Tumgik
#i danni che poteva fare li ha fatti
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me @ palinsesto televisivo di questi giorni
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intotheclash · 3 years
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"Non più di un'ora dopo eravamo già in vista della casa del Maremmano. Avevamo spinto sui pedali con foga, senza lamentarci e senza troppe parole. Persino quella salita infame ci era sembrata meno infame della volta passata. E Schizzo ci era rimasto sempre a fianco, senza prenderci in giro, anzi, fingendo pure di faticare. Il primo che scorgemmo nel cortile fu Antonio, come si poteva non vederlo. Era a torso nudo e stava armeggiando con un trattore che doveva avere la stessa età di Matusalemme. Certo che era grosso, perdio! Non il trattore. Cioè, anche il trattore era grosso, ma Antonio metteva paura. A ripensarci, credo che anche Sansone in persona ci avrebbe pensato due volte prima di attaccare briga con lui. Appena si accorse di noi, lasciò andare gli attrezzi che stava usando, si pulì le mani sui pantaloni da lavoro e ci illuminò con un sorriso a trentadue denti. Cazzo, pure i denti mi sembrarono giganteschi. “Ma bentornati, amici miei! Sono davvero felice di rivedervi.” E felice lo sembrava davvero. E ci aveva anche chiamato amici! Non vedevo l'ora di tornare in paese e raccontarlo a tutti. Col cazzo che qualcuno avrebbe ancora osato trattarci male o, peggio, malmenarci. Se la sarebbero vista con lui. Se li sarebbe mangiati vivi! Ma quello non era un giorno per le fantasticherie, avevamo un dovere da compiere. Una missione. Tagliai corto ed imboccai la via maestra delle parole: “Ascolta, Antonio, siamo venuti a parlare con…” Mi interruppe prima di aver finito. “Pietro sta giù alla vigna, giovanotti. Deve zappare l'erba sotto a tutti i filari. E noi abbiamo una vigna sterminata. Si è beccato una bella punizione stavolta. Nostro padre ha avuto la mano pesante.” Poi si abbassò sulle ginocchia e si guardò intorno con circospezione esagerata, tanto da strapparci un mezzo sorriso. “Credo che il vecchio voglia fargli pagare anche un po’ delle mie colpe. Cose vecchie, di qualche anno fa. Ma, personalmente, posso farci ben poco, in compenso il vostro amico è uno tosto e se la caverà senza danni.” Concluse, facendo l'occhiolino. “Veramente non siamo venuti per parlare con lui. Non subito almeno. Siamo venuti per parlare con tuo padre.” Mi voltai verso i miei amici, come a cercare conforto e appoggio. Loro annuirono contemporaneamente, indossando delle facce serie, adatte alla circostanza. “Dove possiamo trovarlo?” Antonio si alzò in piedi, oscurando il sole. Cazzo, nella sua ombra ci stavamo comodi anche tutti insieme. Forse c'era abbastanza posto anche per qualcun altro. “Andiamo, è giù alla stalla che sta terminando di mungere le mucche. Vi accompagno.”  Lo seguimmo in silenzio fino alla stalla. Lui si fermò sulla porta e ci fece segno di entrare. “qualunque cosa dobbiate dirgli, credo sia una faccenda privata. Vi aspetterò qui fuori, ma vi dico fin da ora che sono dalla vostra parte.” Disse. E ci scompigliò i capelli, uno per uno. Uno per uno nel senso di ad ognuno di noi; non nel senso dei capelli. Entrammo in fila indiana, non ci prendemmo per mano solo perché era roba da femminucce, non che non ne avessimo avuto voglia. Il vecchio maremmano era seduto su uno sgabello di legno, con un secchio di metallo tra le gambe divaricate e le sue mani viaggiavano veloci sulle enormi mammelle di una mucca pezzata, che non sembrava affatto infastidita. Anzi, ogni tanto, si voltava a guardarlo, come a volerlo ringraziare. Segno che quelle tettone gonfie da scoppiare qualche problema glielo davano. Il vecchio ci dava le spalle e si accorse del nostro arrivo solo all'ultimo, quando potevamo quasi toccarlo. Si voltò di scatto e gli lessi la sorpresa sul volto, ma si riprese subito. Ci sorrise. Anche lui, come Antonio, sembrò felice di rivederci. “Che piacere vedervi ragazzi! Benvenuti di nuovo in casa mia. Cosa posso fare per voi?” Lo sapeva. Sapeva il motivo della nostra visita, ma non sapeva tutto. “Siamo venuti per parlare con lei, signore.” Dissi, non riuscendo ad impedire alla mia voce di tremare. Smise di mungere, diede un colpo a mano aperta sull'enorme culone della mucca, che si avviò pigramente verso l'uscita della stalla, ci fissò uno per uno e rispose: “Bene, vi ascolto. Prima però perché non bevete un bicchiere di questo latte appena munto? E’ delizioso e vi farà digerire meglio tutta la strada che avete dovuto fare per arrivare quassù.” Non fece in tempo a terminare, che Bomba aveva già sposato la proposta, seguito a ruota dal Tasso, da Tonino e da Sergetto. A me non piaceva molto il latte, figurarsi quello appena munto, con quel sapore così prepotente, ma annuii lo stesso, per cortesia, senza troppo entusiasmo. Schizzo ci pensò sopra qualche secondo, a cercare parole che, evidentemente, non trovò, visto che disse, senza mezzi termini: “A me il latte fa schifo. Signore.” “Per prima cosa, non chiamarmi signore, sembra che tu voglia tenermi a distanza. E mi fa sentire più vecchio di quello che sono. Chiamami Giovanni, che è così che mi chiamano tutti. Anche perché è il mio nome. Seconda cosa: come può farti schifo il latte? Anche tu, come tutti noi, sei cresciuto grazie al latte. E sono sicuro che, da piccolo, non ti bastava mai.” “Si, ma ero piccolo. Ed era di mia madre! non era di mucca appena munta!” “Certo, non era di mucca, ma a mungere, se mi lasci passare il termine, tua madre ci pensavi tu stesso e la tua voglia di diventare grande. Ma non serve discutere. Hai ragione anche tu: se non ti piace non devi berlo per forza.” Prese cinque bicchieri da una vecchia credenza che, sicuramente, aveva vissuto momenti migliori, ed iniziò a riempirli. “Ditemi allora. Cosa volevate chiedermi?” Ci fu un attimo di panico a quella domanda diretta, mi accorsi che le parole proprio non volevano uscire. Fu Tonino il più lesto a reagire: “Senta signor Giovanni, abbiamo saputo della punizione. Di quella che ha dato a Pietro. Siamo venuti a chiederle di ripensarci.” Lui continuava a guardarci, ma senza parlare. Segno che c'era bisogno di altre parole. Dovevamo convincerlo. Tonino aveva rotto il ghiaccio, ora potevo proseguire: “Si, lui non merita di essere punito. Ci ha difesi, è stato coraggioso. Lo ha fatto per noi. Non ha avuto paura di battersi per una cosa che riteneva giusta. Ed era giusta, cazz…volo! E quelli erano in tre e lui da solo. E se le avesse prese, nessuno di noi si sarebbe sognato di dargli una mano. Me ne vergogno ancora, ma è così. Mai nessuno di noi ha mai osato  mettersi contro i grandi, invece Pietro le ha suonate a tutti e tre. Anzi, a due, perché il terzo se l'è fatta sotto. Merita un premio, non una punizione. Si è comportato meglio di tutti noi messi insieme. È  un amico vero! Per questo la preghiamo di lasciarlo andare. Basta punizione. Ma se non è di questo parere, se è deciso a continuare, allora punisca anche noi. Al campo c'eravamo tutti. Stavolta non ci nascondiamo e la punizione la dividiamo in parti uguali. Questo dovrebbero fare dei buoni amici.” Parlai tutto d'un fiato, senza nemmeno una pausa. Forse evitando persino di respirare, per non permettere alle parole di nascondersi. Il vecchio ci fissò a lungo, quasi a voler saggiare la fermezza della nostra volontà. “Quello che hai appena detto ti fa onore giovanotto. Anzi, vi fa onore, perché immagino che la pensiate tutti allo stesso modo, vero?” Non ricevette risposte, ma i segni di assenso fatti con la testa non lasciavano spazio a diverse interpretazioni. “Si, lo immaginavo,” Proseguì, “Sembrate decisi ad andare fino in fondo. Anche se, in cuor vostro, ne sono sicuro, sperate che non ce ne sia bisogno. Che mi commuova. Ma avete dato la vostra parola e, tra uomini, la parola è sacra. E’ un impegno che va mantenuto a tutti i costi. Mai mancare alla parola data, è questo l'insegnamento che riceverete oggi. Ne va della vostra credibilità e della vostra dignità di persone.” La cosa non sembrava prendere una bella piega. Si avvicinò ad una cassapanca tutta tarlata e ne tirò fuori una scatoletta di metallo, dalla quale estrasse un gigantesco sigaro toscano. Lo accese con esasperante lentezza fino a farne uscire una nuvola di fumo azzurrino e puzzolente. “Sapete già dove ho spedito il vostro amico?” “Si, lo sappiamo, signor Giovanni.” Rispose Tonino preoccupato. “E sapete anche cosa sta facendo?” “Sappiamo anche questo.” Disse il Tasso, tradendo una crescente impazienza. Sembrava lo stesso gioco che fa il gatto con il topo. Con i topi, in questo caso. Eravamo tutti impazienti. Ci stava mettendo alla prova, ma se sperava che avremmo mollato, si sbagliava di grosso. Eccome se si sbagliava. Aveva intenzione di punirci tutti? Bene, che lo facesse allora. Anzi, male, ma non ci avrebbe messo paura. Tutti per uno! Ci indicò, con la punta del sigaro, un angolo ben preciso della stalla. “Laggiù ci sono cinque zappe, prendetene una a testa e raggiungete il mio ragazzo. Uno di voi rimarrà senza, così potrete darvi il cambio e riposarvi a turno. Su, andate, che c'è molto da fare. Ricordate che oggi si pranza alle due in punto. Vedo che non portate orologi, quindi regolatevi con il sole. Se non sapete come si fa, chiedete al vostro compagno di sventura, lui ha imparato.” Dovette godersela un mondo ad ammirare le nostre facce smarrite. Non era certo quello il risultato che speravamo di ottenere quella mattina. Aveva ragione mio padre: il vecchio maremmano era bello tosto. Ci fece un mezzo sorriso, non saprei dire se per confortarci, o per prenderci per il culo, poi ci congedò: “ Andate pure, fuori c'è Antonio che sarà lieto di indicarvi la strada. Buon lavoro, ragazzi!” Si, ci stava decisamente prendendo per il culo. “Buon lavoro una bella sega!” Pensai, mentre con la mia zappa in spalla uscivo mogio, mogio, dalla stalla.
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ilpianistasultetto · 4 years
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Dopo due mesi e mezzo e oltre 10mila morti di suoi concittadini, il Presidente della Lombardia, Attilio Fontana, ha deciso finalmente di studiare a fondo per capire il suo ruolo da responsabile sanitario di quella regione. Cosi si e'messo a studiare la legge emanata nell'estate del 1978, quella che istituiva le norme che regolano il SSN nazionale; le competenze ministeriali e quelle regionali e ieri, avendo finalmente capito che lui ha tutti i poteri per preservare la salute dei suoi concittadini, ha deciso, vista la gravita' sanitaria cui versa la Lombardia, di non rispettare le norme emanate dal governo sulla riapertura di alcune attivita', come cartolerie e librerie. Stesso potere che questo Presidente ha ignorato per mesi sulla chiusura di attivita' produttive, negozi e fabbriche della regione. Insomma, lui poteva ma non l'ha fatto. E' stato due mesi a chiedere l'intervento del governo, addossandogli tutte le colpe del ritardo, quando aveva ogni potere di deciderlo lui per motivi di grave pericolo sanitario che correva la regione. Certo, ogni lombardo e' libero di pensarla come vuole; dire che Fontana ha fatto miracoli o dire che Fontana ha fatto un mare di danni. L'unica cosa che non si puo' dire e' che spettava solo al governo intervenire. Atti simili li ha adottati l'Emilia-Romagna dichiarando il comune di Medicina alle porte di Bologna zona rossa per evitare il contagio verso la citta'metropolitana di quella citta'; come lo ha fatto la regione Lazio dichiarando zona rossa il comune di Fondi e altri tre comuni dove i contagi in alcune case di cura avevano creato grandi problemi sanitari; lo ha fatto la regione Campania, dove sono rientrati in zona rossa almeno 5 comuni per evitare il dilagare della pandemia. Comunque, ci sara' tempo per approfondire e non vorrei che Conte debba fare una nuova comunicazione a reti unificate per difendersi dalle bugie che Salvini e la Meloni da tempo vanno raccontando anche sulla gestione di questa pandemia. Sicuramente il governo di errori ne ha fatti tanti, ma ad ognuno i suoi..
@ilpianistasultetto
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mariposasky · 5 years
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Scomparso - Cap. 15
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Introduzione - Cap. 1 - Cap. 2 - Cap. 3 - Cap. 4 - Cap. 5 - Cap. 6 - Cap. 7 - Cap. 8 - Cap. 9 - Cap. 10 - Cap. 11 - Cap. 12 - Cap. 13 - Cap. 14
- Fantasma?- ripeté Donald sorpreso. L'amico con la maglietta azzurra annuì vigorosamente.
- Mio padre ne ha sentito parlare da un cliente. Dice che stava facendo un giro nel bosco quando si è sentito osservato. Si è subito girato allarmato, appena in tempo per vedere qualcosa muoversi e fuggire. Ha tentato di rincorrerlo, ma poi si è accorto che questa “persona” stava passando attraverso alberi e arbusti, e l'istante dopo è scomparso nel nulla. Gli è venuto un gran spavento quando si è reso conto di aver appena visto un fantasma.
- Un fantasma qui a Quack Town? È spaventoso!- disse Betty abbracciandosi per i brividi- E se venisse nelle nostre case?
Tom era ugualmente preoccupato anche se non diceva niente.
- È assurdo- fece Millicent, la persona del gruppo più realista- Non esistono i fantasmi. Quel tipo avrà semplicemente visto male.
- Ma non è successo solo a lui- spiegò Louis di fronte all'amica scettica- Altri due clienti hanno dato testimonianze simili.
- Coincidenze- sminuì la paperetta alzando le spalle- O si saranno fatti influenzare dagli altri.
- Forse sì... - Donald si toccò il mento pensieroso. Millicent lo guardò inquieta, ogni volta che lui assumeva quell'espressione, era segno di guai- O forse ci troviamo davanti a un caso di manifestazione spettrale. Vi ricordate che Amazing Papers ne aveva parlato qualche numero fa?
- Sì, hai ragione- concordò Louis- C'era anche un articolo che spiegava come liberare una casa dai fantasmi.
- Se si tratta davvero di un fantasma, vorrebbe dire che qualcosa lo trattiene qui...
- Oh no, non di nuovo...- Millicent si toccò la fronte attendendo l'inevitabile.
- E se noi scopriamo cos'è, potremmo aiutarlo e...
- Forse ha perso un oggetto- ipotizzò Louis.
- O una ricetta di qualche dolce- ipotizzò Tom.
- O un tesoro!- continuò Donald. I tre maschietti si sorrisero emozionati- E se lo aiutiamo, magari potremmo averne una parte!
- … lo sapevo- borbottò Millicent guardando il gruppetto che apriva uno scatolone con le riviste di Amazing Papers e le sfogliava in cerca di informazioni.
- Non mi sento sicura- ammise Betty preoccupata- E se ci attaccasse? O ci perseguitasse? Non lo voglio in casa mia.
- Betty, non preoccuparti per questo. Non può succedere, perché... i fantasmi non esistono!- disse Millicent con tono di rimprovero ai maschietti.
- I fantasmi esistono!- insistette Donald.
- Come no- alzò gli occhi al cielo- Andiamo ragazzi, non è la prima volta che ci passiamo. Quante volte ci avventuriamo in missioni spinti da voci di paese, per poi scoprire che erano solo equivoci? Solo ieri lo sceriffo Marble ci ha raccomandato di non fare altri danni.
- Ma noi non faremo niente di pericoloso. E finché non ci proviamo, come possiamo sapere che non c'è del fondo di verità in quelle voci? O forse hai paura?- la guardò con un sorriso di sfida.
- Non è questo, io...- li guardò e poi sospirò toccandosi la fronte- Ma è un inutile spreco di fiato, perché ci andrete lo stesso. E per quanto sia tentata di rimanerne fuori, verrò con voi.
- È sempre bello averti con noi- Donald batté una pacca sulla spalla dell'amica.
- Ma solo per dimostrarvi che vi sbagliate- precisò. Donald fece spallucce.
- Come preferisci. Ora pensiamo a un piano...
Il gruppetto annuì e insieme pianificarono la ricerca. Per fortuna lì dentro il granaio avevano tutto lo spazio per le loro riunioni segrete. Alla fine decisero che ci sarebbero andati il giorno dopo, perché era un giorno di festa e non avrebbero insospettito i genitori se stavano tanto fuori.
Così l'indomani Donald si svegliò alle prime ore del mattino per preparare il suo zainetto per la gita. La riempì di oggetti e una mappa. Poi scese in cucina per fare colazione.
Trovò sua nonna davanti ai fornelli impegnata a fare conserve di marmellata. Sulla tavola c'era già la colazione ad aspettarlo. Donald salutò e iniziò a mangiare.
- Quindi oggi andrai in giro con i tuoi amici?- si informò la nonna mentre girava il mestolo.
- Sì, io e gli altri dobbiamo fare una ricerca- raccontò lui- Staremo via qualche ora.
- Una ricerca? Per la scuola?- si girò a guardarlo incuriosita. Lui bevve un sorso di latte cercando di evitare il suo sguardo diretto.
- Ehhh, quasi...
Lei lo osservò per un altro istante, per poi tornare ai suoi fornelli.
- D'accordo. Ma fai attenzione e non tornare tardi.
Lui sospirò sollevato senza farsi vedere. Poi salutò e tornò in stanza per prendere il suo zainetto. Scendendo le scale si soffermò a pochi gradini dalla fine della scalinata a osservare la papera bionda concentrata a tenere d'occhio più pentole sul fuoco. Non si accorse neanche del paperotto che la stava osservando in silenzio.
Donald guardò il profilo della nonna, l'espressione stanca sul suo viso, il sudore sulle sue piume per il vapore e la lieve curvatura delle spalle.  
Come ogni mattinata, l'aveva vista svegliarsi molto presto per sbrigare i lavori della fattoria. E poi tornare a casa per sbrigare le altre faccende di casa.
Avrebbe avuto bisogno di un aiutante, qualcuno che le alleggerisse il peso del lavoro. Ma aveva sempre rifiutato, dando come risposta che era abbastanza forte per mandare avanti la fattoria da sola e prendersi cura di un nipotino.
La verità, sospettava, è che non ci fossero abbastanza soldi per poter assumere qualcuno. Non finché avrebbe avuto un paperotto sotto il suo tetto.
Abbassò lo sguardo e socchiuse gli occhi.
Una immagine fugace tornò alla sua mente, due paperi di spalle che uscivano da una porta e una luce accecante che li inghiottiva facendoli scomparire.
Riaprì gli occhi e tornò a guardare la nonna. Sul suo becco un accenno di sorriso malinconico, forse distratta da qualche ricordo fugace. Forse ricordando qualcuno che non c'era più in quella casa.
Strinse con forza le cinghie dei spallacci e serrò il becco mentre scendeva gli ultimi scalini e si avviava verso la porta. Fuori di casa c'era un bel tempo.
I suoi amici lo stavano aspettando agli inizi del bosco, in un punto meno frequentato dagli adulti, per evitare di dare spiegazioni.
Quando li raggiunse, erano tutti lì con lo zainetto. Quasi si preparassero a una scampagnata.
- Ce ne hai messo di tempo melanzana- scherzò Tom.
Donald lo ignorò e insieme entrarono dentro il boschetto seguendo un percorso che avevano tracciato nella loro mappa e che gli permetteva di non addentrarsi troppo e perdersi.
Passarono il tempo camminando e cercando di attirare il fantasma in vari modi così come pianificato e suggerito da Amazing Papers. Dopo due ore si fermarono in una zona d'erba per riposarsi e mangiare il loro pranzo al sacco. Donald nel frattempo si sdraiò su quella distesa d'erba a pancia in su e tenendo lo sguardo al cielo. Tra i rami degli alberi si potevano vedere le nuvole spostarsi nel cielo.
- Credi che troveremo davvero un fantasma?- chiese Louis un po' sfiduciato- Sono già due ore che cerchiamo.
- Certo. Sarà qui da qualche parte.
- Non è che se ne sarà andato?- chiese Tom addentando l'ennesimo panino.
- E dove? Non può semplicemente prendere e andarsene in giro senza che altri lo vedano.
- È pur sempre un fantasma.
Donald sospirò, mentre udì a distanza Millicent borbottare. Non era la prima volta che lei si mostrava scettica per i suoi piani, ma poi le passava e collaborava con loro. Quindi la lasciò stare, si sarebbe ricreduta quando l'avrebbero trovato.
- Forse non lo stiamo cercando bene...- ipotizzò Donald pensieroso.
Aveva creduto che sarebbe stato facile, che il fantasma si sarebbe presentato davanti a loro senza dover faticare per scovarlo. Perché aveva bisogno del loro aiuto, giusto?
Ma forse aveva preso troppo alla leggera la ricerca.
Ripresero a camminare e cercare con più tenacia, ma nuovamente dopo due ore erano a mani vuote. Avevano girato sui loro passi e si stavano spingendo più in là di quanto pianificato. Ma ancora nessun indizio.
- Possiamo fermarci un attimo?- chiese Betty con il fiatone- Ho i piedi a pezzi.
- Ancora?- protestò Donald girandosi verso il gruppetto dietro di lui- È la terza volta che ci fermiamo.
- Oh, scusami tanto se non sono fatta di roccia come te- commentò sarcastica la biondina- Non avevamo in programma di camminare così tanto.
- Io devo fare rifornimento di cibo- disse Tom mentre capovolgeva il suo zaino facendo uscire poche briciole- Ne ho bisogno per ricaricarmi di energia.
- Ti sarai mangiato come sei panini, non ti bastano?- disse contrariato Donald.
- Erano sette, per la precisione. E no, erano solo uno spuntino. Come speri possa affrontare il viaggio senza la dose giusta di energia?
- Hanno ragione loro- intervenne Louis guardando il resto del gruppetto- Sono ore che ci muoviamo, senza risultato. Forse Millicent ha ragione, ci siamo emozionati per delle voci...- lo guardò dispiaciuto- Forse dobbiamo prenderci una pausa o magari ritornare un'altra volta.
- No, ormai siamo qui- insistette Donald- Non possiamo arrenderci proprio ora.
- Stiamo solo perdendo tempo. I fantasmi non esistono- disse Millicent rivolta a Donald.
- Invece esistono!
- Ah sì? Ne hai mai visto uno per esserne così convinto?
Donald abbassò lo sguardo e si toccò il braccio.
- … no. Ma questo non significa che non esistano.
- Perché continui a insistere!
- Perché so che è così!
- Smetti di essere così testardo per una volta!
- Non puoi capire!- disse arrabbiato- Nessuno di voi ci tiene abbastanza, per questo non l'abbiamo trovato!
- Vuoi dire che è colpa nostra?- disse risentita Betty.
- Se non volevate venire, bastava dirlo! Posso cercarlo da solo!- sbuffò e diede le spalle agli amici incrociando le braccia risentito.
