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#le sudate carte
abatelunare · 2 months
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Le sudate carte
Stamattina è la volta di un certificato. Lo devo chiedere al medico di famiglia. Mi servirà per ottenerne un altro dall'ASL. Come diceva Maurizio Ferrini quando mi faceva ridere, Non capisco ma mi adeguo. Buona mattinata a tutti voi.
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Io vi avrei portato questo regalo. È piccola cosa, ma vedete, sta bene qua, sulla sinistra del ripiano del comò, che vi guarda mentre dormite. Perché io lo so che lo pregate prima d'addormentarvi. Come dite, "il sogno è la miglior parte della vita," e gli antichi volevano che i loro sogni fossero più chiari della luce del giorno.
Ha i talari, i sandali alati, perché il sonno migliore è quello che non si fa attendere troppo, dopo una buona giornata di fatica. E voi, anche se non lavorate i campi né sollevate pietre, sudate, lì sulle vostre carte. E sentite pure freddo, quando vi sale la febbre.
Ma comunque, dicevo, il vostro protettore ha il petaso, perché ha da viaggiare molto, da viaggiare sempre, per portare i contenuti dell'intuizione a voi, mentre la vostra ragione abbassa la guardia. Sono luoghi lontani quelli da dove provengono i sogni; e voi credete che siano dentro la vostra testa.
Ha il caduceo, perché gli dei sono dei per questo: perché sono giusti; essi vogliono ciò che è necessario per l'equilibrio universale; di quest'universo fatto di vuoto e d'illusione, e dell'altro, che è così pieno di tutti gli elementi uniti fra loro che non si distinguono e non esistono di per sé; non c'è limite né separazione: tutto è ogni propria possibilità. Ma le cose non accadono per caso, proprio no: accadono perché richiamate l'una dall'altra, in una fitta e vasta rete che continua a tessersi e non si smaglia mai; perché questa è la Natura. Questo siamo noi. Protetti dagli dei e, quando abbiamo finito di pregarli, dei noi stessi.
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Caspar David Friedrich, Un uomo e una donna in contemplazione della luna, 1819, olio su tela, cm 34 X 44. Berlino, Alte Nationalgalerie.
A Silvia di Giacomo Leopardi
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventú salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io, gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu, pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dí festivi
ragionavan d’amore.
Anche peria fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negâro i fati
la giovanezza. Ahi, come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
questo è quel mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
Il nome "Silvia" è ispirato alla ninfa protagonista della Aminta di Tasso. Simbolo di tutti i sogni di gioventù infranti da una morte prematura.
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fotostreet · 5 months
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Talor lasciando e le sudate carte…
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greenbor · 7 months
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Silvia, rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete Stanze, e le vie dintorno, Al tuo perpetuo canto, Allor che all'opre femminili intenta Sedevi, assai contenta Di quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri Talor lasciando e le sudate carte, Ove il tempo mio primo E di me si spendea la miglior parte, D'in su i veroni del paterno ostello Porgea gli orecchi al suon della tua voce, Ed alla man veloce Che percorrea la faticosa tela. Mirava il ciel sereno, Le vie dorate e gli orti, E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortal non dice Quel ch'io sentiva in seno. Che pensieri soavi, Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia La vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, Un affetto mi preme Acerbo e sconsolato, E tornami a doler di mia sventura. O natura, o natura, Perchè non rendi poi Quel che prometti allor? perchè di tanto Inganni i figli tuoi?
A Silvia - Giacomo Leopardi
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alessandrom76 · 3 years
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le «sudate carte» di ieri ; sono le cartacce di oggi
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sayitaliano · 3 years
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Ciao! Potresti spiegare o indicare un posto dove posso trovare una spiegazione a proposito di quando in italiano si può usare l'aggettivo prima del sostantivo? Perché di solito l'aggettivo viene dopo il sostantivo, penso. Questo mi è ventuno in mente dopo aver letto un tuo post e vorrei sapere qual è la differenza tra "i miei libri amati" e "i miei amati libri"?
Ciao!
Nel caso specifico per cui mi fai la domanda, essendo un aggettivo che si forma con un participio passato, "amato" viene generalmente posto dopo il nome: I miei libri amati. La seconda forma, "i miei amati libri", ha un uso più poetico: mi viene in mente, per esempio, Leopardi ("Le sudate carte" in A Silvia, in cui comunque il significato dell'aggettivo è figurato - cfr. le prossime righe e link con le regole).
Ci sono ovviamente altre situazioni e regole: alcune riguardano proprio il diverso significato che prendono i vari aggettivi qualificativi a seconda della loro posizione rispetto al nome a cui si riferiscono. Non è sempre una cosa facile però stabilire la giusta posizione di un aggettivo all'interno della frase: ci sono (come spesso accade per la lingua italiana) anche molte eccezioni.
Ti lascio i link a un paio di vecchi post che avevo scritto in passato sull'argomento. Vedrò di riguardarli meglio ed eventualmente aggiungere qualcosa appena possibile, ma tu sentiti pure liber* di scrivermi e chiedermi maggiori informazioni o farmi domande!
uno (intro) | due (longer post)
Ti lascio anche il link al masterpost con tutti i post di grammatica (su @sayitalianohome puoi trovare alcuni post con tutti i link ai diversi masterpost e non solo). E il link al post sulla posizione degli avverbi, in caso ti servisse anche quello (anche se è linkato insieme agli altri ^^).
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deathshallbenomore · 3 years
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io tra le mie sudate carte (wink wink) mentre cerco di mettere insieme due cents coerenti per il seminario a cui devo partecipare perché “sì certo mi farebbe molto piacere”
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teenromancee · 4 years
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XXI- A Silvia
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
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gelatinatremolante · 5 years
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Chi avrebbe mai immaginato che dopo giorni e giorni passati dentro la mia stanza a soffrire tra le sudate carte, desiderando soltanto di spalmarmi sul pavimento e non fare, dire o pensare a niente e prima di passare altri giorni ancora esattamente nello stesso modo avrei invece passato il venerdì sera mangiando un gelato al cioccolato fondente e all'amarena e cantando e saltando a un concerto di Achille Lauro? Io no di certo. (Tranne la parte sul gelato, quella in effetti era abbastanza prevedibile).
