tradendo la rivoluzione.
La protesta giovanile rovesciò le gerarchie con violenza, costringendo i quadri del partito contrari a Mao a umilianti autocritiche pubbliche, cui seguivano internamenti o periodi di «rieducazione» che, per esempio, prevedevano l’obbligo di svolgere lavori manuali. Tra i vecchi dirigenti che subirono l’epurazione si trovò anche Deng Xiao-ping.
Il Paese piombò in un caos violento. Non esiste un bilancio delle vittime della «rivoluzione culturale», le stime oscillano da qualche decina di migliaia ad alcuni milioni di morti. La spinta delle «guardie rosse» si esaurì progressivamente tra il 1967 e il 1968, anche per l’intervento di Mao che ormai aveva raggiunto lo scopo che si era prefissato: la sconfitta e la rimozione dei moderati.
Verso una nuova Cina Tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, la Cina avviò un consistente recupero economico: la sua agricoltura, benché ancora poco meccanizzata, era diventata più produttiva di quella indiana, mentre la sua industria si collocava, per quantità di prodotto, tra le prime dieci al mondo, benché ancora molto lontana dai livelli statunitensi, europei e sovietici.
A rendere il Paese un potenziale terzo grande polo mondiale contribuiva lo sviluppo del programma atomico: la Cina fece esplodere la sua prima bomba A nel 1964 e la sua prima bomba H nel 1967.
Anche per queste ragioni a metà degli anni Settanta poté riprendere quota la proposta dei sostenitori della linea moderata, o pragmatica, attenta agli indicatori della crescita economica. Intorno al 1974-75, questo gruppo ritrovò il suo vecchio leader Deng Xiao-ping, il quale venne «riabilitato», come moltissimi altri dirigenti caduti in disgrazia durante la rivoluzione culturale.
Dopo la morte di Mao, avvenuta nel 1976, la linea di Deng si impose al vertice della Cina: le questioni economiche divennero prioritarie, venne lanciata la campagna delle «quattro modernizzazioni» (ovvero nell’industria, nell’agricoltura, nella difesa nazionale e nel campo scientifico e tecnologico) e la politica della «porta aperta», che prevedeva l’intensificazione degli scambi commerciali con il mondo capitalista. Allo stesso tempo era abbandonata la collettivizzazione integrale in agricoltura e, all’interno del Paese, si aprivano spazi sempre più consistenti – sia pure attentamente controllati dal Partito – all’economia di mercato.
La Cina cominciava così un programma di modernizzazione guidata dall’alto paragonabile a quello conosciuto dal Giappone nel XIX secolo.
Questo significò procedere anche a una progressiva «demaoizzazione», a tutti i livelli. I successori di Mao accantonarono ogni progetto di società egualitaria per lasciar spazio a un diverso singolare esperimento: quello di uno Stato autoritario e dirigista, guidato da un partito ufficialmente sempre comunista, impegnato a incentivare un impetuoso sviluppo economico, tale da avviare la Cina a diventare la nuova grande superpotenza del XXI secolo.
5 Dall’Estremo al Medio Oriente: modernizzazione e «islam politico»
Il fermento economico e politico dell’Asia Nel corso degli anni Settanta il grande continente asiatico divenne il teatro di altri importanti rivolgimenti che portarono alla ribalta due fenomeni di natura molto diversa, ma entrambi destinati a incidere sugli assetti planetari e a disegnare il volto del mondo in cui viviamo oggi:
alla crescita economica del Giappone, che proseguì anche dopo lo shock petrolifero del 1973, si affiancò quella dei Paesi del Sud-Est asiatico;
dall’Asia centrale al Medio Oriente, si assistette all’ascesa dell’«islam politico», ossia di quei gruppi e movimenti che prendono le mosse dalla fede musulmana per creare uno Stato islamico tradizionalista fondato sui principi della sharia (➜ CAP. 15.3 E 4).
Il Giappone all’avanguardia A differenza di quanto accadde in Europa, il grande «miracolo economico» giapponese non si arrestò all’inizio degli anni Settanta: la crisi petrolifera del 1973 inferse un duro colpo al Paese del Sol Levante, che tuttavia ne risentì meno dei partner occidentali perché la sua industria seppe ristrutturarsi in tempi record, forte anche dei risultati del ventennio precedente.