Il gruppetto si guardò tra di loro intristiti e indecisi sul da farsi. Donald sentì solo il rumore dei loro piedi muoversi dietro di lui, come per allontanarsi. Donald solo sospirò, quasi pentendosi di aver alzato la voce, ma ormai non poteva rimangiarsi la parola.
Non potevano capire.
Quel fantasma forse girovagava da anni senza che qualcuno lo aiutasse. Senza che qualcuno gli permettesse di porre fine al suo girovagare. Alla ricerca di qualcosa che non avrebbe mai trovato.
Qualche passo e alla sua destra si affiancò una paperetta dai capelli neri. Quasi si aspettò che dicesse le famose parole “te l'avevo detto”, però lei non parlò subito.
- Perché lo fai? Perché è così importante per te?- fece lei guardando un punto impreciso- Sei sempre stato un tipo fantasioso, lo sappiamo, ma perché questa volta ti intestardisci così?
- Lo stai facendo anche tu- ribatté, volendo evitare di rispondere- Io sento che siamo vicini. Se solo tu provassi a fidarti...
- Ma Donald... i fantasmi non esistono- disse lei con voce spezzata- Vorrei... vorrei tanto crederci. Ma non posso...
E solo quando si girò a guardarla, comprese. Comprese quanto si fosse comportato come un insensibile.
- Ciò che si è perso, non può tornare...- continuò a dire lei. La sua espressione rivolta a un punto in lontananza era triste e malinconica. Un espressione a lui familiare.
Che ne sarà ora di noi?
Donald abbassò lo sguardo dispiaciuto. Era così concentrato nella sua ricerca, che non aveva tenuto conto dei sentimenti di Millicent. Era passato solo qualche mese dalla morte del nonno di lei.
Millicent era sempre stata una bambina con i piedi ben piantati a terra. Ciò non significava che non credeva all'esistenza dei fantasmi... bensì che non voleva accettare la loro esistenza. Perché non voleva illudersi che dopo la morte ci fosse vita. Avrebbe sconvolto le sue certezze.  
Uno dei motivi per cui Donald coinvolgeva i suoi amici nelle avventure, era per divertirsi insieme. Ma se questo doveva farli soffrire, forse non ne valeva la pena.
Sospirò e guardò l'amica.
- … mi dispiace.
Millicent si girò a guardarlo e gli sorrise allungando la mano per stringergliela.
- Dispiace anche a me.
- E a noi.
Donald si girò e trovò i suoi amici ancora lì. Non se n'erano andati.
- Siamo una squadra, Donald. Non potremmo mai abbandonarti.
- … ragazzi.
Il paperotto guardò quasi commosso gli amici. E si sentì uno sciocco a essersi comportato così.
Forse non avrebbe trovato il fantasma e neanche un tesoro, ma si sentiva fortunato ad avere amici.
Si era fatto trascinare da un insieme di sentimenti ed eventi, ma ora non aveva più importanza. Non quando aveva davanti a lui il motivo per mettere da parte quelle illusioni.
- Torniamo a casa- disse infine Donald con un sorriso sereno.
Gli amici si guardarono tra di loro e annuirono contenti. Insieme fecero marcia indietro e camminarono per uscire dal bosco.
D'improvviso però sentì una strana sensazione sulle piume che lo fece bloccare di colpo. Si voltò incuriosito da quella sensazione, come se qualcuno lo stesse osservando. Nel momento che si girò un fugace scorcio d'immagine attirò la sua vista. Sfregò gli occhi come se si fosse trattato di una allucinazione.
- Cosa succede?- chiese Millicent vedendolo guardarsi indietro.
Gli altri amici erano più avanti di loro e non si erano accorti dei due paperotti che erano rimasti indietro.
Donald non rispose subito alla domanda dell'amica, perché era concentrato nei suoi pensieri. Poi come se qualcosa si fosse acceso in lui, si voltò a guardarla.
- Io... io devo andare.
- Dove?- chiese allarmata vedendolo allontanarsi di qualche passo da lei. Temeva che qualche altra assurda idea gli fosse scaturita in testa.
Lui si toccò dietro la testa, come impacciato nel dare spiegazioni ma desideroso di muoversi subito.
- Mi sono appena accorto di aver lasciato indietro qualcosa...
- Aspetta, avviso gli altri e andiamo insieme.
- No, faccio da solo- scosse le braccia per fermarla. Poi guardò negli occhi diffidenti dell'amica- Non preoccuparti, ci metterò qualche minuto e... tu vai pure.
- Sei sicuro di non perderti?
- Sì, sì... ci vediamo domani!- e scappò via.
Millicent lo guardò correre via, ma per quanto non si sentisse rassicurata dalla sua risposta affrettata decise questa volta di lasciarlo andare. Non si poteva mettere nei guai solo per andare a prendere qualcosa, giusto?
Donald corse dietro quella sagoma che si muoveva velocemente superando i vari ostacoli del bosco con un agilità e sicurezza soprannaturali. Cercò di stargli dietro e non perderlo di vista, anche se non poteva fare a meno di inciampare qua e là, non si accorse neanche di essere uscito dal sentiero sicuro e di essersi avventurato in zone pericolose.
Voleva raggiungerlo, doveva farcela, ma il bosco si faceva sempre più oscuro e più intricato di rami, i suoi occhi riuscivano a malapena a vedere qualcosa svolazzante. Ma sapeva che era lui, il fantasma che tanto si parlava.
- Aspetta!- gridò al fantasma, nella speranza che si fermasse.
Perché lo fai?
Forse avrebbe dovuto dire la verità a Millicent e agli altri, in fondo lo avevano seguito in quell'impresa, come in tante altre. E lui era grato a loro per la fiducia che sempre gli davano.
Eppure... in quell'istante che notò la presenza del fantasma, una parte di lui lo fece tacere di fronte ai suoi amici.
E se si trattava di un altro falso allarme? E se era solo frutto della sua immaginazione?
Non se la sentiva di vedere un'altra volta nei loro volti la delusione.
Perché questa volta ti intestardisci così?
Non lo sapeva... non sapeva spiegare il perché della sua ossessione. Era solo una voce di paese. Non che in passato non si fosse ossessionato ad altri misteri, alieni, mostri, fantasmi... ma questa volta era diverso. Era come se la curiosità avesse riaperto una speranza in lui. O forse era una necessità, dovuta agli ultimi eventi.
- Voglio solo aiutarti, non scappare!
Il fantasma non si era fatto vedere in tutte quelle ore, perché proprio ora doveva farlo? Stava aspettando qualcosa? O forse... il fantasma stava aspettando che lui si trovasse da solo per farsi vedere?
Ciò che si è perso, non può tornare.
“Non è vero” avrebbe voluto obiettare alla sua amica. Ma di fronte al suo sguardo, non se l'era sentita. Perché neanche lui ne era ormai così sicuro. Le sue speranze di trovare qualche traccia... qualcosa che gli confermasse che loro ci fossero ancora...
Perché era così difficile, anche a distanza di tempo, così difficile accettarlo.
Solo se avesse raggiunto quella sagoma sfuggente, solo nel momento che lo avrebbe avuto davanti, solo in quel momento si sarebbe messo il cuore in pace.
- Io... io mi chiamo Donald, Donald duck!
Si fermò per prendere fiato e si guardò intorno. Era bastato un attimo di distrazione e lo aveva perso di vista mentre scavalcava un tronco d'albero.
- È per me che sei qui?- parlò al vuoto- Fatti vedere!
Abbassò lo sguardo e strinse le mani con frustrazione. Non voleva... non voleva ancora arrendersi...
- … per favore.
“Dammi un motivo per afferrarmi a quella speranza”  
- … Donald?- fece una voce alle sue spalle.
Si girò di scatto e vide una figura venirgli incontro e fermarsi a pochi passi da lui, la stessa che aveva rincorso qualche secondo prima. Spalancò gli occhi osservando quella figura oscurata dalle ombre degli alberi. Era incredulo, ma era lì, e aveva la stessa espressione sorpresa che doveva avere lui in quel momento.
- … mi conosci?- chiese Donald.
La figura rimase ferma nella sua posizione senza parlare, solo a osservare il paperotto. Sembrava paralizzato.
Donald cercò di scrutarlo dietro quella penombra. Aveva sembianze di un papero adulto, anche se i contorni sfuocati. Il volto non si vedeva bene perché era come coperto da qualcosa. Ma i tratti gli ricordavano qualcosa, no qualcuno... qualcuno di molto familiare.
Il cuore iniziò a battergli molto forte.
- Tu...
Ma un istante dopo la figura misteriosa scattò indietro e si diede nuovamente alla fuga.
- No, non andartene!- riprese a corrergli dietro.
Ma la figura non si fermò, non rimase ad aspettarlo.
Se non vi vado a genio, potete andarvene!
La famiglia porta solo guai!
Cosa ne sarà ora di noi?
Allungò la mano per cercare di afferrare il bordo del suo mantello svolazzante.
- Papà, non lasciarmi!- gridò con tutta la voce e le lacrime che offuscavano la vista.
La sua mano afferrò il vuoto, facendolo sbilanciare in avanti e cadere. Alzò subito la testa, giusto per vederlo attraversare gli alberi e gli arbusti e scomparire nell'oscurità del bosco, come se il suo corpo fosse inconsistente, fatto d'aria, una proiezione della sua essenza... come un fantasma.
- Papà!- gridò nuovamente, rimettendosi in piedi e correndo alla cieca. Ma non lo vedeva più ormai.  
Perché è così importante per te?
Salì in gran fretta su una grande roccia, senza far caso allo strato di muschio su di esso. I suoi piedi scivolarono e perse l'equilibrio.
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pangeanews · 5 years
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Che cosa ha ancora da dirci quel godereccio di Plauto, il drammaturgo che amava i pettegolezzi? Guardate l’“Asinaria”: la verve verbale disseziona tutti i nostri vizi
“L’unica differenza tra un santo e un peccatore è che ogni santo ha un passato mentre ogni peccatore ha un futuro”. Oscar Wilde.
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Il passato è passato, ed è un tempo che non torna più. Però poi accade che subentri la curiosità e quei due spiccioli di studi spesi all’Università di Urbino alla fine degli Anni Novanta, specie quando vedi il traguardo finale, specie quando ti rimangono da superare gli esami di latino. La lingua dei padri non è morta, anzi: dipende dai padri che ti sono capitati, e da che storia ti vogliono raccontare.
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Il latinorum è un terreno carsico: ti intimorisce ma poi quando lo calpesti, inevitabilmente ti affascina e ti inghiotte. Di quegli anni mi sono rimaste una manciata di voragini e una perla. Lustrata per bene. “Aulularia” – monografico dell’ultimo esame, “Latino 2” – è un testo verticale, da studiare con attenzione perché scioglie la ruga iniziale cheti si piazza sulla fronte. “Aulularia” è l’ascia del montanaro che si abbatte sul tronco. Scende con forza, precisa come una goccia d’acqua che cerca il suo spazio all’interno di una grotta. E sfascia, affastella, miete.
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Evclio Senex: “Ostende huc manus”. Strobilvs Servvs: “Em tibi, ostendi, eccas”. Evclio: “Video. Age ostende etiam tertiam”. (Euclione: “Mostrami le mani”. Servo: “A te. Ecco, te le ho mostrate”. Euclione: “Vedo. Su, mostrami la terza”).
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Nulla è stato inventato e tutto è già stato scritto: “Aulularia” è più o meno “L’avaro” di Molière (1668) e di Carlo Goldoni (1765) ma con ingredienti più veraci, che ti si piantano tra il palato e gli occhi, e creano sinapsi vibranti.
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Un assaggio è un antipasto che richiede il proseguimento del viaggio, anche a distanza di tempo. E se davvero “saper rivivere con piacere il passato è vivere due volte” (Marziale), la proposta del Plautus Festival 2019 ricolma quelle discese verso l’ignoto: qual è l’attualità di un testo scritto oltre 2 mila anni fa? Che effetto può avere oggi la fantasia immaginifica del poeta di Sarsina sugli spettatori di questo secolo? La risposta è racchiusa in un titolo, “Asinaria”, lì dove gli asini ovviamente non sono gli spettatori (forse) ma semplicemente animali inseriti come cardi o qualche spezia preziosa nell’humus teatrale dell’opera, utili per avere un pre-testo e dare un nome accattivante alla storia.
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“Asinaria” è in prima battuta una nota da imparare per non fare figure barbine: il teatro non è nato con William Shakespeare (non è una battuta: è stata davvero la risposta di un ragazzo in occasione di un esame all’Università) ma affonda le sue radici nell’epoca a.C. (avanti Cristo naturalmente, non Alessandro Carli), più o meno 500 anni prima della nascita di Gesù, in Grecia.
E in questa “Asinaria” che ha debuttato in anteprima a Sarsina il 4 agosto (e che ha visto in scena Giorgio Marchesi, Barbara Abbondanza, Lorenzo Branchetti, Michele Di Giacomo, Camillo Grassi, Alessandro Pieri, Gabriela Praticò, Daniele Romuladi e dagli allievi della Bottega del Teatro “Franco Mescolini” Mattia Bartoletti Stella, Sofia Brigliadori, Laura Caminati, Sara Forlivesi, Maria Giovanna Pasini, Irene Zanchini) ci sono personaggi piuttosto attuali, come ad esempio la bella Fregnadora, una escort d’antan che, come chiarisce bene il nome, non lascia dubbi interpretativi: una “cortigiana” fighetta e tirata che fa perdere la testa a un ragazzo, il giovane Argirippo. Il giovincello, stregato dal fascino e dalle grazie dell’avvenente pulzella, vorrebbe tenerla tutta per sé e giacere con lei non una ma mille e mille volte ma non ha i soldi per farlo e così viene aiutato dal padre Demeneto (che probabilmente nella sua vita ha già pagato per scopare) a condizione però che questi gli conceda una notte d’amore con la ragazza. Ma tra i pretendenti della bella figliuola c’è anche Diavolo, che ha promesso di versare a Cleereta, tenutaria del bordello e madre della ragazza contesa, la somma necessaria per ottenere gli stessi duraturi favori…
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“Un coro di meretrices commenta, contrappunta e accompagna le traversie dei personaggi protagonisti, e che allude nei modi e nelle espressioni alla realtà delle case chiuse dell’Italia del Ventennio, cui anche diversi contributi musicali fanno riferimento” scrive nelle note di regia Gigi Palla.
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La mise en scene funziona egregiamente: allestimento minimalista quindi senza barocchismi e sovrastrutture che appesantiscono (o coprono le falle del testo), alcune battute “piccanti” – ed è questa la forza di Plauto – che sanno ancora far abbassare gli occhi agli spettatori. Non è semplice pudore, questo va detto: la vis verbale e la scrittura di Plauto sono una lama tagliente sulle abitudini, sui vizi e sui difetti del genere umano. Un coltello che affetta, ma per il semplice gusto di scatenare una risata. Un godereccio, il sarsinate, lontano e diverso da Terenzio e dalla sua dimensione psicologica dei personaggi: all’autore piace mostrare al pubblico i lati più festosi e goliardici dell’uomo, i piaceri del corpo. Siamo fatti di carne, e quella carne vuole trovare una forma di soddisfazione appagante. Sia che si tratti di mangiare, di bere o dei piaceri del letto, l’obiettivo è sempre quello di riempirsi la pancia.
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Il coro che introduce alla palliata – che in lontananza accenna al tema delle case chiuse del Ventennio – entra a bordo di un carro, accompagnato dalle note della versione live PFM di “Bocca di rosa” di Fabrizio De André (ma senza parole, solo la musica). Interessante la caratterizzazione data ai personaggi, soprattutto dal punto di vista linguistico: romagnolo, toscano, romanesco su tutti, così piacevole e congeniale alla mise en scene quel tocco di fellinismo nella scelta “fisica” delle prostitute, vagamente “busty”. Qualche chilo in più quindi, ma portato con straordinaria leggerezza.
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“La grande comicità generata dalle commedie di Plauto è prodotta da diversi fattori: un’oculata scelta del lessico, un sapiente utilizzo di espressioni e figure tratte dal quotidiano e una fantasiosa ricerca di situazioni che possano generare l’effetto comico. È grazie all’unione di queste trovate che si ha lo straordinario effetto dell’elemento comico che traspare da ogni gesto e da ogni parola dei personaggi. Questa uniforme presenza di comicità risulta più evidente in corrispondenza di situazioni ad alto contenuto comico. Infatti Plauto si serve di alcuni espedienti per ottenere maggior comicità, solitamente equivoci e scambi di persona. L’autore fa uso anche di espressioni buffe e goliardiche che i vari personaggi molto di frequente pronunciano; oppure usa riferimenti a temi consueti, luoghi comuni, anche tratti dalla vita quotidiana, come il pettegolezzo delle donne. La lingua che usa è composita e formata da elementi eterogenei, quali grecismi, neologismi, arcaismi e sermo familiaris. È presente inoltre l’italum acetum, comicità popolare italica fatta di doppi sensi, allusioni e giochi di parole”.
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Demeneto, il papà di Argirippo, ordina ai suoi due servi Leònida e Lìbano di derubare la moglie Artèmona visto che, da buona matrona, tiene per sé tutto il patrimonio familiare, così da concedere una notte d’amore al figlio con la puttanella. I due servi, spacciandosi per gli amministratori della padrona, riescono a portare a termine il furto ai danni di un mercante che doveva venti mine d’argento ad Artèmona per l’acquisto di alcuni asini (da qui il nome della commedia).
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Forse anche Carlo Collodi ha attinto da Plauto: la scena del gatto e la volpe di “Pinocchio” è già ben descritta in “Asinaria” quando i due servi furbi cercano di avere le 20 mine da un apparente servo romagnolo invornito che alla fine non si va menare per il naso. Collodi ha semplicemente reso meno comico il dialogo.
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Attorno al 211 A.C. – anno in cui gli studiosi collocano la palliata – la Chiesa non era ancora presente in Italia e quindi non poteva lanciare gli anatemi moralistici contro la nazione. È stata questa la fortuna delle opere di Tito Maccio Plauto? Probabilmente no. Sarebbe riduttivo anche se una certa libertà di espressione (e quindi di messa in scena) è stata agevolata dalla religione romana dell’epoca, politeista e caratterizzata dalla razionalità più pratica in cui predominavano i principi utilitaristici.
Nel II Secolo a. C. inoltre Roma mise al bando i Baccanali e il culto dionisiaco. Quindi quasi per contrasto – la privazione aumenta la voglia di proibito – poter vedere a teatro (il luogo dove tutto è consentito) quello che sino a ieri era legittimo si è trasformato, assieme alla immensa capacità dell’autore di “leggere” il suo tempo, in una polveriera straordinaria, capace di richiamare un vasto pubblico.
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I piaceri della vita si trovano anche in alcuni testi di Aristofane, autore filtrato dai professori di greco, preoccupati a non dare in pasto ai giovani adolescenti parole zozze che li possano ormonare. “La pace” per esempio si chiude allora con un komos nuziale condito da lazzi salaci, oscenità e piccanti allusioni. Ne “Le rane” si legge questo dialogo. Ancella: “Ma tu stai scherzando! Non ti lascio andare, sai. E poi… (ammiccando) dentro c’è per te una flautista bellissima e due o tre danzatrici”. Xantia (con interesse): “Come hai detto? Danzatrici?”. Ancella: “Tenerine e appena depilate”.
Non è da meno “Le donne al Parlamento” dove le protagoniste decidono di tentare di convincere gli uomini a dar loro il controllo di Atene, perché in grado di governare meglio di loro. Le donne, camuffate da uomini, si insinuano nell’assemblea e votano il provvedimento. Una volta al potere, deliberano che tutti i possedimenti e il denaro vengano messi in comune per essere amministrati saggiamente dalle donne. Questo vale anche per i rapporti sessuali: le donne potranno andare a letto e fare figli con chiunque loro vogliano. Tuttavia, siccome questo potrebbe favorire le persone fisicamente belle, si decide anche che ogni uomo, prima di andare con una donna bella, sia tenuto ad andare con quelle brutte, e viceversa. Queste delibere però creano una situazione assurda e paradossale: verso la fine della commedia, un giovane confuso e spaventato si ritrova conteso fra tre ripugnanti megere che litigano per assicurarsi i suoi favori.
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“Asinaria” è la conferma della poetica di Plauto: tempi stretti e battute a fulmicotone, immediate e capaci di scatenare la risata grassa e immediata. Quello che viene detto è quello che l’autore vuole dire. Il tema principale attorno cui ruotano le vicende da lui trattate, il vizio, non è fine a se stesso: è un elemento occasionale volto alla costruzione della scena comica. Plauto è un maestro dei doppi sensi, i giochi di parole, i neologismi, le esagerazioni, le metafore. Ricorre volentieri a dialoghi forsennati e a botta e risposta di insulti. Non vuole lanciare messaggi morali: il suo scopo è di divertire il pubblico, e ci riesce.
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Strano, oggi, parlare di “teatro di parola” quando la drammaturgia contemporanea si sposta sempre più verso le performance. Bizzarro e stridente scrivere di “pubblico numeroso” quando l’azione nuova chiede spettatori contati. Eppure il teatro è esattamente questo: qualcosa per qualcuno. E “Asinaria” lo chiarisce alla perfezione: c’è una storia che si capisce. C’è una trama che è chiara e fruibile a tutti e non a solo a quei pochi eletti che appartengono all’intellighenzia teatrale 4.0, penne da tastiera pronte a scrivere che un micromovimento o un gioco di luci particolare colto solo da chi ha uno sguardo educato ha un effetto evocativo che sottende e rappresenta il chiavistello d’ingresso al mistero oscuro della mente dell’autore.
Cazzate. Vado a teatro e voglio vedere qualcosa, e soprattutto voglio comprendere quello che avviene. Se una storia non arriva in platea è una storia che non merita di essere rappresentata.
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Un raglio cristallino, ieri come oggi. Anzi, forse oggi ancora più acuto e ficcante.
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Sipario.
Alessandro Carli
*In copertina: il nostro critico teatrale promuove, lingua al vento, “la meraviglia del teatro classico”
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bleubleuet · 6 years
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Cenote Dos Ojos
La situazione disastrosa del mare
Da due giorni si è conclusa un’altra avventura in viaggio che,come tutte le altre, mi ha lasciato altre orecchiette al libro della mia vita; un libro massiccio e già abbastanza consumato (cosa di cui sono orgogliosa, non fraintendetemi) ma sempre in attesa di essere farcito e ingozzato di nuovi ricordi ed esperienze del mondo. Stavolta non è stata una delle mie pazzie estive individuali, anzi, ho preso con me tutta la mia famiglia: il mio Sole e mio fratello di 16 anni, Giacomo. Io e lui abbiamo personalità completamente diverse, gli antipodi l’una dell’altra. Abbiamo interessi diversi e non andiamo d’accordo su molte, moltissime cose, però riusciamo quasi sempre a trovare una sorta di connessione fraterna, una via di mezzo che ci accomuna e ci fa schierare dalla stessa parte. Questo accade il 70 % delle volte, l’altro 30% immagino nella mia testa di soffocarlo a mani nude .
