Introduzione
Rossana è una candela, un camino, una cura, magma, lava, dragonessa, una rosa selvatica, un albero di cacao, una musica un teatro, una principessa ribelle, un diamante, un arcobaleno, un umore, un colore, l'iridescenza, un fuoco d'artificio, una stella nella notte, un raggio di sole, la luce nel buio, la luminosità nell'oscurità.
§candela
Rossana è una candela accesa che illumina una camera buia; è una candela decorata in un luogo grigio; è una candela fiammante in mezzo all'acqua; è una candela con un calore in un stanza fredda con delle finestre rotte che fanno entrare umidità a causa delle stagioni portando muffa
§camino
Rossana è un camino logorato di una casaccia o capanno o un rifugio di una famiglia grande e povera con i topi e gli insetti in inverno con uno o due strati d'abbigliamento soffrendo il freddo, è un camino piccolo di una casa piccola con una famiglia piccola e un piccolo cane a natale tutti con 4 o 5 strati d'abbigliamento, è un camino grande di una casa grande con due piani con una famiglia grande e un grande cane a natale con un solo strato d'abbigliamento, è un camino gigante di un castello con una famiglia piccola ma con tanti ospiti e un cavallo a natale vestiti leggeri ed eleganti per il caldo
§cura
Rossana è una cura naturale fatta di frutta ed erbe con il rapporto degli elementi contro il cibo spazzatura ed i farmaci, è una cura artistica fatta di sensi contro la mancanza di sensi ed arte, è una cura motoria fatta di danza e sport contro i blocchi motori
§magma
Rossana è il magma incandescente del sottosuolo come il sangue caldo nel corpo contro l'acqua del cielo come la pelle fredda del corpo, è il magma che sale in un vulcano attivo come la rabbia negli esseri emotivi contro la neve che scende in una montagna passiva, è il magma dell'attrazione sessuale contro la castità
§lava
Rossana è la lava luminosa di un vulcano nell'oscurità della notte, è la lava bollente nel freddo di una montagna, è la lava di fuoco nella neve.
§drag
Rossana è una draghetta che abita in una grotta grande sottoterra e vive nella costa, è una draghessa che abita in una grotta media e vive in pianura, è una dragonessa che abita in una grotta piccola sopraterra e vive in montagna, è una draghetta in un isola magica, è una draghessa sapiens dei quattro elementi che va in una scuola mista, è una dragonessa divina con tutti gli elementi che vive nell'universo
§rosa (fiore)
Rossana è una rosa selvatica multi-petali di multicolore nata in un edificio lineare e grigio, è una rosa selvatica osservata da tutti contro l'indifferenza, è una rosa selvatica che una persona vuole accarezzare ma si punge con le spine poi tocca i punti giusti e c'è la in mano
§albero di cacao
Rossana è un albero di cacao in Africa tra gli africani contro un grattacielo, è un albero di cacao che da gioia a tutto il mondo contro la tristezza mondiale, è un albero di cacao come un essere vivente pieno di frutti amari ma buoni
§musica
Rossana è una musica mista fatta di tante emozioni e tanti sentimenti e non solo suoni, è una musica multipla contro la musica monotona e la discriminazione musicale, è una musica di tante origini, è una musica con personalità
§teatro
Rossana è un teatro in cui siamo tutti spettatori : siamo tutti stelle che guardano il cosmo, luci cittadine nelle strade buie che guardano i passanti, umani passivi che guardano altri umani attivi; è un teatro greco-romano che con la sua forma ad orecchio ascolta il mondo umano; è un teatro naturale della montagna che innalza il protagonista e scende il pubblico
§principessa ribelle
Rossana è una principessa ribelle che scappa dal suo regno, è una principessa ribelle che rivoluziona il suo regno, è una principessa ribelle che combatte per il suo regno
§diamante
Rossana è un diamante che riflette la luce creando una scia di colori, è un diamante grezzo sottoterra che nessuno vede ma la natura conosce, è un diamante lavorato in laboratorio che tutti vedono nella vetrina di un negozio ma nessuno può toccare tranne gli addetti e il compratore
Rossana è un arcobaleno che crea un ponte tra la mente e il cuore, è un arcobaleno dopo la tempesta o un temporale o una pioggia abbondante, è un arcobaleno tra il passato e il futuro, è un arcobaleno contro il grigio delle nuvole
Rossana è un umore positivo su uno negativo, è un sorriso dopo un pianto abbondante, è una risata dopo un lamento, è una coccola dopo un dolore, è un abbraccio dopo una separazione,
Rossana è un colore arancio fiamma contro l'azzurro metallo, un colore rosso fuoco contro il ciano ghiaccio, è un colore rosa, è un colore fucsia elettrico, è un colore viola, un colore blu elettrico contro un giallo
Rossana è l'iridescenza del futuro umano universale, è l'iridescenza dell'anima di ognuno di noi, è l'iridescenza naturale dell'universo, è l'iridescenza del meta-verso bioecologico
Rossana è un crepuscolo astronomico mattutino che dalla scura notte inizia ad esserci luce, crepuscolo nautico mattutino che intermedia come una transizione con la prima stella nel cielo, crepuscolo civile mattutino che spegne le luci delle città per accogliere la luce naturale; crepuscolo civile serale che accende le luci della città creando l'inquinamento luminoso nell'oscurità e luminosità naturale, crepuscolo nautico serale che intermedia creando una linea verde, crepuscolo astronomico serale da la buona notte con l'ultimo raggio di Sole.
