Tumgik
#freddo interno
guastogeneraleinterno · 10 months
Text
In un mondo pieno di merda, siate quella che concima.
1 note · View note
susieporta · 4 months
Text
[Lei s’innamorò come s’ innamorano sempre le donne intelligenti:
come un’ idiota]
La zia Daniela s’innamorò come s’innamorano sempre le donne intelligenti: come un’idiota. Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno, e aveva pensato: «Quest’uomo si crede Dio». Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani e di passioni sconosciute, si innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Góngora e di suor Juana Inés de la Cruz come chi risponde ad una filastrocca durante la ricreazione. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l’immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perché c’era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo per il sesso opposto e le sue ricchezze.
Ma quell’uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un’intelligenza abbagliante, una virtù angelica e un talento d’artista. Il suo cervello lo guardò in tanti modi che in capo a dodici giorni credette di conoscere cento uomini.
Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi tra i mortali, abbandonata con tutta se stessa ai desideri e alle stramberie di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegare il suo amore.
Un giorno così com’era venuto, se ne andò senza neppure salutare. Non ci fu allora in tutta l’intelligenza della zia Daniela una sola scintilla in grado di spiegarle ciò che era successo.
Ipnotizzata da un dolore senza nome né destino, diventò la più stupide delle stupide. Perderlo fu un dolore lungo come l’insonnia, una vecchiaia di secoli, l’inferno.
Per pochi giorni di luce, per un indizio, per gli occhi d’acciaio e di supplica che le aveva prestato una notte, la zia Daniela sotterrò la voglia di vivere e cominciò a perdere lo splendore della pelle, la forza delle gambe, l’intensità della fronte e delle viscere.
Nel giro di tre mesi divenne quasi cieca, le crebbe una gobba sulla schiena e dovette succedere qualcosa anche al suo termostato interno, perché, nonostante indossasse anche in pieno sole calze e cappotto, batteva i denti dal freddo come se vivesse al centro stesso dell’inverno. La portavano fuori a prendere aria come un canarino. Le mettevano accanto frutta e biscotti da becchettare, ma sua madre si portava via il piatto intatto mentre Daniela rimaneva muta, nonostante gli sforzi che tutti facevano per distrarla.
All’inizio la invitavano in strada, per vedere se, guardando i colombi e osservando la gente che andava e veniva, qualcosa in lei cominciasse a dare segni di attaccamento alla vita. Provarono di tutto. Sua madre se la portò in Spagna e le fece girare tutti i locali sivigliani di flamenco senza ottenere da lei nulla più di una lacrima, una sera in cui il cantante era allegro. La mattina seguente inviò un telegramma a suo marito:«Comincia a migliorare, ha pianto un secondo». Era diventata come un arbusto secco, andava dove la portavano e appena poteva si lasciava cadere sul letto come se avesse lavorato ventiquattr’ore di seguito in una piantagione di cotone. Alla fine non ebbe più forze che per gettarsi su una sedia a dire a sua madre:«Ti prego, andiamocene a casa».
Quando tornarono, la zia Daniela camminava a stento, e da allora non volle più alzarsi dal letto. Non voleva neppure lavarsi, né pettinarsi, né fare pipì. Un mattino non riuscì neppure ad aprire gli occhi.
«E’ morta!», sentì esclamare intorno a sé, e non trovò la forza di negarlo.
Qualcuno suggerì a sua madre che un tale comportamento fosse un ricatto, un modo di vendicarsi degli altri, una posa da bambina viziata che, se di colpo avesse perso la tranquillità di una casa sua e la pappa pronta, si sarebbe data da fare per guarire da un giorno all’altro. Sua madre fece lo sforzo di crederci e seguì il consiglio di abbandonarla sul portone della cattedrale. La lasciarono lì una notte con la speranza di vederla tornare, affamata e furiosa, com’era stata un tempo. La terza notte la raccolsero dal portone e la portarono in ospedale tra le lacrime di tutta la famiglia.
All’ospedale andò a farle visita la sua amica Elidé, una giovane dalla pelle luminosa che parlava senza posa e che sosteneva di saper curare il mal d’amore. Chiese che le permettessero di prendersi cura dell’anima e dello stomaco di quella naufraga. Era una creatura allegra e attiva. Ascoltarono il suo parere. Secondo lei, l’errore nella cura della sua intelligente amica consisteva nel consiglio di dimenticare. Dimenticare era una cosa impossibile. Quel che bisognava fare era imbrigliare i suoi ricordi perché non la uccidessero, perché la obbligassero a continuare a vivere.
I genitori ascoltarono la ragazza con la stessa indifferenza che ormai suscitava in loro qualsiasi tentativo di curare la figlia. Davano per scontato che non sarebbe servito a nulla, ma autorizzarono il tentativo come se non avessero ancora perso la speranza, che ormai avevano perso.
Le misero a dormire nella stessa stanza. Passando davanti a quella porta, in qualsiasi momento, si udiva l’infaticabile voce di Elidé parlare dell’argomento con la stessa ostinazione con la quale un medico veglia un moribondo. Non stava zitta un minuto. Non le dava tregua. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra.
«Come hai detto che erano le sue mani?», chiedeva.
Se la zia Daniela non rispondeva, Elidé l’attaccava su un altro fronte.
«Aveva gli occhi verdi? Castani? Grandi?».
«Piccoli», rispose la zia Daniela, aprendo bocca per la prima volta dopo un mese.
«Piccoli e torbidi?», domandò Elidé.
«Piccoli e fieri», rispose la zia Daniela, e ricadde nel suo mutismo per un altro mese.
«Era sicuramente del Leone. Sono così, i Leoni», diceva la sua amica tirando fuori un libro sui segni zodiacali. Le leggeva tutte le nefandezze che un Leone può commettere. «E poi sono bugiardi. Ma tu non devi lasciarti andare, sei un Toro: sono forti le donne del Toro».
«Di bugie sì che ne ha dette», le rispose Daniela una sera.
«Quali? Non te ne scordare! Perché il mondo non è tanto grande da non incontrarlo mai più, e allora gli ricorderai le sue parole: una per una, quelle che ti ha detto e quelle che ha fatto dire a te».
«Non voglio umiliarmi».
«Sarai tu a umiliare lui. Sarebbe troppo facile, seminare parole e poi filarsela».
«Le sue parole mi hanno illuminata!», lo difese la zia Daniela.
«Si vede, come ti hanno illuminata!», diceva la sua amica, arrivate a questo punto.
Dopo tre mesi ininterrotti di parole la fece mangiare come Dio comanda. Non si rese neppure conto di come fosse successo. L’aveva portata a fare una passeggiata in giardino. Teneva sottobraccio una cesta con frutta, pane, burro, formaggio e tè. Stese una tovaglia sull’erba, tirò fuori la roba e continuò a parlare mettendosi a mangiare senza offrirle nulla.
«Gli piaceva l’uva», disse l’ammalata.
«Capisco che ti manchi».
«Sì» disse la zia Daniela, portandosi alla bocca un grappolo d’uva. «Baciava divinamente. E aveva la pelle morbida, sulla schiena e sulla pancia».
«E com’era… sai di che cosa parlo», disse l’amica, come se avesse sempre saputo che cosa la torturava.
«Non te lo dico», rispose Daniela ridendo per la prima volta dopo mesi. Mangiò poi pane e burro, formaggio e tè.
