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#casolare
pasquigianqui · 5 months
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PRIMA PAGINA Corriere Umbria di Oggi mercoledì, 11 settembre 2024
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coffeenuts · 1 year
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Colture by IVa e vieni 1 https://flic.kr/p/2oaCzLF
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sroiretxe · 1 year
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francescosatanassi · 23 days
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COME UN SACCO
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Questo è un vecchio pozzetto di scolo delle acque, lo si incontra sulla strada che porta a Monte Trebbio. Da qui al casolare di Ca Cornio, sulle colline tra Modigliana e Tredozio, sono circa 30 minuti, ma tagliando per i monti, forse anche meno. Nell'estate del '44 Sante Piani è il contadino di Ca Cornio, ma è anche un antifascista, e in quel casolare, da alcuni giorni, ospita il partigiano più ricercato della Romagna, Silvio Corbari, insieme ai suoi fedelissimi Adriano Casadei, Iris Versari e Arturo Spazzoli. L' alba del 18 agosto i fascisti li attaccano e li annientano. Un vicenda complessa che termina poco dopo con l'esposizione dei quattro cadaveri sulla piazza di Forlì. Anche Piani cade dentro questa storia; prima che i corpi giungano a Forlì, viene costretto dai militi a caricarli e trascinarli su una treggia in direzione Castrocaro, per la pubblica impiccagione. Lungo la strada, giunti all'altezza di questo pozzetto, viene intimato l'alt. Lì vicino partono gli automezzi perciò la treggia, e soprattutto il vecchio contadino, non servono più. Piani viene ucciso, forse anche perché riconosce tra i fascisti un volto familiare. Il suo corpo viene gettato come un sacco giù per lo scolo. Ora c'è una lapide che lo ricorda, anche se quasi illeggibile. Ottant'anni dopo, ho pensato fosse giusto ricordare anche lui.
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Io sono un uomo antico, che ha letto i classici, che ha raccolto l’uva nella vigna, che ha contemplato il sorgere o il calare del sole sui campi, tra i vecchi, fedeli nitriti, tra i santi belati; che è poi vissuto in piccole città dalla stupenda forma impressa dalle età artigianali, in cui anche un casolare o un muricciolo sono opere d’arte, e bastano un fiumicello o una collina per dividere due stili e creare due mondi. Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo.
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1five1two · 6 months
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'Vecchio Casolare'. Enrico Gaeta. 1840-1887.
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mucillo · 5 months
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"La Resistenza e la sua luce"
Pier Paolo Pasolini
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Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l’Europa tremò nella più morta vigilia.
Fuggimmo con le masserizie  su un carro
da Casarsa a un villaggio perduto
tra rogge e viti: ed era pura luce.
Mio fratello partì, in un mattino muto
di marzo, su un treno, clandestino,
la pistola in un libro: ed era pura luce.
Visse a lungo sui monti, che albeggiavano
quasi paradisiaci nel tetro azzurrino
del piano friulano: ed era pura luce.
Nella soffitta del casolare mia madre
guardava sempre perdutamente quei monti,
già conscia del destino: ed era pura luce.
Coi pochi contadini intorno
vivevo una gloriosa vita di perseguitato
dagli atroci editti: ed era pura luce.
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe nuovo nella luce
Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce diventò incerta alba,
un’alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge.
Illuminava i braccianti che lottavano.
Così l’alba nascente fu una luce
fuori dall’eternità dello stile …
Nella storia la giustizia fu coscienza
d’una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce.