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el-elux · 5 years
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A Silvia
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
Giacomo Leopardi, Canti
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pangeanews · 5 years
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“Ci è stato detto o no che l’uomo è un abisso? E noi che facciamo? Lo riduciamo a una pozzanghera?”: Woyzeck, l’unico sano in un mondo di folli. Discorso su “Il caso W.” di Rita Frongia
Ci sono almeno due modalità di esprimere in teatro o in poesia l’orrore e la complessità della vita, con tutti i suoi dilemmi teorici e pratici. Se ne può anzitutto parlare con serietà, partendo dall’assunto che segue. Se l’esistenza è una cosa seria, bisogna rappresentarla seriamente, senza edulcorare il marcio che si annida all’interno. Il dolore va ostentato nella sua sfrontatezza e nudità, o non mostrato affatto sul patibolo del palcoscenico. Il limite di questa prospettiva è che l’orrore che viene così rivelato diventa intollerabile e, per molti aspetti, non riesce a diventare autentica materia di riflessione intellettuale e uno spunto di rivoluzione morale. Entro tale prospettiva, ci crogioleremmo del dolore quotidiano tramite il dolore portato sulla scena. O ancora, non faremmo altro che grufolare come maiali dentro il fango in cui siamo impastati sin dalla culla, se non anche da prima. Lungi dall’essere “seria”, dunque, la serietà è “seriosa”. Essa dà l’impressione di affrontare di petto le questioni fondamentali e, invece, le nasconde sotto la torbida maschera dell’osceno.
La seconda modalità consiste nel rappresentare l’orrore dell’esistenza con il gioco e il grottesco. La premessa di partenza è l’esatto contraltare della modalità seriosa. Poiché ben conosciamo l’orrore quotidiano e la tragedia di esistere, lo sforzo consisterebbe nel cercare librarsi sopra il marcio con leggerezza e di trasformarlo in commedia, così da guardarlo con la giusta presa di distanza critica in modo da sperare, un giorno, di trovare i mezzi per depurarlo o di renderlo meno prepotente e invasivo. La poesia del teatro è insomma, forse, un gioco comico che cerca di generare delle nuvole da cui precipiterà una pioggia che pulisce per un poco l’ambiente sottostante, che spegne le fiamme dell’Inferno.
Il caso W. di Rita Frongia (fino al 19 gennaio 2020 al Teatro Astra di Torino) appartiene forse alla seconda modalità espressiva. Il lavoro rappresenta un’immaginaria prosecuzione del Woyzeck di Georg Büchner, che trae lo spunto da un dato filologico. Tra le carte dell’artista, infatti, è stato ritrovato una versione del manoscritto che si conclude con una scena misteriosa. Un barbiere, un giudice, un usciere di tribunale e un medico si trovano in un luogo imprecisato. L’ultimo dei quattro personaggi pronuncia, inoltre, secondo l’edizione critica del testo del Woyzeck a cura di Henri e Rosemarie Poschmann (Sämtliche Werke, Briefe und Dokumente. 2 Bde, Frankfurt am Main 1992, p. 173), tale battuta: Ein guter Mord, ein ächter Mord, ein schön Mord, so schön als man ihn nur verlangen tun kann, wir haben schon lange so kein gehabt («Un buon omicidio, un vero omicidio, un bell’omicidio, tanto bello che non se ne potrebbe chiedere uno migliore. Non ne abbiamo visto uno così bello da tanto tempo»; trad. mia). Il dettaglio ha dato adito all’ipotesi che il Woyzeck si sarebbe concluso con il processo all’omonimo protagonista del testo incompiuto. Il “barbiere” potrebbe essere Woyzeck stesso che, dopo esser stato catturato dalla polizia per l’omicidio della sua compagna Marie, a sua volta istigato da alcune voci spettrali che riempiono la sua testa di visioni apocalittiche e di morte, è processato e dichiarato sano di mente, quindi condannato a morte. Complice di questa ipotesi esegetica sarebbe anche il fatto che il Woyzeck storico fu in effetti vittima di un processo di tal genere, dove l’appello alla sua infermità mentale era stato usato per tentare di scagionarlo, o almeno per riservargli una punizione più lieve.
*
Il frammento ritrovato tra le carte di Büchner costituisce, però, solo il punto di partenza de Il caso W. di Frongia. Il lavoro non mira, infatti, a cercare di colmare il vuoto lasciato dall’opera incompiuta, ricorrendo ad altri dati testuali o alcune testimonianze esterne per supporre quale potesse essere stato il finale che il giovane drammaturgo aveva previsto per la sua opera. Del resto, una tale impresa sarebbe impossibile e, forse, persino dannosa. Nessuno di noi sa prevedere quale sarà il prossimo pensiero che ci apparirà in mente, né ha piena cognizione su come i progetti che stiamo realizzando termineranno. All’improvviso, può accadere dentro i nostri processi mentali qualcosa di diverso e di inaspettato, o ancora può capitare fuori di noi un evento del tutto imprevisto, che porta a riconsiderare il senso e il fine delle nostre azioni. Büchner stesso poteva insomma non avere la minima idea di quale sarebbe stato il finale del Woyzeck, oppure ce l’aveva, ma avrebbe potuto modificarlo abbandonando tutte le ipotesi abbozzate sulle sue sudate carte. E se non riusciamo a sapere del tutto che cosa succede dentro gli angusti confini del nostro “io”, come si può pretendere di anticipare e colmare la vita mentale di un “altro”?