«Bello?», chiese Elidé.
«Sì», rispose l’ammalata, ricominciando a essere se stessa.
Una sera scesero a cena. La zia Daniela indossava un vestito nuovo e aveva i capelli lucidi e puliti, finalmente liberi dalla treccia polverosa che non si era pettinata per tanto tempo.
Venti giorni più tardi, le due ragazze avevano ripassato tutti i ricordi da cima a fondo, fino a renderli banali. Tutto ciò che la zia Daniela aveva cercato di dimenticare, sforzandosi di non pensarci, a furia di ripeterlo divenne per lei indegno di ricordo. Castigò il suo buon senso sentendosi raccontare una dopo l’altra le centoventimila sciocchezze che l’avevano resa felice e disgraziata.
«Ormai non desidero più neppure vendicarmi», disse un mattino a Elidé. «Sono stufa marcia di questa storia».
«Come? Non mi ridiventare intelligente, adesso», disse Elidé. «Questa è sempre stata una questione di ragione offuscata: non vorrai trasformarla in qualcosa di lucido? Non sprecarla, ci manca la parte migliore: dobbiamo ancora andare a cercare quell’uomo in Europa e in Africa, in Sudamerica e in India, dobbiamo trovarlo e fare un baccano tale da giustificare i nostri viaggi. Dobbiamo ancora visitare la Galleria Pitti, vedere Firenze, innamorarci a Venezia, gettare una moneta nella Fontana di Trevi. Non vogliamo inseguire quell’uomo che ti ha fatto innamorare come un’imbecille e poi se n’è andato?».
Avevamo progettato di girare il mondo in cerca del colpevole, e questa storia che la vendetta non fosse più imprescindibile nella cura della sua amica era stata un brutto colpo per Elidé. Dovevano perdersi per l’India e il Marocco, la Bolivia e il Congo, Vienna e soprattutto l’Italia. Non aveva mai pensato di trasformarla in un essere razionale dopo averla vista paralizzata e quasi pazza quattro mesi prima.
«Dobbiamo andare a cercarlo. Non mi diventare intelligente prima del tempo», le diceva.
«E’ arrivato ieri», le rispose la zia Daniela un giorno.
«Come lo sai?»
«L’ho visto. Ha bussato al mio balcone come una volta».
«E che cosa hai provato?»
«Niente».
«E che cosa ti ha detto?»
«Tutto».
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho chiuso la finestra».
«E adesso?», domandò la terapista.
«Gli assenti si sbagliano sempre».
Ángeles Mastretta
[racconto tratto dal libro “Donne dagli occhi grandi”]
*traduzione di Gina Maneri
81 notes · View notes
libero-de-mente · 6 months
Text
𝗗𝗶𝗮𝗿𝗶𝗼 𝗱𝗲𝗹𝗹'𝗔𝘃𝘃𝗲𝗻𝘁𝗼
𝟯 𝗱𝗶𝗰𝗲𝗺𝗯𝗿𝗲 𝟮𝟬𝟮𝟯
Caro diario
questa mattina, mentre ancora assonnato cercavo di calcolare le ore che mi rimanevano per tornare a letto questa sera, ho ricevuto una telefonata.
La voce dall'altro lato era concitata "Rino sono caduta, sono sul terrazzo. Ho freddo aiuto. Aiutami ti prego".
Mia madre. Oramai convivo con questa consapevolezza che in qualsiasi momento le possa capitare qualcosa. Del resto intimarle di stare ferma e non fare nulla risulterebbe, per lei, come una condanna a morte.
L'arrendersi all'evidenza che non può pulire, stendere, riassettare la casa in generale o preparare dei manicaretti al sottoscritto come ha sempre fatto sarebbe un colpo letale per lei.
Mentre correvo da mia madre pensavo al "cadere".
Chissà cosa si prova quando a cadere è il tuo corpo, ma non la tua mente e la tua anima. Dev'essere un contrasto forte, il non accettare che il corpo che ti ospita da quando sei nato sia compromesso. mentre la testa ancora vorrebbe fare mille cose.
Il mio corpo è già ceduto molte volte ma era dovuto a qualche patologia, quindi avevo una giustificazione che il mio cervello accettava come discolpa.
Una volta no, cedette anche il mio cervello. Ero disperato, troppe ingiustizie di chi credevo essere mio fratello. Fratello, diminutivo di frate, contrazione del latino frates. A sua volta, il lemma latino trova un riscontro diretto nel sanscrito bhratar, al cui interno troviamo la radice bhar-, legata all'idea di sostentamento e nutrizione.
Stesse radici. Stesso nutrimento. Stesso sangue.
Lei, mia madre, ha vissuto questo tradimento da mamma. Penso che sia ancora più terribile. Lo credo fermamente in quanto genitore anche io, non sopporterei di essere tradito da uno dei miei figli. Preferirei morire piuttosto che vivere tale condizione.
L'ho aiutata, nulla di grave per fortuna caro diario, e dopo averla scaldata e finito le faccende per la quale era caduta, ho fatto una cosa semplice. L'ho fatta ridere. Così da scaldarle il cuore e l'anima.
Natale è in questi gesti, non negli alberi addobbati e nei regali, almeno per me è così. Certo le decorazioni aiutano a vivere in allegria, ma è aiutando che secondo me si crea l'atmosfera che assaporavamo da piccoli.
Credo che oggi sia stato importante che lei si sia rialzata, questo dà forza e coraggio. Non importa come e quando cadi, importa sapersi rialzare, anche con un aiuto, perché così ci si rafforza nell'animo.
39 notes · View notes
c3ss4 · 5 months
Text
cose che ha fatto x me mio moroso che nessuno ha fatto in 23 anni di vita:
-mi ha portato a vedere le stelle durante una delle nostre prime uscite e mi ha portato pure il vino
-mi ha regalato un sacco di accendini sapendo che mi piacciono
-mi ha scritto una lettera a mano e ci ha disegnato sopra
-ha comprato UN LETTO CON IL TOPPER RISCALDATO perché sa che ho freddo e nel vecchio letto stavo scomoda perché era troppo piccolo per tutti e due
-gli piacciono i miei hobby e gli piace farli insieme a me (abbiamo fatto i muffin per lui e i suoi amici e domani mi accompagna a prendere delle tazzine in ceramica per farci delle candeline da regalare a sua mamma)
-mi vuole vedere sempre e non mi sento mai di troppo
-ci tiene al fatto che mi integri all’ interno della compagnia e mi faccia delle amiche perché sa quanto soffra la solitudine
-non mi fa mai pesare il mio disturbo fisico e cerca sempre di essere presente e comprensivo e di vivermi al meglio i nostri momenti di intimità
-conta quanti bicchieri d’ acqua al giorno bevo
-anticipa i miei bisogni e riconosce i miei atteggiamenti meglio di chiunque altro, perfino meglio di quanto mi conosca io
33 notes · View notes
parolerandagie · 2 months
Text
Storia breve #1
Interno di un bar: ride, qui accanto, d'una ebbrezza alcolica, un lavoratore a pranzo. Seduto, gambe larghe, occhi acquosi, mani esauste, strette intorno ad una birra, il viso arrossato anche dal freddo preso fin dall'alba, spensierato come un soldato al congedo. Chissà se la felicità non sia questa: una feroce determinazione nel trovarla, ad ogni costo; e questo dubbio rende più intenso il gusto del caffè che sto bevendo.