Siamo una famiglia particolare, non convenzionale direi, ma abbiamo sempre viaggiato molto e le esperienze fuori Europa non ci hanno mai spaventato. Mia mamma ci ha sempre portati con sé fin da bambini, le distanze non ci hanno mai traumatizzato e nemmeno i terribili pasti che ti servono sugli aerei. Però le turbolenze ci fanno ancora paura. La meta di quest’anno è stato il Messico, scelto da me perché mi ha sempre affascinato molto l’accento quasi musicale, la cultura, i colori, i paesaggi verdi e allo stesso tempo secchi e duri, le spiagge bianche e il mare cristallino. C’era quasi tutto, non sono rimasta completamente delusa, ma è proprio da dire: abbiamo avuto terribilmente sfiga. Lasciatemi spiegare meglio: partiamo con l’aereo di andata che probabilmente era stato assemblato con i pezzi dei charter del dopoguerra, NIENTE schermi, al che mi sono un po’ preoccupata perché 12 ore di volo a guardare il muro non mi entusiasmavano troppo. Arriviamo e l’umidità ci investe brutalmente dandoci il benvenuto ai tropici: “Bene raga, d’ora in poi i vostri vestiti saranno umidicci e puzzerete sempre un po’ “. Vabbè, si sapeva. Soggiorniamo a Tulum in un hotel hippie, d’altronde come la città stessa, e già comincio ad innamorarmi dei colori vivaci di ogni strada, delle palme altissime e delle amache disseminate ogni dove. Per non parlare dei primi pranzi messicani, insomma, parlo di burritos e tacos fatti con la grazia di Dio, sceso e reincarnato con baffi e sombrero. Ricordo a tutti i miei lettori che sono una grande fan della comida messicana, soprattutto quando sto a casa da sola con la voglia di vivere appoggiata sul comodino e glovo a portata di mano. Tulum mi è veramente piaciuta per il suo fascino spensierato e l’atmosfera rilassata e gioiosa che emanava, ma adesso arriva lo scarafaggio sotto il cuscino (metafora infelice) che ci ha “rovinato” la vacanza: mare inaccessibile perché contaminato dalle alghe. Non parlo delle alghette di Milano Marittima, parlo di metri e metri di sargassi che ricoprivano tutto come fitti tappeti. Si tratta di un fenomeno naturale che, dopo qualche indagine, scopriamo che avviene ogni anno ma così violento accade solo ogni 4 anni. OGNI.QUATTRO.STRONZISSIMI.ANNI. La situazione era veramente critica e il motivo fu ancora più sconfortante: ovviamente siamo noi umani esseri indecenti e non curanti dei doni del mondo. Io ero all’oscuro di tutto ciò fino a due settimane fa, perché ho potuto vederlo e confermarlo con i miei occhi, ma ho idea che pochi sanno i danni che stiamo causando senza rendercene conto. Vedere il mare caraibico in questo stato mi ha fatto molto soffrire, ma soprattutto mi ha fatto capire quanto sia importante prendersi cura della natura che ci circonda, essere più self aware di tutta la plastica che produciamo inutilmente e così via. Non sono mai stata un’anima verde, non ho l’abbonamento a green peace e non li seguo su instagram, ma questo perché non mi sono mai resa conto delle conseguenze visibili.
Continuammo il nostro viaggio saltellando da un Cenote a un altro, che per chi non lo sapesse si tratta di grotte rocciose (anche se i più belli secondo me erano quelli all’aperto), di acqua dolce. L’attività prediletta nello Yucatan è ovviamente lo snorkeling e il diving, è una cosa da fare assolutamente anche perché se no che ce stai a fa’ ai Caraibi? Quindi ho provato sto snorkeling e la verità è che, pur non essendo una gran nuotatrice (somiglio più ad un Golden Retriever felice), mi è piaciuto molto. Poi vabbè, sono sempre italiana e un po’ di sceneggiata alla “mo esce fuori il coccodrillo e m’ammazza” l’ho fatta. Dopo Tulum ci siamo stabiliti a Playa del Carmen per farci del meritato mare e invece noooo, situazione indecente pure li. Non vi dico le lacrime e i tentativi di pulirlo io sola a mani nude sto mare sofferente, sembravo un po’ la Vergine che sorreggeva il Cristo nella Pietà, solo che io fra le mani avevo chili di alghe puzzolenti. Niente, alla fine ci siamo concentrati sulla fauna incredibile che ci circondava: dalle scimmiette curiose che ti stringevano la mano, alle iguane gigantesche che prendevano il sole in mezzo alla strada, tipo statue di marmo. Pappagalli colorati e i coati, dei simpatici animaletti che ho chiamato orsetti tutto il tempo. Insomma un paradiso terrestre se non fosse stato per il mare e per gli americani perennemente ubriachi. Scusatemi amici degli Stati Uniti, ma è stati disgustoso stare in spiaggia e vedervi tracannare alcool su alcool e buttare i bicchieri di plastica per terra.
Ma il ricordo più divertente è senza dubbio il disperato ritorno della macchina a noleggio che avevamo da inizio vacanza. I latini sono molto simpatici ma non sono per niente pratici e organizzati, anzi. Praticamente io e mia madre dovevamo riportare sta macchina in un parcheggio segnato su una mappina dataci dall’agenzia. Il punto è che le strade non avevano nomi, solo NUMERI. E il punto segnato era in mezzo a due strade cieche impossibili da individuare. In due ore di richieste d’aiuto abbiamo ottenuto: 7 proposte di matrimonio, uno scambio conveniente tra me e tre casse di corona gelata, una scimmietta a buon prezzo, un collo per Maurizio Costanzo.
Il mare, come ho detto, era infestato da sargassi per i primi metri, ma in lontananza si poteva distinguere uno scorcio di azzurro, la barriera corallina. Con il kayak ho potuto vedere la bellezza originaria di Playa del Carmen, l’acqua trasparente e i fondali puliti. Ma volete sapere la sfiga più grande? L’ultimo giorno, il 2 di agosto, ci siamo svegliati per andare al mare, come sempre, e indovinate come l’abbiamo trovato? QUASI PULITO. Abbiamo subito chiesto spiegazioni e la risposta è stata:” è un fenomeno che va via da solo, è la natura stessa che decide quando.” Ok bene, vaffanculo Natura.
Vabbè, senza il mare siamo riusciti a girare molto di più lo Yucatan, anche se alcune sere guardavo con nostalgia le foto della Sardegna. Sicuramente tornerò ad esplorarlo meglio e magari a vedere finalmente il mare azzurro che ci aspettavamo.
Fine episodio breve [20]
Episodio breve [20]: Señorita Emma, quédate en México! Da due giorni si è conclusa un'altra avventura in viaggio che,come tutte le altre, mi ha lasciato altre orecchiette al libro della mia vita; un libro massiccio e già abbastanza consumato (cosa di cui sono orgogliosa, non fraintendetemi) ma sempre in attesa di essere farcito e ingozzato di nuovi ricordi ed esperienze del mondo.
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horrorteller72 · 6 years
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La Torre e le luci nella notte
La torre era famosa perché il panorama che si scorgeva da lì era rinomato in tutta la città.
Costruita per resistere al tempo in un medioevo lontano ma quanto mai attuale, era dotata dell’accesso ad una fonte autonoma di acqua e circondata dal proprio parco recintato.
Io lavoravo lì da tre mesi quando tutto andò all’inferno. Era aprile, il mese della primavera in tutto il suo splendore, quando la prima vittima arrivò in città. Uno starnuto fu la terribile sentenza di morte che portò con sé. Nel giro di tre giorni i contagiati erano almeno trenta e la prima vittima stava morendo all’ospedale centrale, quello col nome della suora morta di ebola in Africa.
Un ceppo sconosciuto di influenza bla bla bla dissero. Che cambiava la propria struttura in continuazione. Gli immuni sono il cinque o sei percento, pare, io ne ho visto solo uno ed ha cercato di uccidermi, quindi non so dirvi. Mi sono rinchiuso qui, nella mia torre. Fuori dal mondo e lontano dalla città che bruciava. Non hanno nemmeno fatto cose terribili tipo sganciare bombe a contenere il contagio. Non si poteva contenere, tutto qui.
La tv ha smesso di trasmettere comunicati, sono iniziati i messaggi registrati, poi manco quelli, solo le schermate fisse. Il terzo giorno la corrente ci ha salutati. Ma per allora io avevo già intuito come sarebbe andata a finire. Ho seppellito Alina nel parco, accanto al laghetto che le piaceva tanto. Un agente con la malattia allo stato terminale è morto mentre mi urlava che era vietato. Si è messo a sputare sangue tremando, poi ha cominciato a perdere sangue anche dagli occhi e dal naso. Due colpi di tosse convulsa, uno spasmo ed era andato. Lo ho coperto con il lenzuolo che avevo usato per trasportare lei. Ho fatto una bella sepoltura per la mia unica ragione di vita, con il vestito rosso che le piaceva tanto.
La cassa non sarebbe servita, Alina non era più in quel corpo, lì era rimasta solo la parte morta.
La ho adagiata dolcemente nella buca profonda che avevo scavato nella terra dal profumo di fresco, accanto all’albero sotto cui avevamo fatto l’amore un anno prima, di sera.
Era ancora bella, la ho coperta con il suo plaid preferito, quello con cui si addormentava in veranda guardando il mare insieme a me.
Il ricordo mi fa male, ma lo ho affrontato.
Senza di lei la morte non mi fa più paura, ed è stata una dei fortunati che ha lasciato il mondo durante la notte, mentre dormiva. La sera prima aveva la febbre. Il mattino seguente non aveva più nulla, riposava. Per sempre. Spero non si sia accorta di nulla ed ho sentito che in quei casi era così. Sonno e morte, nel giro di poche ore. La forma virale acutissima, la chiamavano. Ora non ci sono più forme virali, credo che finiti i poveri diavoli da uccidere la malattia si sia trovata a corto di diffusione e si sia rassegnata a morire a sua volta.
Ho come la sensazione di essere l’unico che non accetta il proprio destino. Credevo che vivere in una città di morti sarebbe stato il peggio, ma si è presentata un'altra variante del virus, l’ultima sorpresa dell’influenza h303 morente. Colpiva i soggetti con una febbre fortissima invece che con la morte ma faceva si che il loro cervello avesse danni permanenti. Il risultato è stato che in una prima fase le strade si sono riempite di tizi che barcollavano come deficienti, poi la loro mente è mutata.
Sono diventati aggressivi, sempre più veloci, affamati.
Non sono come gli zombie del cinema, no. Questi non vogliono la carne umana, in verità vogliono solo uccidere e smangiucchiare qualunque cosa sia calda e si muova. Cani, cavalli, persone, tutto.
I cani, meno fessi di noi e immuni al virus, si sono coalizzati in branchi che vagano per le rovine, combattendo per la vita. I morti (che non sono proprio morti ma manco proprio svegli, ecco) li attaccano, ma quelli li fanno a brandelli, quando possono.
E non sono più domestici, come se l’essere stati traditi dagli uomini li avesse liberati dalla schiavitù. Non ci odiano, non ci obbediscono, se non hanno troppa fame non ci attaccano.
Gli uccelli sono sempre là, indifferenti. Ogni tanto ne mangio qualcuno per sopravvivere ma non sono granchè buoni. Loro sono troppo lontani dalla vera vita del mondo per avere dei veri sconvolgimenti sostanziali nelle loro esistenze. E probabilmente non sono neppure in grado di capire.
Io so solo che mi sono ritirato nella mia vecchia torre, ho chiuso il parco, ho abbattuto, con un colpo di badile di taglio, il signor Polzapovich, il mio capo, che ha cercato di azzannarmi, ed ho ammassato provviste per giorni e giorni. Tutto ciò che è in scatola va bene. Tanto in molti casi i supermercati sono rimasti chiusi e sigillati, nessuno è andato ad aprirli ed i sopravvissuti sono davvero troppo pochi, ve lo dicevo prima.
Ho anche fregato una autocisterna di benzina vista per strada, il conducente era appeso alla portiera, morto mentre cercava di scendere per arrendersi alla malattia. Il cartellino sulla sua giacca diceva Alfredo. Grazie Alfredo. Infine ho ammassato quanta più roba potevo agli accessi, sigillandoli tutti, tranne uno piccolo sul retro, che potrebbe sempre servire in caso di emergenza. Una station vagon di candele mi assicura la luce di notte. Il bello è che l’interno della torre era un museo. Ora dormo nel netto di un re morto quattrocento anni fa, con lenzuola e materasso dell’ikea, leggo libri presi dalla biblioteca all’angolo a carriolate (letteralmente, ho preso la carriola di Igor, il manutentore, pace all’anima sua) e mangio fagioli in scatola. Ho anche saccheggiato un negozio di agraria  e seminato un orto.
Non che io ne capisca molto ma le piante sembra vogliano sopravvivere almeno quanto me.
Non fraintendetemi, la mia vita è finita mentre buttavo palate di terra sulla tomba improvvisata di Alina, ma vivere mi aiuta a passare il tempo, per capirci.
Non ho voglia di crepare, quindi campo.
In un certo senso stavo abituandomi a questa esistenza, avevo modificato una maschera nbc presa da un soldato a cui non serviva più con dei filtri profumati fatti in casa per non sentire l’odore terribile quando cambiava il vento e portato nel salotto del XVI secolo una meravigliosa Harley Davidson Softail con cui, in caso di emergenza, potermela dare a gambe (a ruote in quel caso) sulla via di fuga che mi ero organizzato. Fuori in trenta secondi, mi dicevo. Fattibile.
Cominciavo a credere di essere diventato paranoico quando li ho visti. I Morti comunicavano tra loro, avevano un barlume di conoscenza, si organizzavano per cacciare. Non arrivavano a usare armi, neppure rudimentali, ma attaccavano in branco e si coordinavano. Più o meno. Ho preso dalla strada una jeep con mitragliatrice e ho accumulato un po’ di armi varie e mi sono barricato dentro.
Non voglio uscire, ho cibo per mesi, anche birra, sigarette e alcolici, ma loro sono sempre più scaltri. Ieri ne ho crivellato di colpi uno che aveva cominciato a toccare le porte e lo ho lasciato lì come monito per gli altri.
Finchè resto qui va tutto bene.
Ma la notte ho scoperto che ci sono altre luci in città.
Altri sopravvissuti.
Magari delle donne, che vorrebbero condividere la torre con me. O anche un amico con cui parlare. Ieri mi sono messo a fare una mappa dei possibili rifugi dei sopravvissuti.
Tutta la notte in punta alla torre.
Ho preso freddo, spero.
Perché se non è un raffreddore allora il virus mi ha fregato mutando un'altra volta.
Il che spiegherebbe perché le luci di notte sono sempre meno.
Ho la tosse.
Sputo sang
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jasminepersephone · 3 years
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     🌙🦋     —     𝐍𝐄𝐖 𝐑𝐎𝐋𝐄       𝐣𝐚𝐬𝐦𝐢𝐧𝐞 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐞𝐩𝐡𝐨𝐧𝐞 & 𝐧𝐚𝐭𝐡𝐚𝐧𝐢𝐞𝐥       ❪    ↷↷     mini role ❫       r  a  v   e   n   f   i   r   e        30.12.2020  —  #ravenfirerpg
Le parole di sua nonna sembravano vorticarle nella mente come un urgano, sbattendo ancora e ancora contro le pareti del proprio cranio senza lasciarle via d'uscita. Tantissime erano le volte che aveva ascoltato sua nonna raccontare avvenimenti passati e futuri visti nelle proprie visioni, ma mai una volta l'aveva vista così sconvolta. Erano trascorsi alcuni giorni da quella sera, le aveva perfino chiesto di non farne menzione con sua madre in attesa di trovare elementi che avrebbe potuto darle più risposte, eppure il tempo correva. Mentre tutte le persone trascorrevano le festività natalizie con il desiderio di svago con i propri amici e parenti, Jasmine sembrava aver subìto una battuta d'arresto. Usciva più volte di quanto non fosse necessario, s'inventava impegni inderogabili per poter trascorrere qualche momento da sola, come quella mattina, con il bisogno assoluto di solitudine. Vagava senza alcuna meta precisa, mentre le strade di Ravenfire pullulavano di quegli stand da cui proveniva di certo un profumino invitante di zucchero e cioccolato. In qualsiasi altro momento avrebbe fatto la fila, avrebbe richiesto la sua cioccolata calda con panna e avrebbe finito di fare quello shopping sfrenato di cui sembrava regina. Invece, ora, Jasmine camminava, stretta nel suo cappotto color cammello con lo sguardo stanco senza nemmeno osservare contro chi avesse sbattuto.
Nathaniel Wood
*Amavo il Natale, lo avevo sempre amato, anche nei periodi più bui della mia vita. Quei giorni erano perfetti per me, era sempre stato semplice sorridere a Natale e trovare sempre un pizzico di felicità. Quando mia madre era andata via, ero rimasto triste e arrabbiato, ma ricordo che anche il primo Natale senza di lei non era stato triste o lugubre, ero riuscito a sorridere anche in quell'occasione. Bastavano i canti natalizi o il sorriso di qualche bambino a farmi tornare di buon umore. Lo spirito natalizio mi pervadeva anche quella mattina, quando ero uscito per una semplice passeggiata e avevo portato con me anche Castiel, il mio cane. Se c'era qualcuno che amava la neve più di me, era sicuramente quel cucciolo ormai cresciuto. Mi ero perso ad osservarlo, mentre giocava nei cumuli di neve, quando scontrai qualcuno e solo dopo un primo istante mi accorsi che si trattava di Jasmine.* « Ehy! Tutto okay? Perdonami, ma questo qui mi distrae sempre. » *Sul mio volto era presente un gran sorriso, mentre spostavo lo sguardo da Castiel a Jasmine. A prima vista mi era sembrata leggermente stanca, ma forse mi sbagliavo ed in ogni caso pensai che un saluto non avrebbe comunque fatto danni di nessun tipo.*
Jasmine Persephone A. Harrison
Era difficile razionalizzare ciò che sua nonna le aveva raccontato, ed era ancor più difficile riuscire a capire come poter non credere a una visione. Le visioni potevano riguardare fatti del passato, del presente e perfino del futuro ma vi era sempre stato un fondo di verità. Giusto? Eppure la venere nera sperava che ciò che avesse visto sua nonna dovesse essere solamente interpresato. Non aveva nemmeno visto contro chi avesse sbattuto, ma fu quando questo pronunciò quelle parole che ella rinsavì e lo osservò sbattendo un paio di volte le palpebre. Mise a fuoco la figura di Nate prima di ancora che un debole sorriso comparve sulle di lei labbra e Castiel cominciasse a scodinzolare. « Ehi, scusami... Avevo la testa da un'altra parte. » Abbassò poi lo sguardo sul cane, piegandosi poi per fargli un paio di grattini sotto il muso prima di concentrarsi nuovamente sul biondo. Era ormai parecchio tempo che non si vedevano, forse perfino troppo, ma sperava che il rapporto che avevano sempre avuto fosse ancora lì. « Castiel... Sempre più pestifero, eh? E tu come stai? So che ultimamente non sono stata troppo presente, ma... »
Nathaniel Wood
« Non ti preoccupare, figurati! » *Risposi subito, con un sorriso sul viso. Vedere Jasmine mi faceva sempre piacere, nonostante tutto quello che avevamo passato e il diverso tempo trascorso dal nostro ultimo incontro.* « Sì, è praticamente la mia ombra! » *Ridacchiai osservando il golden retriever che si godeva le coccole della ragazza.* « Io direi tutto bene, sto facendo supplenze alle medie e i ragazzini di quell'età sono decisamente tosti, ma è un lavoro stimolante. » *Ero ad un ottimo punto della mia vita, con Noah andava decisamente bene - meglio di quanto mi sarei mai sognato - e nonostante il lavoro fosse faticoso, mi sentivo comunque al mio posto e per questo valeva la pena superare ogni difficoltà. « Ma? È successo qualcosa? So che sembro sempre un discorotto nel dire questo, ma in ogni caso ci tengo a dirti che per qualsiasi cosa io ci sono. » *Conclusi con un sorriso. Se avesse voluto parlarmi sarei stato pronto ad ascoltare, su questo non doveva esserci alcun dubbio.*
Jasmine Persephone A. Harrison
Come avrebbe dovuto proseguire quella frase? Come avrebbe potuto pensare di confessare ciò che da giorni sembrava non darle tregua? Cercò di concentrarsi così sull'animale che scodinzolava sempre più velocemente a seguito dei suoi grattini. Alzò poi lo sguardo sull'amico e si ritrovò a sorridere nell'udire quelle parole. Jasmine e Nathaniel avevano un trascorso, un qualcosa che li aveva inevitabilmente avvicinati e sarebbe sempre stato importante, ma era semplicemente passato. « Lo so, ma non devi preoccuparti. Diciamo che è un qualcosa che non mi aspettavo, ma va tutto bene. » Come poteva pensare di aspettarsi che da un giorno all'altro avrebbe visto sua nonna dirle che la sua vicina era vicina? Si strinse appena nelle spalle la veggente, rendendosi conto tuttavia che era un solo passo quello che lei e Nathaniel stavano compiendo. « So che ultimamente mi sono data un poco alla macchia, ma sai che la cosa è reciproca, okay? Per qualsiasi cosa. Ora è meglio che vada, ma mi ha davvero fatto piacere vederti. » Un sorriso sincero comparve sulle labbra carnose della venere nera, prima di salutare l'ormai amico. Sperava davvero di incontrarlo nuovamente e chissà, magari di avere anche più tempo a disposizione.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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forzaitaliatoscana · 3 years
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Mazzetti: No ad ulteriori limitazioni della libertà
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La deputata di Forza Italia Erica Mazzetti: "No ad ulteriori limitazioni della libertà. Chi ha responsabilità di Governo ha sbagliato ed adesso deve rimediare. Senza arrecare però danni ulteriori" Resto stupefatta davanti a certe reazioni provenienti dalle forze politiche della maggioranza 'giallorossa' dopo gli assembramenti verificatisi in molte città nello scorso weekend . Il Pd in una nota apparsa sulla stampa odierna, infatti, ha affermato che 'Alla luce di un sicuro aumento del rischio di assembramenti dovuto al periodo delle festività e alle raccomandazioni alla prudenza e responsabilità del comitato scientifico nazionale, occorre valutare l'adozione di nuove misure che garantiscano il contenimento dei contagi'. Cosa intende fare il Governo, rinchiuderci nuovamente per tutte le Feste di Natale? Sarebbe folle. Esiste la possibilità pur portando le Regioni in zona gialla, di fare anche i dovuti controlli. Sono stati fatti? Questo occorre, non nuove zone rosse! Come poteva pensare il Governo riaprendo i negozi che la gente poi non li visitasse in pieno shopping di Natale? Anche perché se i negozi devono riaprire dovranno anche vendere, o no? Noto una grande confusione nel Governo ed una mancanza assoluta di coerenza nelle affermazioni. Giorni fa si parlava addirittura di facilitare spostamenti fra comuni per le feste ed oggi invece si parla di richiudere tutto. Leggo poi posizioni assurde come quelle del Codacons, che chiede strade aperte ma 'a numero chiuso'. Siamo i Read the full article
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vincentp17 · 4 years
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Supereroi -Fantasy- [parte 2°]
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Sono passati i secoli, millenni, dalle prime civiltà create dall'uomo, anche le conoscenze che ha accumulato sono maggiori, sapere che gli permettono di dare spiegazione a ciò che non capiva, acquisito tecnologie che gli permettono di vedere quello che in passato poteva solo immaginare che fosse. Adesso può spiegare la realtà in cui è immerso e vive, senza dover ricorrere alla fantasie e immaginare quello che non può vedere ma è sicuro che deve esserci, tutti quei fenomeno che in passato doveva attribuirne l'esistenza alla volontà di entità supreme capaci di manipolarle e di crearle. Eppure, nonostante ciò, il bisogno di credere, di creare nuovi esseri supremi, non vine mai meno nella collettività umana, quasi fosse una necessità di cui non può fare a meno nonostante la conoscenza acquisita, un bisogno impellente che non deve per forza spiegare l'esistenza del creato ma che egli ha bisogno di credere, nonostante sappia che è menzogna, per soddisfare un esigenza come fosse il cibo che necessita per vivere. Ed è da questo bisogno ancestrale che egli ha creato i nuovi supereroi del ventesimo secolo, non più esseri supremi necessariamente figli di una divinità ma comunissimi esseri umani anche se dotati di poteri da superuomini, capacità che li rendono superiori alla gente comune ma rimangono sempre dei mortali.