Rossana è un fuoco d'artificio in cielo nella sera rumoroso ed abbagliante come la folla in festa, è un fuoco d'artificio in acqua nella sera, è un fuoco d'artificio in terra nella sera
Rossana è una stella nella notte che crea una costellazione e che rientra in un sistema della nostra galassia o un'altra galassia, è una stella spettacolare in un palcoscenico enorme nella notte più speciale, è una stella nella sera vista da tutti perché è la prima ha brillare
Rossana è un raggio di Sole quando è nuvoloso, è un raggio di Sole all'alba dopo una notte gelida, è un raggio di Sole in una caverna di stalactiti
Rossana è la luce nel buio
Rossana è la luminosità nell'oscurità.
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La ragazza con un solo occhio
Non mi piace quando lo fa.
Lo detesto. Detesto la sua barba, le sue mani tozze, volgari.
Mi guardo intorno e detesto tutto di questo posto: le luci soffuse, gli eleganti centrotavola floreali, l’orchestra che suona dal vivo un brano di Glenn Miller, le coppie attorno a noi, così perse in passioni e desideri, così lontane, in un mondo a parte e distaccato da quello su cui io ora poggio i piedi.
Ma più di ogni altra cosa, detesto me stessa.
Non so neanche perché mi trovo qui, con lui. Qual è la ragione che mi ha spinta ad accettare? Non lo so.
Ero stanca della sua insistenza, forse. Ero stanca del suo fiato caldo come quello di una bestia famelica, che puzza sempre di bourbon scadente e sigari, dritto sulla mia faccia.
Così ho detto sì.
Ed implicitamente, ho detto sì alle sue mani, al suo fiato putrido, al suo viso già rubizzo per i fumi dell’alcool, ai suoi capelli laccati di gel, che a me paiono così unti, schifosamente sporchi, ai suoi occhi acquosi, storditi, annebbiati da un’unica voglia malata, che di ora in ora si manifesta sempre più palese.
È un uomo schifoso, lo sanno tutti. Ma nessuno fa niente.
Ricordo le occhiatacce di disprezzo e di disgusto delle mie colleghe dattilografe, alla notizia che avevo accettato l’invito, i discorsetti alle mie spalle, come se io non potessi sentire, come se il mio handicap peggiore fosse l’udito.
E non la vista.
Non le biasimo.
Le parole cattive uscite in miasmi di risentimento dalle loro gole, gli sguardi carichi di incredulità mista ad avversione, sono gli stessi che ho riservato a me stessa, una volta tornata a casa.
Eppure, nonostante questo, ho spazzolato i capelli, truccato il viso, acceso guance e labbra di rosso, indossato il mio miglior vestito – con il mio stipendio, è difficile spendere in lussi da ragazzetta vanitosa – e preso il taxi che mi ha condotta qui stasera.
Lui era alla porta ad aspettarmi, nel freddo sferzante di Gennaio.
Un vero galantuomo, ho pensato. Ironica.
Il suo braccio teso verso di me, una richiesta avanzata con arroganza.
L’ho ignorato, con un sorriso gentile.
Non azzardarti a toccarmi.
Lo ripetevo come un mantra, come una maledizione che speravo lo colpisse, che le sue braccia e le sue gambe e il resto del suo corpo disgustoso potessero per sempre smettere di funzionare, cedere e liquefarsi se solo avesse provato a toccarmi.