19 notes · View notes
d3viljack · 3 months
Text
Viaggio a Roma fantastico.
Veramente poco di perfetto.. ma quel poco ha reso perfetto il resto.
Qualche appunto:
Ho dormito con Ele. La prima notte giusto qualche mini coccola ma niente di particolare.. “aveva freddo” e io sono una stufa umana
La seconda notte.. anzi, partiamo dalla sera… le ho fatto i grattini tutta la sera prima di andare a letto per poi passare al coccolarla un poco poco, tenerle le mani perché le aveva veramente gelide con la sua testa che appena appena si appoggiava sulla mia spalla (che si è presa piano piano..) e infine dormire “vicini vicini”…
Lo so che può sembrare incoerente.. e buona parte di me lotta per non cedere.
Alla fine l’ho coccolata tutta notte. La accarezzavo dove le faceva male per via dei 25km di “passeggiata” per Roma. Si è del tutto lasciata toccare… anche al mattino. Mentre parlavamo di cosa fare nelle restanti ore. Mi ha lasciato la mano scorrere libera nel suo interno coscia… con la sua testa sempre vicina alla mia, appoggiata sulla mia spalla.
Di base non mi sono mai spinto così il la con lei.. ma perché non me l’ha mai permesso! Ogni altra minima occasione di contatto durava 5/10 minuti.. dove poi venivo allontanato. Stavolta parlo di una notte intera.. dalle 3 alle 10 del mattino.
Ok ok.. ho pensato di provare a spingermi un po’ oltre gli schemi dopo uno di quei famosi momenti da 5 minuti.
Il venerdì sera, al tiki bar nel momento di pagare, aveva le mani congelate.. le ho messo le mie mani davanti e.. HA MESSO LE SUE SOPRA!! 😂 e io che pensavo di sentire un vaffanculo o qualcosa… e invece, per qualche misero minuto, siamo rimasti così.. a guardarci.
Che poi magari erano 10 secondi ma per me è sembrato “parecchio tempi”
Altro punto. Il rientro in treno.
Da milano a Varenna si è seduta vicina a me… facendo scambio con uno della compagnia.
Ha tenuto il busto lontano da me ma teneva una gamba attaccata alla mia.. e ogni tanto la muoveva stile carezza (oppure era il treno?). Fatto sta che “dormiva” e le ho messo una mano sul ginocchio.. davanti a me J e mio fratello che mi guardavano 😂
Da lì.. ho iniziato ad accarezzarla un po’. Niente di zozzo eh! Tra timidezza e pudore sto messo na merda.
Anche quando si è svegliata mi ha lasciato fare.. ed ero tornato all’interno coscia come al mattino. Parlavamo tutti e 4 assieme.. e continuava a lasciarmi fare.
Altri punti interessanti anzi fondamentali per le mie vacanze romane:
Ho finalmente conosciuto dal vivo lei, la persona che mi ha salvato dall’oscurità che continuava a crescere dentro di me.
V sei davvero speciale… non mi sono mai sentivo così bene e tranquillo. Venerdì mi è sembrato di vivere in un mondo alternativo.
Ogni male sparito
Ogni casino scasinato
Ogni angolo buio sembrava illuminato
I tuoi occhi trasmettono così tanta sicurezza che invidio i tuoi pazienti.. pagherei anche io pur di stare qualche altra ora😂
Hai un posto nel mio cuore.. assieme al Trapizzino alla trippa che mi ha fatto piangere da quanto era buono😂 mai mangiato qualcosa di così divino. Anche lì… merito tuo che ci hai mandati li ❤️
Conclusioni:
Non ho intenzione di provarci con Ele. Le voglio davvero bene… ci sono sensazioni dentro me che dicono che ha solo bisogno di essere un po’ amata. Anche se lei non vuole.. a quanto pare. Parte di me pensa che ci sia qualcosa. Ha solo paura. È quando si sente al sicuro che si lascia andare
V è speciale e se potessi averla a portata di auto.. andrei a cercarla ogni sera. Per un caffè. Anche stare in silenzio andrebbe bene.. mi basterebbe tuffarmi nei suoi occhi un po’, sentirmi coccolato e apprezzato per quello che sono
3 notes · View notes
scheggesparse · 1 month
Text
Soul Kitchen - Bugs Bunny Crazy Castle 3
Sono preso male quindi scrivo. Vediamo se mi passa...
Non sono qui per parlare del gioco in se, ma piuttosto delle sensazioni di un momento, in un posto che per qualche motivo riesco ancora a ricordare abbastanza vividamente.
Mi trovo nella cucina di casa di mia nonna.
E' un martedì pomeriggio, giorno di chiusura dell'attività  dei miei nonni all'epoca (avevano un bar), e si stanno preparando per andare a fare la spesa per casa/bar.
Io sono in questa cucina che gioco a Crazy Castle 3 e di base non c'è¨ niente di strano, normale amministrazione di me che gioco allo stesso gioco da un sacco di tempo perché sono bloccato all'ultimo livello della seconda tranche cioè la Hall (le tranche sono, in ordine: Garden > Hall > Basement > Treasury).
Fuori fa freddo, è febbraio.
Il sole è già in procinto di salutarci, sono circa le 16.30.
Dalla porta semiaperta della cucina vedo la sala del bar, buia e vuota.
Ogni tanto anche ripensare al bar pieno mi fa quasi strano.
In quel periodo, ovvero inverno del 2000 ("ritmo del duemila / adrenalina puraaaaah" cit. Ritmo - Litfiba - Mondi Sommersi - 1997) come si confà a un individuo di 7 anni (manco compiuti, fai anche 6) non ho un accesso a internet e quindi ignoro bellamente cosa mi si parerà davanti dopo questa sequela di livelli della Hall di sto castello sempre più difficili e ostici.
Ad un certo punto il miracolo. Supero il (per me) famigerato livello 39, mi prodigo di trovare carta e penna per segnarmi la password per continuare poi dal livello 40, siccome in quel momento mi chiama mio nonno dicendomi esser pronti per andare.
E proprio in quell'istante qualcosa da qualche parte del mio cervello si materializza, e rimane li ancora oggi come una fotografia che riesco a rivedere se ci ripenso. Come una fotografia su pellicola di quel tempo, che a lungo andare perde in dettagli ma rimane sempre riconoscibile.
"La camera ha poca luce
E poi è molto più stretta di come da giù immaginavo"
diceva Ligabue in Bambolina e Barracuda, e devo dire che la descrizione corrisponde quasi del tutto.
Questa cucina è una stanza dalla forma rettangolare, ma non troppo lunga. Un rettangolo un po' tozzo ma comunque non Umberto.
Al centro un grande tavolo con piano in marmo grigio la fa da padrone, sopra di esso una fruttiera in vetro verde, sempre piena.
Ai lati del tavolo (punto di vista dalla porta d'entrata) rispettivamente:
A sinistra
subito dietro la porta un piccolo angolo credenza zeppo di libri di cucina (sopra), incarti di vari prodotti, sacchetti di carta per il pane (nel mezzo) e due piccole ante contenenti ogni sorta di attrezzo quali chiavi, cacciaviti o anche prodotti spray tipo insetticida e simili che ovunque stan bene tranne che in una cucina (sotto). Superato questo angolo il frigorifero, un vecchio frigorifero incassato ricoperto dall'anta in legno, seguito dal piano cottura, un doppio lavello e alla fine della parete una delle due finestre.