L’impresa sarebbe però anche dannosa perché la forza espressiva e poetica del Woyzeck sta proprio nella sua incompiutezza: nella deflagrazione della storia del povero soldato Woyzeck in alcuni frammenti drammatici, di cui si ignora (o si fatica a riconoscere) l’ordine e i nessi casuali. La prosecuzione immaginaria de Il caso W. prende dunque il carattere incompiuto del testo come un valore e, più che colmarne i vuoti, cerca di infittire ancora di più il mistero di questa vicenda grottesca. E lo fa, come si accennava all’inizio, appunto con lo strumento del gioco e del comico del teatro, che cerca di esprimere concetti e idee abissali per il tramite del riso. Abbandonata ogni velleità di aderenza scientifica e fedeltà filologica, Il caso W. si tramuta in un omaggio a Büchner e, al tempo stesso, un approfondimento di alcuni volti inquietanti della vita, che il processo a Woyzeck fa emergere in modo divertente e insieme sinistro.
*
Il sèguito della trattazione si concentrerà sui tre grandi temi che animano il lavoro di Frongia e sulle procedure che infittiscono – invece di risolvere una volta per tutte – il mistero del Woyzeck: la giustizia, la follia, la morte. Si vedrà come, forse, una delle specificità di questo lavoro è la capacità di mostrare che la nostra realtà è in totale soqquadro (The World is out of Joint, diceva Amleto), in cui non si capisce più chi sia il giusto e chi il criminale, chi il folle e chi il savio, chi il vivo che si avvia a morire e chi il morto vivente che cammina.
Il tema della giustizia è il basso continuo di tutta la rappresentazione, che è esplicitato con un elemento scenico. In alto, sospeso sul palcoscenico, è appeso un cartello che recita la formula giudiziaria «La legge è uguale per tutti». Apparentemente, essa dovrebbe far da garante della giustizia, perché pone un’identità tra il “giusto” e il “legale”. La giustizia sarebbe identificata con l’applicazione delle leggi stabilite dagli esseri umani. Ora, Il caso W. solleva in merito due problemi. Da un lato, esistono operatori umani capaci di salvaguardare la giustizia? Dall’altro lato, è davvero sensato identificare “giusto” e “legale”, in altri termini può la legislazione riuscire a individuare e punire o correggere gli ingiusti?
La risposta che è fornita a tali domande è sicuramente negativa. I presunti operatori della giustizia che vengono rappresentati nello spettacolo – giudice e cancelliere, l’avvocato di Woyzeck e il suo accusatore – si rivelano inadeguati ad assolvere a questo compito, poiché pensano a tutto meno che a cercare questa virtù e a diffonderla in società. Infatti, sia dentro che fuori dalle aule del tribunale, questi individui parlano del cibo, si lamentano dei loro problemi col sonno, raccontano barzellette, cantano ariette e danzano balletti dimentichi del proprio ruolo istituzionale. La rappresentazione degli operatori della giustizia è dunque comica e leggere, ma veicola un contenuto serissimo. Chi sarebbe chiamato ad amministrare la giustizia è assorbito da questioni futili e non dall’amore della verità, che anzi si cerca controvoglia e quasi per noia.
Di fronte a persone così mediocri, dunque, l’accusato Woyzeck non può che apparire poco interessante, nonostante l’impatto che esso ha avuto e ha tutt’oggi sull’opinione pubblica. Se si limita lo sguardo agli eventi concreti, infatti, l’omicidio di Marie può essere ridotto al movente prosaico della gelosia. Tale è la strategia dell’accusa, che individua le cause del caso di violenza alla tresca della compagna di Woyzeck con il Tamburmaggiore, sminuendo ogni riferimento alle visioni apocalittiche che tormentano l’accusato. Gli altri membri del tribunale sembrano poi ben disposti ad accettare questa versione rassicurante dei fatti. Fa eccezione l’avvocato della difesa, che in effetti riconosce la presenza delle potenze sovrannaturali e vi fa ricorso, nella sua arringa finale, per spiegare la causa non banale del gesto omicida di Woyzeck: «i fatti sono sotto gli occhi di tutti e neanche la supponenza del giusto li può oscurare. Ci è stato detto o no che l’uomo è un abisso? E noi che facciamo? Lo riduciamo a una pozzanghera?». Ma anche tale eccezione può essere ridimensionata, ricordando una delle scene centrali dello spettacolo. L’avvocato si trova a parlare con l’accusatore di Woyzeck al chiuso di un’aula del tribunale e, invece di discutere in merito a questo caso molto peculiare, ciancia su quanto sia buona l’insalata con le trombette di morto e accetta di buon grado un invito a raggiungere il collega a cena per provarle. Questo dialogo segreto è rivelatore, perché insinua un dubbio nello spettatore. Ciò che sostiene l’avvocato della difesa è effettivamente dettato da un’autentica credenza nel mistero e nel sovrannaturale? O è forse, più probabilmente, una sua strategia retorica di facciata, un elemento pittoresco che il personaggio usa per corroborare la tesi dell’infermità mentale del soldato Woyzeck?
*
Il disinteresse di fondo al piano sovrannaturale può essere poi ricollegato al secondo problema accennato sopra, ossia se sia corretto identificare, come fanno i personaggi, il “giusto” con il “legale”. Se la giustizia consistesse solo nel rimediare a un’infrazione della legge, allora Woyzeck sarebbe in effetti colpevole e ingiusto. Ma se si tiene da conto di ciò che gli esseri umani non riescono di norma a concepire e a immaginare, ossia del mondo invisibile degli spettri e del sovrannaturale, allora ecco che la questione si fa più intricata e diventa impossibile capire se è stata commessa un’ingiustizia. Woyzeck può non aver ucciso per cause passionali e umane, bensì perché spinto da una forza più potente e violenta di lui. In tal caso, la sua evidente infrazione della legge non basta a qualificarlo come ingiusto, perché è venuta meno la responsabilità dell’atto. Operatori di ingiustizia sembrano essere, invece, proprio gli attori del tribunale che studiano il caso Woyzeck con superficialità, con l’unico obiettivo di chiudere presto il processo e di tornare alle loro occupazioni superflue. Ecco così un primo rovesciamento. L’ingiusto Woyzeck sembra essere giusto e innocente, perché commette il male senza volontà, e i giusti operatori del tribunale paiono macchiarsi di una grave colpa: l’indifferenza verso la verità.