Non sta funzionando: continua a spostarmi i capelli dal viso.
Non mi piace quando lo fa.
Espone la mia parte vulnerabile, la deride, si prende gioco di me.
La mia ragazza con un solo occhio, è così che mi chiama, sorride con la speranza di trasmettere simpatia e non schifo.
Schifo, schifo, schifo.
Mostra a tutta la sala il mio difetto genetico, il peggiore che la natura avrebbe mai potuto imputarmi.
Quasi li vedo smettere di mangiare, alzarsi dai tavoli, venirmi incontro per deridermi con i loro visi perfetti, con una bocca normale, con un naso normale, e cosa più importante, con due occhi.
Io ne ho solo uno, il destro. Lì dove dovrebbe esserci il sinistro, una membrana tesa e screpolata, tirata come la pelle di un vecchio, circonda e protegge un buco scuro, vuoto, dove oltre non si riesce a vedere.
Ossa, cervello, cranio, muscoli.
Ci sono, sono lì, si sviluppano e pulsano e si contraggono, ma non si vedono.
La ragazza con un solo occhio.
Per colpa di questa deformità – o forse dovrei dire per totale assenza di forma – il lato sinistro del viso si sviluppa in modo irregolare, sgraziato.
Un’incrinatura ambulante, con le grosse labbra che lasciano intravedere le gengive e parte dell’incisivo e il canino sinistro; sbeccatura e caricatura di me stessa, con la narice che asseconda la piega distorta della mia bocca, puntando verso l’alto.
Un viso che si sviluppa all’insù, sollevato, evasivo; la mia stessa carne ribelle che vorrebbe scappare, che non accetta l’irregolarità.
Uso sempre i capelli per coprirmi il volto, rossi e lucenti, sono la mia massima soddisfazione.
Ma lui non vuole lasciare le cose così come sono adesso. Sposta e scopre ed evidenzia, mi espone come un fenomeno da baraccone.
Non mi piace quando lo fa.
Si avvicina, annaspa, goffo ed ingombrante, mi mette una mano sulla coscia, l’altra in vita, spaventosamente vicino al seno.
Stringe e cinge, la sua pelle di maschio puzza già di sudore, emana l’olezzo della carne euforica, pregusta quello che sta per avvenire, quello che vorrebbe che accadesse, proprio qui, in questa sala, su questo tavolo, sul pavimento, spinta contro una finestra, contro il mio stesso volere.
Perché è così che lui fa, è così che agisce.
Non chiede, esige.
Sfonda e si appropria di tutto ciò che vede, che tocca, che bacia, lecca.
È la caccia, ad eccitarlo, più di ogni altra cosa. Gioca con me, mi saltella intorno, mi prende di mira. È il vedermi sua preda, schiacciata sotto la forma possente e grossa del suo corpo, a piacergli. Non io.
«Spero che la serata sia di suo gradimento, signorina Welch.»
Ridacchia. Pronuncia il mio nome con beffarda ironia.
Mentre penso alla risposta da dare, il mio sguardo indugia sul coltello alla mia sinistra.
È fermo in bilico sul piatto, la lama lucente, intinta dei succhi di un anatra all’aceto balsamico che a stento ho avuto il coraggio di sbocconcellare.
Mi rendo conto solo adesso di aver maltrattato la carne, così sottile, così tenera; l’ho sfilacciata, ridotta in pezzettini piccoli, adatti alla boccuccia di un uccellino.
Quei pochi bocconi che ho ingerito, l’ho fatto masticando e frantumando sotto i denti, deglutendo a fatica.
Realizzo in questo istante di aver fatto al mio pasto ciò che avrei voluto fare a lui.
Il coltello, di nuovo, lo fisso, intenso e brillante. Divento la sua allodola. È ipnotizzante.
Mi scopro a pensare, per niente terrorizzata, se solo potessi ficcarglielo in gola, aprirlo da parte a parte, sgozzarlo come un maiale, far scendere la lama lungo il suo petto ed eviscerarlo, sventrarlo, svuotarlo sempre di più, sempre più giù, fino a raggiungere i suoi genitali!
Sarebbe una liberazione, penso. Enorme sollievo.
«Molto, signor Thorne» rispondo, muto la mia forma, divento malleabile ed accomodante, modifico il tono di voce, degradandolo a sfumatura civettuola.
Mimo un flirt che non intendo veramente, mi lascio andare.
Sto per sgozzarlo.