A destra
subito all'altezza del gomito inizia quello che è un mobile angolare in legno anch'esso con piano di marmo grigio che fa il paio con suo fratello The Table, che proseguirà sino all'altro capo della stanza.
La parte sotto è composta di semplici ante che nascondono il loro contenuto fra vecchie riviste, la stecca di MS Bionde e attrezzi da cucito in capo, il posto dove viene tenuto il pane della giornata nell'angolo e poi (perdonate la ridondanza) lungo la parte lunga tovaglie, tovagliette, tovaglioli, pentole, bicchieri (che non erano li da ieri), insalatiere, e altri suppellettili TASSATIVAMENTE DA NON USARE MAI.
Sopra questo mobile vi sono diverse situazioni, anche abbastanza diverse fra loro. Sempre in prossimità del gomito, qualora si stesse entrando, è visibile con la coda dell'occhio un posacenere blu dell'Aperol cui da che ho memoria ha sempre ospitato al suo interno un mazzo di chiavi del quale ho sempre ignorato quali porte avrebbe potuto aprire, un elastico giallo, una graffetta e una 200 lire.
A fianco immancabile è la combo Sorrisi&Canzoni + rivista di gossip a piacere. Ma più ci si addentra con lo sguardo e più la situazione si fa complessa.
L'angolo viene dominato da una tv a tubo catodico della Mivar (top orgoglio italiano non ironicamente), con lo schermo bombato che mangia buona parte delle barre dell'energia in quasi tutti i picchiaduro che era possibile giocare su ps2 da li a pochi anni.
Dietro questo Golia ai fosfori osserviamo un buco nero nel quale nemmeno la luce fa in tempo a venire assorbita, non lo raggiunge proprio.
Letteralmente la camera dei segreti, nella camera.
Si dice vi sia stato ritrovato di tutto dietro a quel monolito grigio opaco, da svariate sorprese di ovetti kinder a un centrotavola che sembrava essere andato perduto per sempre.
Li giaceva anche un misterioso contenitore grigio, in metallo, che ricordava la forma di quelli che si appendono in doccia per poggiarvi i vari shampoo, bagnoschiuma e simili. Forse il suo scopo in origine era proprio quello, ma poi qualche sconvolgimento spazio-temporale ha fatto si che venisse dimenticato in quell'anfratto nascosto.
Sempre dietro al televisore, oltre al suo cavo di alimentazione se si disponevano di arti lunghi a sufficienza ci si poteva addentrare fino a scoprire sia ben tre prese a muro più una spina volante, anche lei senza padrone.
Un cavo di alimentazione si, ma per chi?
Se ci si chiede chi controlla i controllori allora sarebbe giusto anche chiedersi cosa alimenta l'alimentazione? Who watches the Watchmen?
Superata la Notte Eterna ritorna la luce, e a fianco del televisore spunta un cesto di vimini con al suo interno vari giochi e fumetti miei fra cui macchinine, volumi di Topolino, quaderni di disegni, pennarelli e cosi via.
Accanto vi è quella che per forma e scopo risulta esser a tutti gli effetti un'anfora. Non dell'avidità ma quasi. "Quindi chi sei tu per giudicare?" direbbe qualcuno a riguardo.
La sua forma ricorda una donna di Willendorf per le sue rotondità  che suggeriscono fertilità  e abbondanza. E di abbondanza in quell'anfora ce n'era, sicché era stata riempita fino all'orlo di documenti, ricevute, scontrini, un blocchetto di assegni, collane, bracciali, orecchini, alle volte anche monete. Ovviamente era imperativo il "LASCIA STARE NON TOCCARE".
E noi senza toccare, limitandoci a guardarla in tutta la sua bianca e lucente ceramica, gettiamo l'occhio (e non il cuore) oltre l'ostacolo per incontrare un piccolo forno a microonde che termina l'allestimento del piano.
Fra il piano e il muro vi è un angusto spazietto di 1 metro circa, nel quale viene confinata una rossa sedia da giardino.
Quello che per anni ha rappresentato un angolo strategico in quanto era l'angolo del termosifone, luogo di sollievo per i lunghi inverni passati col Game Boy fra le mani, a cercare sia calore che un angolo illuminato in epoca pre GBA SP.
Ah, che male al collo.
A parete troviamo una composizione di pensili che segue il perimetro del mobile di cui sotto, anche questo pieno di situazioni abbastanza varie dietro alle sue ante marroni.
Anche qui si nascondono servizi di piatti e bicchieri che si e no si vedevano a natale, alcuni calici "griffati" di varie bevande che si servivano nel bar ma la sezione più pittoresca rimane quella perpendicolare al tv, che precedentemente abbiamo battezzato come Notte Eterna.
Anta ad angolo, che si apre piegandosi su se stessa rivelando due mensole dalla conformazione quasi simile ad una casa delle bambole. Mancava solo una piccola scala per rendere comunicanti primo piano e piano terra. Videocassette, nastri vergini, palette di trucchi, altre collane e gioiellini fra bigiotteria e non sono solo alcuni dei generi che si possono trovare all'interno. E, come sotto, un infinita oscurità.
"Putèl, andom?"
Le parole di mio nonno che mi chiama per andare con loro,
spengo il gbc dopo aver segnato la password e inizio a fantasticare su cosa troverò poi nel Basement, del quale ho visto solo la schermata di selezione del livello.[continua nei commenti]
2 notes · View notes
girulicchio · 4 months
Text
Il tempo di una sigaretta
Dalle pareti di vetro, nonostante il contrasto tra caldo interno e umidità generasse un'iniziale appannamento, si vedeva tutto. Il barista preparava tre caffè ogni mattina, appena si metteva al bancone: il primo da buttare, il secondo da bere e il terzo sospeso, casomai qualcuno lo chiedesse freddo.
I clienti del bar non sono stati mai uomini d'affari, donne di successo o personaggi di spicco. L'ambiente era frequentato perlopiù da operai, impiegati e gente che cercava un bagno lungo la strada o un panino al volo ad ora di pranzo. Ai proprietari non è mai interessato alzare il livello sociale del posto. Del resto, in periferia, circondati da altri mille locali simili, che effetto avrebbe mai potuto sortire rinnovare una vecchia bettola, assumere personale qualificato e investire in pubblicità?
Gianni, come molti altri, entrava, salutava e rispondeva sì alla domanda: il solito? Un caffè, un cornetto vuoto e un bicchiere d'acqua frizzante. Segnava sul conto e, a fine mese, quando riceveva lo stipendio, saldava, senza mancare di lauta mancia al barista. Perché, si sa, spesso sono le persone più umili, in condizioni svantaggiate, ad avere solidarietà. E chi era dietro quel bancone viveva la stessa situazione, su per giù, di chi dalle otto alle due si rompeva la schiena per pochi spicci.
A fine giornata, il caffè freddo, puntualmente, veniva versato nel lavello e il bicchierino di vetro lavato, sciacquato e posto ad asciugare. In realtà, il bicchiere era lo stesso ad ogni mattina. Ormai, era deputato al caffè freddo sospeso.