Gli esseri umani hanno sempre riportato nella storia i suoi eroi, le cui capacita che gli veniva decantate erano principalmente il loro coraggio, affrontare situazioni che mettevano a rischio la loro vita a discapito della salvezza altrui, eroi che non avevano nulla di soprannaturale, a loro, infatti costava parecchio compiere quei gesti, eppure non ci pensavano due volte nel farlo; proprio in questo stava il loro essere decantati eroi. Ma quegli eroi, quelli comuni, fatti da normali esseri umani, non sono nulla rispetto a quelli che si inventa con la fantasia. Ed è con la seconda guerra mondiale che i supereroi prendono vita, col bisogni di credere in qualcosa di soprannaturale, che esorcizzi proprio la paura di un nemico che a quanto pare non ha rivali, almeno apparentemente. Combattere il nemico che mette a repentaglio il proprio modo di vivere e di pensare è qualcosa che non si può fare a meno, che non si può evitare, sapere che degli individui dalle capacità sovrumane sono dalla loro parte è un forte deterrente per dare fiducia a un popolo che deve entrare in guerra.
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E così nasce capitan America, un uomo qualunque che, grazie a conoscenze scientifiche, il suo corpo viene potenziato fino all'inverosimile. Ma anche se la guerra finisce, i supereroi non vengono mai a mancare, ne nascono persino di nuovi e con poteri sempre più strani, bizzarri direi.
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Spider-man, i cui poteri sono acquisiti da una ragazzo che viene morso da un ragno radioattivi. I cui poteri acquisiti sono proprio quelli di un ragno, che vanno dalla capacità di camminare su tetti a testa in giù e pareti verticali, alla forza sovrumana e in fine alla capacità di sparare/tessere ragnatele, insomma, un vero e proprio ragno umano.
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I fantastici 4, nati dall'acquisizione di strane capacità come la donna invisibile, l'uomo di gomma, la cosa, ovvero l'uomo di pietra arancione dalla forza sovrumana, la torcia umana che brucia come una stella. Sono quattro persona comuni che acquisiscono le loro capacita sovrumane andando nello spazio vengono colpiti da una forte dose di radiazioni solari che li fa mutare, ovvero li fa diventare quei supereroi con capacita sovrumane.
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L'incredibile HULK, l'essere dalla forza sovrumana e incalcolabile, poiché aumenta a dismisura affrontando nemici sempre più potenti, possiamo definirlo l'umanoide dalla pelle verde e dai muscoli super-massicci. Proporzioni e aspetto che assume quando il personaggio, uno scienziato che conduceva esperimenti sulla nanotecnologia viene investito da radiazioni gamma, che invece di ucciderlo lo trasformano nell'essere dalla pelle verde e dalle capacità fisiche inimmaginabili. Questo avviene perché da piccolo il padre conducendo esperimenti sulla genetica, si accorge di aver coinvolto il figlio involontariamente, manipolazione genetica che sembrò non avere conseguenze ma che in seguito si attivarono con le radiazioni gamma.
Questi sopra riportati di certo non sono gli unici supereroi creati dalla fantasia dell'uomo in un periodo di oltre cinquantanni, la lista è molto lunga e di certo non posso riportarli tutti in questo articolo, non ne conosco il numero esistenti ma sono certo che verrebbe  fuori un volume alquanto consistente.
Non mi è facile dare una spiegazione a questo bisogno innato di noi esseri umani a credere, desiderare, nella soprannaturalità, a qualcosa che vada oltre a ciò che si vede e che si sente, ovvero all'esistenza di un piano superiore della vita terrena, come se ciò desse un senso concreto, compiuto al vivere di ognuno di noi. Eppure, nessuno ha mai assistito a quei fenomeni paranormali di cui parlano, nessuno è stato mai testimone di quegli eventi ultraterreni di cui si narra in certi manoscritti definiti sacri, tanto meno ci sono prove concrete di quello che narrano ma solo testimonianze, spesso, quasi sempre, indirette. Come avviene nelle apparizioni mariane riferendomi a Madjugorje, la veggente, circondata da tutti i fedeli che credono fervidamente a quello che lei vede e sente, è l'unica ad avere un contatto con la così detta signora, ovvero la madre di Gesù di Nazareth. Qui non parliamo di fenomeni avvenuti nel passato ma dell'odierno presenti, tutti assistono... a dire il vero nessuno vede e sente nulla a parte credere fermamente a quanto dice una donna di essere la messaggera della madonna che lascia lei dei messaggi da riferire loro.
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A nessuno viene il dubbio della veridicità di quanto dice quella donna? Mah, difficile credere che tutti quei fedeli siano così ciechi o così fiduciosi da non avere il minimo dubbio sulla sincerità di quella persona. Ma allora perché sono lì? Cos'è che li spinge a voler credere a tutti i costi a quanto dice quella persona? Perché mettere a tacere la propria coscienza pur di credere a tutti i costi ignorando che probabilmente si tratta di una truffa a tutti gli effetti? Come ho già detto prima, in noi c'è un bisogno innato, una necessità di credere a qualcosa che va oltre i nostri sensi, come dire che la realtà non può essere solo ciò che vediamo e sentiamo ma qualcosa che è in là delle nostre capacità poiché impercepibile ai nostri sensi, sensazione che nasce dal nostro inconscio a fenomeni cui assistiamo e non sappiamo dare spiegazione, come per esempio la morte; sapere che c'è qualcosa oltre quello che si vede e si sente ci da conforto e un senso compiuto alla vita stessa, poiché essa non finisce quando il corpo cessa di funzionare. Questo bisogno è talmente intenso che deve essere soddisfatto a tutti i costi, infatti si finisce per credere a ciò che gli altri raccontano anche se nell'evidenza dei fatti dovremmo capire che si tratta solo di una truffa ai loro danni.
Un bisogni innato, che a quanto pare siamo disposti a soddisfare a costo della nostra razionalità. Non c'è alcun dubbio che questo bisogno di supereroi, al pari di creature soprannaturali come gli dei, nascano dalla stessa mancanza che l'uomo ha dentro, quel vuoto che essi colmano con la loro presenza. Altrettanto vero, è, questi supereroi altri non sono che una  rielaborazione di quelle divinità, diciamo in versione moderna del ventesimo secolo. Mentre nel passato gli eroi dai superpoteri nascevano dalla congiunzione di esseri supremi con esseri umani, partorendo semi-divinità, oggi i supereroi sono creature, sempre umani, si, ma con capacità superiori i cui superpoteri sono acquisiti direttamente dalla natura e spiegati scientificamente. In poche parole, nel ventunesimo secolo si è perso il mistero, quella parte in cui ci sono cose che l'uomo non può spiegare poiché attribuiti a esseri supremi come le divinità, dato che la scienza è stata capace di spiegare molti di quei fenomeni naturali che in passato venivano attribuiti solo a capacità degli dei, capacità che l'uomo nella sua misera non poteva di certo comprendere e magari riprodurre; un che pensiero non riesce a scrollare di dosso fino al ventunesimo secolo, e l'avvento dei nuovi supereroi dimostra appieno che l'uomo è sempre più cosciente di sé e della realtà in cui vive.
Con la scienza l'uomo si spoglia della sua ignoranza, facendo luce in quelle tenebre che l'avvolgevano, dando spiegazione a tutti quei fenomeni di cui non capiva e non percepiva l'origine né la casualità; indicare ciò come volontà degli dei era l'unica spiegazione plausibile che poteva dare nella sua misera conoscenza di quei tempi. Ed è attraverso queste conoscenze che egli da origine ai nuovi super uomini che per capacità hanno ben poco di diverso da quelli del passato, a parte il non essere generati da divinità ma dalla scienza che quasi viene vista come qualcosa di soprannaturale, quasi divina ma tale divinità non viene più attribuita a esseri che sono al di sopra della stessa umanità ma a sé stessa.
L'uomo, nel ventesimo secolo diventa egli stesso divino, capace di comprendere la natura e di manipolarla a suo piacimento, creando cose e uomini che solo alle divinità in passato era concesso per via dei loro potere. Questo fondersi con il divino, fino a divenire egli stesso dio, lo si riscontra anche nelle nuove religioni monoteiste come il cristianesimo, il cristo, per esempio, è per metà umano e per metà divino. Adesso, invece, con la scienza, l'uomo non ha più bisogno del dio per ascendere, ma egli diviene cosciente del fatto che gli basta la conoscenza per avere quel potere che solo dio è in gradi di esercitare sulla natura. Rimane il fatto, però, che nonostante le conoscenze attuali acquisite, egli ha sempre bisogno di sentirsi superiore a quello che è, ma soprattutto, non abbandona di molto quell'architettura di pensiero che millenni fa lo accompagnava in tutto ciò che vedeva e analizzava della realtà che viveva. In poche parole, egli sente sempre il bisogno innato di qualcuno su cui sperare e pregare che lo aiuti in momenti in cui non sa che fare per risolvere problemi di fenomeni che non conosce. Sapere che c'è qualcuno che può proteggerlo da tutto quello da cui non sa difendersi e prevalere lo tranquillizza, per questo motivo quei supereroi sono nati, e si sono affermati, nei momenti più tragici della storia umana come la seconda guerra mondiale. Questo bisogno innato, lo si può definire una sorta di infantilità, che si porta dietro fino alla sua morte, ovvero quel bisogno di protezione, quel sopperire a tale necessità di cui non può fare a meno di sentire e chiedere.
Immagini non proprie tratte dal web
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intotheclash · 3 years
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Non più di un'ora dopo eravamo già in vista della casa del Maremmano. Avevamo spinto sui pedali con foga, senza lamentarci e senza troppe parole. Persino quella salita infame ci era sembrata meno infame della volta passata. E Schizzo ci era rimasto sempre a fianco, senza prenderci in giro, anzi, fingendo pure di faticare. Il primo che scorgemmo nel cortile fu Antonio, come si poteva non vederlo. Era a torso nudo e stava armeggiando con un trattore che doveva avere la stessa età di Matusalemme. Certo che era grosso, perdio! Non il trattore. Cioè, anche il trattore era grosso, ma Antonio metteva paura. A ripensarci, credo che anche Sansone in persona ci avrebbe pensato due volte prima di attaccare briga con lui. Appena si accorse di noi, lasciò andare gli attrezzi che stava usando, si pulì le mani sui pantaloni da lavoro e ci illuminò con un sorriso a trentadue denti. Cazzo, pure i denti mi sembrarono giganteschi.
"Ma bentornati, amici miei! Sono davvero felice di rivedervi." E felice lo sembrava davvero. E ci aveva anche chiamato amici! Non vedevo l'ora di tornare in paese e raccontarlo a tutti. Col cazzo che qualcuno avrebbe ancora osato trattarci male o, peggio, malmenarci. Se la sarebbero vista con lui. Se li sarebbe mangiati vivi! Ma quello non era un giorno per le fantasticherie, avevamo un dovere da compiere. Una missione. Tagliai corto ed imboccai la via maestra delle parole: "Ascolta, Antonio, siamo venuti a parlare con..." Mi interruppe prima di aver finito. "Pietro sta giù alla vigna, giovanotti. Deve zappare l'erba sotto a tutti i filari. E noi abbiamo una vigna sterminata. Si è beccato una bella punizione stavolta. Nostro padre ha avuto la mano pesante." Poi si abbassò sulle ginocchia e si guardò intorno con circospezione esagerata, tanto da strapparci un mezzo sorriso. "Credo che il vecchio voglia fargli pagare anche un po' delle mie colpe. Cose vecchie, di qualche anno fa. Ma, personalmente, posso farci ben poco, in compenso il vostro amico è uno tosto e se la caverà senza danni." Concluse, facendo l'occhiolino.
"Veramente non siamo venuti per parlare con lui. Non subito almeno. Siamo venuti per parlare con tuo padre." Mi voltai verso i miei amici, come a cercare conforto e appoggio. Loro annuirono contemporaneamente, indossando delle facce serie, adatte alla circostanza. "Dove possiamo trovarlo?"
Antonio si alzò in piedi, oscurando il sole. Cazzo, nella sua ombra ci stavamo comodi anche tutti insieme. Forse c'era abbastanza posto anche per qualcun altro. "Andiamo, è giù alla stalla che sta terminando di mungere le mucche. Vi accompagno."  Lo seguimmo in silenzio fino alla stalla. Lui si fermò sulla porta e ci fece segno di entrare. "qualunque cosa dobbiate dirgli, credo sia una faccenda privata. Vi aspetterò qui fuori, ma vi dico fin da ora che sono dalla vostra parte." Disse. E ci scompigliò i capelli, uno per uno. Uno per uno nel senso di ad ognuno di noi; non nel senso dei capelli. Entrammo in fila indiana, non ci prendemmo per mano solo perché era roba da femminucce, non che non ne avessimo avuto voglia. Il vecchio maremmano era seduto su uno sgabello di legno, con un secchio di metallo tra le gambe divaricate e le sue mani viaggiavano veloci sulle enormi mammelle di una mucca pezzata, che non sembrava affatto infastidita. Anzi, ogni tanto, si voltava a guardarlo, come a volerlo ringraziare. Segno che quelle tettone gonfie da scoppiare qualche problema glielo davano. Il vecchio ci dava le spalle e si accorse del nostro arrivo solo all'ultimo, quando potevamo quasi toccarlo. Si voltò di scatto e gli lessi la sorpresa sul volto, ma si riprese subito. Ci sorrise. Anche lui, come Antonio, sembrò felice di rivederci. "Che piacere vedervi ragazzi! Benvenuti di nuovo in casa mia. Cosa posso fare per voi?" Lo sapeva. Sapeva il motivo della nostra visita, ma non sapeva tutto.
"Siamo venuti per parlare con lei, signore." Dissi, non riuscendo ad impedire alla mia voce di tremare.
Smise di mungere, diede un colpo a mano aperta sull'enorme culone della mucca, che si avviò pigramente verso l'uscita della stalla, ci fissò uno per uno e rispose: "Bene, vi ascolto. Prima però perché non bevete un bicchiere di questo latte appena munto? E' delizioso e vi farà digerire meglio tutta la strada che avete dovuto fare per arrivare quassù." Non fece in tempo a terminare, che Bomba aveva già sposato la proposta, seguito a ruota dal Tasso, da Tonino e da Sergetto. A me non piaceva molto il latte, figurarsi quello appena munto, con quel sapore così prepotente, ma annuii lo stesso, per cortesia, senza troppo entusiasmo. Schizzo ci pensò sopra qualche secondo, a cercare parole che, evidentemente, non trovò, visto che disse, senza mezzi termini: "A me il latte fa schifo. Signore."
"Per prima cosa, non chiamarmi signore, sembra che tu voglia tenermi a distanza. E mi fa sentire più vecchio di quello che sono. Chiamami Giovanni, che è così che mi chiamano tutti. Anche perché è il mio nome. Seconda cosa: come può farti schifo il latte? Anche tu, come tutti noi, sei cresciuto grazie al latte. E sono sicuro che, da piccolo, non ti bastava mai."
"Si, ma ero piccolo. Ed era di mia madre! non era di mucca appena munta!"
"Certo, non era di mucca, ma a mungere, se mi lasci passare il termine, tua madre ci pensavi tu stesso e la tua voglia di diventare grande. Ma non serve discutere. Hai ragione anche tu: se non ti piace non devi berlo per forza." Prese cinque bicchieri da una vecchia credenza che, sicuramente, aveva vissuto momenti migliori, ed iniziò a riempirli. "Ditemi allora. Cosa volevate chiedermi?"
Ci fu un attimo di panico a quella domanda diretta, mi accorsi che le parole proprio non volevano uscire. Fu Tonino il più lesto a reagire: "Senta signor Giovanni, abbiamo saputo della punizione. Di quella che ha dato a Pietro. Siamo venuti a chiederle di ripensarci." Lui continuava a guardarci, ma senza parlare. Segno che c'era bisogno di altre parole. Dovevamo convincerlo. Tonino aveva rotto il ghiaccio, ora potevo proseguire: "Si, lui non merita di essere punito. Ci ha difesi, è stato coraggioso. Lo ha fatto per noi. Non ha avuto paura di battersi per una cosa che riteneva giusta. Ed era giusta, cazz...volo! E quelli erano in tre e lui da solo. E se le avesse prese, nessuno di noi si sarebbe sognato di dargli una mano. Me ne vergogno ancora, ma è così. Mai nessuno di noi ha mai osato  mettersi contro i grandi, invece Pietro le ha suonate a tutti e tre. Anzi, a due, perché il terzo se l'è fatta sotto. Merita un premio, non una punizione. Si è comportato meglio di tutti noi messi insieme. E' un amico vero! Per questo la preghiamo di lasciarlo andare. Basta punizione. Ma se non è di questo parere, se è deciso a continuare, allora punisca anche noi. Al campo c'eravamo tutti. Stavolta non ci nascondiamo e la punizione la dividiamo in parti uguali. Questo dovrebbero fare dei buoni amici." Parlai tutto d'un fiato, senza nemmeno una pausa. Forse evitando persino di respirare, per non permettere alle parole di nascondersi. Il vecchio ci fissò a lungo, quasi a voler saggiare la fermezza della nostra volontà. "Quello che hai appena detto ti fa onore giovanotto. Anzi, vi fa onore, perché immagino che la pensiate tutti allo stesso modo, vero?" Non ricevette risposte, ma i segni di assenso fatti con la testa non lasciavano spazio a diverse interpretazioni. "Si, lo immaginavo," Proseguì, "Sembrate decisi ad andare fino in fondo. Anche se, in cuor vostro, ne sono sicuro, sperate che non ce ne sia bisogno. Che mi commuova. Ma avete dato la vostra parola e, tra uomini, la parola è sacra. E' un impegno che va mantenuto a tutti i costi. Mai mancare alla parola data, è questo l'insegnamento che riceverete oggi. Ne va della vostra credibilità e della vostra dignità di persone." La cosa non sembrava prendere una bella piega. Si avvicinò ad una cassapanca tutta tarlata e ne tirò fuori una scatoletta di metallo, dalla quale estrasse un gigantesco sigaro toscano. Lo accese con esasperante lentezza fino a farne uscire una nuvola di fumo azzurrino e puzzolente. "Sapete già dove ho spedito il vostro amico?"
"Si, lo sappiamo, signor Giovanni." Rispose Tonino preoccupato.
"E sapete anche cosa sta facendo?"
"Sappiamo anche questo." Disse il Tasso, tradendo una crescente impazienza. Sembrava lo stesso gioco che fa il gatto con il topo. Con i topi, in questo caso. Eravamo tutti impazienti. Ci stava mettendo alla prova, ma se sperava che avremmo mollato, si sbagliava di grosso. Eccome se si sbagliava. Aveva intenzione di punirci tutti? Bene, che lo facesse allora. Anzi, male, ma non ci avrebbe messo paura. Tutti per uno! Ci indicò, con la punta del sigaro, un angolo ben preciso della stalla. "Laggiù ci sono cinque zappe, prendetene una a testa e raggiungete il mio ragazzo. Uno di voi rimarrà senza, così potrete darvi il cambio e riposarvi a turno. Su, andate, che c'è molto da fare. Ricordate che oggi si pranza alle due in punto. Vedo che non portate orologi, quindi regolatevi con il sole. Se non sapete come si fa, chiedete al vostro compagno di sventura, lui ha imparato." Dovette godersela un mondo ad ammirare le nostre facce smarrite. Non era certo quello il risultato che speravamo di ottenere quella mattina. Aveva ragione mio padre: il vecchio maremmano era bello tosto.
Ci fece un mezzo sorriso, non saprei dire se per confortarci, o per prenderci per il culo, poi ci congedò: " Andate pure, fuori c'è Antonio che sarà lieto di indicarvi la strada. Buon lavoro, ragazzi!" Si, ci stava decisamente prendendo per il culo.
"Buon lavoro una bella sega!" Pensai, mentre con la mia zappa in spalla uscivo mogio, mogio, dalla stalla.
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giancarlonicoli · 5 years
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27 MAR 2019 15:31
''SE AVESSI CONOSCIUTO GLI INTESTATARI DEI CONTI IOR, SAREI MORTO''. LA SECONDA, CLAMOROSA, INTERVISTA DELLE ''IENE'' A GOTTI TEDESCHI, EX BANCHIERE DI DIO, E QUEI 4 CONTI LEGATI ALLA FONDAZIONE MONTE DEI PASCHI. DAVID ROSSI PRIMA DI FINIRE GIÙ DALLA FINESTRA SI STAVA FACENDO RISTRUTTURARE LA CASA DALLA DITTA CHE FACEVA I LAVORI PER LO IOR E NELLE BASILICHE DI ROMA. COME MAI ARRIVAVA FINO A SIENA? FORSE PERCHÉ ROSSI FACEVA ANCHE LO SPALLONE DI FONDI NERI TRA IOR E MPS?
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VIDEO: L'INTERVISTA INTEGRALE A ETTORE GOTTI TEDESCHI
https://www.iene.mediaset.it/2019/news/david-rossi-ior-gotti-tedeschi-vaticano-nomi-pericolosi-morte_359671.shtml
Da www.iene.it, servizio a cura di Marco Occhipinti e Antonino Monteleone
“Mi sono sempre rifiutato di vedere i conti per non trovarmi un giorno in imbarazzo di fronte a un giudice che mi domanda: ‘che lei sappia ci sono questi conti’?'”. Continua l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sul caso David Rossi, dopo lo Speciale Iene di giovedì 21 marzo, con nuove eclatanti rivelazioni da parte di Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, la banca del Vaticano, tra il 2009 e 2012.
David Rossi, ex capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena, vola giù dalla finestra del suo ufficio, al terzo piano della sede centrale della banca, il 6 marzo 2013. Si è trattato di suicidio, come stabilito con due archiviazioni dalla magistratura, o è stato ucciso, come sostiene la famiglia?
Nello speciale, che vi riproponiamo qui sotto nelle sei parti in cui è diviso (clicca qui per vederlo integralmente), abbiamo ripercorso tutti i dubbi che avvolgono la morte di David Rossi, dai quelli sul video della sua caduta mortale ai dubbi su alcuni aspetti delle indagini, ascoltando anche la testimone Lorenza Pieraccini, che dice di non essere mai stata sentita dalla Procura, come invece risulta agli atti, e valutando la storia dei festini a base di sesso e droga raccontata da un escort. Fino alle clamorose rivelazioni fatte proprio dall’ex presidente della banca del Vaticano, che ha parlato non solo della possibile esistenza di tangenti e soldi sporchi, ma ha addirittura lasciato intendere che uomini interni alla Curia vaticana potrebbero essere capaci anche di commissionare un delitto.