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1sileno · 3 months
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"quando ci penso
vorrei tornare
dalla mia bella
al casolare
Emilia mia
Emilia in fiore
tu sei la stella
tu sei l'amore"
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moviemaniac2020 · 10 months
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LA ORCA, film "maledetto" del 1976, diretto da Eriprando Visconti, nipote del più noto Luchino, ambientato e girato a Pavia, quando la nostra città in quei decenni era una piccola "Hollywood di provincia", che vide grandi attori e registi aggirarsi per le strade del centro storico e paraggi. Fra le tante pellicole, molte di ambientazioni milanesi, MA girate a Pavia, per ricostruire scenografie caratteristiche o storiche, come "L'Albero degli Zoccoli" di Ermanno Olmi, vincitore della Palma d'Oro al Festival di Cannes, anno 1978 (sequenze in corso Cavour e piazza Botta). Non dimentichiamo Dario Argento e il suo "Le Cinque Giornate", né il romantico "Fantasma d'Amore" di Dino Risi con Marcello Mastroianni e Romy Schneider. Tornando a LA ORCA, con tre giovanissimi Michele Placido, Flavio Bucci e Vittorio Mezzogiorno, opera sesta del Visconti Jr., che immortala la città di Pavia in numerose sequenze, riconoscibilissimi la stazione ferroviaria (interno e piazzale esterno), Piazza della Vittoria, Piazza del Duomo, Corso Garibaldi, Borgo Basso e poi l'immancabile scena al Ponte della Becca - vero e proprio "must" cinematografico in quegli anni (come non citare il duello finale fra il commissario Tomas Ravelli (Thomas Milian) e il capo della banda dei marsigliesi (Gastone Moschin) nell'epico duello de "Squadra Volante" di due anni prima?) - LA ORCA riprende quella sordida Pavia degli anni Settanta, la rende ancora più "poliziottesca" e inquietante dei film di Stelvio Massi ("Mark il poliziotto", "Cinque donne per l'assassino"), più intrisa di lotta politica, più impregnata di sangue, violenza e suspence, dove la delinquenza delle cosiddette "batterie" è di casa, anzi di sotto casa, perché appena esci da uno dei tanti palazzi di via San Giovanni in Borgo e sei figlia di una ricca famiglia borghese pavese vieni sequestrata da tre pochi di buono (nefasta anticipazione a quello che succederà poi, negli anni a venire, a un pavese vero e in carne e ossa come Cesare Casella, tanto da fare uno storico esempio di caso mediatico televisivo). In un claustrofobico casolare nelle campagne pavesi si svolge il resto del film: ruoli che si ribaltano, scene disturbanti fra sequestrante e sequestrata, atmosfere claustrofobiche da clima horror, eros onirico e reale, e un finale da pugno nello stomaco. Dopo la sua uscita nei cinematografi italiani fu la pellicola a essere sequestrata dal Tribunale di Roma per scene di stupro estremamente spinte. Soltanto nel 2006 il film fu rimesso in circolazione tramite trasposizione in DVD. Costato appena 40 milioni di lire, il capolavoro di Visconti incassò più di un miliardo al botteghino finché fu libero di circolare. Fu il maggior successo commerciale del regista, tanto che lo spinse un anno più tardi a dirigere un sequel ("Oedipus Orca"), anch'esso in gran parte girato e ambientato a Pavia (con Miguel Bosè e ancora la protagonista del primo, Rena Niehaus, nel ruolo principale). Senza nulla togliere a capisaldi come "Il Cappotto" di Alberto Lattuada, a "I sogni nel cassetto" di Renato Castellani o a "Paura e amore" di Margherethe Von Trotta, opere classiche girate in riva al Ticino, LA ORCA resta ancora oggi un capolavoro della "Cinematografia alla Pavese", una chicca da vedere e rivedere, per capire com'erano le città di provincia, tipo Pavia, durante i difficili e duri anni di piombo. Assolutissimamente consigliato. DVD ordinabile in edicola, film guardabile in streaming su Prime Video. Cult-movie di nicchia, per pochi, ma senza eguali nel suo genere. LA ORCA (Italia, 1976, drammatico/poliziottesco, 90') di Eriprando Visconti. Con Michele Placido, Rena Niehaus, Vittorio Mezzogiorno, Flavio Bucci.
(rece: Mirko Confaloniera)
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HOUSES CAROVIGNO, ITALY
Casolare Scarani House
Studio Andrew Trotter
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giallofever2 · 2 years
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Madness - Gli occhi della luna
Data di uscita: 18/Agosto/1971
Regista: Cesare Rau
Personaggi: Sara Ceccarini, Marlene Mayer, Prostitute in Red Dress, Katia Chiani, Francesca
Casa di produzione: Lupo Film
Le riprese del film, girato in un casolare di campagna nei pressi di Castel Madama (Tivoli) e a Cinecittà, iniziarono il 27 luglio 1970 e terminarono martedì 8 giugno 1971. La prima del film fu il 18 agosto 1971 presso il cinema Odeon di Paola (provincia di Cosenza).
Questo film, per anni classificato tra i film scomparsi, è stato fortunosamente ritrovato nel 2007 nell'archivio della Cineteca di Bologna; un'altra copia in 35 mm era conservata dallo stesso regista, purtroppo scomparso nel 1990.
Marzia Damon è lo pseudonimo di Caterina Chiani, apparsa in altri film come Katia Chiani.
La locandina del film è stata realizzata da Ezio Tarantelli.