Tuttavia, esistevano dei giorni in cui il caffè freddo non veniva gettato via. Quando le giornate erano particolarmente lunghe, il barista, nemmeno di nascosto, riempiva il resto del bicchiere con della grappa e buttava giù il tutto d'un sorso solo. Il problema non era la vergogna, o il senso di colpa, ma solo l'orario: un principio inamovibile vietava al barista di bere alcol prima delle cinque del pomeriggio.
Eppure, un ci fu una volta in cui il caffè freddo con grappa ebbe un destino diverso dal solito. Né buttato, né bevuto: divenne un eroe.
Sul tardi, mentre il barista si apprestava alla chiusura, in una giornata molto tetra e piovosa, con il cielo coperto da nuvoloni grigio topo, entrò un uomo, in cerca di riparo in attesa che spiovesse. I due scambiarono chiacchiere di circostanza per qualche minuto, con toni svogliati e frasi laconiche. Poi, regnò il silenzio per un tempo apparentemente infinito. L'uomo chiese se potesse fumare, con la sigaretta già accesa e in bocca. Il barista gli passò un posacenere dall'altro lato del bancone, facendolo scivolare come una pietra da curling. Il posacenere si fermò a metà strada, ma l'uomo non era così motivato da alzarsi per prenderlo, quindi decise bene di ciccare a terra all'occorrenza. Nel frattempo, il barista continuava le sue pulizie del bancone, ignorando con apatia l'uomo nella stanza.
Non appena smise di piovere, l'uomo si apprestò all'uscita. Si alzò dallo sgabello, allontanandolo con un colpo di bacino verso l'indietro, e salutò sottovoce il barista, lasciando cadere il portafoglio a metà strada tra la porta e il posto su cui era seduto. Il barista ignorò anche questo, come la cenere della sigaretta sul pavimento.
Il caffè, sebbene parzialmente inebriato dalla grappa, notò il tutto, dal vetro trasparente in cui si trovava. Sfruttò la tazzina come una barca al rovescio, saltò via dal bancone e spinse il portafoglio fino alla porta. Lì, si arrampicò sullo sgabello più vicino e fece un salto spericolato, spingendo la maniglia sufficientemente da aprire la porta. Così, continuò la sua avventura, spingendo il portafoglio lungo il marciapiede, guardandosi intorno alla ricerca del proprietario.
Sulla destra, lo vide in lontananza, fermo al semaforo. Spinse, spinse più forte e corse come un toro con un drappo rosso a sventolargli davanti. Fu una lotta contro il tempo e contro logica: ad ogni colpo d'ariete qualche goccia del caffè fuoriusciva dal bicchierino in vetro come tracce di sangue di una ferita aperta, ad ogni strusciata sull'asfalto schegge restavano a riprova dell'ardua fatica compiuta.
Il caffè, nonostante tutte le avversità, ce la fece e gridò all'uomo: scusi! Scusi, buonuomo! Lei, qui giù! Mi sente?!
L'uomo, confuso e infastidito, guardava in ogni direzione, ma non in basso. Con le ultime forze, il caffè diede un colpo al tallone dell'uomo, che si abbassò e trovò il suo portafoglio.
Questa è la vera storia di un caffè corretto.
Ogni lunedì mattina, potete chiedere al bar la combinazione caffè, cornetto e fumetto del giorno a soli due euro. (Promozione valida solo per punti vendita aderenti all'iniziativa dalle ore 8:00 alle ore 9:30, per singolo cliente e non più di due clienti per nucleo familiare)
3 notes · View notes
guastogeneraleinterno · 10 months
Text
Conseguenza.
La conseguenza dell'infliggere dolore in quantità estreme ed in tempo breve, aiuta solo la persona attaccata a raggiungere uno stato di anestesia. Poi non potete più far nulla di peggio.
0 notes
a-tarassia · 2 years
Text
Allora dicevo che io di solito il martedì appena dopo il lavoro vado a lezione di russo, quindi non passo da casa perchè la tipa che ci insegna russo è una nazista (ahahahahah, joke) e inizia alle 18.15 spaccate, ma io stacco alle 18 e nonostante ci avessero garantito che si aspetta l’arrivo di tutti nei canonici 15min ciò infine non è vero, forse che in russia non hanno i minuti di tolleranza oltre a tantissime altre manie di inflessibilità, ma ciò vuol dire che io arrivo e trovo la lezione iniziata perchè Tatjana è così, lei inizia quando vuole e finisce anche quando vuole, ovvero dopo l’orario di chiusura tanto che devono venirci a chiamare sempre per dirci che la biblioteca deve chiudere, ovvero signori: 20.30. Secondo lei noi si deve fare due ore e mezza di russo a botta.
Sì. Siamo ad ormai 6 lezioni e a lei non fotte un sega delle regole.
Ma torniamo a noi. Io avevo iniziato a frequentare usualmente Matteo quando nel 2018 prendevo lezioni di recitazione e lui di francese, ci trovavamo fuori al portone alla fine delle lezioni e andavamo a prenderci da bere, siamo rimasti amici (per chi mi segue dalla maga lui è amico b) fino adesso che di nuovo il martedì si prende ancora lezioni insieme, cioè io russo, lui spagnolo e mi aspetta fuori perchè Tatjana se ne sbatte il cazzo degli orari. Usciamo di martedì e ci spariamo un paio di gin tonic. Ieri io avevo lavorato in magazzino coi mulettisti, non fate domande, e venivo da una settimana di dolori molto forti al trapezio, quindi non sono in forma, non ero in forma e per di più ero anche lurida, ma a lezione sono andata, coi vestiti sporchi, però uscire a bere in quelle condizioni, considerando che pioveva, non me la sentivo molto, allora Matteo è venuto a casa.
Cena, bottiglia di prosecco, due gin tonic, due canne. E sto.
Io e lui ci si vede tipo due volte a settimana in media, in circostanze sempre abbastanza eterogenee e ogni volta non so come, a distanza di anni, riusciamo a parlare ore. Compatibilità caratteriale +1000.
Ieri gli ho fatto disegnare come vede lui il calendario in testa, l’ho imparato su tiktok, cioè il concetto astratto della consecutio dei mesi è graficamente illustrato in modo diverso per ognuno, ognuno di noi ha un’idea personale, una raffigurazione di quello che vede quando pensa, tipo il tempo. Che è un concetto astratto chiaramente, quindi in verità lo abbiamo visto in tantissime rappresentazioni, ma non esistendo concretamente noi possiamo immaginarlo nel modo che vogliamo. Matteo per esempio non ragiona coi mesi, ma più con le stagioni, quindi l’arco temporale “anno” è quattro blocchi più o meno: quando fa caldo, quando fa meno, caldo, quando fa freddo, quando fa meno freddo. Io ho i mesi sistemati tipo gioco dell’oca in cui gennaio è da solo, da febbraio a maggio è una linea retta, mi curvano giugno e luglio insieme come pre estate, fanno una chicane con agosto di nuovo da solo in piena estate, e poi ancora mi tornano in rettilineo settembre, ottobre, novembre e dicembre per lo sprint finale. Ho sempre avuto questa illustrazione in testa e non mi ero mai posta la questione che fosse estremamente personale e totalmente senza senso. Luca vede i mesi singoli a comparsa per dire. Davor linea retta verso il basso. Adesso parlando di queste cose ieri con Matteo mi ero completamente dimenticata che lui è psicologo e ste cose le conosce abbastanza meglio di me, mi ha detto che (uso parole mie che non ricordo quelle tecniche) per studiare una persona, soprattutto da piccoli, gli si fa disegnare delle cose, ma non tanto quelle astratte quanto quelle reali, perchè anche l’albero per dire ognuno di noi ha quello che li simboleggia tutti, un albero di riferimento in testa è quello che disegnamo quando lo dobbiamo rappresentare noi, il disegno non è il modo ufficiale che abbiamo di comunicare, quello sono le parole che infatti sono uguali per tutti e riducono il nostro mondo interno di immaginazione e rappresentazione in una stringa di lettere, il disegno invece è personale e ognuno ha il suo albero. Ai bambini si fa disegnare spesso l’albero per vedere come lo disegna, quali elementi in più mette, se disegna la casa, strada, sole, come sono i rami, le foglie etc. Non che si usi solo questo per valutare la situazione di una persona, ma è indicativo di un po’ di cose. Nessuno comunque in testa vede lo stesso albero e nemmeno lo stesso calendario. Anche le parole che usiamo ognuno le rappresenta a modo suo anche se sono uguali.