La giustizia risulta così essere una virtù che non può essere amministrata dalle menti umane, troppo umane, che si fermano solo a giudicare il visibile e non anche a misurarsi con le potenze invisibili, che operano di nascosto persino nel tribunale. È utile ricordare, a tal proposito, che le persone chiamate a testimoniare al processo non riescano mai a leggere la formula del giuramento. Una qualche forza nascosta impedisce a Kate di vedere il testo, toglie il respiro al Tamburmaggiore, distrae Andres dall’acconsentire subito alle parole di rito che il cancelliere legge al posto suo. Qualcuno o qualcosa di invisibile cospira affinché le istituzioni umane non procedano nel loro corso e condiziona in peggio la condotta degli individui, portandoli verso la violenza e la catastrofe.
*
Si può procedere più rapidamente in merito al secondo tema principale de Il caso W., vale a dire la follia. L’impressione generale che emerge è, infatti, che Woyzeck il “pazzo” sia anzi forse l’unico sapiente in un mondo di folli che badano all’inessenziale. Egli è colui che ha visto nel profondo l’abisso che l’essere umano contiene dentro di sé, o la persona che, con le sue visioni apocalittiche, anticipa l’avvenire e riconosce le forze nascoste che agiscono su di noi tra le pieghe più sottili del reale. Per esempio, Woyzeck percepisce lo sciogliersi dei ghiacciai, prefigurando la catastrofe ambientale di oggi che, agli occhi dei suoi contemporanei, appare invece essere un attacco di delirio, secondo la difesa, o una simulazione della follia, stando all’accusa. O ancora, egli sente una farfalla che gli vola dentro lo stomaco e che ha paura di schiacciare con il cibo ingoiato. Il riferimento misterioso può essere decifrato come la consapevolezza della presenza in noi di una forza impalpabile che costringe a riversare contro il mondo esterno la nostra furia, a scatenare i nostri più abissali istinti di morte e violenza. In che modo, allora, Woyzeck può essere giudicato come infermo di mente da chi ha solo una conoscenza parziale e più ottusa della realtà? «Il mondo è grande, Sottufficiale, e le cose sono tante», dice a un certo punto l’avvocato difensore quando si scaglia contro la testimonianza del Tamburmaggiore, che riconosce solo una porzione molto esigua del reale e delle sue potenze invisibili. Che è un’altra eco, forse non voluta ma non per questo meno pertinente, di un’altra nota battuta che Amleto pronuncia nella grottesca tragi-commedia dell’Hamlet: There are more things in heaven and earth, Horatio, / Than are dreamt of in your philosophy.
Si individua così un secondo rovesciamento dell’ordine naturale. L’unico savio che guarda la realtà nella sua fosca interezza è giudicato da una congrega di folli, che non si accorgono della loro pazzia perché pongono la loro ottusità di visione come l’unita di misura del mondo. Chi è cieco come loro è “sano”, chi guarda oltre il loro ristretto orizzonte è un “malato” da sorvegliare e punire.
*
Passiamo infine alla morte, o al terzo e ultimo tema fondamentale de Il caso W., dove si può riconoscere un disordine simile a quello che si è riscontrato intorno ai concetti di giustizia e follia. Secondo la testimonianza di Kate, Woyzeck «diceva sempre che i morti si nascondono dietro le facce dei vivi», ossia riconosceva con il suo occhio speciale e ormai abituato a bucare le apparenze che alcune persone che a noi sembrano in vita sono in realtà defunte, o hanno perso qualcosa di importante (l’innocenza, la gioia di esistere, ecc.) e sono cadute in una condizione di “morte spirituale”. Inoltre, egli è l’unico altro personaggio – insieme alla madre di Marie (Margareth Schmolling Woost), altra testimone chiave del processo – che sa percepire la presenza degli spiriti che infestano il mondo e il tribunale, che tutti gli altri scambiano invece per le visioni di una mente malata. Ancora una volta, questa constatazione getta una luce sinistra sullo stato di cose della realtà attuale. I morti o gli spiriti che riescono a scuotere potentemente gli esseri umani fino a portarli ad uccidere sono più vitali dei vivi, e i viventi che incontriamo ogni giorno sono più putrescenti e marci dei morti.
Il concetto chiave de Il caso W. sembra consistere nel fatto che il caos domina incontrastato. La giustizia è una forma legalizzata di ingiustizia, la follia è una condizione generalizzata nella società degli esseri umani che non riescono di norma a vedere oltre il visibile, la vita è una qualità che inerisce solo ai morti. Tali affascinanti intuizioni esaltano, a loro volta, la fascinosa incompiutezza del Woyzeck, perché Il caso W. approfondisce alcuni spunti contenuti nel testo originario ma non spiegano né il come né il perché le potenze sovrannaturali agiscono come agiscono, o quale sia stata la causa dell’omicidio di Marie. Ciò ha l’effetto di stimolare la mente e l’immaginazione dello spettatore a interrogarsi sulle questioni sollevate, a colmare – se così desidera – con la sua personale riflessione critica i vuoti lasciati scoperti da Büchner e Frongia. Nessun poeta (per quanto geniale) può pretendere di esaurire con le sue opere che cosa siano la giustizia, la follia, la vita e i relativi opposti, perché di queste cose non esiste né forse esisterà mai una definizione chiara, non controversa e di comprensione pacifica. Come dice sempre l’avvocato della difesa de Il caso W.: «non è vero (…) che questa è una storia semplice, nessuna storia lo è». Per quanto si proceda innanzi con la conoscenza, ci ritroveremo sempre ignoranti e al punto di partenza della ricerca, come se non avessimo indagato affatto.