Nella colonna sonora di Paolo Ormi, l'omonimo motivo conduttore Madness è eseguito da "Black Sunday Flowers" (pseudonimo di Ghigo Agosti); il relativo 45 giri è stato pubblicato dalla Bla Bla di Pino Massara. Il brano è stato scritto da Harry Stott, altro pseudonimo di Ghigo, nonché fonico del film.
Nella sequenza iniziale del film appare il cantante Red Canzian (futuro componente dei Pooh), mentre si esibisce in un locale notturno con il complesso dei Capsicum Red del quale egli era il chitarrista.
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sybil-van-e · 1 year
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Impressione verticale n°01: a volte i treni
A volte i treni attraversano campagne
Campagne ampie, prati che sembrano polmoni
A volte guardo fuori dal finestrino e vedo
Distese
Di natura
E mi chiedo
Se quella natura la romanticizzerei
Se vivessi
Nella natura stessa
Se vivessi
In un casolare
Persa tra valli materne
Con il profilo di una città sullo sfondo
E quello di un paese che si staglia lontano,
come se fosse incollato
sulle colline sinuose
che ancheggiano
ai margini
del mio campo visivo
Mi chiedo
Se la romanticizzerei
O se finirei con il romanticizzare la città
Il viavai tra un negozio e l'altro
La velocità dei raggi delle biciclette
Il tintinnio delle birre abbandonate per strada la sera
Le coppie che si baciano di notte illuminate,
di sbieco,
dai lampioni
Mi chiedo se forse
Se forse in quei polmoni e in quel deserto
Io non ricerchi qualcosa
Che non potrei trovare
Lì o altrove
E il treno continua il suo viaggio
E io guardo fuori dai finestrini sporchi
Provando nostalgia per mondi
Che non ho mai visto
E probabilmente mai vedrò
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magauda · 1 year
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Buggio, Frazione di Pigna (IM): un casolare abbandonato nella zona dei vecchi mulini
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mucillo · 1 year
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Miniera (Gianmaria Testa)
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Allora che in ogni bettola messicana
Ballano tutti al suono dell'avaiana
Vien di lontano un canto così accorato
È il minatore bruno laggiù emigrato
La sua canzone è il canto di un esiliato
Cielo di stelle cielo color del mare
Tu sei lo stesso cielo del mio casolare
Portami in sogno verso la patria mia
Portale un cuor che muore di nostalgia
Nella miniera è tutto un baglior di fiamme
Piangono bimbi spose sorelle e mamme
Ma a un tratto il minatore dal volto bruno
Dice agli accorsi se titubante è ognuno
Io solo andrò laggiù che non ho nessuno
E nella notte un grido solleva i cuori
Mamme son salvi tornano i minatori
Manca soltanto quello dal volto bruno
Ma per salvare lui non c'è nessuno
Cielo di stelle cielo color del mare
Tu sei lo stesso cielo del mio casolare
Portami in sogno verso la patria mia
Portale un cuor che muore di nostalgia
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unastanza · 2 years
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Il profumo degli ulivi a mezzanotte
Se solo avessi qualcosa con cui colpirla.
Forse dovrei allungarmi oltre il bordo del letto, a tastoni cercare la mia ciabatta, afferrarla e poi colpire duro, scagliarla, veloce come un dardo.
Ma rischierei di fare troppo rumore.
Vorrei davvero ridurla in brandelli, in pezzetti miseri, sparsi in giro per la camera da letto.
Rido di me stesso, di questa mia piccola, temporanea pazzia.
Opto per la decisione più equilibrata da vari punti di vista: mi alzo, a piedi scalzi mi avvicino a lei, la afferro e con mani capaci, abili, dalle lunga dita scure, la scuoto - odiosa. La giro, le tolgo le pile.
Ha smesso. Finalmente.
Tiro un sospiro di sollievo.
Le lancette della sveglia sono ferme a mezzanotte in punto; lo saranno per un bel po’, almeno fino a domani mattina.
Il suo preciso ticchettare mi dava ai nervi. Non aiuta la mia insonnia, anzi, ne aumenta il passo, ne scandisce la portata, l’aggrava e la dilata. La sforma, la scassa. Non è altro che lo scorrere incontrovertibile dei minuti e delle ore che non sto sfruttando, che mi tengono immobile, incapace, impotente.
A 34 anni, certe cose le senti di più. Non sei un vecchio, non sei un ragazzo, sei semplicemente più annoiato e più percettivo del solito.