Armando nel frattempo mi aveva inviato il link al Post sull’errore del missile in Polonia, resti di missile forse, schegge di supersantos probabile, un tiro sbagliato andato storto e scusa col sinistro non sono buono mi spiace se ti ho spaccato il setto nasale. Ci siamo guardati e non ci siamo detti nulla, che ne sappiamo noi, mica siamo all’oratorio che ti riprendi il pallone e domani è un altro giorno. No?
A fine serata abbiamo buttato due bottiglie di alcol, gin e prosecco, nel bidone del vetro e metallo era pieno di scatolette del gatto, nel senso di cibo per gatti, non scatolette di carne di gatto. Lì gli ho chiesto se ricordava quando durante la pandemia si andava a buttare il vetro pieno di bottiglie di prosecco, aperol, gin, birra e bottiglie di vino a cadenza regolare, alcol a profusione, una quantità di alcol che a pensarci gli ho detto mi chiedo come abbiamo fatto, lui mi ha risposto: è quello che ci ha salvato, quello e l’erba.
Fine.
25 notes · View notes
susieporta · 1 year
Text
Titoli di coda.
Mi sono ritrovato ad affrontare quei lunghi sabati pomeriggio chiuso in casa, intrappolato in un limbo di lentezza e confinamento che i vecchi devono sorbirsi per la semplice mancanza di alternative. Ero lì con i miei genitori anziani,per fare loro compagnia o forse a farne a me per tutta quella che non ho fatto prima.
Ma il vero punto di questa riflessione, una delle tante che in questo periodo della mia vita mi arrivano addosso come pietre lanciate dal futuro, è un altro.
Durante questi lunghi pomeriggi, la televisione diventa una grande compagna di vita e i film di tutti i tipi diventano modi di fregare il tempo che non passa mai.
Fuori fa troppo freddo, le giunture ti fanno male, ti spaventa un mondo che non capisci più o per una delle tante cose che ti vengono tolte mano a mano che passa il tempo.
Quando mi ritrovo a fare compagnia, cerco di immedesimarmi e di comportarmi con quella tranquillità e pacatezza che serve per non far sentire troppo che la vita è quello che è e che i cicli, una volta aperti, si chiuderanno.
Cerco di non stressare i miei con fanatica richieste di fare finta di avere cinquant’anni di meno tutti quanti.
Mi accomodo e mi appello a quel poco di zen rimasto dentro di me, se mai c'è stato.
E quando riesco a prendere il passo di chi è più vecchio di me, capisco che non c'è davvero un altro posto dove andare.
La maturità e la saggezza vogliono dire stare bene nel posto in cui sei, per quanto quieto, noioso e isolato.
Mi guardo il film e, poiché il tempo c'è, mi accorgo di alcune parti che nel mio correre quotidiano avevo scartato, cancellato, bypassato perché in fin dei conti, quando sei sano e sei giovane, non hai mai tempo per i titoli di coda e per le sigle.
Ma quando tutto si calma, ti accorgi che esistono anche le sigle e i titoli di coda, che qualcuno ha messo la sua creatività, il suo sentimento, la sua voglia di esprimersi anche in quei pezzi che di solito non guardi.
Sono quei momenti di attrito, di conflitto interno tra il desiderio di fuggire dalla noia e la necessità di accettare la realtà per quello che è, che permettono alla vita di svilupparsi e di superare le sfide dell'ambiente.
Come un albero che si piega al vento per non spezzarsi o un fiume che si adatta al terreno per trovare la sua strada, anche noi dobbiamo imparare a piegarci e adattarci alle situazioni che ci circondano.
E così, in quei lunghi sabati pomeriggio chiuso in casa, imparo a trovare la bellezza nelle cose più semplici, nei momenti più tranquilli, nei titoli di coda dei film.
Perché è lì che si nascondono le gemme, i tesori nascosti che solo chi sa ascoltare può scoprire.
Sebastiano Zanolli
12 notes · View notes
ambrenoir · 6 months
Text
Amare… Il mal d’amore prima o poi tocca a tutti. È terribile ma se sopravvivi è fatta. Niente più ti può più toccare.
“S’INNAMORÒ come s’innamorano sempre le donne intelligenti: COME UN’ IDIOTA”.
Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno, e aveva pensato: «Quest’uomo si crede Dio». Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani e di passioni sconosciute, si innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Góngora e di suor Juana Inés de la Cruz come chi risponde ad una filastrocca durante la ricreazione. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l’immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perché c’era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo per il sesso opposto e le sue ricchezze.
Ma quell’uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un’intelligenza abbagliante, una virtù angelica e un talento d’artista. Il suo cervello lo guardò in tanti modi che in capo a dodici giorni credette di conoscere cento uomini.
Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi tra i mortali, abbandonata con tutta se stessa ai desideri e alle stramberie di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegare il suo amore.
Un giorno così com’era venuto, se ne andò senza neppure salutare. Non ci fu allora in tutta l’intelligenza della zia Daniela una sola scintilla in grado di spiegarle ciò che era successo.
Ipnotizzata da un dolore senza nome né destino, diventò la più stupide delle stupide. Perderlo fu un dolore lungo come l’insonnia, una vecchiaia di secoli, l’inferno.
Per pochi giorni di luce, per un indizio, per gli occhi d’acciaio e di supplica che le aveva prestato una notte, la zia Daniela sotterrò la voglia di vivere e cominciò a perdere lo splendore della pelle, la forza delle gambe, l’intensità della fronte e delle viscere.
Nel giro di tre mesi divenne quasi cieca, le crebbe una gobba sulla schiena e dovette succedere qualcosa anche al suo termostato interno, perché, nonostante indossasse anche in pieno sole calze e cappotto, batteva i denti dal freddo come se vivesse al centro stesso dell’inverno. La portavano fuori a prendere aria come un canarino. Le mettevano accanto frutta e biscotti da becchettare, ma sua madre si portava via il piatto intatto mentre Daniela rimaneva muta, nonostante gli sforzi che tutti facevano per distrarla.
