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#letterati tedeschi
gregor-samsung · 3 months
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" Goethe era convinto che i tedeschi potessero meglio adempiere la loro reale missione storica senza creare uno stato-nazione. Egli volentieri accettava per essi un futuro simile a quello degli ebrei: sopravvivere come popolo, preservare il proprio carattere e compiere grandi cose senza una patria comune. Al pari degli ebrei, i tedeschi sembravano a Goethe valenti come individui, ma piuttosto miserabili come popolo. Nelle sue conversazioni, anche a distanza di anni, a più riprese egli ritornò su questa analogia. « La nazione tedesca è nulla », dichiarò all'amico Friedrich von Müller il 14 dicembre 1808, « ma il singolo tedesco è qualcosa, eppure essi immaginano che sia vero il contrario. I tedeschi dovrebbero essere dispersi in tutto il mondo, come gli ebrei, per sviluppare pienamente tutto il buono che c'è in essi a vantaggio della umanità ». "
Hans Kohn, I tedeschi, traduzione dall'inglese di Amerigo Guadagnin, Edizioni di Comunità (Collana Passato e presente), 1963¹, p. 47.
[Edizione originale: The Mind of Germany, Charles Scribner's Sons, New York, 1960]
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jacopocioni · 8 months
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I caffè storici fiorentini.
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I caffè storici di Firenze, alcuni dei quali ancora oggi aperti al pubblico, sono stati fin dalla metà del 1800 luoghi di ritrovo dell’intellighenzia cittadina, ambienti dove la discussione culturale e politica era di casa. Nei caffè di piazza della Repubblica, di via De’ Tornabuoni, di piazza della Signoria e di tutto il centro storico di Firenze si crogiolavano in serrate discussioni e spesso acerrime litigate intellettuali, poeti, letterati o aspiranti tali, che dalle rive dell’Arno hanno segnato la storia culturale della città e dell’Italia intera. Tra i tavolini dei caffè fiorentini si sono confrontati Giovanni Papini, Gaetano Salvemini, Giuseppe Prezzolini, Gabriele D’Annunzio, i futuristi milanesi di Tommaso Marinetti contrapposti agli intellettuali fiorentini che facevano capo alla rivista La Voce, gli artisti Boccioni e Carrà, le avanguardie culturali come quella dei Macchiaioli. Bohémien e veri intellettuali che tra un aperitivo e un caffè, spesso a scrocco, hanno qui trovato l’ispirazione e la gloria, ma anche il coraggio per proseguire in una vita difficile e che solo postuma ha dato loro fama e onore. I caffè storici di Firenze sono uno dei fiori all’occhiello della nostra splendida città. Numerosi di questi antichi locali hanno chiuso i battenti nel corso degli ultimi decenni, altri si sono trasformati in nuovi spazi commerciali, ma molti sono quelli ancora aperti al pubblico e che si offrono ai turisti con il loro carico di storia e di passione.
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Alcuni dei più famosi caffè storici di Firenze si trovano in piazza della Repubblica. Il Caffè Gilli ad esempio, uno dei più antichi della città. Creato nel 1733 si trasferisce nell’attuale sede negli Anni Venti e oggi è l’unico rappresentante di caffetteria in stile Belle Époque di Firenze. I suoi locali raffinati sono ancora ricchi di affreschi e vetrate, oggetti d’epoca, lampadari in vetro di Murano: qui si gustano il cappuccino più cremoso della città, ma anche i deliziosi pasticcini e nella sala wine bar vini e liquori pregiati. Posto all’incrocio tra via Roma e Piazza della Repubblica, il Caffè Gilli è famoso anche per una celebre fotografia di Ruth Orkin.
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La storica immagine, datata 1951, intitolata American girl in Italy, riprende una giovane donna che passa davanti al bar con viso altero e incedere incalzante sotto lo sguardo ‘lusinghiero’ di giovani fiorentini sfaccendati, poggiati al muro del locale o a bordo di una vespa.