*
Tutte queste cose atroci che Il caso W. racconta basterebbero a gettare lo spettatore nello sconforto, o peggio di far cadere in una forma di nichilismo radicale. Si sta sostenendo, in fondo, che la giustizia non è di questo né di un altro mondo, che i saggi o sani di mente sono pochi e perseguitati dai peggiori, che la morte è l’esperienza più vitale che possiamo provare, che la conoscenza anche minima di qualcosa è inaccessibile. A evitare lo sconforto e il farsi bruciare dalle visioni pessimistiche è proprio però la dimensione giocosa e comica che il teatro di Frongia porta con sé. Anche se gli attori fanno e dicono cose atroci, lo fanno sempre attraverso costruzioni ritmiche leggere e mai definite del tutto, o ancora evocando immagini amare ma anche di grande dolcezza. Le battute più belle appartengono del resto a Woyzeck («Lui si congelava in un fuoco che non conosce cenere», «Ha mangiato un pezzo di nuvola come un pezzo di pane»), che facendo esperienza della morte e della violenza individua una via di accesso alla bellezza. Ne risulta in qualche il paradosso che, tanto più uno sprofonda nell’orrore e nella complessità dell’esistenza, tanto più si diventa in grado di ridere delle proprie miserie. La suprema serietà passa per il tramite del gioco dello spirito.
Il caso W. è allora, in conclusione, una sorta di buco nero, che fa precipitare nell’Ade o nell’invisibile. Il gioco del teatro evoca mostri che normalmente sfuggono alla nostra percezione e, che tuttavia, condizionano larga parte dei nostri pensieri, delle nostre azioni, dei nostri amori infelici. Il passo ulteriore sarebbe quello, forse, di riconoscerli e di fronteggiarli, o almeno di accettare la loro esistenza e di apprezzarne la tragi-comica bellezza. Il caso W. si chiude, del resto, che un’ultima apparizione dello spettro ansimante e zoppicante di Marie, che Woyzeck – abbandonato dall’indifferenza umana – segue senza sapere il perché. Seguendo questa ombra ferita e incerta della donna amata, un uomo di carne e sangue striscia con un ghigno grottesco verso l’ignoto, verso l’eternità.
Enrico Piergiacomi
***
Il caso W.
di Rita Frongia
regia Claudio Morganti
con Isadora Angelini, Gianluca Balducci, Gaetano Colella, Massimiliano Ferrari, Rita Frongia, Claudio Morganti, Francesco Pennacchia, Luca Serrani, Gianluca Stetur, Paola Tintinelli
luce Fausto Bonvini
organizzazione Adriana Vignali
produzione Teatro Metastasio di Prato, TPE-Teatro Piemonte Europa, Armunia-Castiglioncello, Esecutivi per lo spettacolo
*In copertina: fotografia di scena da “Il caso W.”, photo Ilaria Costanzo
L'articolo “Ci è stato detto o no che l’uomo è un abisso? E noi che facciamo? Lo riduciamo a una pozzanghera?”: Woyzeck, l’unico sano in un mondo di folli. Discorso su “Il caso W.” di Rita Frongia proviene da Pangea.
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lolalolita-x · 5 years
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Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
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skizzmalo · 5 years
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Symphonie en sous couche (le chant de l’invisible)
 “Ève lève-toi et danse avec la vie ! L’écho...”                                                                                                Installé plutôt confortablement au côté de la bonne âme qui avait daigné donner à mon pouce levé un accessit secourable, je renâclais à quelque pique caustique qui font pourtant mon quotidien habituel lorsque des mélopées surannées échappées (on ne sait comment) des abîmes culturels des heighties se mette à tamponner avec cruauté mon appareil auditif dans son ensemble et plus si affinités…        
 Et malheureusement, affinités, il y eut, car fut une époque, révolue ce jour, où je m’hypnotisais les synapses à coup de clips vidéo olé-olé, et dont la sémillante Julie Piétri était une des composantes actives. Ainsi me souvins-je de son corps sortant de l’eau, tout scintillant de coquillages et de crustacés, et s’activèrent en moi-même des pensées on ne peut plus malséante dans la situation où je me trouvais ! Car oui, c’était la symphonie des sens que, sans qu’elle l’ait jamais désiré (quoique), venait de réveiller en moi cette chansonnette chistian-friendly des plus absconse ! En effet, tel un invisible chant des sirènes propice au désensablage de souvenir, mon ouïe rencoda dans ma bouche le souvenir des pouss-pouss au citron dont je me délectais cet été-là, et dont les sudations sucrées laissaient des cartes jaunes imprimés sur mes T-shirt... le parfum de la lavande qu’arpentaient sans vergognes, abeilles papillons blancs et cousins... la douceur des coquelicots que j’effeuillais dans la brise… Ma doué ! Quel opéra sensoriel ne venait pas de déclencher en moi cette bien innocente litanie tubesque !                                                             
 Cependant, sans doute troublée par le silence d’un inconnu auquel elle venait pourtant d’accorder son hospitalité motrice, ma chauffeuse éphémère réitéra son interrogation première à mon endroit, que j’étais pourtant sûr d’avoir bien articulé la première fois.
                                                  __ Et donc vous allez où, alors ? __ Hein... heu… ben toujours pareil.                                                         __C’est à dire ?                                                                                   __ Eh bien…                                                 
 Piégé par les circonvolutions de ma mémoire, je me trouvais à présent bien en peine de révéler à mon interlocutrice du moment, ce qui n’était pourtant un secret pour personne ! Sinon pour mon chat Plouf que je n’avais pas averti de mon départ et qui j’en conviens sans problème, n’en avait sans doute rien à secouer… Or la personne de sexe féminin dont j’étais le passager surprise, n’était pas fait du même bois que Pouf ! D’une, elle ne m’avait jamais regardé (pour l’instant) avec dédain et ostentation (encore que ça allait peut-être changer sous peu…) de deux, elle était dépourvue de vibrisse, et sans doute aussi de coussinets… Mais après tout qu’en savais-je vraiment ? Qui étais-je donc pour juger ? Je n’avais après tout en ma possession qu’un diplôme d’Assistant de Service Social ? Nul trace de ma présence en faculté de biologie humaine, ni d’ethnologie, ni d’anthropologie ne parsemait les travées de mon cursus scolaire… Mais à coeur vaillant, rien d’impossible, me dis-je alors et enchaînait comme d’autres les disques d’or(on fait ce qu’on peut.), sur la question qui suit :                
                                                                                                  __ Excusez-moi d’avance pour ma question, comprenez bien qu’elle est l’œuvre d’un profane en la matière… Mais avez-vous quelques aptitudes au ronronages ?                                                                 __ Quoi… Ronro… Quoi ? __ Ronronage ? __ Hein… ça veut dire quoi ?                                                                               __ Le bruit que font les chats quand ils sont contents…                                        __ Houlà, mais quel est le rapport avec l’endroit où vous voulez que je vous dépose ?  __ Ben, c’est toujours flou… Je pensais simplement que parler d’autre chose m’aurait permis de reprendre pieds ! __ Et bien en parlant de pieds… Vous voilà arrivé !   __ Vous êtes sûre de vous ?! M’interloquais en ne voyant que des champs inconnus autour du carrefour où la Fiat Punto de la jeune femme fan des 80’s venait de piler.                                                                 __Vous vouliez aller dans une grande surface non ? Alors c’est tout bénef… Regardez la taille de la surface qui nous entoure, n’est elle pas immense ?                                         __ Oui mais…! __ Et encore mieux, voici le carrefour… Et que vois-je, nous sommes aussi aux champs ! Bon allé, je ne voudrais pas plus longtemps interrompre vos interrogations méta-philosophico-biologique et vous laisse libre de vos déplacement futur… Bon vent !