All’inizio la invitavano in strada, per vedere se, guardando i colombi e osservando la gente che andava e veniva, qualcosa in lei cominciasse a dare segni di attaccamento alla vita. Provarono di tutto. Sua madre se la portò in Spagna e le fece girare tutti i locali sivigliani di flamenco senza ottenere da lei nulla più di una lacrima, una sera in cui il cantante era allegro. La mattina seguente inviò un telegramma a suo marito:«Comincia a migliorare, ha pianto un secondo». Era diventata come un arbusto secco, andava dove la portavano e appena poteva si lasciava cadere sul letto come se avesse lavorato ventiquattr’ore di seguito in una piantagione di cotone. Alla fine non ebbe più forze che per gettarsi su una sedia a dire a sua madre:«Ti prego, andiamocene a casa».
Quando tornarono, la zia Daniela camminava a stento, e da allora non volle più alzarsi dal letto. Non voleva neppure lavarsi, né pettinarsi, né fare pipì. Un mattino non riuscì neppure ad aprire gli occhi.
«E’ morta!», sentì esclamare intorno a sé, e non trovò la forza di negarlo.
Qualcuno suggerì a sua madre che un tale comportamento fosse un ricatto, un modo di vendicarsi degli altri, una posa da bambina viziata che, se di colpo avesse perso la tranquillità di una casa sua e la pappa pronta, si sarebbe data da fare per guarire da un giorno all’altro. Sua madre fece lo sforzo di crederci e seguì il consiglio di abbandonarla sul portone della cattedrale. La lasciarono lì una notte con la speranza di vederla tornare, affamata e furiosa, com’era stata un tempo. La terza notte la raccolsero dal portone e la portarono in ospedale tra le lacrime di tutta la famiglia.
All’ospedale andò a farle visita la sua amica Elidé, una giovane dalla pelle luminosa che parlava senza posa e che sosteneva di saper curare il mal d’amore. Chiese che le permettessero di prendersi cura dell’anima e dello stomaco di quella naufraga. Era una creatura allegra e attiva. Ascoltarono il suo parere. Secondo lei, l’errore nella cura della sua intelligente amica consisteva nel consiglio di dimenticare. Dimenticare era una cosa impossibile. Quel che bisognava fare era imbrigliare i suoi ricordi perché non la uccidessero, perché la obbligassero a continuare a vivere.
I genitori ascoltarono la ragazza con la stessa indifferenza che ormai suscitava in loro qualsiasi tentativo di curare la figlia. Davano per scontato che non sarebbe servito a nulla, ma autorizzarono il tentativo come se non avessero ancora perso la speranza, che ormai avevano perso.
Le misero a dormire nella stessa stanza. Passando davanti a quella porta, in qualsiasi momento, si udiva l’infaticabile voce di Elidé parlare dell’argomento con la stessa ostinazione con la quale un medico veglia un moribondo. Non stava zitta un minuto. Non le dava tregua. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra.
«Come hai detto che erano le sue mani?», chiedeva.
Se la zia Daniela non rispondeva, Elidé l’attaccava su un altro fronte.
«Aveva gli occhi verdi? Castani? Grandi?».
«Piccoli», rispose la zia Daniela, aprendo bocca per la prima volta dopo un mese.
«Piccoli e torbidi?», domandò Elidé.
«Piccoli e fieri», rispose la zia Daniela, e ricadde nel suo mutismo per un altro mese.
«Era sicuramente del Leone. Sono così, i Leoni», diceva la sua amica tirando fuori un libro sui segni zodiacali. Le leggeva tutte le nefandezze che un Leone può commettere. «E poi sono bugiardi. Ma tu non devi lasciarti andare, sei un Toro: sono forti le donne del Toro».
«Di bugie sì che ne ha dette», le rispose Daniela una sera.
«Quali? Non te ne scordare! Perché il mondo non è tanto grande da non incontrarlo mai più, e allora gli ricorderai le sue parole: una per una, quelle che ti ha detto e quelle che ha fatto dire a te».
«Non voglio umiliarmi».
«Sarai tu a umiliare lui. Sarebbe troppo facile, seminare parole e poi filarsela».
«Le sue parole mi hanno illuminata!», lo difese la zia Daniela.
«Si vede, come ti hanno illuminata!», diceva la sua amica, arrivate a questo punto.
Dopo tre mesi ininterrotti di parole la fece mangiare come Dio comanda. Non si rese neppure conto di come fosse successo. L’aveva portata a fare una passeggiata in giardino. Teneva sottobraccio una cesta con frutta, pane, burro, formaggio e tè. Stese una tovaglia sull’erba, tirò fuori la roba e continuò a parlare mettendosi a mangiare senza offrirle nulla.
«Gli piaceva l’uva», disse l’ammalata.
«Capisco che ti manchi».
«Sì» disse la zia Daniela, portandosi alla bocca un grappolo d’uva. «Baciava divinamente. E aveva la pelle morbida, sulla schiena e sulla pancia».
«E com’era… sai di che cosa parlo», disse l’amica, come se avesse sempre saputo che cosa la torturava.
«Non te lo dico», rispose Daniela ridendo per la prima volta dopo mesi. Mangiò poi pane e burro, formaggio e tè.
«Bello?», chiese Elidé.
«Sì», rispose l’ammalata, ricominciando a essere se stessa.
Una sera scesero a cena. La sia Daniela indossava un vestito nuovo e aveva i capelli lucidi e puliti, finalmente liberi dalla treccia polverosa che non si era pettinata per tanto tempo.
Venti giorni più tardi, le due ragazze avevano ripassato tutti i ricordi da cima a fondo, fino a renderli banali. Tutto ciò che la zia Daniela aveva cercato di dimenticare, sforzandosi di non pensarci, a furia di ripeterlo divenne per lei indegno di ricordo. Castigò il suo buon senso sentendosi raccontare una dopo l’altra le centoventimila sciocchezze che l’avevano resa felice e disgraziata.
«Ormai non desidero più neppure vendicarmi», disse un mattino a Elidé. «Sono stufa marcia di questa storia».
«Come? Non mi ridiventare intelligente, adesso», disse Elidé. «Questa è sempre stata una questione di ragione offuscata: non vorrai trasformarla in qualcosa di lucido? Non sprecarla, ci manca la parte migliore: dobbiamo ancora andare a cercare quell’uomo in Europa e in Africa, in Sud America e in India, dobbiamo trovarlo e fare un baccano tale da giustificare i nostri viaggi. Dobbiamo ancora visitare la Galleria Pitti, vedere Firenze, innamorarci a Venezia, gettare una moneta nella Fontana di Trevi. Non vogliamo inseguire quell’uomo che ti ha fatto innamorare come un’imbecille e poi se n’è andato?».
Avevamo progettato di girare il mondo in cerca del colpevole, e questa storia che la vendetta non fosse più imprescindibile nella cura della sua amica era stata un brutto colpo per Elidé. Dovevano perdersi per l’India e il Marocco, la Bolivia e il Congo, Vienna e soprattutto l’Italia. Non aveva mai pensato di trasformarla in un essere razionale dopo averla vista paralizzata e quasi pazza quattro mesi prima.
«Dobbiamo andare a cercarlo. Non mi diventare intelligente prima del tempo», le diceva.
«E’ arrivato ieri», le rispose la zia Daniela un giorno.
«Come lo sai?»
«L’ho visto. Ha bussato al mio balcone come una volta».
«E che cosa hai provato?»
«Niente».
«E che cosa ti ha detto?»
«Tutto».
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho chiuso la finestra».
«E adesso?», domandò la terapista.