Ho una teoria secondo la quale più si invecchia, più percepiamo gli stimoli esterni. La nostra corazza giovanile, che ci rende spietati e senza remore, si ammorbidisce; da acqua che penetra diventiamo spugna che assorbe. Lanterne per falene, elettricità pura nella gabbia di Tesla.
Me ne torno a letto. Un sospiro alla mia destra. Si è svegliato.
«Di nuovo la sveglia?» dice, la voce impastata dal sonno.
«Cos’altro, se no?»
«Marco» mi rimprovera.
«Lo so, lo so, Luigi.»
«Vai a fare due passi, fammi dormire.»
Si volta dall’altra parte, disteso su un fianco alza il ginocchio, quello sinistro, e nella sua posizione preferita per sonnecchiare, mi ignora e si addormenta. È incredibilmente svelto ad addormentarsi, quasi lo invidio e lo detesto.
Rimango di nuovo da solo.
Decido che andare a fare due passi non è poi il male peggiore, tanto più che ormai la camera da letto mi sembra solo una gabbia, si riduce e si stringe, collassa su se stessa, inglobandomi.
Il russare di Luigi che si beffa della mia insonnia.
Decisamente meglio fuori.
Così vado in bagno, rinfresco il viso. Per un attimo, mi guardo allo specchio. Le occhiaie, la barba incolta, qualche filo bianco tra i capelli che negli uomini della mia età è già diventato calvizie.
Tutto sommato, non mi è andata male.
Indosso il cappotto sopra il pigiama, le scarpe da ginnastica; una volta fuori, l’odore e la freschezza pungente della campagna pugliese mi investe il viso, mi rinvigorisce.
Un pipistrello vola in picchiata, sfreccia nella sua minuscola figura spettrale, un’ombra nera che si dilata nel raggio della torcia dello smartphone. Una fugace visione, sparisce poi tra gli alberi.
Ho percorso il vialetto che dal casolare porta al paesino centinaia di volte. Da quando ci siamo trasferiti qui, per gestire l’azienda di famiglia di Luigi – un oleificio abbastanza redditizio che conta oltre ottanta dipendenti – ho percorso questa stradina sterrata alla continua ricerca di ispirazione per la mia carriera, ormai morente.
Mi sono trascinato fin qui la carcassa già parzialmente sventrata del mio fallito destino da scrittore, alla ricerca di un posto dove seppellirla.
Avanzo tra gli ulivi, assopiti nel gelo invernale, le piccole foglie pallide, cullate dalla calma notturna.
Questi ritagli solitari mi piacciono, piccoli scampoli di tempo sbiadito che strappo alla solita routine.
Dover gestire l’azienda di famiglia dopo la scomparsa del padre di Luigi, mi porta via energie che non credevo neanche di possedere.
Sempre assorto tra conti, persone, scadenze, fornitori, spremiture biennali da programmare, raccolta di olive.
Mentre qui, tra gli alberi, sono senza preoccupazioni. Senza numeri in testa, piacevolmente svuotato, privo di caos.
Le scarpe scricchiolano sull’acciottolato, cammino tenendomi a lato strada, il fascio di luce proiettato davanti a me. Raggiungo il bivio che a destra porta in paese, e a sinistra conduce verso altri, immensi campi, arati, destinati all'agricoltura.
Proseguo verso destra. Le prime villette isolate spuntano dal terreno come funghi di cemento e sabbia un po’ troppo cresciuti; i muri a buccia d’arancia intonacati di bianco, sporco al livello delle grondaie e delle inferriate sulle porte e finestre chiuse. Buchi scuri nell’oscurità. Case tutte uguali, di grandezza uguale, a tre piani, giardino, cortile, garage. La copia di una copia, il destino di un paesino sperduto in una cava erbosa.
Qualche metro più avanti, i primi lampioni mi indicano la via, così spengo la torcia.
I miei passi non si arrestano, raggiungono la prima fermata del bus, proprio davanti il piccolo negozio di alimentari del paese, tra un ferramenta dall’insegna sbiadita – non è necessario cambiarla, qui tutti conoscono tutti – e la macelleria qualche metro più indietro.
Sotto, con il peso spostato sul piede sinistro, la sagoma di un uomo in trench grigio, alto e magro. L’ombra di quello che sembra uno sformato borsalino nero gli cela parte del viso.