Il sistema industriale nipponico si pose alla testa di un processo di innovazione che poi si sarebbe diffuso in tutto il mondo occidentale (➜ CAP. 17), fondato sul ricorso a sistemi di automazione (ovvero impiego di robot) e su una nuova organizzazione della produzione che migliorava l’efficienza e la produttività, eliminando sprechi di materie prime e di tempo di lavoro. Il modello giapponese poneva particolare attenzione alla risposta «flessibile» della produzione, secondo i principi del just in time, per cui essa doveva rispondere alla richiesta del mercato, praticamente su ordinazione, e non precederla (cosa che determina forti costi di stoccaggio ed espone al rischio di avere magazzini pieni di merci invendute).
Questo insieme di innovazioni del processo produttivo – denominato «toyotismo» perché teorizzato in particolare nell’ambito del gruppo industriale Toyota – portò al superamento del modello fordista (➜ CAP. 1.2) e al consolidamento del vantaggio competitivo, che il Giappone conservò sugli Stati Uniti e sull’Europa fino a tutti gli anni Ottanta.
Nello stesso periodo, i notevoli investimenti delle aziende e dello Stato nella ricerca e nell’istruzione (alla base della creazione di una manodopera altamente qualificata) si tradussero in una leadership dell’industria giapponese nei settori emergenti dell’elettronica.
Le «tigri asiatiche» La crescita economica giapponese trainò l’area del Sud-Est asiatico dove, a partire dagli anni Sessanta, cominciarono a emergere le economie di quattro Paesi: Corea del Sud, Taiwan, Singapore (che alla fine degli anni Sessanta si era reso indipendente dalla Malesia) e Hong Kong (allora ancora colonia britannica, uno degli ultimi residui dell’imperialismo europeo: sarebbe passata sotto la sovranità della Cina popolare soltanto nel 1997, ➜ CAP. 21.5).
Questi Paesi legarono il loro sviluppo sostanzialmente a una crescita industriale diretta non al mercato interno ma all’esportazione. Alla fine degli anni Ottanta le esportazioni complessive dei quattro Paesi rappresentavano oltre l’8 per cento del commercio mondiale (alla stessa data il Giappone realizzava poco meno del 10 per cento, mentre tutta l’America centro-meridionale assommava poco più del 4 per cento). Questi strabilianti risultati economici – che non conobbero battute d’arresto sino a una crisi sopravvenuta alla fine degli anni Novanta – fecero sì che in Occidente si cominciasse a parlare di «dragoni» o «tigri asiatiche».
A partire dagli anni Ottanta, la crescita economica si diffuse in altri Paesi del Sud-Est asiatico, secondo cronologie diverse; nel novero delle cosiddette «economie emergenti» sarebbero entrate anche la Malesia, l’Indonesia, la Thailandia, le Filippine e, infine, anche il Vietnam e la Cambogia – che lentamente superarono le scorie e i traumi dei conflitti degli anni Settanta.
L’importanza del petrolio Intanto, nel mondo musulmano, tra il Medio Oriente e l’Asia centrale, riprese l’ascesa dell’islam politico, quell’opzione che durante il processo di decolonizzazione era risultata perdente di fronte a modelli di ispirazione occidentale, peraltro appoggiati dalle stesse potenze coloniali.
Si trattava, soprattutto in Medio Oriente, di un’area la cui importanza strategica era costantemente cresciuta insieme con le sue riserve ed esportazioni di petrolio, che alimentavano l’economia mondiale (alla fine della Seconda guerra mondiale, il petrolio mediorientale rappresentava il 7 per cento della produzione mondiale, nel 1973 la quota era giunta al 38 per cento).
I ricavi del petrolio, incrementati in modo esorbitante in seguito allo shock degli anni Settanta, avevano finanziato la stabilità politica di molti Stati dell’OPEC, soprattutto degli Emirati arabi che in quegli anni cominciarono ad assumere l’odierna fisionomia. Si affermavano, infatti, come regimi autoritari capaci di creare consenso interno mediante programmi di investimento (tali anche da attrarre forza lavoro dall’estero), assistenza, istruzione e la cooptazione delle classi medio-alte, impiegate nell’amministrazione. Sulla scena internazionale questi Stati assunsero sempre di più un ruolo da protagonisti perché alle esportazioni di petrolio affiancarono enormi investimenti esteri (dei capitali ottenuti dalla vendita del cosiddetto «oro nero»), nelle stesse economie occidentali, a cominciare da quella statunitense.