 Et non contente de m’avoir fait subir une éviction des plus cavalière hors de son véhicule, la péronnelle après avoir démarré en trombe au mépris de toute concorde sonique, revint vers moi en marche arrière et abaissa la vitre électrique, dont je n’avais même pas pu faire un usage momentané la minute d’avant.
__ Et la prochaine fois qu’on vous prend en stop, essayé d’avoir un minimum de conversation… On est pas des bêtes non plus !        
                                             Et, sans me laisser le loisir de rétorquer quelque pique bien sentie à l’endroit de son savoir-vivre des plus inconsistant, elle repartie en trombe, offrant à la cantonade, des effluves soniques des plus criardes et des particules fines de pneumatiques des plus toxiques !                                                      Cependant, bien que gros-jean comme devant, et privé du plaisir de répartir… je réalisais soudain pourquoi mon complexe encéphallo-sarcasmique, n’avait pas, quand avaient fusé les mélodies glucosées de Julie Piétri, fonctionné au meilleur de son côté obscur et m’avait offert, en contrepartie, l’occasion de me souvenir de délicats relents de ma mémoire pré-adolescente. En bridant ses velléités négativistes, j’avais permis à la lumière d’exister, à l’invisible chant de se déployer… Mais bon, contrairement à ce qu’en avait dit mon ancienne chauffeuse, ce n’était pas tout bénef que d’être ici ! En effet, je ne savais pas encore vraiment où je me trouvais…
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romanticasemiva · 6 years
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Nessuno si salva da solo, dicevano. Tu salvi me, si sono detti.
A @brandyamber e alle sue magnifiche idee, senza di te questa storia non avrebbe mai avuto un finale.
Grazie, grazie mille. ❤
parte uno.
Inspira l’aria fresca che sa di pioggia e erba bagnata, Marco l’aveva portato in montagna. Non che a Ermal dispiaccia, assolutamente, ma preferiva di gran lunga il mare.
Sta sul balcone di legno di quella piccola baita, i gomiti appoggiati alla balaustra e una sigaretta accesa tra l’indice e il medio della mano destra. Aveva ricominciato a fumare per evitare di sentire il nervosismo che gli attanagliava il cuore, per evitare di sentire il tremore incontrollato delle sue mani. Per tenermi occupato si diceva.
L’aria frizzante di settembre era arrivata e aveva rinfrescato l’aria di quella torrida estate, il sole è alto oltre l’orizzonte e irradia la valle con la sua forte luce dorata. Ne è meravigliato. Soffia il fumo verso l’alto osservando i suoi fili grigi salire danzando.
Sente delle braccia stringersi attorno alla sua vita, sobbalza leggermente. Non era più abituato a quel tipo di contatto ed ogni volta che Marco lo sfiorava percepiva un certo disagio farsi strada nel suo cuore. “Hai dormito bene Erm?” sussurra posando il mento sulla sua spalla. Ermal annuisce appena, spegne la sigaretta nel posacenere nelle vicinanze e prende un respiro profondo, si volta verso il ragazzo osservando i suoi lineamenti, i capelli arruffati e il segno del cuscino sulla sua guancia destra. Gli sorride e Ermal può sentirsi meglio, può smettere di tremare nella sua presa. “Ti va di fare colazione?” e Ermal si schiarisce la voce, “Certamente.” ma il suo stomaco si era già chiuso al pensiero di dover per forza sedersi ad un tavolo e mangiare.
Marco era così premuroso nei suoi confronti, sapeva un sacco di lui e dei suoi progetti futuri e Ermal gli aveva aperto il cuore ma non l’anima, l’anima la teneva sotto chiave lontano dagli occhi della gente. Solo Fabrizio l’aveva attraversata, l’aveva vista e sentita, solo lui aveva curato quegli spigoli laceranti.
Fabrizio, non lo vedeva dall’ultima udienza, a fine giugno quando le giornate si erano allungate e il sole ancora non era calato alle otto di sera. Quel pensiero gli attanaglia il cuore ma lo respinge, ora è con Marco. Ora deve sentirsi felice. Gli lascia un bacio a fior di labbra, leggero, fugace osservando poi la reazione dell’altro che, sotto a quel tocco, si illumina. Difficilmente Ermal gli dava un bacio, arido ancora di emozioni e pensieri positivi, e Marco non perde tempo. Fa incontrare di nuovo le loro labbra chiedendo il permesso per poter approfondire il bacio, lo fa passandogli la lingua sui denti bianchi di Ermal, questo freme ma lo lascia fare schiudendo di poco la bocca.
Ma quello che si trova a pensare è altro, se lo immagina. Fabrizio e le sue mani sulla sua schiena o tra i ricci sfatti, sulla pelle nuda e tra le cosce un po’ sudate, i brividi che corrono giù per la spina dorsale e i polmoni che bruciano perché mancava l’aria. Perché i loro baci erano così: passionali e da farsi mancare il respiro, pure negli ultimi mesi dove di amore non ce n’era più e ogni passione era scemata ricercando la carnalità e soddisfazione.