Per un vizio tutto italiano, lo saluto con un piccolo cenno del capo pur senza conoscerlo. Ricambia, lo supero, continuo a camminare. Sento i suoi occhi sulla mia schiena, voglio voltarmi, ma è notte fonda, i pericoli loschi sono in agguato, pronti a balzare come le fiere delle savane africane. Meglio di no, meglio non giocare troppo con gli sguardi.
L’aria è silenziosa ed immobile, abbandonata a se stessa, arresa nel notturno grigiore dell’inverno.
Non un latrato di animali, non un fruscio di ali minuscole.
Tutto è immobile, tutto è statico, fermo, come bloccato.
Il forte profumo degli ulivi permea ogni cosa. Ulivi che, intorpiditi, istupiditi ma vivi, respirano. Ulivi sgualciti e striminziti dal gelido rigore, che resistono sulle colline che abbracciano il paesino, nelle vallate che lo sorreggono, nelle pianure, nei campi.
Profumo intenso, fresca spremitura.
Sono al centro del paese, nel suo punto più sviluppato, e l’odore degli ulivi non è mai stato così presente, così arrogante.
È un odore sbagliato, nel posto sbagliato.
Come sbagliata è la nebbiolina azzurra che mi avviluppa, che delicatamente mi avvolge.
Per un breve, intenso momento, penso di avere le traveggole; l’insonnia allucinatoria gioca con me.
Forse mi sono addormentato e sto sognando?
Mi do un pizzicotto sul fianco destro, mordo l’interno del mio braccio, sento dolore, sono sveglio e sono vigile e sono qui.
La nebbia mi intorpidisce gli arti. Sono leggero, sono forma, sono slegato dall’infernale materia di carne e muscoli che mi compone, che mi tiene legato alla terra, come un’appendice distorta e fragile.
Sarebbe così facile adesso spiccare il volo; con un balzo, con un salto, arrivare in alto.
La foschia azzurrognola e profumata si spande, liquida, veloce, come inchiostro su carta. Abbasso lo sguardo, quasi ne fossi io la fonte, parte dai miei piedi e si allarga sulle panchine della piazzetta, sulle aiuole secche e morte che la fiancheggiano; sull’insegna sbiadita, sulle case basse e – a differenza delle loro sorelle villette – tutte diverse, tutte colorate. Si alza verso l’alto, un muro lattiginoso e freddo, che penetro di passo in passo. Cammino lentamente, senza conoscere la mia destinazione, e l’azzurro si fa più intenso.
Mi accorgo del silenzio. È tutto troppo silenzioso. Le orecchie tappate, ovattate, di testa che galleggia sott’acqua.
Percepisco lo scorrere del sangue nelle mie stesse vene, il tumultuoso ruscello cremisi che mi tiene vivo dall’interno. Il cuore che pompa, una macchina perfetta, a ritmi regolari ma forti.
Solo questo, solo la consapevolezza del mio corpo, e nient’altro.
Poi, d’improvviso, una voce roca, baritona, si spinge fin dentro il mio bozzolo. Lo sbriciola. Mi scuote.
Anche questo è sbagliato.
«Ti stavo aspettando», dice.
Mi volto, è da lì che proviene la voce, dalle mie spalle. L’uomo in trench e borsalino sta di fronte a me, incredibilmente alto, gli arti superiori ed inferiori lunghi e sottili. Non mi ero accorto della sua figura slanciata da gigante, prima.
Devo alzare il viso per potergli parlare, per poterlo vedere.
Le domande inciampano sulla lingua, le cose che vorrei dirgli seguono un flusso per me impossibile da arginare e tenere a bada.
Sono intorpidito, raggelato, un corpo immobile.
«Lei stava aspettando me?» è l’unica frase di senso compiuto che riesco a pronunciare, a fatica, con il fiatone.
Annuisce e un sorriso storto, obliquo gli piega in due il viso. Sotto l’ombra del borsalino, il suo naso è stretto e lungo, quasi fosse un becco; mentre la bocca è sprovvista di labbra: al loro posto, due cicatrici giallastre, spesse e rugose, lasciano intravedere i denti regolari e bianchi.
«Devo mostrarti una cosa.»
Attraverso lo spesso strato di nebbia azzurra che vortica attorno, mi offre la sua mano: un invito a seguirlo, a fidarmi di lui.
L’istinto di sopravvivenza e la repulsione nei confronti del mio strambo interlocutore, rompono l’incantesimo in cui mi trovo.
Il torpore abbandona il mio corpo.
Voglio tornare a casa, sono pronto per tornare a casa.
Faccio per superarlo, mi muovo, vedo i piedi marciare… eppure resto fermo qui.