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Sempre in piazza della Repubblica ogni mattina fin dal 1846 apre le saracinesche il Caffè Paszkowski. Nato come birreria, diventa nel tempo un Caffè Concerto conosciuto in tutta Europa come luogo di incontro di artisti e intellettuali. Tra la ‘fin’ e il ‘début’ du siècle, tra i tavolini posti su splendidi pavimenti in mosaico, nelle sale decorate in Art Decò con le pareti ricoperte di legno pregiato del Caffè Paszkowski, si confrontano poeti e intellettuali del calibro di Giovanni Papini e Gaetano Salvemini, si tengono serate musicali e dibattiti di altissimo spessore culturale. Dal 1991 il caffè è diventato Monumento nazionale, ma fin dal 1988 è assurto all’onore della cronaca grazie a Francesco Nuti che si è ispirato al nome del locale per il film Caruso Pascoski di padre polacco. Le splendide sale sono oggi utilizzate anche per incontri e sfilate di moda, mentre il wine bar è famoso per la selezione di vini italiani, francesi, australiani e californiani.
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Un altro dei locali storici di Firenze affacciato su piazza della Repubblica è il Caffè Le Giubbe Rosse. Fondato nel 1897 da birrai tedeschi, i fratelli Reininghaus, prende il nome dalla divisa dei camerieri dell’epoca, una giubba rossa in perfetto stile austro-ungarico. Poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale presso Le Giubbe Rosse si trovavano a disquisire i Futuristi fiorentini e milanesi, con discussioni che spesso finivano in rissa: Ardengo Soffici e Tommaso Marinetti erano tra i più famosi antagonisti delle scuole locali e milanesi. Sono le pareti de Le Giubbe Rosse a raccontare la storia del locale, letteralmente ricoperte di foto d’epoca, disegni, scritti e memorie di quel tempo andato. Il caffè è ancora oggi un luogo d’eleganza, con personale selezionato, ambienti deliziosi dove si svolgono presentazioni e concorsi letterari. L’altro polo della tradizione dei caffè storici di Firenze è via de’ Tornabuoni, il salotto buono della città. I primi locali da citare di questo bellissimo angolo di Firenze sono però spazi commerciali che hanno chiuso i battenti.
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Nel 2001 ha chiuso il Caffè Giacosa, sostituito da un negozio di alta moda. Il caffè è famoso per la storia centenaria e la sua prerogativa ad accogliere nei primi decenni del XX secolo i figli più eccentrici, anticonformisti e gli spiriti liberi delle famiglie nobili fiorentine. Uno di questi, il Conte Negroni, negli Anni Venti era solito far aggiungere una dose di Gin all’Americano, dando così i natali al Negroni. Un altro locale storico ormai chiuso di via de’ Tornabuoni è il Gran Caffè Doney, stupenda sala da tè e pasticceria fondata dal nobile e ufficiale francese Gasparo Doney esiliato dalla famiglia dopo le sconfitte napoleoniche. Essendo nei pressi del consolato britannico, il bar era diventato il punto di incontro preferito della comunità e dei turisti inglesi in visita alla città, oltreché dalla buona borghesia fiorentina. In via de’ Tornabuoni vive e prospera ancora uno dei più intriganti locali storici cittadini, un wine-bar-gastronomia il Procacci. Fondato nel 1885 dalla famiglia Procacci, il locale diventa in breve tempo uno dei più rinomati della città per i piatti e la gastronomia a base di tartufo. E’ una delle più antiche gastronomie fiorentine, ma la sua fama ha varcato i confini nazionali e tra il 2006 e il 2010 sono stati aperti due Procacci Bar, a Vienna e a Singapore.
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Il novero dei caffè storici di Firenze non può prescindere da un passaggio tra i tavolini del Caffè Michelangiolo in via Cavour al numero 21. Quando sorseggiate una bibita o un aperitivo al Michelangiolo ricordate che qui hanno posto le basi della propria arte i Macchiaioli, giovani artisti che a metà del 1800 avevano fondato un movimento pittorico di grandissimo valore, naturalmente misconosciuto all’epoca. I Macchiaioli utilizzavano la tecnica della ‘macchia’ per dipingere la vita rurale e l’attività lavorativa, con forti contrasti cromatici e pochi dettagli, considerati inutili a rappresentare la vita. Del gruppo dei Macchiaioli, raccolti intorno al critico Diego Martelli, facevano parte tra gli altri Serafino De Tivoli, Telemaco Signorini, Giovanni Fattori, Odoardo Borrani e Niccolò Cannicci. A due passi dal Caffè Michelangiolo, in piazza Duomo, si trova un ristorante self-service il Bottegone che ha recuperato il nome da un antico locale molto famoso nella prima metà del 1900. Il Bottegone era un ottimo bar-pasticceria sull’angolo tra Via de’ Martelli e Piazza del Duomo, uno dei luoghi più classici di ritrovo per i fiorentini perché era l’ultimo a chiudere a notte fonda. Nel 1962 il locale è diventato uno spazio della Motta e solo in tempi recenti ha ripreso l’antica denominazione. Alle spalle di piazza Duomo, in via degli Alfani al numero 39, c’è un locale aperto nel 1920 come latteria dove fin dal 1840 si trovava una macelleria di cui rimangono alcune testimonianze come i ganci dove venivano appese le carne macellate.