«La ringrazio molto per questo invito, sono così lusingata. Una ragazza come me...»
«Sprovveduta» aggiunge, mi blocca, completa erroneamente la mia frase. «Sprovveduta» ripete, «Rammento ancora il suo primo colloquio nella mia azienda, era così persa. Sprovveduta.»
Lo rammento anche io.
Mani, bocche, saliva, fiato che puzza.
Stringe la presa sulla mia coscia. «E guarda invece adesso dove sei arrivata! Immagino, signorina Welch, quanto fortunata lei possa sentirsi in questo momento.»
Termina con una risata gutturale, interrotta da un colpetto di tosse.
Lo guardo sorpresa, gelido senso di sopraffazione mi corre lungo la spina dorsale. «Già, sono molto fortunata.»
È compiaciuto adesso, me ne accorgo dal modo in cui si lecca le labbra e le fa schioccare. Una goccia di saliva mi arriva sul mento.
Per un breve attimo, sussulto.
Non se ne accorge; sono anzi sicura e certa, che abbia scambiato il mio ribrezzo per brivido di eccitazione.
«Le piace l’orchestra?»
Annuisco.
«Anche me, è deliziosa. E Glenn Miller?»
«Sì.»
«Nel tempo ho collezionato i suoi vinili più famosi.»
Ammicca, saliva bianca si accumula e si incrosta ai lati della sua bocca larga e secca.
Capisco immediatamente dove vuole andare a parare, e mi sta quasi bene.
Ho bisogno di privacy assoluta ed intimità, se voglio mettere in pratica il mio piano.
Navigo nell’indefinita, vaga eppure persistente voglia di toglierlo di mezzo, di farlo collassare, di svuotare le sue carni.
Così la smetterà di toccarmi. Così la smette.
La smette di essere così sporco e schifoso, la smette di spostarmi i capelli da davanti il viso.
Un gesto che ripete senza considerazione, io nata per compiacerlo e nella mia anormalità mostruosa divertirlo ed affascinarlo.
Non so ancora come ma avverrà.
Lo farò.
Stanotte.
È questo esacerbato istinto di sopravvivenza, questo desiderio di vendetta, che mi porta a sorridere. Gli angoli della bocca si incurvano verso l’alto, la mia eccezione sfuggente diventa più evidente, virgolette di alterazione che lo fanno infiammare.
«Le andrebbe di proseguire la serata in un luogo più...»
Esita, ma è una mossa studiata. Si aspetta che lo guardi con trepidazione.
Lo esaudisco, lo soddisfo.
Il mio atto finale più atteso sta per andare in scena.
«Appartato?» lo sorprendo.
Alza un braccio e con un cenno rapido dell’indice richiama a sé un cameriere annoiato e ondeggiante a ritmo di musica.
Paga il conto e lo vedo alzarsi, pingue e goffo, il forte e pesante graffiare della sedia mi fa quasi ridere.
Lui è così fuori contesto, così anacronistico, costretto nel suo doppiopetto blu.
Per una frazione di secondo, sbircio sulla stoffa tirata e sugli affaticati bottoni e cuciture che la tengono insieme.
Sta per esplodere, penso.
E la risatina che ne consegue arriva proprio nel momento in cui con disarmonica, inutile, deludente eleganza sposta la mia sedia in un gesto che vorrebbe essere di cortese galanteria, ma che in realtà, a momenti, mi fa quasi cadere in avanti.
Non devo neanche sforzarmi di soffocare la mia ilarità, il suo ego è preponderante, così proporzionato e contemporaneamente adatto alle dimensioni del suo girovita, che pensa io sia sorridendo con lui, non di lui.
Stupido nei suoi disgustevoli errori.
Con la stessa maldestra premura, apre la portiera della sua auto dal lato del passeggero. La carrozzeria è ben lucidata e nera, come il cuoio delle sue scarpe da signore raffinato, poco adatte ai suoi piedi da porco.
Il tempo in macchina, l’anello di congiunzione tra una cena sazia di tensione e la fine della sua stupida esistenza, trascorre in maniera sorprendentemente anonima.
Nessun batticuore, nessuna ansia, sono stata concepita dai miei genitori, in tutta la mia menomazione fisica, proprio per essere qui, per portarlo al limite e poi annientarlo, fino al parossismo acuto, fino alla sua estinzione.
Una supernova che brillerà e in poco tempo collasserà, si spegnerà, per sempre.