Questi impetuosi mutamenti portarono anche forti tensioni, che vennero governate con esiti diversi. Per esempio, la dinastia reale dell’Arabia Saudita, seguendo una politica fortemente conservatrice, fece in modo di mantenere il consenso dei leader religiosi wahabiti, rappresentati della più intransigente ortodossia dell’Islam sunnita, evitando così che diventassero un punto di riferimento per un’opposizione politica in grado di destabilizzare l’assetto raggiunto.
La rivoluzione khomeinista in Iran Le cose andarono diversamente in Iran dove lo scià Reza Pahlavi nel 1953 era stato rimesso sul trono dagli Stati Uniti (➜ CAP. 15.4). Il sovrano avviò una politica di rapida modernizzazione, finanziata dal petrolio, che tuttavia andò incontro a un altrettanto veloce fallimento. Pahlavi fece scelte dissennate (come quella di istituire un costosissimo esercito) e finì per scontentare tutti:
le classi medio-alte tradizionali penalizzate dalla riforma agraria (in verità modesta) e dalla priorità accordata allo sviluppo industriale;
i nuovi ceti urbani e intellettuali legati alla modernizzazione, che diedero vita a un’opposizione politica di stampo laico, in parte liberale e in parte marxista, duramente repressa dalla polizia;
le autorità islamiche (sciite, secondo la confessione musulmana dominante in Iran), ostili alla modernizzazione in senso occidentale (che coinvolgeva ormai anche il diritto di famiglia e il sistema educativo).
Nel 1978 il malcontento si inasprì sia per il carattere autoritario e l’evidente corruzione del regime, sia per una crisi economica legata a investimenti sbagliati. In questo clima, l’opposizione religiosa trovò un punto di riferimento in Ruhallah Khomeini, un ayatollah, ovvero un leader religioso, da tempo impegnato nell’opposizione contro lo scià, e per questo esiliato sin dal 1964, prima in Turchia e in Iraq e poi in Francia. Khomeini sosteneva la necessità di rovesciare la monarchia per stabilire uno Stato islamico.
Nel corso dell’anno, dal suo esilio parigino, Khomeini riuscì a imporsi sulla scena mediatica internazionale come guida della protesta contro lo scià (dal canto suo largamente screditato anche agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, per la sua politica autoritaria). In patria, i discorsi di Khomeini circolavano in testi fotocopiati e incisi nelle audiocassette: anche le rivoluzioni entravano in una nuova era mediatica. Mentre l’opinione pubblica mondiale era ancora attardata dentro le gabbie ideologiche della guerra fredda e imbrigliata nello scontro tra Est e Ovest che, nella sua ormai regolata conflittualità, sembrava quasi un orizzonte rassicurante, si apriva in Iran una nuova faglia del conflitto mondiale che si sarebbe rivelata carica di futuro.
Di fronte al crescere dell’agitazione di massa, in particolare nella capitale Teheran, che portò al blocco del Paese, nel gennaio 1979 lo scià decise di lasciare l’Iran. Il 1° febbraio 1979, Khomeini rientrò a Teheran decidendo le sorti della rivoluzione: i religiosi presero la guida del Paese, eliminando rapidamente le altre forze di opposizione liberali e marxiste che pure erano state protagoniste sino a quel momento.
L’Iran diventò così una Repubblica islamica di stampo teocratico, con una Costituzione che prevedeva la subordinazione delle istituzioni politiche (presidente, governo e Parlamento) alle autorità religiose (la Guida Suprema coadiuvata da un Consiglio dei Saggi); la fonte legislativa era naturalmente la sharia.
Come altre volte nel passato dell’umanità, la storia ritornava a zampillare laddove sembrava una fonte esaurita e dimenticata. In pochi, in quei giorni, se ne accorsero: in parte perché erano intenti a commentare l’ultima installazione dei missili NATO a medio raggio in Europa per contrastare gli SS20 sovietici, in parte poiché erano convinti che quelle sconfinate turbe festanti che alzavano i pugni e si battevano il petto fossero l’ultima manifestazione di un Medioevo perduto e non la prova di una inquietante modernità con cui si sarebbero dovuti confrontare a lungo.
Uno smacco per gli Stati Uniti e l’Occidente Il regime khomeinista si presentò subito come un punto di riferimento per i gruppi islamisti e assunse una posizione risolutamente antiamericana, antioccidentale e antisraeliana. Proprio quando gli Accordi di Camp David tra Egitto e Israele (➜ CAP. 15.4) sembravano aver aperto uno spiraglio per la pacificazione del Medio Oriente, ecco che si presentavano nuove tensioni e crisi.