Davanti a lui.
«Che cosa mi sta facendo?» la mia voce tradisce un certo nervosismo isterico. «Mi lasci andare!»
«Non sto facendo niente.»
Gli rivolgo un’occhiata rabbiosa. Ma, mio malgrado, è vero ciò che dice. Le sue mani sono sospese a mezz’aria, ancora in attesa riempiono lo spazio che ci divide. Non mi toccano. Non mi sfiorano neppure.
«Cosa mi sta succedendo? Non riesco a muovermi!» ripeto, come se la ripetizione stessa potesse aggiustare la situazione.
«Devo mostrarti una cosa.»
«Ma non riesco a muovermi!»
«Devo mostrarti una cosa.»
E poi, capisco. Sono queste, quindi, le condizioni? Riuscirò a muovermi soltanto se pronto a seguire la sua volontà?
Chi è l’uomo alto e lungo che sta condizionando i miei movimenti senza neppure toccarmi?
Mi domando, ancora una volta, se questo non sia un sogno; se non sia un paesaggio onirico, questo: la nebbia azzurra, il paese, il profumo degli ulivi, il gigante, tutto.
Mentalmente, cerco di riafferrare i lembi di questa realtà sgualcita. Ero sveglio quando ho indossato il cappotto e sono uscito in strada, di questo sono sicuro. Ero sveglio quando ho scelto se svoltare a destra o verso sinistra. Ero sveglio quando l’ho incontrato la prima volta.
Ero sveglio, sono sveglio.
Lo so, lo sento.
Ma allora cosa mi succede?
Seguire l’uomo in trench e borsalino sarebbe da pazzi.
Rimanere qui – il tempo che scorre lento, ogni secondo prolungato – è impossibile.
Mi fanno male le gambe, le braccia, il mio intero corpo è tramortito.
«No» sussurro.
Faccio per muovere un piede, e quasi mi sembra di riuscirci.
Esulto troppo presto.
Con una sferzata di mano, facendo schioccare le dita mostrandomene il dorso, l’uomo mi blocca, ancora una volta.
«Non funziona così» ridacchia, una risata grottesca, di unghie che grattano sulla lavagna, sulla lavagna nera e rigata della mia scuola elementare.
Mi rivedo, piccolo, sfocato, le gambette arcuate al centro, i calzoni marroni macchiati, non ricordo di cosa.
Un’antica consapevolezza si sveglia dentro di me, un presentimento, un richiamo.
Sono nel cortile della scuola, nessuno vuole giocare con me, perché tutti preferiscono giocare col pallone, mentre io voglio disegnare. Disegno ogni cosa, alberi, cani, case, i miei compagni.
Sono linee sottili, rozze, volgari, di piccola mano inesperta; disarmonici bozzetti, sbuffi di matita, di colori, gomma che cancella male, che sporca, allunga i tratti della mia 2B.
Sfoglio le pagine, una dopo l’altra.
I disegni normali di un bambino normale.
E poi, all’ultima pagina, eccolo. Uno scarabocchio, un buco nero nella pagina bianca, i bordi frastagliati, irriconoscibile se non fosse per il piccolo dettaglio marrone. Un cappello, la bozza di un borsalino gonfio e sproporzionato.
È lui. Ci siamo già incontrati. Avrei dovuto ricordarmene, e invece mi ritrovo stupito e atterrito.
Come ho potuto dimenticarlo? Così alto, slanciato, nella scia dell’orribile inquietudine affannosa che lascia dietro di sé.
Avrei dovuto ricordarmi dell’orrore, implicito nella sua forma.
Lo sento di nuovo, l’odore forte dell’olio, degli ulivi. Strofino un ditino sulla pagina, lo porto al naso.
Niente.
È un odore fantasma; me lo immagino, o forse bisogna essere fortunati per coglierne l’improvvisa, passeggera, effimera presenza.
Sono fortunato, penso questo di me, mentre richiudo il mio blocco dei disegni sgualcito e puntellato di sbavature e di colori.
Sono fortunato: riesco a sentirlo, riesco a sentire l’odore.
Ritorno al presente, la pura nebulosa del passato si accartoccia su se stessa, svanisce in un rapido lampo di luce, e sono di nuovo nell’oscurità, nella foschia azzurra, contemporaneamente spettatore e protagonista.
«Ci siamo già visti?»
Alla mia domanda, l’uomo in trench grigio e borsalino marrone annuisce, soddisfatto; le cicatrici sul viso si allargano, la pelle bianca tesa, schiumosa.