Non allunga le mani, non accenna a nessuna porcheria lasciva, non sfiamma prepotente in elogi carnali.
Quasi mi dispiace.
Sì, un po’ mi dispiace.
Provo pena per l’essere molliccio e sfibrato, scomposto ed obeso, che sfreccia nel silenzio di una città già addormentata, che non sa, che ignora, una città bambina ignara e che serena non si aspetta di incontrare la Dea Morte per mano mia.
Per mano di una menomata, abituata all’oscurità e agli angoli più polverosi e angusti dell’esistenza.
Uno in meno, illustre cittadino con la maschera della rettitudine incollata di forza sul viso.
Uno in meno.
Penso anche che forse, dopotutto, non è colpa sua.
Se agisce da stupratore e maniaco, da molestatore indefesso e concentrato nella sua macabra missione.
Magari è stato abituato fin da piccolo a cacciare, a dimostrare la propria condizione di maschio.
Lo vedo traslato in una realtà passata, bambino, già grassoccio e impacciato, nei boschi, intento a far del male a cervi, cinghiali, creature selvatiche che richiedono libertà per poter sopravvivere, condizione, questa, per cui l’uomo è letale, impietoso.
Lo osservo bene, adesso, nel presente, è sudato e con gli occhi appannati.
Non sa cosa farsene di una donna consenziente, penso con orrore.
Non è abituato all’accettazione, non deve sgomitare per imporre la propria presenza.
Non con me.
Non sa cosa farsene di me, adesso che ho detto sì.
Non posso smettere di pensare alle sue mani lascive sulla mia coscia, sui miei fianchi, vicino al seno.
Sul mio viso.
All’esasperazione di affermare la mia dignità, attraverso il rifiuto di mostrare il mio volto per intero.
Me lo ha negato.
E mi ha offesa.
Immorale, vizioso, un’onta che non accenna a placarsi.
Il mio odio per lui.
Il vialetto che conduce al suo appartamento è immacolato, non una singola foglia fuori posto; e anche l’interno della casa mostra una faccia candida, sterile.
È fredda, come se le mura e i pavimenti stessi si preparassero ad accogliere il fiato gelido della morte.
Ho fretta di concludere, l’anticipazione, il pregustare, sono cose che mi innervosiscono e mi danno modo di riflettere.
E non posso permettermelo, è un lusso che mi è stato precluso.
Devo concludere.
Non posso avere ripensamenti.
Mi guardo attorno. «Saltiamo i convenevoli?» dico, ammiccando in direzione del divano. Studio la stanza, subito adocchio la statuetta spigolosa di una venere, languida e placida sul tavolino basso.
Un sorriso affiora sulle mie labbra.
Lui è fermo davanti a me. «Non vuoi bere qualcosa, prima?»
«Abbiamo bevuto abbastanza.»
Il tuo copione con me non funziona, ti sto cambiando le battute, sono io la direttrice di questa commedia, il teatro, il palcoscenico, la platea non ti appartengono più.
Si passa una mano tra i capelli, è insicuro, è incerto.
L'altra mano la porta all’inguine, vedo l’abbozzatura grossa del suo membro eretto.
Se ne accorge e mi fissa come un ragazzino alle prime armi, impacciato. Non sa come proseguire; lo disorienta, procedere in questa certa direzione senza sfogare la forza bruta che adesso non trovo sbocco, che evanescente si è ritirata, sembra quasi sparita.
«Ti piacerebbe un po' di musica, Mary?»
«No.»
Lo prendo per mano, sfioro il suo rigonfiamento, lo strizzo. Emette un gemito, un rantolo cavernoso che mi fa accapponare la pelle.
«Piano», mi intima.
Il disgusto che provo per me stessa, adesso è nulla in confronto alla ferocia del mio odio.
Ci ritroviamo avvinghiati sul divano, il suo peso mi schiaccia, faccio quasi fatica a respirare.
È violento anche nel suo roco ansimare.
«La mia ragazza con un solo occhio», geme, mentre muove i lardosi fianchi su di me, su e giù, destra e sinistra.
Ondeggia e dà solidi, duri colpi di reni, una sorprendente scioltezza di movimenti, in netto contrasto con la sua mole da toro, che mi verrebbe da definire armoniosa, se solo la circostanza fosse diversa.
Se io fossi diversa.
Se lui fosse più umano.
Mi tocca il viso, fa scorrere le dita lungo il profilo irregolare della mia deformità.