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Il caffè Latteria Caffellatte, un secolo dopo l’apertura, ha ripreso a servire le colazioni come un tempo, il latte nelle ciotole, i vassoi di legno con pane, burro, marmellate e dolci preparati direttamente nel retrobottega. Da sempre il caffè-latteria è frequentato da studenti e professori della vicina Facoltà di Lettere e quindi è intriso da un profondo spirito umanista. Poco distante da via degli Alfani, in via dei Servi al numero 112, si apre la Pasticceria Robiglio, storico locale fin dal 1928. Da tre generazioni la pasticceria allieta il palato dei fiorentini con ottime torte fatte in casa e diventate un marchio di fabbrica, come la Torta Campagnola o la Fruttudoro. Il cavaliere Pietro Robiglio venne dal Piemonte per aprire il locale, poi ereditato dal figlio Pier Luigi ed è oggi gestito dal nipote Edoardo. L’alluvione del 1966 ha rovinato parte degli arredi che per volere dei titolari sono stati ricostruiti come gli originali. La premiata ditta Robiglio ha aperto nel corso del tempo altri locali, in via Tosinghi e in viale S. Lavagnini.
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A sud di Piazza Duomo, in piena Piazza della Signoria, si affaccia uno dei locali storici più famosi di Firenze, il Rivoire. Il locale è stato aperto nel 1872 al pian terreno del Palazzo delle Assicurazioni Generali e da allora è famoso per la cioccolata. Dai tavolini del Rivoire si ammirano Palazzo Vecchio e la Fontana di Nettuno, gli Uffizi e la Loggia dei Lanzi. Fondato da Enrico di Savoia, cioccolataio della famiglia reale, il caffè Rivoire E’ un locale molto raffinato che predilige una clientela ben vestita e meno globetrotter possibile. Da Piazza della Signoria, parallela al Lungarno, scorre via dei Neri dove al numero 76 si trova la Pasticceria Bar Ruggini. E’ lì fin al 1914 quando venne aperta da Giuseppe Ruggini che iniziò a sformare per la delizia di cittadini e turisti splendidi pasticcini e biscotti. Giunto anche questo alla terza generazione, è ancora uno dei migliori locali di Firenze, sempre ottimamente frequentato dalle signore della buona borghesia cittadina e da turisti amanti delle antiche specialità locali.