«Non lo ricordavo.»
«Quasi nessuno lo ricorda» raschia la sua voce, roca; «coloro che ricordano, impazziscono. Li chiamate pazzi.»
Tento di fissare un punto nello spazio e nel tempo, per ricordare meglio. Dentro di me, sento riaffiorare un ricordo che credevo di aver sepolto, che il mio animo terrorizzato da bambino aveva seppellito in profondità, dentro il mio subconscio atterrito, avvilito.
Di nuovo, l’uomo schiocca le dita; di nuovo, il suo sorriso cicatrizzato e purulento.
Le mie gambette piccole, storte; il profilo di mio padre che si accascia in cucina, sulle costolette unte e grasse della cena; l’uomo dietro la finestra, stesso cappello, ancora più grande, altissimo; il messaggero della morte.
Un susseguirsi di schiocchi, scatti e visioni; la pellicola del mio film che si srotola, diapositiva dopo diapositiva.
Ogni dolore, ogni sofferenza, e lui come costante.
In bella vista, palese, eppure dimenticato, di volta in volta; un rituale morboso e macabro che si ripete.
Mio padre; mia madre e le sue malattie che l’hanno consumata e scarnificata, prosciugata dall’interno, secca, svuotata; il padre di Luigi, una mattina d’agosto, impensabile, le lamiere di un auto che lo attraversano da parte a parte, scomposto, disordinato ammasso di carne, ossa sull’asfalto.
Sempre lui, sempre dimenticato.
Lo dimenticherò anche questa volta?
La risposta è ovvia, com’è ovvio il motivo per cui è qui.
Eccola, la realizzazione. Mi sale addosso in spilli che mi pungono le gambe, le dita; un brulicare sotto pelle che mi atterrisce.
Tremo.
«Perchè sei qui?» chiedo. So già la risposta, ma voglio sentirla. Sperare che sia falsa, prepararmi al disastro qualora fosse il contrario.
«Sta succedendo di nuovo.»
«Chi?»
Due dita, uno schiocco, nebbia azzurra.
Una macchia indistinta nell’erba, rosso brillante nella grigiastra luce dell’inverno. Si raggruma, ancora calda, ribolle da sotto il panciuto gonfiore pallido di un ragazzo – no, un uomo! - dai capelli bruni e gli occhi cerulei, rimasti spalancati nell’immobilità della morte.
Lo riconosco, ma faccio fatica ad accettarlo. Voglio che finisca, voglio smettere di guardare, ma non importa quanto io distolga lo sguardo: non smette. È ovunque, sta succedendo ora, è attorno a me, dietro, davanti, da ogni lato mi perseguita. La morte e il suo sorriso sbilenco, cicatrizzato.
«Fallo smettere, ti prego», rantolo, appena un sussurro.
«È per questo che dimenticano. Non sopportano il peso.»
Uno schiocco. L’ultimo.
Oblio.
Sono in paese e non so perché. Torno a casa, svelto, a passo febbrile, spaventato, e non so perché.
Sono a casa, sono sempre stato qui, anche se una parte di me è convinta del contrario.
Sono davanti alla porta, e non so perché.
La notte sta svanendo fuori dalle finestre, l’arancione dell’alba fa capolino tra gli alberi.
Mi guardo attorno, spaesato, spodestato di una convinzione, dimentico di qualcosa di importante, ma non so cosa.
Sconfitto. Sopraffatto.
Sono stanco, veramente stanco, vorrei solo dormire.
«Che ci fai lì imbambolato?»
«Volevo uscire» mento, senza una ragione precisa. Sento di dover mentire, nascondere ciò che neppure rimembro.
«Ma sei stato fuori tutta la notte.»
Preoccupazione nella sua voce.
«Mi hai detto tu di fare due passi.»
Questo lo ricordo. Ma dopo? Cos’è successo dopo?
Mi guarda fisso, gli occhi cisposi, i capelli disordinati, il pigiama sghembo sul petto e sui polpacci ben definiti, muscolosi. «Devo preoccuparmi? Dovrei forse essere geloso?» ridacchia.
«Ho fatto solo due passi, ho perso la cognizione del tempo, tutto qui.»
Liquido la questione con un bacio sulla bocca, il sapore caldo e acre del primo mattino stampato sulle sue labbra.
«Cosa ti succede?» insiste, non desiste. «Sembri molto stanco.»
«Lo sono.»
«Vai a dormire.»
Sì. Penso che lo farò.