Con Marco, ora, è tutto diverso: c’è dolcezza, c’è voglia di scoprirsi ma Ermal non trova la passione. Lui non è Fabrizio. Lui non è Fabrizio. Quasi si mette a piangere perché quel bastardo non vuole andarsene dalla sua testa, perché lo tormenta ma non può che amarlo, non può che sentire che lui è stato davvero l’uomo della sua vita.
“Ermal, c’è qualcosa che non va?” chiede Marco abbastanza perplesso, l’altro tossisce slegandosi da quell’abbraccio e: “No Marco, la montagna mi mette sonno. Sono ancora stanco.” sussurra ridacchiando.
(...)
Il suo appartamento è inondato di scartoffie, non riesce più a venirne a capo. Ha troppi documenti inutili che non riesce mai a buttare via, ha trovato tra tutta quella confusione la sua pagella della seconda media. Ottimi voti, comportamento eccellente, il primo della classe e sorride un po’ ricacciandola nella cartelletta rossa in cui era custodita. E poi c’è quella cartelletta, quella blu, quella del divorzio. La lettera dell’avvocato spuntava dall’angolo, sulla copertina un post it bianco recita “Lunedì, ore 14.30” e l’ennesimo appuntamento, l’ennesima chiamata e l’ennesima volta in cui avrebbe dovuto vedere Fabrizio.
Troppi pensieri, prende il telecomando accendendo la tv, forse può pensare ad altro. Forse.
Lo schermo si accende sul canale tv di RTL, una speaker bionda saluta e in sottofondo il classico jingle della radio. “Buon pomeriggio Italia, sono le sedici e due minuti e oggi a Roma fa ancora caldo. Tra pochi minuti con noi avremo un ospite, un cantante che da poco sentiamo in radio. Un romano come me, trentacinque anni, mille storie e tanti tatuaggi sulla pelle, lui è Fabrizio Moro.” gli sfugge il telecomando di mano, il cuore batte nel petto e tenta di calmarlo facendo dei profondi respiri. Fabrizio Moro, il suo Fabrizio che gli aveva confidato di voler cambiare cognome se mai avesse dovuto sfondare nel mondo della musica. I Keane cantano Somewhere only we know e non ci può credere, sposta tutte le carte dal divano e si fa un posticino per sedersi, il cellulare stretto tra le mani e il cuore che non accenna a calmarsi.
E quando il videoclip finisce e viene inquadrata la classica sala rossa della radio lo vede. Bello, tanto bello con quel cappello calcato in testa e la camicia di jeans sbottonata, sorride alla speaker con quel velo di tensione negli occhi. Gioca con i bracciali per contenere il nervosismo, nota anche quello di corda nera che gli aveva regalato tempo fa. “Fabrizio ciao, come stai? Tutto bene?” apre la voce squillante della speaker, impacciato bofonchia al microfono aggiustandosi le cuffie: “Tutto bene, tutto a posto.”.
Ermal non vorrebbe seguire quell’intervista, vorrebbe cambiare canale. Non lo fa. Ascolta con un nodo al cuore le battutine che si scambiano, le domande sui suoi sogni e sui mesi chiusi in sala di registrazione per incidere quel disco tanto desiderato. “Ma adesso ascoltiamo un tuo estratto. Sai una cosa Fabrizio, mi sono emozionata la prima volta che ho sentito questa canzone.” Fabrizio ringrazia e sorride, un sorriso amaro per poi: “Sapessi quanto ho pianto io.”. “Ma dimmi un po’, a chi hai pensato mentre scrivevi questo pezzo?” e riconosce quell’espressione, quella che fa quando non vuole rispondere alla domanda, svia rispondendo solamente: “Alla persona più importante della mia vita.” e ad Ermal si mozza il fiato in gola.
La sala rossa scompare e al suo posto trasmettono il videoclip della canzone, Fabrizio seduto su di uno sgabello con una chitarra poggiata sulla coscia. L’ambiente è spoglio, grigio, solo un letto sfatto sulla sinistra e un tavolo con due sedie sulla destra. Su di esso una candela accesa.
Cercare un equilibrio ogni volta che parliamo e fingersi felici di una vita che non è come vogliamo Ermal non regge, ha il telecomando puntato verso la tv e il pollice sulla freccia per cambiare canale. Sono solo parole, le nostre e quante parole si erano detti? Quante promesse si erano fatti? Tante ma mai troppe.
E ora penso che il tempo che ho passato con te ha cambiato per sempre ogni parte di me. “Fabrizio, ti prego.” riesce a sussurrare a denti stretti
Tu sei stanco di tutto e io non so cosa dire, non troviamo il motivo neanche per litigare.  “Ne avevamo troppi di motivi, troppi e tu te ne sei andato.” soffia ancora con una punta di rabbia nella voce.
Siamo troppo distanti distanti tra noi ma le sento un po' mie le paure che hai. “Le abbiamo condivise tutte le paure, Fabrizio.”
Vorrei stringerti forte e dirti che non è niente ed Ermal quasi glielo vuole urlare di raggiungerlo e stringerlo forte, vuole gridargli che non sono solo parole e che forse potrebbero aggiustare tutto ma ... piange.
Piange ed era troppo tempo che non lo faceva più, singhiozza scosso da tremori, la testa tra le mani e le lacrime calde che scorrono giù per le guance scarne e arrossate. Spegne la tv con un gesto improvviso, la spegne senza occuparsene poi più di tanto prendendosi la testa tra le mani. Inspira cazzo, inspira comanda a denti stretti, si passa il dorso della mano destra sugli occhi asciugando le lacrime rimaste impigliate tra le lunghe ciglia.
Guarda l’orologio che porta al polso, rimane per due minuti a fissare il televisore spento, nero. La testa che gira in maniera incontrollata, quasi folle, mille pensieri, mille problemi. Ma di una cosa è sicuro, solo una per cui farebbe pazzie. Lancia la cartelletta blu sul tavolo e raggiunge l’appendiabiti, infila il chiodo di pelle e spalanca la porta.