È proprio Gotti Tedeschi a fare nuove clamorose dichiarazioni nell’intervista che vedete qui sopra. Nel primo incontro tra la Iena e l’ex presidente dello Ior, Monteleone gli ha chiesto dei quattro conti correnti che sarebbero stati aperti presso la banca del Vaticano e che sarebbero riconducibili a uomini della Fondazione Mps. “Credo che fosse vero”, risponde l’ex presidente dello Ior sull’esistenza di questi conti. “Sono tangenti mi pare evidente”, dice, come avete visto nella sesta parte dello speciale che abbiamo dedicato al caso.
Dopo la prima intervista, Antonino Monteleone è tornato da Gotti Tedeschi, per capire come fosse possibile che l’allora presidente dello Ior non sapesse nulla sulla presunta esistenza di quei conti. Le dichiarazioni di Gotti Tedeschi a riguardo sono davvero clamorose.
“Mi sono sempre rifiutato di vedere i conti”, dice Gotti Tedeschi alla Iena. Come faceva a non occuparsi di tutti i conti e della loro provenienza, proprio lui che, come ci ha detto nell’ultima intervista, era stato chiamato da Papa Benedetto XVI per “ripulire lo Ior”? “Io non ho mai voluto vederli. Non era il mio compito”, risponde l’ex presidente. “Il mio incarico era di attuare le necessarie procedure per fare trasparenza, e mi fu anche detto: ‘lascia proprio stare la curiosità naturale di guardare di chi sono i conti’, infatti io non volli mai sapere”.
E perché non ha mai voluto sapere? “Se tu hai visto i conti e dici al giudice di chi erano i conti, quelli veri, la tua famiglia dove la metti?”, dice Gotti Tedeschi alla Iena. “A proteggerla, ci vuole il più grande sistema di protezione che si possa immaginare” e nomina il giornalista Mino Pecorelli. “Si ricorda perché è morto?”, chiede a Monteleone. “Ha messo le mani su che cosa? Sui nomi”. Monteleone gli fa notare che sapere chi ha i soldi allo Ior è un potere.“Sarei morto”, risponde l’ex presidente della banca del Vaticano.
Perché le dichiarazioni di Ettore Gotti Tedeschi sono così rilevanti? Primo perché mentre era presidente dello Ior, Gotti Tedeschi era stato a capo per l’Italia di Santander e partecipò all'acquisto per conto di quell’istituto della Banca Antonveneta, che è stata poi rivenduta nel 2007 a Monte dei Paschi innescando ripercussioni negative a catena sulla banca senese che venne travolta da una bufera mediatica e finanziaria. Quella durante la quale muore David Rossi, volando giù dalla finestra del suo ufficio.
L’ex presidente dello Ior, nell’ultima intervista andata in onda, ci ha detto di non ricordarsi di lui. Su una foto scattata dalla polizia scientifica il giorno del dissequestro dell’ufficio di David si vede un biglietto sulla scrivania con scritto a penna il nome "Ettore Gotti Tedeschi" e il suo numero di cellulare. I due si dovevano parlare? Nel caso, chi aveva cercato chi e, soprattutto, perché l’allora capo dell’area comunicazione di Mps doveva parlare con il presidente dello Ior?
Si tratta solo di una coincidenza? Davvero Ettore Gotti Tedeschi non conosceva David Rossi? Esistevano davvero quattro conti riconducibili a uomini della Fondazione presso lo Ior? E chi poteva sapere i nomi legati a quei conti? Sono solo alcuni dei dubbi che legherebbero il Monte dei Paschi e David Rossi alla banca del Papa.
Ecco per esteso l'intervista inedita a Ettore Gotti Tedeschi.
“Mi sono sempre rifiutato di vedere i conti proprio per questa ragione. Per non trovarmi un giorno in imbarazzo di fronte a un giudice che mi domanda che lei sappia ci sono questi conti? Io non ho mai voluto vederli".
Cioè è come se lei fosse un pilota di Formula 1 che si rifiuta di guardare cosa c’è nel cofano della sua monoposto?
"Esattamente”.
È un po’ spericolata come cosa.
"Non era il mio compito. Primo perché non sono un meccanico, se anche avessi aperto il cassone, avrei dovuto avere competenza per la meccanica. Io so guidare la Formula 1. Non significa saper cambiare le gomme".
Però siccome è lei che guida...
"Ho avuto un incarico…estremamente preciso, direttamente dal Papa. Quello di attuare le necessarie procedure, per fare la trasparenza. E mi fu anche detto lascia proprio stare la curiosità naturale di guardare di chi sono i conti, infatti io non volli mai sapere".
Però c’è una cosa che lei mi ha detto, io non volevo sapere chi erano i nomi, perché…
"Su questo non deve dubitare…".
"No no non dubito…".
"E non li so!".
Ma se io avessi avuto un mandato da Sua Santità Benedetto XVI di…
"Eh, come è stato…".
Io ho bisogno di ripulire questo istituto. Come si concilia il mandato per la trasparenza assoluta senza entrare a gamba tesa su chi ci ha messo i soldi.
"No no no… le rispondo, a poco a poco dal 2001 al 2008 sono stati chiusi tutti i paradisi fiscali nei Paesi, chiamiamoli democratici, non canaglia. va bene? si ricorda San Marino?
Certo…
"Bene. Quale era l’unico e ultimo aperto? Quello all’interno dello stato della Città del Vaticano. Benedetto dice: se noi non ottemperiamo ai criteri di massima trasparenza esemplare, mettiamo a repentaglio la credibilità della Chiesa e del Papa. Dottore vada, faccia quello che deve fare. Santità, devo fare una legge antiriciclaggio. Devo fare delle procedure e un’autorità di controllo che controlli che le procedure alla lettera vengano applicate. Vada! Cosa ho detto: come faccio io a evitare che ci siano dei conti intestati a chi non devono essere intestati? Transazioni che non devono essere fatte, cosa faccio? Senza voler andare a vedere chi li ha fatti fino al giorno prima. Faccio una legge che dice: da oggi chi li fa è un fuorilegge. Ma ha capito?"
In questo modo come si fa a sapere: noi abbiamo i soldi della mafia nelle casse dello Ior?
"Ma non voglio saperlo!".
Eh però se vogliamo toglierli quei soldi bisogna saperlo se ci sono, sennò ce li teniamo, è un gioco strano.
"No, lei mi sta chiedendo delle cose talmente, scusi eh, per me talmente semplici e banali. Io non dovevo guardare i conti. Non dovevo".
Ma chi li guardava?
L’unica persona al mondo che io sappia che conoscesse i conti di chi erano era Cipriani, Tulli e Mattietti.
Qui Gotti Tedeschi sostiene che gli unici a sapere di chi erano i conti fossero l’ex direttore aggiunto dello Ior Giulio Mattietti, licenziato nel 2017 con l’accusa di avere tradito la fiducia del Papa. E insieme a lui Paolo Cipriani, ex direttore generale, e Massimo Tulli, il suo vice. Entrambi condannati a risarcire 47 milioni allo Ior per danni in primo grado. Mentre Gotti Tedeschi, che era il Presidente, afferma che di chi fossero quei conti non ne avrebbe saputo niente.
Ma perché lei rinuncia ad avere informazioni che ha una figura all’interno dell’istituto che le è sottoposta.
"Allora stia a sentire. Lei fa il giornalista d’inchiesta, si ricorda perché è morto Mino Pecorelli? si ricorda chi era?".
Sì certo faceva…
"Si ricorda perché è morto? ha messo le mani su che cosa? sui nomi. allora..."
Cioè lei mi sta dicendo che chi mette le mani sui nomi schiatta.
"Cosa mi viene detto? me lo ricordo come se fosse adesso: non volere mai sapere, non andare a cercare... se ti vengono a dire le facciamo vedere rifiutati di vedere. Per due ragioni. La prima, che prima o poi succederà uno scandalo allo Ior, tu verresti immediatamente interrogato. Ti dicono lei ha guardato i conti? Tu dici: sì che l’ho guardati. Allora ci dica di chi sono i conti. Oppure tu dici non li ho guardati, hai mentito perché li hai guardati, in tutti e due i casi tu sei morto. se tu hai visto i conti…"
Professionalmente?
"… e dici al giudice di chi erano i conti, quelli veri, la tua famiglia dove la metti? a proteggerla ci vuole il più grande sistema di protezione che si possa immaginare. seconda ipotesi: tu li hai visti ma dici noooo, non li ho visti, ti arrestano, perché sanno perfettamente che li hai visti!"
Tutti pensano di lei, cazzo Gotti Tedeschi sa chi c’ha i soldi allo ior. Cioè, che potenza…
"Sarei morto. non, si potrebbe aver recitato molti requiem…".
Se Gotti Tedeschi fosse stato più spericolato, lei mi dice sarebbe morto...
"Senta…"
Ma morto professionalmente o morto schiattato, cioè morto... morto
"Ehhhhhhh… lei deve riflettere sulla morte di quel giornalista".
Pecorelli.
"Vada a rileggersi i giornali dell’epoca e vada a riflettere, cioè, se lei sa dei nomi e li dice nel modo sbagliato, alla persona sbagliata e questi nomi potrebbero non gradirlo, avere un segreto è un’arma a doppio taglio. Se lei è forte le permette di influenzare gli altri. Se lei è debole o decide di essere debole... lei è morto".
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Giulia Carcasi.
“Non ci rivolgeremo parole, neanche sguardi. 
Faremo finta di niente, come se si potesse fare finta di niente.” Io sono di legno - Giulia Carcasi “Perché quando trovi l’amore puoi fare tutto, puoi anche contare le stelle.” “Ho paura che un giorno, dopo esserci tanto mancati, ci chiederemo se potevamo fare qualcosa concretamente invece di mancarci senza fare niente” Tutto Torna - Giulia Carcasi “Lo so che si dice "l'ho amato con tutto il cuore”, ma io l'ho amato anche con i reni e la milza e lo stomaco, l'ho amato come solo una folle ama.” Io sono di legno “Ti ho amato perché certe volte non riuscivo a essere forte, volevo solo scivolarti tra le braccia e sentirti dire tutto passa, tutto passa, pure se non era vero, tutto passa, tranne noi, certo, tranne noi.” Giulia Carcasi, Perché si dice addio Mi manca Luca. Mi manca come il sale nella pasta. Mi manca come il giacchio nel vino caldo. Mi manca come lo zucchero nel caffè. Ma non glielo dirò e non lo darò a vedere. -Io sono di legno “Le ferite sulla pelle si rimarginano in fretta, l'epidermide si rinnova di continuo, contiene molte cellule staminali, sono cellule pronte a rimpiazzare quelle morte, sono le seconde schiere di un battaglione. Il guaio è che nel cuore di queste cellule miracolose non ce ne stanno. Hai una sola fila di soldati. E amen.” Io sono di legno “Ho scoperto di avere mani, quando me le hai prese, di avere labbra, perchè tu le baciavi. Di essere donna, ogni volta che mi hai spogliato.” Io sono di legno. Giulia Carcasi “Avrò paura di perderti e per questo ti odierò.” Giulia Carcasi “Il legno sembra fermo, ma è sottoposto a pressioni interne che lentamente lo spaccano.
La ceramica si rompe, fa subito mostra dei suoi cocci rotti.
Il legno no, finché può nasconde, si lascia torturare, ma non confessa.
Io sono di legno.” Io sono di legno, Giulia Carcasi “Io penso che quando si perde qualcosa non ci si è badato abbastanza, perché se ci tieni veramente ci stai attento, te la leghi stretta.” Giulia Carcasi, Ma le stelle quante sono. “Solo chi manca può riempire il vuoto che ha lasciato.” Tutto torna “So che incontrarti sarà più doloroso che non incontrarti affatto” Tutto Torna - Giulia Carcasi Perché io ti ho amato con tutto il cuore, con i magoni, l'insonnia, le chiamate senza risposta e gli occhi gonfi. Quando un giorno ti chiederanno di me so per certo che non penserai al mio volto, alle promesse, ai ritardi e ai tuoi sbalzi d'umore, ma al fatto che ne sarebbe valsa la pena. -Io sono di legno “Io penso che un tuo bacio può valere le macerie in cui forse un giorno mi lascerai.” Giulia Carcasi “La mia testa s’incastra a perfezione sulla sua spalla, è quello il suo posto. I corpi non sono fatti per stare da soli, l’amore è un gioco a incastro. Devi trovare il pezzo giusto, devi inciampare e continuare a cercare, come il mare, che abbraccia la sua spiaggia, perché senza di lei non ci sarebbe lui.” Giulia Carcasi-Ma le stelle quante sono “Il mio professore di fisica dice che l'universo tende al disordine, le molecole si allontanano ogni giorno di più una dall'altra. Io penso che anche le persone funzionano così, ogni giorno si disperdono fino a non ritrovarsi.” Giulia Carcasi, Io sono di legno “Il brutto dei cuori spezzati è questo: che non ci puoi buttare sopra l'acqua ossigenata e soffiare mentre le bollicine camminano sulla ferita, che puoi solo tenerti i cocci. E non ci stanno operazioni e non ci stanno medicine che li possono rimettere insieme, te lo devi tenere così il tuo cuore, rotto.” Giulia Carcasi, ‘Ma le stelle quante sono’ “Quanto dureremo? Un mese? Un anno? Una vita?
Però ne vale la pena. Io e lei, pure un'ora.” Vorrei che le parole per me non avessero tutta questa importanza, vorrei che non m'incatenassero a chi le dice, a chi le a dette. E maledico i ricordi felici perché fanno più male di quelli feriti. -perché si dice addio Ricorderò di lui, quello che è stato e quello che non sarà, quello che avrei voluto e non c'era. -Ma le stelle quante sono Le storie sono come le persone. Non sono fatte per stare da sole. -Ma le stelle quante sono “Perché è istintivo pensare che se corri avanti ti sarà più facile non voltarti indietro. Perché pensi che più vai lontano e più vedrai piccolo e distante quello che ti sei lasciata alle spalle. Ma le regole della prospettiva non sono valide in amore.” Giulia Carcasi, Ma le stelle quante sono. “Tu lo senti battere il mio cuore? 
Io no, si dev’essere scaricato. 
Anzi, forse il fantasma di un battito c’è. E ci sarà ancora per un po’. 
Mi toccherà ricordare di lui e sarà triste o forse sarà bello, sarà ridicolo o forse sarà serissimo. 
Ricorderò di lui, quello che è stato e quello che non sarà, quello che avrei voluto e che non c’era. 
Stanotte, però, ti faccio una promessa: non mi farò più prendere in giro, non mi farò bella per un appuntamento, non aspetterò una telefonata che non arriva mai, non mi metterò a immaginare i sorrisi, i nasi, i capelli di possibili amanti, non morirò di crepacuore, non mi chiederò se vorrà un bacio o di più, se è poi davvero il caso di perdere la testa. 
Amerò le canzoni, i libri, il mare, gli alberi, i tramonti.. so che saranno sempre lì per me.” Giulia Carcasi “Mio padre mi guarda preoccupato, poi sorride.
“Sai Alice, comunque passa tutto..”
“Ma papà, è il mascara!”
“Si, ho capito,però voglio dirti che pure se ora ti brucia,vedrai che tra un po’ quel bruciore se ne va. Ora vai a casa e te lo sciacqui, domani lo risciacqui e vedrai che passa. Tutto passa..”
“Pure l'amore passa papà? Pure quello?”
“Pensa a toglierti il mascara adesso”” Ma le stelle quante sono “Zia Flavia ha una cicatrice lunga, le parte da sotto ai seni, a metà strada fra i due, e arriva fino alla pancia. L’ha operata mio padre molti anni fa. Lei dice che la sente tirare quella ferita, ma l’ha fatta vedere a mille altri medici e quelli le hanno risposto che la cicatrice è perfetta, meglio di così non poteva essere. Allora mi chiedo: perché prova ancora fastidio? Mia madre mi ha spiegato che capita, ci sono pazienti che sentono il dolore dove non può esserci. Se togli a un uomo la gamba destra, anche a distanza di anni, ci saranno giorni in cui ti dirà che sente la gamba stanca, sì, la destra, gli farà male, proprio la destra. Possiamo smettere di parlarne, possiamo fare in modo che gli altri smettano di parlarne, possiamo annullare una parte di noi e andare avanti, ma il corpo ha una memoria infallibile, si ricorda la sensazione di gambe e braccia anche quando non ci sono più. Si chiama ‘sindrome dell’arto fantasma’. Mia madre dice che è il dolore di una parte che manca, lo chiama 'il dolore dell’assenza’.” Giulia Carcasi, Io sono di legno “Mentre le ragazze della mia età facevano coi maschi prove di volo, io facevo prove di abbandono. Dopo venti giorni di cinema, pizza, normalità, avvertivo l’urgenza di non vederli più. Ricorrevo all’addio tramite sms: “Non funziona”, come se si trattasse di un elettrodomestico. Un introverso mi rispose con uno squillo e sparì nel nulla. Un logorroico mi scrisse una lettera di cinque pagine in cui mi avvertiva che un dipendente era stato risarcito dall’azienda perché licenziato tramite sms, concludeva con: “Quanti danni morali dovrei chiedere io a te?”. Ora fa l’avvocato. Un ricco mi comprò un cellulare molto costoso per convincermi a richiamarlo. Non accettai: mi piacciono i regali, non gli investimenti. Ora lavora in Borsa. Un mammone, che mi aveva invitato a casa sua per presentarmi, mi rispose: “Mia madre ha preparato il pranzo, che le dico?”, gli consigliai di dirle che non avevo appetito. Ora le presentazioni le fa al ristorante. Con loro ero stata prevedibile, inaffidabile, seriale: mai una foto insieme, una promessa, un ripensamento.Eppure, se li incontravo per caso, ci tenevano a fermarmi, volevano a tutti i costi offrirmi un caffè, azzardavano un contatto, mi chiedevano perché fosse finita, io mi chiedevo perché fosse iniziata, perché non m’insultassero, perché non sentissero l’oltraggio, l’orgoglio, l’abbaglio. Me ne ero andata prima della fine: io per loro non avevo fatto in tempo a diventare stanchezza, ero rimpianto, voglia intatta e loro per me non avevano fatto in tempo a diventare mancanza. Ti ho conosciuto in una pizzeria, a una cena universitaria. Stavi seduto accanto a una ragazza, lei era di Latina, ma sosteneva che sua nonna era regina d’Etiopia, tu la guardavi perplesso. Ho preso posto accanto a te, ho pensato: sei tu. Un giorno quando racconterai ad altri il nostro inizio dirai che stavi parlando con una principessa ed è venuta a infastidirti una ‘zanzarina’, io ti dirò zanzarina a chi?, ma nei tuoi diminutivi sentirò il sollievo di non dover essere grande. Ci siamo rivisti un diciotto maggio alle diciotto, alla fine delle lezioni mi aspettavi. Hai chiesto il mio numero di telefono a un’amica comune e io l’ho rimproverata per avertelo dato. Paura di te, delle nostre notti passate a passeggiare a vanvera per Roma. Sai? mi sembra che certe piazze e certe strade le abbiamo viste solo noi, non le ho più trovate. Mi hai portato in ristoranti sofisticati, ma dal Cinese ti sei fatto coraggio e m’hai baciato. Due giorni dopo ho provato a lasciarti: ‘Non funziona’, ti sei piantato sotto casa mia, hai pianto, hai detto: «Aggiustiamola» e ci abbiamo provato. A insegnarmi come si tiene e si lascia tenere una mano ce n’è voluto, io bravissima a scansare, mi prendevi la mano, indicavi un’insegna e dicevi «tienimela fino a lì, manca poco». Ho cominciato a cercare la tua mano prima che tu prendessi la mia. Abbiamo noleggiato cento film, non ne abbiamo seguito uno, abbiamo smesso di camuffare i nostri difetti, la discesa del mio naso, la tua altezza, i tuoi capelli arrabbiati, i miei più arrabbiati dei tuoi, il tuo ginocchio, la cicatrice che ho vicino all’orecchio, «bella questa malformazione» hai detto passandoci il dito sopra ed era come se la disegnassi tu in quel momento, ti ho detto «allora è una benformazione» Abbiamo costruito un vocabolario nostro, di parole minuscole ed esagerate, di progetti fatti, un figlio coi capelli inevitabilmente arrabbiati e i denti a perle, tu gli insegni a guidare la macchina ma io gli dico di andare piano, io gli scrivo le favole, tu gli spieghi come si sogna. I venti giorni erano scaduti da mesi, anni, non tenevo più una contabilità precisa. La voglia restava intatta e cresceva invece di diminuire. E mi mancavi anche quando c’eri. Mi hai dato un anello e ti ho detto «è largo» senza nemmeno provarlo. In chiesa ci tenevi ad andare insieme, io non ero praticante, non lo sono, però una volta ti ho accontentato. Il prete recitava il primo comandamento: ‘Non nominare il nome di Dio invano.’ Il nome di Dio invano non l’avevo mai fatto, ma di addio invano ne avevo detti tanti e dentro di me ho giurato di non aggiungerne un altro. La nostra prima foto ce l’ha scattata un marocchino. Io ho provato a dire no, niente foto, ma tu ci tenevi, hai fatto quella faccia, quando facevi quella faccia io pensavo sempre ‘perché no?’. È il mio compleanno, mi hai regalato il bracciale col cuore, quello che guardando una vetrina ti ho detto che mi piaceva e tu sei stato attento. Siamo nella stessa immagine: io pallida, quasi trasparente, tu scuro; io col broncio costante, tu che sorridi e non serve chiedertelo. A guardare bene, ci separa un’interruzione, un precipizio, uno strappo netto: l’ho fatto io una sera in cui volevo cancellare le nostre prove e un attimo dopo già l’aggiustavo con lo scotch. La foto l’ho messa in una scatola insieme al bracciale col cuore, all’anello, a tutte le lettere e le parole che non c’assomigliano più. Ma forse un gesto è solo un gesto e una frase è come tante, è chi la sente a caricarla di significato,cerco di convincermi ogni volta che un ragazzo mi fa una carezza, le mani sono mani, le tue, le sue, quelle di un altro,che differenza fa?, lui segue i miei lineamenti, scende sul collo, poi risale, si sofferma sulla cicatrice che ho vicino all’orecchio, penso: la benformazione, e scanso la sua mano infastidita. Vorrei che le parole per me non avessero tutta questa importanza, vorrei che non m’incatenassero a chi le dice, a chi le ho dette. E maledico i ricordi felici perché fanno più male di quelli feriti. Mi tornano in mente le vacanze estive, l’immagine di me bambina, il bagno al largo. Gli altri nuotavano dandosi slancio in lunghezza, con movimenti fluidi si mischiavano alle onde, seguivano la corrente, io m’immergevo quasi perpendicolare all’acqua, spingevo coi piedi, tenevo il respiro, volevo misurare il fondo, toccarlo, prendere una manciata di sabbia e portarla in superficie. Risalivo in modo scomposto, gli occhi rossi, il fiato grosso, stringevo la sabbia bagnata in pugno e mi sentivo più forte,sapevo cos’era il fondo, ero capace di toccarlo e risalire, la corrente fino a quel punto era un pericolo che sapevo gestire. Ho la gastrite ma la Coca non rinuncio a berla: me la facevi trovare già sgasata, prendevi un cucchiaino e le davi una girata. Ti ho amato per queste accortezze, per le sciocchezze che mi venivano concesse, perché non volevo essere saggia, volevo essere stronza e ragazzina. Ti ho amato perché certe volte non riuscivo a essere forte, volevo solo scivolarti tra le braccia e sentirti dire tutto passa, tutto passa, pure se non era vero, tutto passa, tranne noi, certo,tranne noi. Ti ho amato perché se non mangiavo avevo qualcuno che mi sgridava, perché mi mettevi a tradimento lo zucchero nel tè, perché se mi estraevano i denti del giudizio e avevo la faccia gonfia, mi volevi baciare uguale, perché insistevi per vedere i film horror e poi eri il primo a spaventarti, perché dopo un anno ancora ti spiegavo come arrivare a casa mia e tu alzavi gli occhi e ripetevi «la strada la so». Perché se camminavamo per strada curvavi le spalle per sembrare più basso e io salivo su ogni gradino possibile, perché se mi abbracci scompaio, perché una volta in macchina, mentre ci stringevamo, ti sei scordato d’inserire il freno a mano e abbiamo tamponato, perché quello che era normale diventava speciale, perché eravamo uno pure se eravamo due, ma soprattutto ti ho amato perché tu mi hai amata. Paura di te, della corrente. Eravamo al largo, così al largo, dov’era il fondo? dove la fine? Sempre meno mia e sempre più tua. Dov’era il controllo? Dove l’autonomia? Da quando ti ho lasciato, con un sms, mi comporto come se potessi incontrarti ovunque: a una mostra, una presentazione, in qualunque luogo pubblico mi trovi, tengo fisso lo sguardo sulla porta, aspettando di vederti entrare, cerco di farmi trovare sorridente, in buona compagnia, tra persone di successo e se qualcuno mi parla sottovoce e si fa audace, penso: se solo entrassi adesso, adesso, in questo momento, sarebbe un quadro perfetto. Da quando ti ho lasciato, ogni mio momento è recitato come se tu dovessi assistere. Lavoro vicino casa tua, ma allungo la strada per non passare lì sotto, ho il terrore d’incontrarti insieme a qualcuna, le tue mani sui suoi fianchi, vedervi attraversare la strada in fretta, con la certezza di finire sul letto e addormentarvi stanchi. Ma ci s’incontra anche in una città enorme e senza farlo apposta: ci vediamo all’ospedale, io sono radioattiva, ho appena fatto una lastra, tu esci da un esame. Non ci tieni a fermarmi, non mi offri il caffè, a stento un cenno, mi dici parole indegne di te e di me, di noi,vorrei spiegarti, ma spiegarti cosa?, che la paura dell’abbandono fa fare cose assurde, che per paura di sentirsi dire addio un giorno, si pronuncia per primi e subito, mi chiedi «come stai?» e finalmente lo ammetto, «male», mi guardi tutta e dici «non sembra», «tanto tu sei forte, sei saggia», sì, io sono forte, sono saggia, «tu non ce l’hai il cuore come tutti gli altri», già, io non ce l’ho il cuore come tutti gli altri, perché io ne ho uno solo di cuore, gli altri ne hanno almeno uno per ogni occasione. Mi accompagni alla macchina, salgo, provo a mettere in moto. Niente. Provo di nuovo, provi anche tu ma il risultato è lo stesso. Non ho vinto io, non hai vinto tu. Spingiamo la stessa macchina che non è partita, non ha funzionato e non si sa perché, dev’essere la batteria, la benzina c’è, i presupposti per andare lontano c’erano. Spingiamo e parliamo, le tue parole affilate, le mie così vaghe. Penso: ti sto dicendo mille frasi adesso, ma vorrei dirtene solo una e non riesco.” Giulia Carcasi, Perché si dice addio.