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Gabriella Bazzani Read the full article
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personal-reporter · 5 years
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Il senso del ridicolo 2019 a Livorno: raccontare il mondo con un sorriso
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Con la quarta edizione torna Il senso del ridicolo, festival italiano sull’umorismo, sulla comicità e sulla satira, dal 27 al 29 settembre a Livorno, diretto da Stefano Bartezzaghi e promosso da Fondazione Livorno, organizzato da Fondazione Livorno – Arte e Cultura con la collaborazione del Comune di Livorno e il patrocinio della Regione Toscana. In tre giorni di eventi, attori, autori, filosofi, scrittori, giornalisti, radio-star, letterati e, naturalmente, comici s’interrogheranno sul riso e sulla funzione dell’umorismo, della comicità e della satira nelle peripezie del costume, del potere, dell’animo umano.  Le vicissitudini tragicomiche del desiderio verranno raccontate da Massimo Recalcati, uno dei più noti psicoanalisti italiani, nella lectio magistralis che venerdì 27 settembre, alle 17.30 in Piazza del Luogo Pio, inaugurerà il festival. Gli umoristi sono coloro che sanno come approfittare del polo del ridicolo, come Achille Campanile, un inarrivabile campione dell’umorismo italiano del Novecento e nella serata inaugurale di venerdì 27 settembre, alle 21 in Piazza del Luogo Pio, ci saranno alcune pagine lette da Anna Bonaiuto. Lo scrittore, musicista e cantante Bobo Rondelli e la giornalista Eva Giovannini, racconteranno la propria livornesità sabato 28 settembre alle 12.30 in Piazza del Luogo Pio, inoltre si terrà una rassegna di film dedicata a Woody Allen, con tre capolavori che testimoniano di altrettante stagioni della durevole creatività di Allen, nel tempo in cui un’ingiustificabile censura sociale lo ha messo in ombra e la scrittrice Nadia Terranova lo racconterà sabato 28 settembre alle 11.15 ai Bottini dell’Olio. Scozzesi avari, donnine disponibili, uomini infoiati, tedeschi rigidi, suocere arpie, pierini insolenti verranno spiegati da Ascanio Celestini, che sta dedicando alle storielle che animano da sempre la nostra convivialità un progetto multimediale, presentato domenica 29 settembre alle 11.30 in Piazza del Luogo Pio. La dimostrazione della potenza dell’oscillazione fra comico e tragico è nell’articolo che scrisse per la morte del suo amico Primo Levi il grande musicologo Massimo Mila, che lo definì un umorista e non solo un testimone della Shoah, idea condivisa anche da Marco Belpoliti, che ha scelto una serie di pagine comiche, che saranno lette dall’attrice Federica Fracassi domenica 29 settembre alle 15 ai Bottini dell’Olio. Per tutto il giorno cerchiamo di evitare di cadere nel ridicolo. Ma chi è l’autore comico?  Il festival si interrogherà su questa figura tramite i social network e un incontro, previsto per sabato 28 settembre alle 17.15 ai Bottini dell’Olio, con Stefano Andreoli, Marco Ardemagni, Stefano Bartezzaghi, Sara Chiappori e l’attrice Pilar Fogliati.  L’ospite d’onore di quest’anno sarà Silvio Orlando che, in un’occasione rara, si racconterà dal palco del Teatro Goldoni sabato 28 settembre alle 21. Read the full article
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pangeanews · 4 years
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“La troppo intensa partecipazione alla vita febbrile della nostra epoca guerresca e rivoluzionaria, ci costrinse, ai primi di agosto, a prenderci quindici giorni di assoluta vacanza”. Vacanze futuriste: a Capri con Marinetti e Corra
Probabilmente molti di voi pensano che non esistano vacanze più eccitanti di una settimana a Ibiza, di un mese trascorso nella fitta foresta amazzonica a familiarizzare con gli indigeni, di un coast to coast negli Stati Uniti, o appesi a qualche parete rocciosa a strapiombo sul nulla. Se la pensate così, è perché non siete amici di Filippo Tommaso Marinetti e Bruno Corra. Il primo è Lui, il calvo elettrico, il genio futurista, l’unico e inimitabile; ma forse sarà meglio dire due parole su Bruno Corra. Nato a Ravenna in una famiglia di nobili origini, il suo aristocratico cognome Ginanni Corradini gli verrà strappato dall’impeto futurista e mutilato in Corra da Giacomo Balla (al fratello Arnaldo spetterà l’altra parte del cognome, troncato in Ginna). Così i fratelli Corra e Ginna si faranno presto conoscere ai primi del ’900 con alcune pubblicazioni programmatiche come L’arte dell’avvenire, destando l’attenzione di Marinetti, fino a preziose collaborazioni con i massimi esponenti del movimento futurista.
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Nel 1918 pubblica con l’ormai amico Marinetti L’isola dei baci – romanzo erotico-sociale, un’avventura futurista di cui gli autori si ritrovano ad essere protagonisti durante un soggiorno sull’isola di Capri. La storia inizia così, come la vacanza di ognuno di noi: “La troppo intensa partecipazione alla vita febbrile della nostra epoca guerresca e rivoluzionaria, ci costrinse, ai primi di agosto, a prenderci quindici giorni di assoluta vacanza”.