Una telefonata mi sveglia.
Sono le tre del pomeriggio, ed io rispondo con estremo disagio.
Poche parole, un’informazione lacerante che arriva alle mie orecchie, che percepisco con incredula rassegnazione.
Quasi come se una parte di me lo stesse aspettando.
La stesse aspettando.
Quando arrivo sul posto, faccio fatica a camminare. Le gambe sono immerse in un fango fantasma, la melma della paura che avviluppa le anche e le caviglie.
Una macchia indistinta nell’erba, brillante, rossa.
Capelli bruni, occhi cerulei.
Luigi.
Ferito a morte da un attrezzo agricolo, una grossa bestia di metallo che lo ha tranciato, diviso; gli ha maciullato il ventre, le interiora sparse sulla paglia secca ai piedi degli ulivi.
Vomito, cado a terra, mi odio: non mi piacciono queste scenate.
Al funerale partecipano in tanti: odio anche questo.
Voglio rimanere solo, voglio restare solo.
Il senso di colpa che mi assale è tremendo e forse anche stupido, ma non posso fare a meno di pensarci: se fossi andato io al suo posto? Se non avessi dormito tutto il giorno, se gli fossi rimasto accanto nel letto la notte precedente?
È colpa mia.
Sono molte le persone che mi salutano, solenni, che offrono rispetti e condoglianze alla madre di Luigi – da oggi in poi saremo solo io e lei. E lo vedo arrivare, uno sconosciuto, lontano eppure familiare, in qualche modo.
L’ho già incontrato, non ricordo dove, le circostanze, ma la certezza è vera, ed è confermata dal sorriso storto, cicatrizzato, secco. Trench e borsalino, altissimo, sovrasta tutti.
Contenuto nel cielo, più grande di esso.
Incombe, imperturbabile.
«È successo di nuovo» dice, un bisbiglio, blando, posso udirlo solo io.
Lo guardo spaventato, confuso, troppo stanco, troppo in pena, immerso nel dolore che è solo mio, il dolore di aver perso la mia parte preferita mentre io dormivo come un cazzone, per chiedergli spiegazioni, per interrogarlo sul senso delle sue parole sinistre, troppo spento per fregarmene poi effettivamente qualcosa.
Se ne va con passo zoppo, claudicante.
L’auto scura procede, con il feretro di Luigi dentro, chiuso. Lui sempre così claustrofobico, con l’amore e la necessità viscerale per gli spazi aperti, per i suoi ulivi, per sua madre, ora costretto, sigillato, tumulato dietro un lastrone di pietra fredda.
Un nome qualunque, due date qualunque, nascita e morte, una foto qualunque, che col tempo sbiadirà, darà al mio Luigi falsi connotati, ne sgranerà gli angoli, i suoi occhi cerulei saranno privi di colori, di profondità, due buchi inespressivi che non renderanno giustizia alla forte potenza del suo sguardo; mentre il suo corpo, da dentro, si svuoterà, si gonfierà, liquidi e miasmi coleranno attraverso il legno e nessuno lo noterà.
È tutta colpa mia. Non è delirio di onnipotenza, non è credermi migliore, non è credermi forte come la morte, come il fato: è semplice realizzazione.
È colpa mia, ne ho preso atto.
Dormivo, sognavo, ero stanco. Lui moriva.
Sarebbe successo comunque, mi dico. È poco conforto.
«Sarebbe successo comunque», mi dice.
È lui, l’uomo in trench e borsalino, dietro di me, non ho bisogno di voltarmi per capirlo.
Il profumo degli ulivi della valle lontana, casa ed essenza di Luigi, è forte, giunge fino a qui, nel cimitero. È fuori luogo, è strano, amaro.
L’ho già sentito, non ricordo dove. È come assaggiare qualcosa di nuovo per la prima volta, e riscoprire poi con il primo boccone un sapore familiare, qualcosa già mangiato, già sperimentato.
La memoria della bocca, delle papille gustative, la memoria dell’olfatto.
«Già. Sarebbe successo comunque. Ma forse sarebbe stato meglio se non fosse successo niente.»
Sorride, sguincio, sfuggente, un viso difficile da afferrare, da capire. Disarmonico e violento, rassicurante e raccapricciante.
Mi volto e non c’è più. L’odore è sparito, ogni cosa è al proprio posto.
Tranne me. Tranne Luigi.
Sono sicuro che lo rivedrò, in trench e borsalino.
Sorriso sghembo e cicatrici.
Lo rivedrò.
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