Sento il rumore della zip che si abbassa, il suo arrochito boccheggiare diventa ora più intenso.
Avverto la violenza montarmi in corpo, assecondo il suo funereo, straziante galoppare. Mi invade e mi scuote, fa vibrare i miei muscoli, i miei arti elettrici, pronti a scattare.
Lo voglio uccidere, proprio qui, proprio ora, essere misero, eretto, insignificante come un verme.
Lo voglio schiacciare.
È dentro di me, si fa spazio, mi invade con arroganza.
Sospiro, fa male, voglio che la smetta.
«Chiudi gli occhi», gli ordino.
Mi obbedisce, non si chiede perché.
Lo fa e basta.
Questo mi soddisfa, il piacere che ne deriva mi sfrigola in pancia.
Lo incito, «mi piaci con gli occhi chiusi», lo prendo in giro. Non se ne accorge, è perso. Aumenta la velocità, assesta colpi con smanioso desiderio di concludere.
I suoi baci umidi puzzano e lasciano una patina bavosa, appiccicosa, sul mio collo.
Allungo la mano verso la statuetta, la impugno saldamente.
Oscilla, sferza l’aria, la squarcia.
Lo colpisco sul cranio, sulle tempie.
Sussulta.
Non mi fermo.
Una, due, tre volte.
Smetto di contare, è un istinto irrefrenabile. La violenza ha trovato la sua valvola di sfogo e adesso è impossibile arrestare il flusso di determinata, lucida spietatezza.
Materia cerebrale schizza sul soffitto; è sui miei vestiti, sul mio viso, sulla pelle nera del divano, sulla statuetta della Venere, mia Venere di salvezza.
Il sangue, denso e caldo, e il suo odore metallico sono richiami ferali.
Mi libero del suo peso, scalcio via da me la creatura morta ed estinta; lo osservo adesso, supino, il cranio fracassato.
Il mio ragazzo con un occhio solo.
Il suo volto trasformato e simile al mio, sono la sua Madre Natura.
L’ho modellato, l’ho riformato, convertito nella mia replica, con il suo occhio sinistro mancate, maciullato.
Mi lascio andare ad una risata folle, isterica.
Sono ricoperta di sangue e cervello e rido.
Anche la sua bocca ora muta, spalancata e storta, sembra che stia ridendo con me.
Non riesco a frenare questo eccesso, me lo porto dietro anche mentre penso a cosa fare.
Potrei costituirmi alla polizia, con gli storpi è difficile fare i cattivi, i mal pensanti, penseranno sia stato un atto di legittima difesa.
Sono pronta per le conseguenze?
Potrei lasciare l’appartamento e andarmene come se niente fosse mai successo, come se non fossi mai stata qui, ma le mie impronte mi tradirebbero, sono ovunque, ed in quel caso neanche il mio occhio mancante e il mio viso sfuggente potrebbero fare da attenuante.
Non saprei neanche come disfarmi della Venere, incrostata di sangue, pelle e capelli.
Rido, rido fino a farmi scoppiare i polmoni, il mio stomaco implora pietà, i nervi e i muscoli sono tesissimi.
Mi sento come un elastico lasciato in pericolosa trazione, le fragili mani che mi tengono sospesa potrebbero stancarsi e allora cadrei, precipiterei.
Lo guardo ancora una volta, la sua forma sgraziata, nudo, sconcio e ricoperto di sangue come il giorno in cui è venuto al mondo, in modo da poter elaborare un piano.
Prendo atto della crudezza del momento, faccio permanere questo senso di disagio ed inevitabile rovina, sarà questo a spingermi ad agire, lo so, lo sento, ma non riesco a smettere di ridere.
Lacrime affiorano sulla mia pelle, sono copiose, sono acide, salate, bruciano, si mischiano al sudore che imperla mento e collo.
Incerta, zoppa, claudicante mi avvicino al carrellino dei liquori, poco distante.
È uno sforzo enorme.
Vado alla ricerca di qualcosa con cui stemperare l'isterismo. Anche le mani tremano, mentre afferrano la bottiglia che contiene liquido ambrato, riesco ad avvertire il suo calore anche prima di stapparla e bere grandi sorsi.
Grazie tante.
L'effetto calmante e soporifero dura per poco, l’adrenalina continua a farmi ridere.
E ridere.
E ridere.
Cado sulle ginocchia, la vista appannata dall'alcol e da qualcosa di più sinistro che preme contro la gabbia toracica, un presagio, un avvertimento che non riesco a decifrare.