Nel novembre 1979, a Teheran, un’imponente manifestazione studentesca sfociò nell’assalto contro l’ambasciata americana. Una cinquantina di diplomatici statunitensi si ritrovarono in ostaggio. Nell’aprile 1980 il presidente Carter (che nel 1976 aveva riportato i democratici alla Casa Bianca e nel 1978 patrocinato l’accordo israelo-egiziano) autorizzò un’azzardata operazione di salvataggio, che si concluse con un fallimento.
Questi eventi fecero crollare l’autorevolezza di Carter e condizionarono le elezioni presidenziali del novembre 1980 in cui prevalse il candidato repubblicano Ronald Reagan, con cui sarebbe cominciata una nuova fase politica (➜ CAP. 17).
Le autorità iraniane accettarono di riconsegnare gli ostaggi solo alla fine del gennaio del 1981, dopo l’insediamento del nuovo presidente.
La guerra Iran-Iraq L’avvento del regime sciita a Teheran rinfocolò inoltre la tradizionale tensione con l’Iraq, un altro grande produttore di petrolio del Medio Oriente. Negli stessi mesi in cui in Iran si affermava la rivoluzione khomeinista, a Baghdad si affermava la leadership laica di Saddam Hussein, che si presentava come erede politico del nasserismo e del socialismo arabo (➜ CAP. 15.4).
Sostenitore di un programma di modernizzazione e di occidentalizzazione, Hussein si impose come dittatore di un Paese molto complesso e fragile, perché attraversato da profonde divisioni tribali, etniche e religiose. In particolare la popolazione, di fede islamica, era divisa tra una maggioranza di sciiti e una consistente minoranza di sunniti, che godeva tuttavia di una posizione politica e sociale preminente nel Paese: lo stesso Hussein era sunnita.
La rivoluzione iraniana fece temere a Hussein un «contagio» tra gli sciiti iracheni. A questo motivo di tensione si aggiungevano obiettivi geopolitici ed economici: la volontà di stabilire la supremazia nella regione del Golfo Persico e di accaparrarsi altre zone petrolifere.
Nel settembre 1980 l’Iraq invase l’Iran, avviando una lunga e sanguinosa guerra che si sarebbe conclusa soltanto nel 1988 senza produrre alcuna modifica allo status quo precedente (le stime parlano di circa 1,5 milioni di morti complessivi, molti dei quali giovani caduti al fronte).
Gli Stati Uniti si schierarono ufficialmente con l’Iraq, l’Unione Sovietica con l’Iran, ma in realtà entrambe le superpotenze rifornivano di armi i due contendenti, contando di indebolire regimi considerati comunque poco affidabili.
La questione palestinese e la crescita del fondamentalismo Il regime iraniano rilanciò e radicalizzò ulteriormente anche la lotta contro Israele, condotta facendo ricorso a tecniche di guerriglia e terroristiche sia a livello locale sia internazionale. Per esempio, nel 1982, nel Libano che Israele aveva appena invaso cominciò ad agire il gruppo Hezbollah (letteralmente «partito di Dio»), ispirato dalla predicazione di Khomeini e addestrato e finanziato dall’Iran.
L’anno prima, nel 1981, un militante di un’organizzazione fondamentalista facente capo ai Fratelli musulmani aveva ucciso il presidente egiziano Sadat come ritorsione per la pace stipulata con Israele (Accordi di Camp David, 1978 ➜ CAP. 15.4).
Queste posizioni, che oggi sono classificate sotto le generiche etichette di «fondamentalismo» o «radicalismo islamico», cominciarono a rafforzarsi in tutto il vasto e complesso mondo musulmano. La crescente politicizzazione (o uso politico) dell’Islam, ossia la volontà di costruire un progetto tradizionalista a partire da una fede religiosa, sembrò rappresentare l’inevitabile movimento di ritorno di un pendolo.
Nel corso della decolonizzazione, i principali Paesi musulmani, compreso quelli arabi, avevano abbracciato progetti di Stato laico nazionalista e perlopiù socialisteggiante, che avevano avuto temporaneamente il sopravvento sull’opzione tradizionalista di carattere religioso. Quest’ultima riprendeva quota in una fase critica per le società di quei Paesi, anche a causa delle conseguenze della modernizzazione socio-economica in corso che stava travolgendo le strutture tradizionali (le gerarchie sociali, le attività economiche rurali, l’organizzazione famigliare, i rapporti con l’autorità pubblica).