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intotheclash · 6 years
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CAPITOLO 8
 "Ma'! Io esco!" Gridai, con ancora in bocca l'ultimo pezzo di ciambellone mezzo masticato.
"Hai finito di fare colazione?" Urlò di rimando mia madre, impegnata a stirare le camicie di mio padre, nella stanza da bagno trasformata, per l'occasione, in lavanderia.
"Si, mamma!"
"Bene, allora metti la tazza nel lavandino e vai. Ma ricorda di tornare per l'ora di pranzo. Puntuale, altrimenti tuo padre te le suona un'altra volta."
"Contaci, ma'. Ciao!" E uscii alla stessa maniera di sempre: scaraventandomi giù per le scale.
Erano le nove e trenta di una bella mattinata di sole. La giornata prometteva bene, sperando che poi avrebbe mantenuto. Trovai i miei amici al solito posto, ad attendermi, seduti sui gradoni della fontana di Piazza del Castello. Il nostro quartier generale. "Forza, Pietro! Sei sempre l'ultimo ad arrivare. Manco fossi la sposa!" Fu la calorosa accoglienza di Tonino.
"Veramente sono il penultimo. Che fine ha fatto Bomba? E' sempre il primo ad arrivare!" Risposi, non potendo fare a meno di notare l'ingombrante assenza.
"Bomba non viene."
"Come non viene? Che cazzo vuol dire? Dai, andiamolo a chiamare, altrimenti facciamo tardi."
"Ma che sei diventato sordo? Ho detto che non viene. I suoi lo hanno messo in punizione. Non lo fanno uscire. Ci ha già provato il Tasso a chiamarlo. Dai Tasso, raccontaglielo." Lo esortò Tonino.
"E' vero, Pietro, ci sono passato prima di arrivare qui. E quella stronza della madre mi ha pure tirato un secchio d'acqua dal balcone!" Disse il Tasso cercando di assumere l'espressione più innocente di cui fosse capace.
"Ma che è ancora incazzata per la storia del fiume? Dai, racconta come è andata!" Lo esortai. Sapevo che poteva essere una storia divertente. Del Tasso non c'era mai da fidarsi, gliene succedevano di tutti i colori.
"E' andata così: stamattina mi sono svegliato presto e quando sono arrivato alla fontana, non c'era ancora nessuno. Ho pensato che fosse strano, Bomba arriva sempre una mezz’ora prima di noi tutti. Allora sono andato a vedere se gli era successo qualcosa. Ho suonato il campanello, una decina di volte, ma niente. Non si è affacciato nessuno."
"Allora cosa hai fatto?" Domandò Schizzo, anticipandomi. Gli altri lo guardarono stupiti e ridacchiando. Io lo guardai e basta. Il Tasso invece, strano a dirsi, si incazzò e disse: "Ma cosa cazzo dici: e allora? E allora sei tutto deficiente! A te l'ho raccontata appena dieci minuti fa la storia!"
"Ero distratto, non ho sentito la fine."
"Ma se hai pure riso!"
"E allora? Ridevano tutti, ho riso pure io! Mica sono scemo!"
"No che non sei scemo, lo sanno tutti. Sei deficiente! Sei matto come un cavallo, Schizzo. Ecco cosa sei." Ora il Tasso era davvero inferocito.
"E piantala! Finisci di raccontare." Lo esortai.
"Dunque, visto che, secondo me, il campanello non funzionava, ho iniziato a gridare forte: Bomba! Bomba! A quel punto è uscita fuori quella stronza della madre. Era una furia. Mi ha guardato a brutto muso e mi ha detto: "Che cavolo hai da urlare, maleducato? Cosa cerchi?" "Cercavo Bomba, avevamo un appuntamento." Risposi. Non l'avessi mai detto! Si è incazzata come una biscia. Faceva la bava dalla bocca, tanto era cattiva. "Brutto teppistello balordo," Mi ha risposto, inviperita, "Mio figlio ha un nome e non è quello che hai usato tu. Vedi di ficcartelo bene in quella tua testolina di legno. E non venire mai più a chiamarlo. Non voglio che esca con voi piccoli delinquenti. Ieri è tornato a casa bagnato fradicio e ora i vestiti gli vanno stretti, tanto si sono ritirati." Non ci ho visto più e gliele ho cantate: "Guarda che a tuo figlio, i vestiti gli andavano stretti pure prima! Lo ingozzate come un maiale!"
Ragazzi, dovevate vederla! E' diventata paonazza, le si sono gonfiate tutte le vene del collo, ho avuto pure paura che esplodesse. A iniziato a farfugliare cose senza senso, ha riempito un secchio d'acqua e me lo ha tirato addosso. Mancandomi, per fortuna. "Vattene, brutto disgraziato! Vattene e non farti più vedere!" ripeteva. Ma così forte che pure le vicine di casa si sono affacciate.
"E tu? Che hai fatto? Te ne sei andato?" Chiesi. Ma la risposta era scontata: il Tasso voleva avere sempre l'ultima parola. A tutti i costi.
"Che cazzo di domande fai, Pietro? Certo che me ne sono andato. Che altro potevo fare?"
"Senza dire nulla? Non ci credo! Quella tua linguaccia non riesce a stare ferma."
"Beh, qualcosina ho detto..." Rispose, guardando altrove.
"Cosa?" Lo incalzai.
"Vaffanculo tu e quel rotolo di coppa di tuo figlio! Ecco cosa ho detto!"
Ridemmo a crepapelle, felici come bambini. Anche perché eravamo davvero bambini. Un vero peccato essersi persi quella scena meravigliosa.
"Però Bomba, in questa storia, non c'entrava niente. Non dovevi mandare affanculo pure lui." Obiettò, non senza ragione, Sergetto.
"Ero incazzato nero!"
"Tu sei sempre incazzato. E pure nero."
"Non è vero!"
"Si che è vero."
"Senti, Sergetto, non ti ci mettere pure tu, altrimenti mi incazzo di nuovo e te le suono." Ringhiò.
Gli saltammo tutti addosso e lo riempimmo di cazzotti sulle spalle, ridendo sguaiatamente. Era uno dei tanti modi per cementare la nostra amicizia. Sicuri che non sarebbe mai terminata.
"Certo che la madre di Bomba è proprio una stronza. Fosse per lei, non lo farebbe mai uscire di casa. Lo farebbe imbalsamare, piuttosto. Povero Bomba." Disse Tonino, quando ci fummo calmati.
"Mia madre dice che lei beve come una spugna. Per questo è così. E' più ubriaca la mattina, che la sera." Rincarò la dose Sergetto, mentre, con la coda dell'occhio, seguiva i movimenti furtivi di un grosso gatto nero.
"E il padre allora? Il padre non fa un cazzo dalla mattina alla sera! Se ne sta tutto il santo giorno al bar, a bere mezzi litri e a giocare a carte con i suoi amici. Mio padre è convinto che, prima o poi, farà una brutta fine." Rincarai la dose.
"Se continua in questa maniera, più prima, che poi. Inoltre...Guardate! Un gattaccio nero! Porta sfortuna! Pussa via, bestiaccia!" Disse il Tasso, cambiando repentinamente discorso. Raccolse una bella pietra da terra e la lanciò contro l'animale che se ne stava andando per i fatti suoi. Ma non lo prese. Il Tasso non ci prendeva mai. Non avrebbe colpito neanche un camion con rimorchio.
"Lascialo in pace, che ti ha fatto di male?" Lo rimproverai.
"Io li odio i gatti! Non li posso soffrire!"
"Tu odi tutti gli animali, Tasso!"
"Questa è una cazzata, Pietro! E pure bella grossa. I cani, per esempio, mi piacciono! Lo dice anche mio padre: il cane è obbediente, fedele, pure se lo prendi a calci, ritorna sempre. E si farebbe ammazzare per difenderti. Il gatto invece è ladro e traditore."
Che volete farci? Vivevamo in un piccolo paese. E nei paesi, la fiera del luogo comune rimane sempre aperta. Anche la Domenica. E si fanno degli ottimi acquisti. Che, a ben guardare, non è che nelle città se la passino meglio. O peggio.
"Allora anche tu. Se ti prendono a calci, rimani sempre fedele." Lo attaccai, cercando di metterlo in difficoltà, senza sapere bene dove andare a parare.
"Che c'entra? Mica io sono un cane!" Si difese.
"Però neanche il gatto è un cane!" Si intromise Schizzo.
Perdio se aveva ragione! Lo aveva steso con quattro parole. Non c'era modo di replicare a quella fulminante osservazione. Ce ne restammo per una mezz'ora sulle scale della fontana a cazzeggiare. In pratica si faceva di tutto, ma senza fare niente. Lo so che non è facile da spiegare e neanche ci provo. Dico soltanto che era uno dei nostri abituali passatempo. Non costava nulla e, tutto sommato, era pure divertente. Divertente fino ad un certo punto, perché poi stancava. Soprattutto se hai dodici anni e le cose che vorresti fare sono così tante. E anche l'energia è così tanta che a metterle insieme e ad infilarle di forza nel poco tempo a disposizione proprio non ci riesci. Neanche se ti ammazzi.
"Allora? Cosa facciamo adesso? Mica possiamo passare tutta la mattinata a romperci i coglioni su queste scale puzzolenti!" Disse improvvisamente Tonino. Aveva sempre l'argento vivo addosso. O, se preferite, i diavoli al culo.
"Quando? Adesso, dici?" Risposi distrattamente.
"No, non adesso, Pietruccio, tra una settimana! Guarda che oggi sembri proprio rimbecillito. Certo che adesso! Allora: cosa facciamo?"
"Adesso niente. Io, ieri sera, le ho prese di brutto. Sia per i vestiti bagnati, che per il ritardo. Se non torno a casa in tempo per pranzo, mia madre mi da una bella ripassata. Lo ha promesso. E lei dice che le promesse vanno sempre mantenute."
"Anch'io lo ho buscate di santa ragione. Mio padre si è tolto la cinghia dei pantaloni e mi ha lasciato certi segni sulle gambe che sembrano frustate. Nemmeno Gesù le prese così tante, prima di morire. Pure io devo tornare prima di pranzo."
Sapevo che tutti noi avevamo buscato la nostra razione giornaliera. In quei tempi era la regola. Le buscavi ad ogni occasione. Era un metodo in voga. Il non plus ultra tra i vari metodi educativi. Anzi, mi correggo, l'unico metodo testato scientificamente. Testato sulla nostra giovane pelle, naturalmente. C'erano si delle variazioni sul tema che riguardavano la durata, l'intensità, gli strumenti usati, ma il metodo non fu mai messo in discussione. Funzionava? Chissà, non ne conoscevamo altri. Fossero stati solo i tuoi genitori a dartele, mezza pena, ma te le davano tutti quelli che pretendevano di insegnarti qualcosa: il maestro di scuola, il parroco, i ragazzi più grandi. Loro lì ad insegnare e tu a prenderne. Interrompere questa specie di catena di Sant'Antonio, prosperante sul picchiare i bambini, toccò a quelli della mia generazione: una volta investita del ruolo di genitore. Si sostituirono le botte con fiumi di parole. Parole che avrebbero dovuto spiegare ai nostri figli quello che, troppo spesso, neanche noi avevamo compreso. Con risultati non dissimili da chi aveva usato il precedente sistema. Insomma, anche noi facemmo un bel po' di danni. Con il retrogusto amaro di chi dovette reprimere a forza la voglia di menar le mani.
"La mia bella idea ce l'avrei..." Disse Tonino, dopo averci rimuginato sopra a lungo, girando intorno alla fontana.
"Spara!" Lo esortò il Tasso, fissandolo con estremo interesse.
"Andiamo al fosso a pescare con le mani!" E il suo volto asimmetrico si illuminò tutto.
"Allora non hai capito un cazzo!" Rispondemmo in coro.
"Dobbiamo essere a casa per pranzo, se vogliamo arrivare vivi anche all'ora di cena." Aggiunsi.
"Siete voi che non capite un cazzo! Come sempre. Dicevo di andarci dopo mangiato. Anch'io ho la ritirata. Ci vediamo verso le due, le due e trenta e andiamo a pescare. Ma voglio che proviamo anche a richiamare Bomba, Hai visto mai che la madre abbia cambiato idea."
"Io col cazzo che vengo a chiamarlo. Se quella mi becca, sicuro che mi massacra." Disse il Tasso, con estrema decisione.
"Vacci tu, Pietro. Tu sei l'unico che stai simpatico a quella vecchia megera. Una volta ti ha persino invitato ad entrare in casa!" Mi supplicò Sergetto.
Era vero. Tra noi, ero l'unico che avesse varcato quella soglia. Una volta sola. E mi era bastata. Non avevo alcuna intenzione di farlo di nuovo. Non mi era piaciuta affatto quella casa. Mi faceva sentire a disagio. Quell'unica volta che lo feci ebbi l'impressione di essere entrato in una di quelle cappelle da ricchi che giganteggiavano nel cimitero del paese. Roba da farsela sotto dalla paura. Era successo l'inverno passato, poco prima del Natale. Ero andato ad aiutare Bomba con i compiti di matematica. Me la cavavo bene con i numeri, lui invece era una rapa. Completamente negato. La madre, in verità, mi accolse con un gran sorriso e mi trattò come se mi conoscesse da sempre; anche se era la prima volta che mi vedeva. Se fosse stata ubriaca, come dicevano tutti, non lo so, so che a me parve normale. Infatti non fu lei a non piacermi, fu la casa. Metteva paura! Sembrava quella della Famiglia Addams. Buia, finestre appena socchiuse, quasi ad impedire all'aria di circolare liberamente, e ad avvisare la luce ed il sole che lì dentro non erano affatto i benvenuti. Pulita da morire, luccicava, non un granello di polvere, neanche a pagarlo oro. Ordine perfetto, non trovai una cosa fuori posto, sembrava come se... come se fosse disabitata.
O abitata da cadaveri. Come una tomba, appunto. Neanche Bomba mi piacque là dentro. Aveva lasciato gli scarponi fuori della porta d'ingresso, indossava un brutto pigiama a righe e, ai piedi, portava delle stupide pantofole da vecchio. Ricordo bene che pensai: cavolo, sono solo le tre del pomeriggio e si è già vestito per andare a letto. No, quello imprigionato là dentro, non poteva essere il mio amico Bomba. Ma la cosa peggiore di tutte, quella che non potrò mai dimenticare, campassi anche cent'anni, e che mi sono sognato più volte, svegliandomi poi di soprassalto, terrorizzato e fradicio di sudore, fu quella specie di altare, come quello della Cattedrale, ma un poco più piccolo, sistemato in un angolo del salotto buono. Sopra c'era una foto della sorella di Bomba, quella morta di leucemia due anni prima e decine... che dico decine, centinaia, forse migliaia di candele accese tutto il giorno. Al solo vederlo mi si drizzarono tutti i peli delle braccia e fui percorso da un brivido gelido dai piedi alla nuca. Spaventosissimo! Altro che Belfagor, il telefilm che mandavano la sera del giovedì in televisione. Pure Belfagor mi spaventava, ma molto meno.
L'unico momento bello di quella indimenticabile giornata, fu quando, finito di fare i compiti e fatti i saluti di rito, aprii l'uscio di casa e l'aria fresca dell'esterno mi inondò la faccia e i polmoni. Mi ripulì il naso da quella puzza rancido che regnava incontrastata in quegli ambienti e ti si attaccava addosso come un esercito di zecche fameliche. Molti anni dopo, facevamo già le superiori, Bomba, che non era uno stupido, nell'invitare a casa sua uno che frequentava la sua stessa classe, ma che veniva da un altro paese, lo accolse con queste poche, sagge parole: Prego, entra. E non preoccuparti, questa casa è inospitale al massimo anche per chi l'abita. Descritta come se fosse stata fotografata.
"Va bene, io ci vado, ma lo chiamo da sotto, dalla strada. Se lo lasciano uscire, bene, altrimenti andiamo solo noi." Dissi, tornando dalla gita mentale.
L'accordo era stato stipulato. Ci attendeva un bel pomeriggio di pesca sportiva, senza attrezzi, mani contro pinne. Alla pari. Senza trucchi e senza inganni. e, forse, visto che si trattava di stare nell'acqua, ne uscivano avvantaggiati i pesci.
Fui l'ultimo ad arrivare all'appuntamento, come da copione. Erano le tre meno un quarto, avevo finito di mangiare per tempo, ma mio padre mi costrinse a lavare la sua auto. Lo fece passare come un supplemento di pena per il ritardo del giorno prima. In compenso, non giunsi da solo, Bomba era con me, sorridente più che mai. Per quel giorno l'aveva scampata. Non era stato troppo complicato, la madre, quando mi vide, lo lasciò libero senza opporre resistenza. Non posso negarlo, le chiacchiere e le malizie di paese, assorbite mio malgrado, mi indussero a supporre che avesse bevuto e, di conseguenza, avesse dimenticato tutto. Non dimenticò comunque le solite raccomandazioni, quelle tipiche di ogni madre di allora: state attenti per strada, guardate prima di attraversare, non accettate caramelle dagli sconosciuti, non fate tardi per cena, con l'aggiunta, ad esclusivo uso e consumo del suo pargolo, di: vedi di tornare bagnato un'altra volta e tuo padre ti scortica vivo! Ragazzino avvisato, mezzo salvato.
Il nostro arrivo fu accolto come una vera festa. Ci furano urla, abbracci, complimenti, baci...No, baci no, non ci si baciava tra noi, non spesso, era da froci! Fu soprattutto Bomba il festeggiato. Bomba il figliol prodigo. Anche se nessuno di noi sapesse, in realtà, cosa cazzo significasse prodigo.
"Cosa hai combinato, grissino? Sei scappato di casa?" Disse Tonino arruffandogli la capigliatura.
"Com'è che hai fatto? Ti sei calato giù per il discendente del tetto?" Lo punzecchiò Sergetto.
"Si, a rate!" Aggiunse il Tasso.
Bomba si voltò verso di lui a brutto muso e ringhiò: "Zitto tu, testa di cazzo!"
"Cosa vuoi da me ora? Cosa ti ho fatto?"
"E hai pure la faccia tosta di chiedermelo? Hai fatto incazzare mia madre, ecco cosa hai fatto! E quando è rientrata in casa me le ha date un'altra volta. Come se non le avessi prese già abbastanza. Si è incazzata con te, ma sono stato io a prenderle al posto tuo. Ti sembra giusto?" Bomba era furioso e triste, allo stesso tempo.
"Certo, sei bravo a dare la colpa agli altri! Mai che fosse colpa tua, sempre di qualcun'altro! Stammi bene a sentire, cocco di mamma: se tua madre è una matta, è ugualmente colpa mia?"
Bomba era vicino al punto di ebollizione. Si accostò minacciosamente all'avversario, con gli occhi iniettati di sangue e i grossi pugni serrati lungo i fianchi. Lo sovrastava di buoni venti centimetri e di almeno venti chili. "Senti, piccolo bastardo," Gli disse con tono calmo. "Tu prova ancora ad insultare mia madre e io ti butto via quei quattro denti storti che hai a forza di cazzotti!"
La tensione aveva raggiunto il livello di guardia. Il Tasso le avrebbe prese, sicuro, ma, di certo, non si sarebbe tirato indietro. Piuttosto si sarebbe fatto ammazzare. Era colpevole, vero, non si insultano le madri degli amici, mai, o, almeno, mai in loro presenza. L'aria era diventata irrespirabile, pesante, minacciosa. Fu Schizzo a dare una sterzata alla situazione.
"Sentite, voi due cazzoni," Disse rivolto ai belligeranti, "Se proprio ne avete voglia, potete pure rimanere qui a gonfiarvi di botte, ma noi non vi aspettiamo. Sicuro. Ce ne andiamo al Fosso di Campo per pescare. Fottetevi voi e la vostra voglia di menar le mani." Si alzò da dove era seduto e si avviò da solo verso l'uscita del paese.
"Ehi! Aspettaci, cornutaccio! Dove vuoi andare solo soletto? Cecato come sei, facile che ti perdi al primo incrocio!" Gli gridò dietro il Tasso. E, subito dopo, rivolgendosi al suo nemico:"Su, andiamo Bomba, che quel matto di un nasone è capace davvero di piantarci qui."