Mi trascino fin tra le gambe dell'uomo che ho ucciso.
Potrei chiamare un’ambulanza, simulare un atto di aggressione, ladri che sono entrati in un particolare momento della nostra intimità di coppia nascente.
Ma non c’è nessun segno di effrazione, realizzo subito dopo, nessun segno di intrusione, l’appartamento è perfettamente, dannatamente in ordine, come se io, l’uomo che morto continua ad accogliermi tra le sue cosce grosse, il liquore che sbatte e ribatte nel mio stomaco, la statua della Venere, fossimo solo dei fantasmi.
Sto impazzendo.
E forse me lo auguro.
Sto impazzendo perché mi sembra di scorgere un rapido movimento alla mia destra.
Lo ignoro, do la colpa alla perenne risata, all’alcool forte.
Perché non può essere vero.
Perché adesso vedo le dita dei suoi piedi muoversi, si arricciano, piccolo accenno e prosecuzione del mancato orgasmo.
Si ritrae da me, si alza, lo vedo brandire la statuetta, lo vedo colpirmi in viso, nello stomaco, sulla schiena, sul collo.
Eppure io sto ferma.
Eppure lui è ancora fermo.
Siamo due e siamo uno. Siamo divisi. Brandelli di spazio e di tempo sconnessi, che scorrono alla rinfusa, disordinati, che cercano un appiglio, un piccolo angolo in cui disporsi in ordine.
Scampoli di anime condannate.
È il terrore, è l'orrore di ciò che ho fatto.
Mi colpisce e mi penetra, in un confuso marasma che mi sfugge, che non vuole farsi comprendere.
Ogni atomo è in fibrillazione, tremo e sussulto, vomito.
Lo sforzo mi è fatale.
Mi irrigidisco, l’ombra di un sorriso bruscamente smorzato mi aleggia sul viso.
Lui davanti a me, l’ultima cosa che vedo.
Senza un occhio, rotto, fracassato, spezzato.
Ed io qui, interrotta. A metà.
Sorpresa nella morte, dalla morte.
La sua ragazza con un solo occhio.
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"Mi stai evitando." Constatò Derfel sedendosi dietro di me su uno dei banconi liberi, tra un vaso di Mandragora e uno di belladonna. Alzai la testa di scatto nell'udire la sua voce.
Nonostante mi fosse arrivato alle spalle, l'avevo visto entrare e ora lo stavo guardando nel riflesso del vetro della serra, dalla mia posizione su uno sgabello di fronte al lungo tavolo appoggiato alla vetrata, su cui stavo lavorando ad uno dei miei progetti personali.
Avevo finto di non essermene accorto, finché non aveva preso l'iniziativa per parlarmi. Per fortuna si era seduto abbastanza lontano per non rendere la situazione scomoda, ma abbastanza vicino perché sentissi una scarica di adrenalina che mio malgrado mi fece accelerare il battito del cuore. Mi sforzai di allentare la presa sul coltello che stavo usando per tagliare una delle radici della pianta, per non mutilarla.
"Noto che hai almeno un neurone funzionante." Commentai senza alzare lo sguardo dal vaso. Mi congratulai con me stesso per essere riuscito a mantenere un tono di voce indifferente, nonostante la mia risposta al vitriolo. Tuttavia per poco non mi trapassai da parte a parte un dito col coltello, ma per fortuna i guanti di pelle di drago che stavo indossando erano resistenti.
Certo, come no, congratulazioni Zach: proprio il ritratto dell'autocontrollo e dell'indifferenza. E perché Derfel dovesse apparire proprio nel momento in cui stavo lavorando su una pianta estremamente delicata e terribilmente velenosa, era un mistero che avrebbero potuto risolvere i posteri, visto che stavo praticamente rischiando la morte. Misi giù il coltello e allontanai il vaso con la pianta. Non era il caso di lavorare con l'aconito in quel momento: qualcuno avrebbe sicuramente rischiato di morire, e non necessariamente il sottoscritto.
Lo sgabello su cui stavo appollaiato cigolò, mentre mi toglievo i guanti con gesti nervosi. Sentii Derfel sospirare dietro di me, ma continuai risolutamente a dargli le spalle, anche se si doveva essere accorto che avevo interrotto il lavoro. Tamburellai le dita sul tavolo.
"Ho sentito dire che tu e Rosaleen..." Lasciai la frase in sospeso, incerto su come continuare.