Ma un tranquillo soggiorno sulla bella Capri si trasforma ben presto in un thriller in cui i due prodi futuristi dovranno sventare la minaccia di una cospirazione passatista e pacifista. Dietro una simile “vigliaccheria” troviamo i soliti arci nemici di sempre: languidi palloni gonfiati, poetucoli dai modi effemminati che giocano all’amore con la luna, ebrei, banchieri, tedeschi e austro-ungarici. Così, attraverso “inquietudini lussuriose” e “notti schifosamente neutrali e pacifiste”, Corra e Marinetti saranno coinvolti in losche riunioni segrete sfidando le impetuose correnti delle grotte marine, e sarà loro compito sgominare una setta di altolocati omosessuali che vogliono bandire la luce elettrica, la velocità dei treni, le automobili e perfino la bicicletta, e fondare a Capri il Regno Internazionale degli amori eleganti, delle rovine illustri e delle mani curate. Ma, peggio di ogni cosa, vogliono bandire le donne, perché “la donna è sempre avvelenata da un desiderio futurista di progresso e di originalità. Essa ama la forza irruente, il tumulto, la battaglia, la velocità, la durezza, gli aeroplani e la violenza guerriera del maschio. La donna ama gli eroi. Un eroe è sempre mal vestito. Un eroe ha necessariamente le mani sporche”.
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Il tutto, ovviamente, per ridere. In spregio ai benpensanti, non si tratta infatti di letteratura, e ce lo dice lo stesso Bruno Corra: è un libro che rimane “fuori dalla letteratura”. Un testo dallo stile “villano”, che potrà risultare indigesto ai letterati, ma sarà apprezzato “da ufficiali, da professionisti, da studenti, da industriali, da signore. Con simpatia e con disinvoltura: senza pedanteria”. Un libro leggero, come si addice al futurismo, e Corra ne è stato forse l’esponente più spigliato, uno scrittore che ha fatto dell’autoironia il suo marchio di fabbrica. Un libro ben lontano dalle “sudate carte”, scritto ridendo. “Io credo fermamente, dice Corra, che il divertimento abbia una funzione sociale più importante di moltissime delle cosiddette cose serie”.
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Viene naturale chiedersi se un libro del genere, capito nel 1918, sarebbe capito oggi. Mi chiedo se l’ossessione per il politicamente corretto taglierebbe le gambe a questa manciata di pagine così leggere, così libere e divertenti. Mi chiedo dove sia finita l’autoironia, la voglia di prendersi in giro. Si respira un’aria di festa, di divertimento puro, non solo in questo libro, ma nell’intero corpo futurista. Una voglia di calpestare le severe barbe dall’aria accigliata e prendere a pernacchie le vecchie zie bacchettone. Ma dopotutto è estate, lasciamo che sia il sole a scottarci, e non le inutili polemiche. Dopotutto le vecchie zie vincono sempre.
Valerio Ragazzini
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pangeanews · 5 years
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“Ho coraggio a sufficienza per rendermi indipendente da altri critici e maestri, e di percorrere la mia strada”. L’editoriale oggi lo scrive Friedrich Hölderlin. Una lettera a Schiller
Il 1797 è un anno capitale per Friedrich Hölderlin. Il legame con Susette Gontard è tanto felice da diventare pettegolezzo; il poeta pubblica per Cotta il primo volume di “Hyperion”, abbozza l’idea dell’“Empedocle”. Frequenta con una certa assiduità Hegel, il compagno di studi che lavora come precettore a Francoforte. Hölderlin cerca il conforto dei grandi letterati del tempo, scrive a Friedrich Schiller, inviandogli “Hyperion” e alcune poesie, tra cui “Il viandante”. Le sue ambizioni, tuttavia, trovano ostacoli. Mentre la Rivoluzione francese scalpita presso i cancelli tedeschi, per gioia del poeta (“la giovinezza del mondo ritornerà dalla nostra decomposizione. […] Io credo a una futura rivoluzione delle coscienze e dei modi di pensare che farà arrossire di vergogna tutto ciò che è stato finora”), una analoga rivoluzione accade nel cuore di Friedrich. L’incontro con Goethe – il 22 agosto, a Francoforte –, ordito da Schiller, è un piccolo fallimento: i duchi della letteratura tedesca non capiscono la poesia di Hölderlin, accusata di essere troppo filosofica e soggettiva. “Schiller manda a Goethe le due poesie, senza menzionare il nome dell’autore. Il giudizio di Goethe è critico, ma sostanzialmente positivo. Schiller lamenta però la «pericolosità» della condizione di Hölderlin, che risente a suo dire di un eccesso di «soggettività» e meditazione filosofica…  L’atteggiamento di Schiller e Goethe è significativo della “dittatura del gusto” esercitata in quegli anni dai due scrittori di Weimar” (Luigi Reitani). La lettera di Hölderlin a Schiller, qui ricalcata, è raccolta nel ‘Meridiano’ Mondadori che raccoglie “Prose, Teatro e Lettere” di Friedrich Hölderlin, curato magnificamente da Luigi Reitani.