"Tanto lo raggiungeremmo giù al passetto, con la proboscide impigliata tra i fitti rami del biancospino." Rispose Bomba, cingendo le spalle del tasso con uno dei suoi enormi arti superiori.
Funzionava così da bambini: un attimo prima eri pronto ad azzannarti al collo per un nonnulla, l'attimo dopo andavi d'amore e d'accordo. Non c'era tempo da sprecare per rancori e musi lunghi. Certi atteggiamenti li avremmo imparati da grandi.
Dieci minuti dopo eravamo giù al fosso. Il nostro paesello era assediato dai corsi d'acqua. Ce ne erano per tutti i gusti e tutte le tasche. Una manciata di case su un pezzo di tufo con i piedi costantemente a mollo. C'era, appunto, il Fosso di Campo, c'era il Fosso del Pappagallo, Fosso Cupo, Rio Miccino e sua maestà il Tevere. Un altra categoria. Confronto al Tevere, gli altri erano delle misere pisciate di cane. Per essere belli, erano belli, niente da ridire, si snodavano tortuosi in mezzo ad una vegetazione rigogliosa ed incontaminata, si sporgevano da pericolosi strapiombi fino a cadere di sotto in splendide cascate, da dove tuffarsi era una gioia infinita, anche se, ogni volta il culo ti si stringeva dalla paura. Erano belli, ma il rubinetto da cui uscivano era ben misero. Non sarebbero mai passati di grado. Mai sarebbero diventati dei veri fiumi. Ci liberammo dei vestiti e delle scarpe ed entrammo in acqua. Gelida come la morte.
"Formiamo le squadre e facciamo a gara a chi ne prende di più!" Propose il Tasso, che era un pescatore formidabile. Imbattibile. Una volta, in tv, vidi un documentario dove c'era un orso che pescava salmoni. Beh, il Tasso avrebbe fatto il culo pure a quell'orso!
"D'accordo, ma tu ti becchi Schizzo. Schizzo era una pippa, ma, tanto, lui da solo valeva più di tutti noi. Anche con una mano sola.
Infatti."Per me non c'è problema, tanto non avete scampo. Vi mangio in un boccone come pescetti fritti!" Rispose il Tasso.
"Sei il solito sbruffone, voglio vedere quando ti toccherà mangiare Bomba!" Lo schernì Sergetto.
Formammo le altre due squadre, io con Bomba e Sergetto con Tonino, visto che stavano sempre insieme, manco fossero fratelli. Ogni coppia poteva scegliersi il tratto di fosso che avrebbe battuto, ma una volta scelto, non poteva sconfinare. Io e Bomba ci prendemmo uno spazio tra due curve, dove l'acqua scorreva sotto un fitto manto di crescione selvatico. Non era molto profondo e, allungando le mani, ci si arrivava abbastanza bene. Lo avevamo già battuto in precedenza e qualche barbo, o qualche cavedano, lo avremmo di sicuro preso. Tonino e Sergetto si appostarono tra le radici di un salice, che sprofondava nell’acqua calma e melmosa. Il Tasso, come al solito, si recò a passo deciso verso quella che era la sua personale riserva di pesca: una parete di arenaria profondamente scavata da un'ampia ansa del fosso. Era una miniera di pesce, lo sapevamo tutti, ma non c'era modo di incastrare le prede addosso alla parete. Per riuscirci dovevi, per forza di cose, essere un drago. E lui lo era. Una volta, l'estate scorsa, aveva persino tirato fuori una trota che faceva più di un chilo.
"Tu appostati qui, dove inizia la curva, Schizzo. Infila sotto le mani e cerca di prenderne almeno uno. Io mi immergo dove la buca è più profonda." Ordinò il Tasso al suo compagno di squadra.
"Col cazzo che ce le metto! Non si vede niente, ho paura di beccare qualche serpente!"
"Si che ce le metti, non ci sono serpenti, altrimenti che sei venuto a fare?"
"Ti ho già detto che non ce le metto!"
"Se proprio non vuoi metterci le mani, mettici l'uccello, basta che ci infili qualcosa. Tanto per partecipare." Urlò il Tasso, che, nel frattempo, ne aveva già preso uno e gettato sulla riva.
"Farò di meglio, userò questa!" Disse trionfante Schizzo, tirando fuori una forchetta nascosta nelle mutande.
Il Tasso lo fissò sbalordito, con un altro bel barbo in mano, poi scoppiò in una fragorosa risata. "Correte," Gridò "L'uccello di Schizzo ha tre punte!"
Lasciammo di corsa le nostre postazioni ed andammo a sincerarcene di persona. Schizzo stava piantato in mezzo alla corrente, a gambe divaricate, con indosso soltanto un paio di logore mutande a giro collo e la forchetta sollevata in alto, sopra la testa. Sembrava la controfigura di Nettuno. Non il dio del mare, ma il pescivendolo del paese, che tutti, per prenderlo per il culo, chiamavano così. Era un'immagine pietosa.
"Che cazzo te ne fai di quella forchetta? Cosa credevi? Che li pescassimo già cotti?" Lo apostrofò Tonino.
"Sollevo i sassi dal letto del fosso e ci infilzo le alborelle e gli altri pesci che ci trovo nascosti sotto." Rispose Schizzo tutto impettito.
Non starai dicendo sul serio, vero Schizzo?" Domandò Bomba con la bocca spalancata dall'incredulità.
"Certo, stupido ciccione che dico sul serio! Ed ora fuori dalle palle, che devo lavorare." Disse sollevando con cautela una grossa pietra. Non trovò che acqua. Acqua pure sotto alla seconda e alla terza e alla quarta. Stava perdendo le speranze e la pazienza, quando la trillante voce di Sergetto richiamò la sua attenzione. Si era calato le braghe fin sopra le ginocchia e, saltellando sul posto, cantilenava;" Schizzo! Guarda che bel pesce! Prendilo! Prendilo!"
Schizzo partì di scatto verso di lui, brandendo la forchetta come un pugnale d'assalto, ma io e Bomba fummo lesti ad afferrarlo al volo. Faticammo non poco per calmarlo, ma, alla fine, ci riuscimmo. Quel matto nasone era imprevedibile. Di sicuro glielo avrebbe infilzato davvero come una salsiccia. Sergetto, dapprima, sembrò non capire, pian piano iniziò a realizzare la gravità della situazione e fu assalito alla gola da quella fifa blu che era sempre in agguato dietro le sue spalle. Attese preoccupato la quiete dopo l'accenno di tempesta, si coprì con cura i genitali e disse con una voce incrinata dal tremolio. "Certo, Schizzo, che tu sei proprio suonato. Cosa ti ho fatto di male?"
"Niente." Rispose Schizzo, che, nel frattempo, era tornato quello di sempre: l'alieno incomprensibile.
"Allora perché volevi darmi una forchettata?"
"Perché te la meritavi. Mi stavi prendendo per il culo."
"E allora? Qual è la novità? Ci prendiamo sempre per il culo!"
"E allora la forchetta me l'ha data mio padre. Mi ha detto che lui, da piccolo, i pesci li prendeva con questa."
Questo era Schizzo. Un attimo con noi, l'attimo dopo perso chissà dove. Dire che era inafferrabile era dire poco. Capirlo era invece impossibile, ma a noi piaceva e non sentivamo il bisogno di doverlo capire per forza.
"Come faceva a prendere i pesci, tuo padre?" Chiese timidamente Bomba. Non riusciva a capacitarsene.
"Con la forchetta, idiota! Quante volte devo ripeterlo?"
"E come no! Con la forchetta, tuo padre, al massimo ci piglia le tagliatelle che cucina tua madre. Ma quelle non valgono, sono già morte!" Lo stuzzicò Tonino.
Improvvisamente un rumore alle nostre spalle ci fece ammutolire. Era come se qualcosa stesse colpendo la superficie dell'acqua con estremo vigore. Ci voltammo tutti di scatto. Il rumore proveniva da un piede che percuoteva insistentemente il fiumiciattolo. Il piede sembrava quello del Tasso, sembrava, perché il resto del corpo era come inghiottito dalla buca da pesca. Quel battere ritmico era un segnale, lo sapevamo bene. Il Tasso doveva avere per le mani qualcosa di veramente grosso e non lo avrebbe mollato neanche a costo della vita. Afferrare la gamba e tirarlo fuori era compito nostro. Ci precipitammo in suo aiuto, Bomba lo afferrò per bene e lo cavò in un istante da quella scomoda e pericolosa situazione. Una volta fuori, tossì tre o quattro volte di seguito, snocciolò una sfilza di bestemmie e ci ammonì: "Che cazzo aspettavate ad aiutarmi, brutti stronzi? Volevate farmi affogare?"
Scusaci, Tasso, eravamo distratti! Schizzo voleva fare la festa a Sergetto a forza di forchettate!" Mi scusai per tutti.
"Potevate lasciarlo fare. Uno di meno a papparsi questo ben di Dio!" Esclamò, facendo uscire anche le mani dall'acqua con un notevole sforzo.
Lo stesso sforzo che dovettero fare i nostri occhi per non schizzare via dalle orbite, tanto fu lo stupore e l'ammirazione. Quello sgorbio di ragazzino teneva ben saldo per le branchie un cavedano gigantesco. Faceva quasi paura, tanto era enorme. Sarà stato lungo almeno tre metri! Beh, forse non proprio tre, forse due! No, no, a guardarlo meglio forse... forse... non avrei saputo dire quanto fosse lungo, ma giuro che sembrava un pescecane!
"Sei un grande, Tasso!" Si complimentò Schizzo, dandogli una gran manata sulla schiena nuda, che quasi gli fece mollare la presa.
"Stai attento, stupido di un matto! Se me lo fai sfuggire, ti tengo sott'acqua finché non lo ripeschi! Ci volesse pure una settimana."
"Basta pescare, ora bisogna festeggiare. Facciamoci una fumatina!" Disse Tonino, strizzando l'occhio e facendo la faccia furba.
Lo guardai stupito. Evidente che ne stava sparando una delle sue. Nessuno di noi aveva mai fumato. "Stai cazzeggiando!" Dissi.
"Tu dici?"
"Sicuro! Cosa ci fumiamo? La vitalba secca?"
Si diresse verso la riva, dove avevamo abbandonato i vestiti, raccolse i suoi pantaloncini e ne estrasse sei sigarette: "Queste ci fumiamo! Altro che vitalba."
Ammetto che ero spaventato. Curioso e spaventato. Non riuscivo ad immaginarmi che effetto avrebbe potuto farmi. Oltre al non trascurabile fatto che, se per un mal'augurato caso, i miei fossero venuti a saperlo, mi sarebbe convenuto fare fagotto e scappare di casa.
"Come le accendiamo?" Lo sapevo, era un appiglio debole, ma anche l'unico che mi venne in mente. Volevo prendere tempo.
"Con questi!" Rispose ridendo e mostrando una manciata di fiammiferi da cucina.
"Va bene, fumiamo." Ero stato sconfitto. Ma ci avevo provato. La coscienza era a posto. Avevo tentato di resistere, si vede che era così che doveva andare.
"Ve lo scordate! Io non ci penso nemmeno! Quella roba fa male. E se lo sa mio padre, mi appende per i piedi fuori dalla finestra!" Fece Sergetto terrorizzato.
"Di che ti preoccupi?  Tu abiti al pianterreno!" Rispose il Tasso, che aveva persino perso interesse per la sua preda straordinaria.
"Mio padre, stavolta, davvero mi scortica vivo!" Piagnucolò Bomba
"Che cazzo vuole tuo padre? Lui sta sempre con la sigaretta in bocca!" Disse Tonino, che, intanto, si era già rivestito e aveva preso posizione a cavalcioni su un grosso tronco ricurvo che sfiorava il pelo dell'acqua.
"Si, ma lui è grande. E può fare quello che vuole. Io invece sono ancora piccolo e devo fare quello che vuole lui. Non credo che questa faccenda gli andrebbe a genio."
"Piccolo? Hai detto piccolo, Bomba? Tu non sei mai stato piccolo. Sei il doppio di tuo padre. Forse dovrebbe essere lui a fare quello che dici tu!" Dissi, tanto per darmi un tono. Cercando di mascherare le mie paure, ridendo di quelle degli altri.
"Insomma, fate un po' come vi pare! Io ne ho portate sei, una ciascuno. La mia, ora, la accendo e me la fumo tutta. Cosa cazzo potrà mai farmi?" Tagliò corto Tonino.
Inutile dire che ci avvicinammo tutti. Ognuno recando con se il proprio bagaglio di eccitazione, di paura, di riluttanza, di trasgressione. Prendemmo in mano la nostra prima sigaretta. Non c'erano femminucce tra noi. tirarsi indietro non era previsto dalla legge. La nostra legge. Era una vera sfida da grandi. Tutti lì a romperci che non si doveva, che faceva male, ma, nello stesso tempo, tutti che fumavano come camini. Qualcosa non quadrava. Possibile che gli adulti fossero un branco di cazzari? I nostri genitori compresi? Non poteva essere. Probabilmente eravamo soltanto troppo piccoli per capire, o, a sentir loro, troppo stupidi. Prendemmo la nostra sigaretta e un paio di fiammiferi a testa, tanto per stare sicuri.
"Accendi prima tu!" Ordinai a Tonino.
"Perché prima io? Accendi tu per primo!"
"Sei stato tu a portarle. E' stata tua l'idea, quindi tocca a te!" Temporeggiavo. Avevo fifa, ma guai a farlo vedere.
"Accendiamo tutti insieme." Propose il Tasso.
La proposta fu approvata all'unanimità.
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intotheclash · 6 years
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"Ma'! Io esco!" Gridai, con ancora in bocca l'ultimo pezzo di ciambellone mezzo masticato.
"Hai finito di fare colazione?" Urlò di rimando mia madre, impegnata a stirare le camicie di mio padre, nella stanza da bagno trasformata, per l'occasione, in lavanderia.
"Si, mamma!"
"Bene, allora metti la tazza nel lavandino e vai. Ma ricorda di tornare per l'ora di pranzo. Puntuale, altrimenti tuo padre te le suona un'altra volta."
"Contaci, ma'. Ciao!" E uscii alla stessa maniera di sempre: scaraventandomi giù per le scale.
Erano le nove e trenta di una bella mattinata di sole. La giornata prometteva bene, sperando che poi avrebbe mantenuto. Trovai i miei amici al solito posto, ad attendermi, seduti sui gradoni della fontana di Piazza del Castello. Il nostro quartier generale. "Forza, Pietro! Sei sempre l'ultimo ad arrivare. Manco fossi la sposa!" Fu la calorosa accoglienza di Tonino.
"Veramente sono il penultimo. Che fine ha fatto Bomba? E' sempre il primo ad arrivare!" Risposi, non potendo fare a meno di notare l'ingombrante assenza.
"Bomba non viene."
"Come non viene? Che cazzo vuol dire? Dai, andiamolo a chiamare, altrimenti facciamo tardi."
"Ma che sei diventato sordo? Ho detto che non viene. I suoi lo hanno messo in punizione. Non lo fanno uscire. Ci ha già provato il Tasso a chiamarlo. Dai Tasso, raccontaglielo." Lo esortò Tonino.
"E' vero, Pietro, ci sono passato prima di arrivare qui. E quella stronza della madre mi ha pure tirato un secchio d'acqua dal balcone!" Disse il Tasso cercando di assumere l'espressione più innocente di cui fosse capace.
"Ma che è ancora incazzata per la storia del fiume? Dai, racconta come è andata!" Lo esortai. Sapevo che poteva essere una storia divertente. Del Tasso non c'era mai da fidarsi, gliene succedevano di tutti i colori.
"E' andata così: stamattina mi sono svegliato presto e quando sono arrivato alla fontana, non c'era ancora nessuno. Ho pensato che fosse strano, Bomba arriva sempre una mezz’ora prima di noi tutti. Allora sono andato a vedere se gli era successo qualcosa. Ho suonato il campanello, una decina di volte, ma niente. Non si è affacciato nessuno."
"Allora cosa hai fatto?" Domandò Schizzo, anticipandomi. Gli altri lo guardarono stupiti e ridacchiando. Io lo guardai e basta. Il Tasso invece, strano a dirsi, si incazzò e disse: "Ma cosa cazzo dici: e allora? E allora sei tutto deficiente! A te l'ho raccontata appena dieci minuti fa la storia!"
"Ero distratto, non ho sentito la fine."
"Ma se hai pure riso!"
"E allora? Ridevano tutti, ho riso pure io! Mica sono scemo!"
"No che non sei scemo, lo sanno tutti. Sei deficiente! Sei matto come un cavallo, Schizzo. Ecco cosa sei." Ora il Tasso era davvero inferocito.
"E piantala! Finisci di raccontare." Lo esortai.
"Dunque, visto che, secondo me, il campanello non funzionava, ho iniziato a gridare forte: Bomba! Bomba! A quel punto è uscita fuori quella stronza della madre. Era una furia. Mi ha guardato a brutto muso e mi ha detto: "Che cavolo hai da urlare, maleducato? Cosa cerchi?" "Cercavo Bomba, avevamo un appuntamento." Risposi. Non l'avessi mai detto! Si è incazzata come una biscia. Faceva la bava dalla bocca, tanto era cattiva. "Brutto teppistello balordo," Mi ha risposto, inviperita, "Mio figlio ha un nome e non è quello che hai usato tu. Vedi di ficcartelo bene in quella tua testolina di legno. E non venire mai più a chiamarlo. Non voglio che esca con voi piccoli delinquenti. Ieri è tornato a casa bagnato fradicio e ora i vestiti gli vanno stretti, tanto si sono ritirati." Non ci ho visto più e gliele ho cantate: "Guarda che a tuo figlio, i vestiti gli andavano stretti pure prima! Lo ingozzate come un maiale!"
Ragazzi, dovevate vederla! E' diventata paonazza, le si sono gonfiate tutte le vene del collo, ho avuto pure paura che esplodesse. A iniziato a farfugliare cose senza senso, ha riempito un secchio d'acqua e me lo ha tirato addosso. Mancandomi, per fortuna. "Vattene, brutto disgraziato! Vattene e non farti più vedere!" ripeteva. Ma così forte che pure le vicine di casa si sono affacciate.
"E tu? Che hai fatto? Te ne sei andato?" Chiesi. Ma la risposta era scontata: il Tasso voleva avere sempre l'ultima parola. A tutti i costi.
"Che cazzo di domande fai, Pietro? Certo che me ne sono andato. Che altro potevo fare?"
"Senza dire nulla? Non ci credo! Quella tua linguaccia non riesce a stare ferma."
"Beh, qualcosina ho detto..." Rispose, guardando altrove.
"Cosa?" Lo incalzai.
"Vaffanculo tu e quel rotolo di coppa di tuo figlio! Ecco cosa ho detto!"
Ridemmo a crepapelle, felici come bambini. Anche perché eravamo davvero bambini. Un vero peccato essersi persi quella scena meravigliosa.
"Però Bomba, in questa storia, non c'entrava niente. Non dovevi mandare affanculo pure lui." Obiettò, non senza ragione, Sergetto.
"Ero incazzato nero!"
"Tu sei sempre incazzato. E pure nero."
"Non è vero!"
"Si che è vero."
"Senti, Sergetto, non ti ci mettere pure tu, altrimenti mi incazzo di nuovo e te le suono." Ringhiò.
Gli saltammo tutti addosso e lo riempimmo di cazzotti sulle spalle, ridendo sguaiatamente. Era uno dei tanti modi per cementare la nostra amicizia. Sicuri che non sarebbe mai terminata.
"Certo che la madre di Bomba è proprio una stronza. Fosse per lei, non lo farebbe mai uscire di casa. Lo farebbe imbalsamare, piuttosto. Povero Bomba." Disse Tonino, quando ci fummo calmati.
"Mia madre dice che lei beve come una spugna. Per questo è così. E' più ubriaca la mattina, che la sera." Rincarò la dose Sergetto, mentre, con la coda dell'occhio, seguiva i movimenti furtivi di un grosso gatto nero.
"E il padre allora? Il padre non fa un cazzo dalla mattina alla sera! Se ne sta tutto il santo giorno al bar, a bere mezzi litri e a giocare a carte con i suoi amici. Mio padre è convinto che, prima o poi, farà una brutta fine." Rincarai la dose.
"Se continua in questa maniera, più prima, che poi. Inoltre...Guardate! Un gattaccio nero! Porta sfortuna! Pussa via, bestiaccia!" Disse il Tasso, cambiando repentinamente discorso. Raccolse una bella pietra da terra e la lanciò contro l'animale che se ne stava andando per i fatti suoi. Ma non lo prese. Il Tasso non ci prendeva mai. Non avrebbe colpito neanche un camion con rimorchio.
"Lascialo in pace, che ti ha fatto di male?" Lo rimproverai.
"Io li odio i gatti! Non li posso soffrire!"
"Tu odi tutti gli animali, Tasso!"
"Questa è una cazzata, Pietro! E pure bella grossa. I cani, per esempio, mi piacciono! Lo dice anche mio padre: il cane è obbediente, fedele, pure se lo prendi a calci, ritorna sempre. E si farebbe ammazzare per difenderti. Il gatto invece è ladro e traditore."
Che volete farci? Vivevamo in un piccolo paese. E nei paesi, la fiera del luogo comune rimane sempre aperta. Anche la Domenica. E si fanno degli ottimi acquisti. Che, a ben guardare, non è che nelle città se la passino meglio. O peggio.
"Allora anche tu. Se ti prendono a calci, rimani sempre fedele." Lo attaccai, cercando di metterlo in difficoltà, senza sapere bene dove andare a parare.
"Che c'entra? Mica io sono un cane!" Si difese.
"Però neanche il gatto è un cane!" Si intromise Schizzo.
Perdio se aveva ragione! Lo aveva steso con quattro parole. Non c'era modo di replicare a quella fulminante osservazione. Ce ne restammo per una mezz'ora sulle scale della fontana a cazzeggiare. In pratica si faceva di tutto, ma senza fare niente. Lo so che non è facile da spiegare e neanche ci provo. Dico soltanto che era uno dei nostri abituali passatempo. Non costava nulla e, tutto sommato, era pure divertente. Divertente fino ad un certo punto, perché poi stancava. Soprattutto se hai dodici anni e le cose che vorresti fare sono così tante. E anche l'energia è così tanta che a metterle insieme e ad infilarle di forza nel poco tempo a disposizione proprio non ci riesci. Neanche se ti ammazzi.
"Allora? Cosa facciamo adesso? Mica possiamo passare tutta la mattinata a romperci i coglioni su queste scale puzzolenti!" Disse improvvisamente Tonino. Aveva sempre l'argento vivo addosso. O, se preferite, i diavoli al culo.
"Quando? Adesso, dici?" Risposi distrattamente.
"No, non adesso, Pietruccio, tra una settimana! Guarda che oggi sembri proprio rimbecillito. Certo che adesso! Allora: cosa facciamo?"
"Adesso niente. Io, ieri sera, le ho prese di brutto. Sia per i vestiti bagnati, che per il ritardo. Se non torno a casa in tempo per pranzo, mia madre mi da una bella ripassata. Lo ha promesso. E lei dice che le promesse vanno sempre mantenute."
"Anch'io lo ho buscate di santa ragione. Mio padre si è tolto la cinghia dei pantaloni e mi ha lasciato certi segni sulle gambe che sembrano frustate. Nemmeno Gesù le prese così tante, prima di morire. Pure io devo tornare prima di pranzo."