Si è sempre sentito soffocare nel mezzo della folla, non è a suo agio nel mezzo di una quarantina di ragazzi e ragazze fuori dalla sede centrale della radio. Tutti fremevano sperando che il cantante uscisse da un momento all’altro, che passasse per un saluto e un paio di fotografie, Ermal si tiene a debita distanza ed osserva da lontano quella felicità che invadeva gli occhi dei fan che lo attendevano impazienti. Tiene il telefono tra le mani e il numero di Fabrizio già inserito sulla tastiera numerica, trema e sente il cuore battere come un dannato.
“Ragazzi fatevi da parte.” e Ermal fa scattare lo sguardo verso il cancello d’ingresso, un paio di uomini della sicurezza lo tengono aperto e Fabrizio sgattaiola fuori salutando i ragazzi, fa un po’ di foto, abbraccia e firma un paio di copie del suo cd. Il riccio rimane in silenzio osservandolo, le labbra incurvate in un sorriso genuino e gli occhi nocciola che si strizzano quando rideva di gusto.
“Fabrizio.” chiama ma si accorge che fin troppa gente attorno a lui lo sta chiamando, ci riprova alzando la mano nella sua direzione, alza la voce, si sporge ma non gli riserva uno sguardo. “Bizio!” e il tono si fa quasi disperato, urgente, questo alza lo sguardo dal disco che stava firmando, cerca e gli occhi fanno passare ogni singola persona davanti a lui, lo vede alzarsi sulle punte e, disperato, guardarsi attorno finché i loro sguardi non si scontrano e incontrano.
Dura poco perchè lo chiamano insistentemente dalla struttura, ma non lo molla con lo sguardo. Meravigliato, sorpreso, sbigottito e mille altre emozioni si ingarbugliano nello stomaco del riccio. Fabrizio se ne va, ancora il suo numero composto e il dito sul tasto verde. Si sente abbandonato, lì fermo mentre i ragazzi lasciano il posto e, sorridenti, se ne tornano a casa. Sente gli occhi pizzicare e un forte senso di nausea che gli attanaglia lo stomaco e la gola, è ancora solo. Solo come a cena quando Fabrizio stava in studio fino a tardi, solo come quando pioveva a dirotto e lui lo stava aspettando fuori dallo studio del suo avvocato.
“Tu sei Ermal?” e torna al presente, guarda quell’energumeno vestito di nero oltre l’alto cancello. “Mi rispondi o no?”
“Sì sono io.” sputa piccato, gli fa cenno di seguirlo lasciandogli uno spazio per entrare. Ermal stacca il cervello, deve aver chiesto di me. Scivola all’interno della struttura, tra quei corridoi rossi pieni zeppi di foto e firme di personaggi famosi, “Accomodati qua.” e Ermal guarda l’uomo lasciarlo solo in una stanzetta rossa con un paio di divani.
“Ermal?” si gira di scatto, “Cosa ci fai qui?”
“Fabrizio, ascoltami ti prego.” sputa con la sensazione di dovergli delle scuse, con la paura che non lo ascolti e lo molli in quella camera da solo. “Fabri, non sono solo parole, non lo sono.” sputa.
“Sono i gesti, sono le attenzioni che mi hai sempre riservato, sono le innumerevoli ore a tenermi testa e a litigare ma poi fare l’amore. Scusa se ho sbagliato, scusa per ogni capriccio, ma davvero tu hai cambiato ogni parte di me, non voglio essere distante da te, non lo voglio più.” singhiozza.
“Hai- hai sentito la canzone?” si avvicina Fabrizio levandosi il cappello. “L’hai ascoltata?” e Ermal annuisce, fa sì con la testa. 
“Scusami.” fa Fabrizio. “Scusami perchè è stata anche colpa mia.” e ancora una volta sono distanti, l’uno dall’altro. Si studiano come due animali in gabbia, da lontano, timorosi di compiere ancora un passo falso. Si cercano con gli occhi, cercando di interpretare le emozioni dell’altro. Farà male il distacco? Farà male tornare a casa stasera con la consapevolezza di essere stato in sua compagnia? Farà male dormire questa notte?
“Ermal, ascoltami. Ricominciamo.” 
“Ho paura.” lo interrompe prontamente. “Non devi, non devi più.” e nel tono di voce di Fabrizio c’è un non so che di supplica. “Ho paura che faccia male.” pronunciò Ermal muovendo un passo nella sua direzione. 
“Non farà male, non lo farà più.” singhiozza. Poche volte l’ha visto crollare, ma mai come in quel momento. “Te lo prometto Ermal, te lo prometto. Ti amo e non ho mai smesso di farlo, ho sempre avuto paura di perderti finché non è successo davvero.” 
Ermal si allunga e intrappola le labbra dell’altro in un bacio che si scioglie sotto il tocco gentile del marito, gli posa le mani sui fianchi alzando di poco la maglietta e toccando la pelle bollente dell’altro. Lo bacia, si baciano con l’aria che brucia nei polmoni, con le mani che si cercano e scorrono lungo tutto il corpo.
“Nessuno si salva da solo.” soffia Ermal sulle labbra morbide di Fabrizio.
“Tu salvi me.” gli risponde.
Spero di essere stata all’altezza, come al solito.
Un abbraccio come al solito.
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netcomsn · 2 years
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🇫🇷 Ce médecin propose une opération unique en France pour arrêter de rougir ou de suer excessivement
🇫🇷 Ce médecin propose une opération unique en France pour arrêter de rougir ou de suer excessivement
Au Centre hospitalier universitaire de Rennes (Ille-et-Vilaine), le professeur Bertrand Richard de Latour, est le seul chirurgien en France, à pratiquer une reconstruction du nerf sympathique. Un espoir pour les patients dont le nerf, sectionné, engendre de très nombreux problèmes dont une sudation excessive. (Carte : Ouest-France) « Je reçois des demandes de toute la France mais aussi de pays…
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