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A FRIEDRICH SCHILLER
Francoforte, 20 giugno 1797
La mia lettera e ciò che contiene non verrebbero così tardi, se fossi più certo dell’accoglienza della quale mi degnerete. Ho coraggio a sufficienza, e autonomo giudizio, per rendermi indipendente da altri critici e maestri, e di percorrere la mia strada con la quiete necessaria, ma da Voi dipendo in modo incoercibile; e siccome sento quanto una Vostra parola possa decidere di me, cerco talvolta di dimenticarVi, per non provare angoscia mentre sono intento a un lavoro. Perché sono certo che proprio questa angoscia e questo imbarazzo sono la morte dell’arte, e dunque comprendo bene come sia più difficile portare la natura a giusta espressione in un’epoca in cui si è già circondati da capolavori, piuttosto che in un’altra, in cui l’artista è quasi solo con il mondo vivente. Troppo poco egli se ne distingue, troppo gli è familiare per doversi opporre alla sua autorità, o per consegnarglisi prigioniero. Ma questa brutta alternativa è quasi inevitabile là dove, più potente e comprensibile della natura, ma proprio per questo più soggiogante e deciso, sull’artista più giovane agisce il maturo genio del maestro. Qui il bambino non gioca col bambino, qui non c’è l’antico equilibrio in cui il primo artista si trovava con il suo mondo: qui il fanciullo ha a che fare con uomini con i quali difficilmente acquista familiarità tale da fargli dimenticare il loro predominio. E se lo sente, non può che diventare ostinato o servile. O forse no? Quanto meno, non vorrei trarmi d’impaccio come quei deboli che in casi simili, come sapete, imboccano la via dei matematici e con infinite riduzioni rendono l’infinito uguale e simile al limitato. Se anche ci si potesse perdonare l’infamia che si commette a spese delle cose migliori, è pur sempre una troppo magra consolazione: 0 = 0!
Mi prendo la libertà di accludere il primo volume del mio Hyperion. Vi siete preso cura del libretto quando, sotto l’influsso di uno stato d’animo avverso e di offese immeritate, era del tutto sfigurato, e così arido e povero che preferisco non pensarci. Con riflessione più libera e con animo più felice l’ho ricominciato daccapo e Vi prego di avere la bontà di leggerlo, all’occasione, e di farmi sapere in qualche modo il Vostro giudizio. Sento che è stato poco prudente pubblicare il primo volume senza il secondo, perché è una parte troppo poco indipendente rispetto all’insieme. Possano le poesie che accludo meritare un posto nel Vostro Musenalmanach! – Vi confesso che sono troppo interessato per poter attendere senza inquietudine il mio destino fino all’uscita del Musenalmanach, e Vi prego quindi di fare qualcosa di più, e dirmi con due righe cosa abbiate trovato degno di accoglienza. Se permettete, Vi manderò ancora, rielaborate, una o due delle poesie che l’anno scorso sono arrivate troppo tardi. Parlando così, certo, mi mostro a Voi nella mia indigenza, ma non mi vergogno di aver bisogno dell’incoraggiamento di un nobile spirito. Posso assicurarVi che tanto meno trovo conforto in vane soddisfazioni, e che per il resto sono molto riservato su ciò che desidero e faccio. Con profondo rispetto il Vostro devotissimo
Friedrich Hölderlin
*In copertina: Cornelis van Haarlem, “La caduta dei Titani”, 1638
L'articolo “Ho coraggio a sufficienza per rendermi indipendente da altri critici e maestri, e di percorrere la mia strada”. L’editoriale oggi lo scrive Friedrich Hölderlin. Una lettera a Schiller proviene da Pangea.
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