La serie di fallimenti, le prove di malgoverno e una crescente corruzione che caratterizzavano le classi dirigenti postcoloniali alimentarono lo scontento, dando vita a un circolo vizioso senza apparente via d’uscita.
In questi anni cominciarono a delinearsi altre due caratteristiche dell’islamismo radicale, per certi aspetti contraddittorie.
Per un verso, il mondo musulmano non si mostrava affatto come monolitico, essendo vastissimo, complesso e attraversato da diverse correnti confessionali; queste divisioni interne si riflettevano nella galassia del radicalismo islamico, dove emersero anche profondi antagonismi.
Per un altro, cominciò a emergere una disponibilità «dal basso» a partecipare a un movimento islamico radicale internazionale, che si manifestò per la prima volta nell’afflusso di volontari islamici nella guerra di resistenza antisovietica cominciata in Afghanistan sempre nel 1979.
L’invasione sovietica in Afghanistan Alla fine degli anni Settanta gli schemi del mondo bipolare condizionati dalla guerra fredda e i nuovi fenomeni emergenti nel mondo musulmano si incrociarono sulle montagne dell’Afghanistan dove, nel 1978, in seguito a un colpo di Stato militare, si era imposto un regime di ispirazione comunista e filosovietico. Il governo afghano lanciò un programma di riforme e di modernizzazione dall’alto che buona parte della popolazione accolse malvolentieri. Questo scontento alimentò una resistenza di matrice islamica, sostenuta anche dal vicino Pakistan, dall’Iran e dalla Cina (in chiave antisovietica). Varie regioni del Paese sfuggirono al controllo di Kabul.
L’Unione Sovietica cercò di stabilizzare il regime afghano, guidando anche alcuni cambiamenti al vertice, in cerca di soluzioni mediate e moderate. Di fronte al continuo insuccesso politico, e temendo ormai che la ribellione islamica potesse fare breccia tra le popolazioni musulmane delle repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, il 27 dicembre 1979 l’Armata rossa invase l’Afghanistan. Questa azione surriscaldò immediatamente il clima internazionale: gli Stati Uniti reagirono con ritorsioni simboliche e materiali (decisero di boicottare i giochi olimpici del 1980, ospitati da Mosca, e bloccarono le esportazioni di cereali dirette in Unione Sovietica), ma soprattutto cominciarono a finanziare la guerriglia musulmana in funzione anticomunista e antisovietica, rifornendola di armi moderne attraverso il Pakistan.
Per i sovietici l’Afghanistan rappresentò l’equivalente del Vietnam per gli americani: per quasi dieci anni vi sacrificarono risorse, uomini (circa 50.000 soldati dell’Armata rossa morirono o furono feriti nel conflitto) e orgoglio nazionale senza riuscire a venire a capo della guerriglia islamista.
Il ritiro sovietico avvenne all’inizio del fatidico anno 1989. Letta con le lenti della guerra fredda, l’invasione dell’Afghanistan costituì un errore di calcolo che accelerò la definitiva crisi dell’URSS (➜ CAP. 20).
Oggi, a distanza di tempo, questi eventi si possono leggere anche come un errore di calcolo dell’Occidente, che finanziò e inondò di armi una sorta di «internazionale» del radicalismo islamico pensando di potersene servire senza particolari controindicazioni. Basti pensare che tra quei guerriglieri musulmani foraggiati con armi e denaro dagli Stati Uniti mediante i servizi segreti pakistani ricorre anche il nome di un giovane sceicco saudita, Osama bin Laden, il quale aveva risposto alla chiamata dell’internazionalismo islamico in difesa dell’Afghanistan contro l’imperialismo sovietico nelle fila dei mujaheddin («combattenti per la jihaˉd»).
In realtà, come vedremo nei prossimi capitoli – e come ci raccontano le cronache di oggi – il fondamentalismo islamico si sarebbe affermato come un soggetto autonomo, sfuggendo a ogni tentativo di controllo. Per questa ragione una guerra periferica come quella in Afghanistan, all’apparenza destinata solo ad accompagnare il declino dell’impero sovietico, annunciò invece un’epoca nuova, l’età del cosiddetto «disordine mondiale» in cui siamo ancora immersi che, nel giro di un paio di decenni, avrebbe soppiantato l’«ordine bipolare» della guerra fredda.
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