"È finita." Passarono dei secondi di silenzio. "Da chi—?"
"Riaghal, ovviamente." Lo interruppi girando appena la testa verso di lui. Derfel era serio, ma non sembrava disperato o col cuore in pezzi o sull'orlo delle lacrime. Sembrava stranamente rilassato, come se si fosse tolto un peso di dosso. "Sono in camera con lui, difficile che non venissi a saperlo." Spiegai piatto, continuando a osservare Derfel.
Quando i nostri sguardi si incontrarono, mi voltai di nuovo e abbassai gli occhi sul tavolo; afferrai poi il mio taccuino degli appunti e lo aprii a caso, fingendo di essere molto concentrato a consultarlo. "Mi dispiace. Spero che sia stata una rottura pacifica." Dissi continuando a sfogliare le pagine, ma senza vederle per davvero.
"Sono già passate un paio di settimane." Rispose Derfel vago, sottintendendo qualcosa per cui non mi andava di chiedere chiarimenti. Continuai a fissare il taccuino, senza dire nulla e accorgendomi per la prima volta che lo stavo tenendo al contrario. Per forza non ci stavo capendo niente.
Passò più di qualche minuto, ma finalmente Derfel si schiarì la voce. "Mi chiedevo se..."
"No." Replicai senza nemmeno pensarci.
"No? No cosa?" Chiese Derfel con una punta di sorpresa mista a irritazione.
"Non sono un gioco che puoi prendere e poi mettere giù a piacimento. Anche se non sembra, ho dei cazzo di sentimenti." Dissi con acredine, chiudendo il taccuino con un gesto secco.
"Non mi hai nemmeno lasciato finire la frase. Non sai cosa stavo per chiederti." Protestò Derfel.
Sembrava irritato dalla mia risposta, ma d'altronde chi non lo sarebbe stato: stavo dando troppe cose per scontate. Tuttavia, sebbene ignorassi cosa potesse spingere un ragazzo a venirmi a cercare per parlarmi privatamente, potevo forse immaginare il motivo, e in tal caso preferivo rimanere nell'ignoranza.
Questa volta fui io a sospirare, puntellai un gomito sul tavolo e misi il mento sul palmo della mano, con lo sguardo fisso sul vetro della serra. Nel riflesso osservai Derfel: si stava massaggiando una tempia e lo vidi strizzare gli occhi e stringere i denti in una smorfia di dolore.
Mi girai immediatamente di 180 gradi sullo sgabello. "Stai bene Derfel?"
"No, ho mal di testa." Borbottò lui chinando il capo e coprendosi gli occhi con una mano.
"È stato quel bolide che ti ha colpito in testa durante l'ultimo allenamento?" Domandai allora di getto e con una certa petulanza. "Lo so che non te ne frega niente della mia opinione, Derfel, ma per la tua salute, ti consiglio di darci un taglio col quidditch, perché ti si bruciano tutti i già pochi neuroni che possiedi."
Derfel alzò di scatto il capo e raddrizzò la schiena. "Il bolide non mi ha colpito, mi ha solo sfiorato!" Esclamò con alterigia, "e poi, da quando in qua ti interessa così tanto il quidditch da venire a vedere gli allenamenti?" Aggiunse con una nota di incredulità.
"Il Quidditch mi interessa quanto prima, cioè zero." Sbottai nervosamente. "Sono solo venuto a vedere gli allenamenti della tua squadra."
"E perché vieni a vedere gli allenamenti dei Corvonero se non te ne frega niente del quidditch?" Sbottò Derfel di rimando, facendomi davvero dubitare del funzionamento dei suoi neuroni, se non capiva perché a uno come me interessasse prendersi la briga di andare a vedere degli stupidissimi allenamenti di Quidditch.
"Perché..." iniziai con foga, per poi esitare. Mi morsi il labbro inferiore. Perché mi interessi tu, idiota. "Passavo di lì per caso." Terminai con un gesto vago della mano.
Derfel roteò gli occhi, sbuffò e infine scese dal bancone. "Ok. Ho capito che non sono benvenuto. Scusa se sono passato a disturbarti." Disse con stizza girando i tacchi e procedendo verso la porta della serra.
"Derfel, vai a farti controllare quella testa." Gli urlai dietro con preoccupazione quando aveva già un piede sulla soglia.
"Sì certo, ma vacci anche tu!" Mi urlò di rimando sbattendo la porta alle sue spalle.
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