Sapevo che tutti noi avevamo buscato la nostra razione giornaliera. In quei tempi era la regola. Le buscavi ad ogni occasione. Era un metodo in voga. Il non plus ultra tra i vari metodi educativi. Anzi, mi correggo, l'unico metodo testato scientificamente. Testato sulla nostra giovane pelle, naturalmente. C'erano si delle variazioni sul tema che riguardavano la durata, l'intensità, gli strumenti usati, ma il metodo non fu mai messo in discussione. Funzionava? Chissà, non ne conoscevamo altri. Fossero stati solo i tuoi genitori a dartele, mezza pena, ma te le davano tutti quelli che pretendevano di insegnarti qualcosa: il maestro di scuola, il parroco, i ragazzi più grandi. Loro lì ad insegnare e tu a prenderne. Interrompere questa specie di catena di Sant'Antonio, prosperante sul picchiare i bambini, toccò a quelli della mia generazione: una volta investita del ruolo di genitore. Si sostituirono le botte con fiumi di parole. Parole che avrebbero dovuto spiegare ai nostri figli quello che, troppo spesso, neanche noi avevamo compreso. Con risultati non dissimili da chi aveva usato il precedente sistema. Insomma, anche noi facemmo un bel po' di danni. Con il retrogusto amaro di chi dovette reprimere a forza la voglia di menar le mani.
"La mia bella idea ce l'avrei..." Disse Tonino, dopo averci rimuginato sopra a lungo, girando intorno alla fontana.
"Spara!" Lo esortò il Tasso, fissandolo con estremo interesse.
"Andiamo al fosso a pescare con le mani!" E il suo volto asimmetrico si illuminò tutto.
"Allora non hai capito un cazzo!" Rispondemmo in coro.
"Dobbiamo essere a casa per pranzo, se vogliamo arrivare vivi anche all'ora di cena." Aggiunsi.
"Siete voi che non capite un cazzo! Come sempre. Dicevo di andarci dopo mangiato. Anch'io ho la ritirata. Ci vediamo verso le due, le due e trenta e andiamo a pescare. Ma voglio che proviamo anche a richiamare Bomba, Hai visto mai che la madre abbia cambiato idea."
"Io col cazzo che vengo a chiamarlo. Se quella mi becca, sicuro che mi massacra." Disse il Tasso, con estrema decisione.
"Vacci tu, Pietro. Tu sei l'unico che stai simpatico a quella vecchia megera. Una volta ti ha persino invitato ad entrare in casa!" Mi supplicò Sergetto.
Era vero. Tra noi, ero l'unico che avesse varcato quella soglia. Una volta sola. E mi era bastata. Non avevo alcuna intenzione di farlo di nuovo. Non mi era piaciuta affatto quella casa. Mi faceva sentire a disagio. Quell'unica volta che lo feci ebbi l'impressione di essere entrato in una di quelle cappelle da ricchi che giganteggiavano nel cimitero del paese. Roba da farsela sotto dalla paura. Era successo l'inverno passato, poco prima del Natale. Ero andato ad aiutare Bomba con i compiti di matematica. Me la cavavo bene con i numeri, lui invece era una rapa. Completamente negato. La madre, in verità, mi accolse con un gran sorriso e mi trattò come se mi conoscesse da sempre; anche se era la prima volta che mi vedeva. Se fosse stata ubriaca, come dicevano tutti, non lo so, so che a me parve normale. Infatti non fu lei a non piacermi, fu la casa. Metteva paura! Sembrava quella della Famiglia Addams. Buia, finestre appena socchiuse, quasi ad impedire all'aria di circolare liberamente, e ad avvisare la luce ed il sole che lì dentro non erano affatto i benvenuti. Pulita da morire, luccicava, non un granello di polvere, neanche a pagarlo oro. Ordine perfetto, non trovai una cosa fuori posto, sembrava come se... come se fosse disabitata.
O abitata da cadaveri. Come una tomba, appunto. Neanche Bomba mi piacque là dentro. Aveva lasciato gli scarponi fuori della porta d'ingresso, indossava un brutto pigiama a righe e, ai piedi, portava delle stupide pantofole da vecchio. Ricordo bene che pensai: cavolo, sono solo le tre del pomeriggio e si è già vestito per andare a letto. No, quello imprigionato là dentro, non poteva essere il mio amico Bomba. Ma la cosa peggiore di tutte, quella che non potrò mai dimenticare, campassi anche cent'anni, e che mi sono sognato più volte, svegliandomi poi di soprassalto, terrorizzato e fradicio di sudore, fu quella specie di altare, come quello della Cattedrale, ma un poco più piccolo, sistemato in un angolo del salotto buono. Sopra c'era una foto della sorella di Bomba, quella morta di leucemia due anni prima e decine... che dico decine, centinaia, forse migliaia di candele accese tutto il giorno. Al solo vederlo mi si drizzarono tutti i peli delle braccia e fui percorso da un brivido gelido dai piedi alla nuca. Spaventosissimo! Altro che Belfagor, il telefilm che mandavano la sera del giovedì in televisione. Pure Belfagor mi spaventava, ma molto meno.
L'unico momento bello di quella indimenticabile giornata, fu quando, finito di fare i compiti e fatti i saluti di rito, aprii l'uscio di casa e l'aria fresca dell'esterno mi inondò la faccia e i polmoni. Mi ripulì il naso da quella puzza rancido che regnava incontrastata in quegli ambienti e ti si attaccava addosso come un esercito di zecche fameliche. Molti anni dopo, facevamo già le superiori, Bomba, che non era uno stupido, nell'invitare a casa sua uno che frequentava la sua stessa classe, ma che veniva da un altro paese, lo accolse con queste poche, sagge parole: Prego, entra. E non preoccuparti, questa casa è inospitale al massimo anche per chi l'abita. Descritta come se fosse stata fotografata.
"Va bene, io ci vado, ma lo chiamo da sotto, dalla strada. Se lo lasciano uscire, bene, altrimenti andiamo solo noi." Dissi, tornando dalla gita mentale.
L'accordo era stato stipulato. Ci attendeva un bel pomeriggio di pesca sportiva, senza attrezzi, mani contro pinne. Alla pari. Senza trucchi e senza inganni. e, forse, visto che si trattava di stare nell'acqua, ne uscivano avvantaggiati i pesci.
Fui l'ultimo ad arrivare all'appuntamento, come da copione. Erano le tre meno un quarto, avevo finito di mangiare per tempo, ma mio padre mi costrinse a lavare la sua auto. Lo fece passare come un supplemento di pena per il ritardo del giorno prima. In compenso, non giunsi da solo, Bomba era con me, sorridente più che mai. Per quel giorno l'aveva scampata. Non era stato troppo complicato, la madre, quando mi vide, lo lasciò libero senza opporre resistenza. Non posso negarlo, le chiacchiere e le malizie di paese, assorbite mio malgrado, mi indussero a supporre che avesse bevuto e, di conseguenza, avesse dimenticato tutto. Non dimenticò comunque le solite raccomandazioni, quelle tipiche di ogni madre di allora: state attenti per strada, guardate prima di attraversare, non accettate caramelle dagli sconosciuti, non fate tardi per cena, con l'aggiunta, ad esclusivo uso e consumo del suo pargolo, di: vedi di tornare bagnato un'altra volta e tuo padre ti scortica vivo! Ragazzino avvisato, mezzo salvato.
Il nostro arrivo fu accolto come una vera festa. Ci furano urla, abbracci, complimenti, baci...No, baci no, non ci si baciava tra noi, non spesso, era da froci! Fu soprattutto Bomba il festeggiato. Bomba il figliol prodigo. Anche se nessuno di noi sapesse, in realtà, cosa cazzo significasse prodigo.
"Cosa hai combinato, grissino? Sei scappato di casa?" Disse Tonino arruffandogli la capigliatura.
"Com'è che hai fatto? Ti sei calato giù per il discendente del tetto?" Lo punzecchiò Sergetto.
"Si, a rate!" Aggiunse il Tasso.
Bomba si voltò verso di lui a brutto muso e ringhiò: "Zitto tu, testa di cazzo!"
"Cosa vuoi da me ora? Cosa ti ho fatto?"
"E hai pure la faccia tosta di chiedermelo? Hai fatto incazzare mia madre, ecco cosa hai fatto! E quando è rientrata in casa me le ha date un'altra volta. Come se non le avessi prese già abbastanza. Si è incazzata con te, ma sono stato io a prenderle al posto tuo. Ti sembra giusto?" Bomba era furioso e triste, allo stesso tempo.
"Certo, sei bravo a dare la colpa agli altri! Mai che fosse colpa tua, sempre di qualcun'altro! Stammi bene a sentire, cocco di mamma: se tua madre è una matta, è ugualmente colpa mia?"
Bomba era vicino al punto di ebollizione. Si accostò minacciosamente all'avversario, con gli occhi iniettati di sangue e i grossi pugni serrati lungo i fianchi. Lo sovrastava di buoni venti centimetri e di almeno venti chili. "Senti, piccolo bastardo," Gli disse con tono calmo. "Tu prova ancora ad insultare mia madre e io ti butto via quei quattro denti storti che hai a forza di cazzotti!"
La tensione aveva raggiunto il livello di guardia. Il Tasso le avrebbe prese, sicuro, ma, di certo, non si sarebbe tirato indietro. Piuttosto si sarebbe fatto ammazzare. Era colpevole, vero, non si insultano le madri degli amici, mai, o, almeno, mai in loro presenza. L'aria era diventata irrespirabile, pesante, minacciosa. Fu Schizzo a dare una sterzata alla situazione.
"Sentite, voi due cazzoni," Disse rivolto ai belligeranti, "Se proprio ne avete voglia, potete pure rimanere qui a gonfiarvi di botte, ma noi non vi aspettiamo. Sicuro. Ce ne andiamo al Fosso di Campo per pescare. Fottetevi voi e la vostra voglia di menar le mani." Si alzò da dove era seduto e si avviò da solo verso l'uscita del paese.
"Ehi! Aspettaci, cornutaccio! Dove vuoi andare solo soletto? Cecato come sei, facile che ti perdi al primo incrocio!" Gli gridò dietro il Tasso. E, subito dopo, rivolgendosi al suo nemico:"Su, andiamo Bomba, che quel matto di un nasone è capace davvero di piantarci qui."
"Tanto lo raggiungeremmo giù al passetto, con la proboscide impigliata tra i fitti rami del biancospino." Rispose Bomba, cingendo le spalle del tasso con uno dei suoi enormi arti superiori.
Funzionava così da bambini: un attimo prima eri pronto ad azzannarti al collo per un nonnulla, l'attimo dopo andavi d'amore e d'accordo. Non c'era tempo da sprecare per rancori e musi lunghi. Certi atteggiamenti li avremmo imparati da grandi.
Dieci minuti dopo eravamo giù al fosso. Il nostro paesello era assediato dai corsi d'acqua. Ce ne erano per tutti i gusti e tutte le tasche. Una manciata di case su un pezzo di tufo con i piedi costantemente a mollo. C'era, appunto, il Fosso di Campo, c'era il Fosso del Pappagallo, Fosso Cupo, Rio Miccino e sua maestà il Tevere. Un altra categoria. Confronto al Tevere, gli altri erano delle misere pisciate di cane. Per essere belli, erano belli, niente da ridire, si snodavano tortuosi in mezzo ad una vegetazione rigogliosa ed incontaminata, si sporgevano da pericolosi strapiombi fino a cadere di sotto in splendide cascate, da dove tuffarsi era una gioia infinita, anche se, ogni volta il culo ti si stringeva dalla paura. Erano belli, ma il rubinetto da cui uscivano era ben misero. Non sarebbero mai passati di grado. Mai sarebbero diventati dei veri fiumi. Ci liberammo dei vestiti e delle scarpe ed entrammo in acqua. Gelida come la morte.
"Formiamo le squadre e facciamo a gara a chi ne prende di più!" Propose il Tasso, che era un pescatore formidabile. Imbattibile. Una volta, in tv, vidi un documentario dove c'era un orso che pescava salmoni. Beh, il Tasso avrebbe fatto il culo pure a quell'orso!
"D'accordo, ma tu ti becchi Schizzo. Schizzo era una pippa, ma, tanto, lui da solo valeva più di tutti noi. Anche con una mano sola.
Infatti."Per me non c'è problema, tanto non avete scampo. Vi mangio in un boccone come pescetti fritti!" Rispose il Tasso.
"Sei il solito sbruffone, voglio vedere quando ti toccherà mangiare Bomba!" Lo schernì Sergetto.
Formammo le altre due squadre, io con Bomba e Sergetto con Tonino, visto che stavano sempre insieme, manco fossero fratelli. Ogni coppia poteva scegliersi il tratto di fosso che avrebbe battuto, ma una volta scelto, non poteva sconfinare. Io e Bomba ci prendemmo uno spazio tra due curve, dove l'acqua scorreva sotto un fitto manto di crescione selvatico. Non era molto profondo e, allungando le mani, ci si arrivava abbastanza bene. Lo avevamo già battuto in precedenza e qualche barbo, o qualche cavedano, lo avremmo di sicuro preso. Tonino e Sergetto si appostarono tra le radici di un salice, che sprofondava nell’acqua calma e melmosa. Il Tasso, come al solito, si recò a passo deciso verso quella che era la sua personale riserva di pesca: una parete di arenaria profondamente scavata da un'ampia ansa del fosso. Era una miniera di pesce, lo sapevamo tutti, ma non c'era modo di incastrare le prede addosso alla parete. Per riuscirci dovevi, per forza di cose, essere un drago. E lui lo era. Una volta, l'estate scorsa, aveva persino tirato fuori una trota che faceva più di un chilo.
"Tu appostati qui, dove inizia la curva, Schizzo. Infila sotto le mani e cerca di prenderne almeno uno. Io mi immergo dove la buca è più profonda." Ordinò il Tasso al suo compagno di squadra.
"Col cazzo che ce le metto! Non si vede niente, ho paura di beccare qualche serpente!"
"Si che ce le metti, non ci sono serpenti, altrimenti che sei venuto a fare?"
"Ti ho già detto che non ce le metto!"
"Se proprio non vuoi metterci le mani, mettici l'uccello, basta che ci infili qualcosa. Tanto per partecipare." Urlò il Tasso, che, nel frattempo, ne aveva già preso uno e gettato sulla riva.
"Farò di meglio, userò questa!" Disse trionfante Schizzo, tirando fuori una forchetta nascosta nelle mutande.
Il Tasso lo fissò sbalordito, con un altro bel barbo in mano, poi scoppiò in una fragorosa risata. "Correte," Gridò "L'uccello di Schizzo ha tre punte!"
Lasciammo di corsa le nostre postazioni ed andammo a sincerarcene di persona. Schizzo stava piantato in mezzo alla corrente, a gambe divaricate, con indosso soltanto un paio di logore mutande a giro collo e la forchetta sollevata in alto, sopra la testa. Sembrava la controfigura di Nettuno. Non il dio del mare, ma il pescivendolo del paese, che tutti, per prenderlo per il culo, chiamavano così. Era un'immagine pietosa.
"Che cazzo te ne fai di quella forchetta? Cosa credevi? Che li pescassimo già cotti?" Lo apostrofò Tonino.
"Sollevo i sassi dal letto del fosso e ci infilzo le alborelle e gli altri pesci che ci trovo nascosti sotto." Rispose Schizzo tutto impettito.
Non starai dicendo sul serio, vero Schizzo?" Domandò Bomba con la bocca spalancata dall'incredulità.
"Certo, stupido ciccione che dico sul serio! Ed ora fuori dalle palle, che devo lavorare." Disse sollevando con cautela una grossa pietra. Non trovò che acqua. Acqua pure sotto alla seconda e alla terza e alla quarta. Stava perdendo le speranze e la pazienza, quando la trillante voce di Sergetto richiamò la sua attenzione. Si era calato le braghe fin sopra le ginocchia e, saltellando sul posto, cantilenava;" Schizzo! Guarda che bel pesce! Prendilo! Prendilo!"
Schizzo partì di scatto verso di lui, brandendo la forchetta come un pugnale d'assalto, ma io e Bomba fummo lesti ad afferrarlo al volo. Faticammo non poco per calmarlo, ma, alla fine, ci riuscimmo. Quel matto nasone era imprevedibile. Di sicuro glielo avrebbe infilzato davvero come una salsiccia. Sergetto, dapprima, sembrò non capire, pian piano iniziò a realizzare la gravità della situazione e fu assalito alla gola da quella fifa blu che era sempre in agguato dietro le sue spalle. Attese preoccupato la quiete dopo l'accenno di tempesta, si coprì con cura i genitali e disse con una voce incrinata dal tremolio. "Certo, Schizzo, che tu sei proprio suonato. Cosa ti ho fatto di male?"
"Niente." Rispose Schizzo, che, nel frattempo, era tornato quello di sempre: l'alieno incomprensibile.
"Allora perché volevi darmi una forchettata?"
"Perché te la meritavi. Mi stavi prendendo per il culo."
"E allora? Qual è la novità? Ci prendiamo sempre per il culo!"
"E allora la forchetta me l'ha data mio padre. Mi ha detto che lui, da piccolo, i pesci li prendeva con questa."
Questo era Schizzo. Un attimo con noi, l'attimo dopo perso chissà dove. Dire che era inafferrabile era dire poco. Capirlo era invece impossibile, ma a noi piaceva e non sentivamo il bisogno di doverlo capire per forza.
"Come faceva a prendere i pesci, tuo padre?" Chiese timidamente Bomba. Non riusciva a capacitarsene.
"Con la forchetta, idiota! Quante volte devo ripeterlo?"
"E come no! Con la forchetta, tuo padre, al massimo ci piglia le tagliatelle che cucina tua madre. Ma quelle non valgono, sono già morte!" Lo stuzzicò Tonino.
Improvvisamente un rumore alle nostre spalle ci fece ammutolire. Era come se qualcosa stesse colpendo la superficie dell'acqua con estremo vigore. Ci voltammo tutti di scatto. Il rumore proveniva da un piede che percuoteva insistentemente il fiumiciattolo. Il piede sembrava quello del Tasso, sembrava, perché il resto del corpo era come inghiottito dalla buca da pesca. Quel battere ritmico era un segnale, lo sapevamo bene. Il Tasso doveva avere per le mani qualcosa di veramente grosso e non lo avrebbe mollato neanche a costo della vita. Afferrare la gamba e tirarlo fuori era compito nostro. Ci precipitammo in suo aiuto, Bomba lo afferrò per bene e lo cavò in un istante da quella scomoda e pericolosa situazione. Una volta fuori, tossì tre o quattro volte di seguito, snocciolò una sfilza di bestemmie e ci ammonì: "Che cazzo aspettavate ad aiutarmi, brutti stronzi? Volevate farmi affogare?"
Scusaci, Tasso, eravamo distratti! Schizzo voleva fare la festa a Sergetto a forza di forchettate!" Mi scusai per tutti.
"Potevate lasciarlo fare. Uno di meno a papparsi questo ben di Dio!" Esclamò, facendo uscire anche le mani dall'acqua con un notevole sforzo.
Lo stesso sforzo che dovettero fare i nostri occhi per non schizzare via dalle orbite, tanto fu lo stupore e l'ammirazione. Quello sgorbio di ragazzino teneva ben saldo per le branchie un cavedano gigantesco. Faceva quasi paura, tanto era enorme. Sarà stato lungo almeno tre metri! Beh, forse non proprio tre, forse due! No, no, a guardarlo meglio forse... forse... non avrei saputo dire quanto fosse lungo, ma giuro che sembrava un pescecane!
"Sei un grande, Tasso!" Si complimentò Schizzo, dandogli una gran manata sulla schiena nuda, che quasi gli fece mollare la presa.
"Stai attento, stupido di un matto! Se me lo fai sfuggire, ti tengo sott'acqua finché non lo ripeschi! Ci volesse pure una settimana."
"Basta pescare, ora bisogna festeggiare. Facciamoci una fumatina!" Disse Tonino, strizzando l'occhio e facendo la faccia furba.
Lo guardai stupito. Evidente che ne stava sparando una delle sue. Nessuno di noi aveva mai fumato. "Stai cazzeggiando!" Dissi.
"Tu dici?"
"Sicuro! Cosa ci fumiamo? La vitalba secca?"
Si diresse verso la riva, dove avevamo abbandonato i vestiti, raccolse i suoi pantaloncini e ne estrasse sei sigarette: "Queste ci fumiamo! Altro che vitalba."
Ammetto che ero spaventato. Curioso e spaventato. Non riuscivo ad immaginarmi che effetto avrebbe potuto farmi. Oltre al non trascurabile fatto che, se per un mal'augurato caso, i miei fossero venuti a saperlo, mi sarebbe convenuto fare fagotto e scappare di casa.
"Come le accendiamo?" Lo sapevo, era un appiglio debole, ma anche l'unico che mi venne in mente. Volevo prendere tempo.
"Con questi!" Rispose ridendo e mostrando una manciata di fiammiferi da cucina.
"Va bene, fumiamo." Ero stato sconfitto. Ma ci avevo provato. La coscienza era a posto. Avevo tentato di resistere, si vede che era così che doveva andare.
"Ve lo scordate! Io non ci penso nemmeno! Quella roba fa male. E se lo sa mio padre, mi appende per i piedi fuori dalla finestra!" Fece Sergetto terrorizzato.
"Di che ti preoccupi?  Tu abiti al pianterreno!" Rispose il Tasso, che aveva persino perso interesse per la sua preda straordinaria.
"Mio padre, stavolta, davvero mi scortica vivo!" Piagnucolò Bomba
"Che cazzo vuole tuo padre? Lui sta sempre con la sigaretta in bocca!" Disse Tonino, che, intanto, si era già rivestito e aveva preso posizione a cavalcioni su un grosso tronco ricurvo che sfiorava il pelo dell'acqua.
"Si, ma lui è grande. E può fare quello che vuole. Io invece sono ancora piccolo e devo fare quello che vuole lui. Non credo che questa faccenda gli andrebbe a genio."
"Piccolo? Hai detto piccolo, Bomba? Tu non sei mai stato piccolo. Sei il doppio di tuo padre. Forse dovrebbe essere lui a fare quello che dici tu!" Dissi, tanto per darmi un tono. Cercando di mascherare le mie paure, ridendo di quelle degli altri.
"Insomma, fate un po' come vi pare! Io ne ho portate sei, una ciascuno. La mia, ora, la accendo e me la fumo tutta. Cosa cazzo potrà mai farmi?" Tagliò corto Tonino.
Inutile dire che ci avvicinammo tutti. Ognuno recando con se il proprio bagaglio di eccitazione, di paura, di riluttanza, di trasgressione. Prendemmo in mano la nostra prima sigaretta. Non c'erano femminucce tra noi. tirarsi indietro non era previsto dalla legge. La nostra legge. Era una vera sfida da grandi. Tutti lì a romperci che non si doveva, che faceva male, ma, nello stesso tempo, tutti che fumavano come camini. Qualcosa non quadrava. Possibile che gli adulti fossero un branco di cazzari? I nostri genitori compresi? Non poteva essere. Probabilmente eravamo soltanto troppo piccoli per capire, o, a sentir loro, troppo stupidi. Prendemmo la nostra sigaretta e un paio di fiammiferi a testa, tanto per stare sicuri.
"Accendi prima tu!" Ordinai a Tonino.
"Perché prima io? Accendi tu per primo!"
"Sei stato tu a portarle. E' stata tua l'idea, quindi tocca a te!" Temporeggiavo. Avevo fifa, ma guai a farlo vedere.
"Accendiamo tutti insieme." Propose il Tasso.
La proposta fu approvata all'unanimità.
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