«Adesso sì ce ne andiamo in Italia: gli assenti si sbagliano sempre».
da Donne dagli occhi grandi di Angeles Mastretta - Traduzione di Gina Maneri
2 notes · View notes
gcorvetti · 9 months
Text
Domenica di pioggia.
Già ieri per me faceva freddo, ma non ero l'unico, quando sono arrivato a lavoro il proprietario stava mettendo alcune sedie del plateatico nel furgone e mi dice :"Chiudiamo fuori, tanto l'estate è finita", va bè ho risposto, volevo dire cazzomene :D, poi ieri mi ha chiamato nell'ufficio per provare a convincermi di restare, gli ho spiegato che non è cosa mia, mi ha detto pensaci. Ci penserei se mettesse mano al portafoglio, cioè mi pagasse di più, se vuoi che un elemento che vedi che è valido vuoi che resta o almeno che ci pensi, alza la paga, ma neanche Moliere sarebbe mai riuscito a costruire un personaggio così infimo, in secondo non è il posto che fa per me, anzi per come sono fatto sono restato anche fin troppo ma solo perché sapevo che sarebbe finita, infatti questa settimana che viene è l'ultima, non mi piego.
Cambiando discorso, tanto quello è bello che concluso, cosa farò? Intanto mi dedico alla musica con una prospettiva più mirata, anche se in questo paese c'è una visione ad imbuto dell'arte che emargina chi è straniero, questo è quello che sento a pelle, che poi magari non piaccia quello che faccio (non si può piacere a tutti) è un altro discorso che però nessuno ti fa, vado avanti per la mia strada visto che è quello che ho sempre fatto ovunque sono andato. Restando in tema, l'altra settimana quando ho fatto quella cosa col basso mi sono reso conto che la sistemazione dello studio così come l'ho fatta poco tempo fa non va, perché essendo lo studio sotto tetto, che è a trapezio, ho posizionato la cassa (che in realtà è il timpano) nel lato corto, così facendo ho tagliato in due lo studio sul lato corto e non va bene, oggi tenterò di recuperare spazio. Concludo lasciandovi una sperimentazione di metà Giugno di No-input mixer, tecnica molto interessante che si realizza usando un mixer analogico collegando un cavo ad una delle uscite e l'altra estremità ad una delle entrate, si avete letto bene, così si crea un feedback interno che sfrutta il white noise del circuito, se si hanno degli effetti interni si possono sfruttare per dare colore, io ho usato la pedaliera, si possono usare anche effetti singoli per chitarra o basso, collegandoli così uscita-effetto-entrata, smanettando sui parametri dell'effetto si possono ottenere una gamma di suoni interessanti a seconda anche dell'effetto, occhio però ai volumi perché il tutto viene sparato fortissimo.
2 notes · View notes
occhicerchiati · 1 year
Text
Esercizi di scrittura
1) Scrivi una scena che si svolge completamente in silenzio.
L'acqua era di nuovo troppo fredda. William si fece da parte, portandosi le braccia intrecciate sul petto nel vano tentativo di scaldarsi almeno un po'. Girò il rubinetto su 'caldo' e aspettò, confinato in un angolo della doccia.
Sentiva i muscoli delle cosce tremare, mentre spostava il peso da un piede all'altro per non essere sottoposto a quel getto freddo troppo a lungo. Contemplò per un attimo l'idea di uscire in quel modo, bagnato per metà e con i capelli tutti insaponati. Le sue preghiere vennero ascoltate ad un secondo dall'aprire la porta in vetro, concedendogli un rivolo di acqua tiepida sotto il quale William si portò immediatamente, chiudendo gli occhi in un sospiro sollevato.
Si avvolse nell'accappatoio, legando persino la cinta in vita mentre si asciugava le gambe e portava le mani davanti alla stufina che aveva appoggiato sul lavandino. Girò lo sguardo sul pavimento, dove un ammasso di vestiti era rimasto intoccato dalla sera prima. Se Edoardo fosse entrato in quel momento, lo avrebbe sicuramente ripreso, come faceva ogni volta. Il pensiero lo fece sorridere, mentre frizionava i capelli con l'asciugamano. Fuori dalla finestra il sole non si vedeva ancora, immergendo il cortile interno del loro palazzo in una strana atmosfera statica.
William incontrò il suo riflesso nel momento in cui richiuse lentamente il cassetto dove tenevano l'asciugacapelli, insieme ad un paio di spazzole e i prodotti di Edoardo. I segni della frenesia degli ultimi giorni si erano disegnati sotto i suoi occhi, lasciandogli dei solchi profondissimi quanto il sonno del quale avrebbe avuto bisogno. Fece per attaccare la spina nella presa, fermandosi solamente quando gli balenò nel cervello l'immagine di Edoardo che dormiva nell'altra stanza; non poteva fare tutto quel rumore, non alle sei del mattino.
Si passò una mano sul viso, cogliendosi in un ghigno tenero che gli era rimasto impigliato nell'espressione.
Era una sensazione alla quale faticava ad abituarsi: aversi. Non trattenersi o rincorrersi ma scegliersi, tenersi, aversi dal primo sbadiglio fino alle ultime ore del giorno. Sorrise di nuovo a se stesso, cercandosi in quelle iridi blu nelle quali sentiva finalmente di riconoscersi, e riprese a tamponare i capelli con l'asciugamano, studiando il proprio corpo in uno sguardo compiaciuto. Alcuni dei tatuaggi che gli animavano la pelle non ricordava neanche di averli, finché non arrivava il momento di guardarsi distrattamente mentre infilava le mutande e poi, uno a uno, gli altri indumenti.
Richiuse la porta del bagno dietro di sé accompagnandola fino allo stipite, attento a non fare rumore. Dalla camera alla sua destra, solamente il passare incostante delle auto in lontananza e il flebile rumore del respiro di Edoardo.
William entrò in cucina, recuperando il cellulare dal ripiano dove l'aveva abbandonato la notte prima, quando l'urgenza di tenersi stretti aveva vinto sul suo senso del dovere.
Sul tavolo, anche il portatile ancora in stand-by e una tazza con quello che rimaneva di un tè.
Passò oltre, incollando lo sguardo allo schermo solo per prendere nota del tempo. Le sei e quattro minuti.
Sbadigliò, come se il suo corpo si fosse appena reso conto del fatto di essere già in piedi da almeno quindici minuti senza aver ricevuto la sua dose di caffeina e stesse protestando contro di lui.
Una moka già sul fornello spento gli inarcò le sopracciglia. Sfilò dal manico un foglietto incastrato in una fessura e si adagiò al piano cottura con la schiena, sorridendo fra sé.
'Moka pronta, devi solo accendere il fornello.
Ti amo.'
.
.
.
-giulia vola
Tumblr media Tumblr media
3 notes · View notes
olitaly · 26 days
Link
0 notes
netmassimo · 26 days
Text
Tumblr media
Un articolo pubblicato sulla rivista "Nature" riporta l'osservazione di venti fortissimi provenienti dal buco nero supermassiccio al centro della galassia Cosmos-11142 che hanno inibito la formazione stellare al suo interno. Un team di ricercatori guidato dal professor Sirio Belli dell'Università di Bologna ha usato il telescopio spaziale James Webb per rilevare il movimento di gas neutro freddo spinto a una velocità tale da spazzare via il gas nella galassia e quindi a impedire la formazione di nuove stelle. Si tratta della prima prova di come un buco nero supermassiccio può avere quell'effetto su una galassia.
0 notes