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#poeti del novecento
yourtrashcollector · 5 months
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Giuseppe Ungaretti, Oggi
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cantiereperipli · 2 years
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359 // "L'aria secca del fuoco" in Bartolo Cattafi // di Diego Conticello
359 // “L’aria secca del fuoco” in Bartolo Cattafi // di Diego Conticello
. Nel centenario di Bartolo Cattafi, Diego Conticello ha pubblicato un approfondito e aggiornato saggio critico sull’opera dell’autore, intitolato L’oltraggio d’una minima stella rugginosa, che contribuisce con notevole cura, precisione scientifica e passione, a colmare una delittuosa mancanza odierna di spazio dedicato al riascolto della scrittura e della poetica di Cattafi, preziosa voce del…
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marcogiovenale · 2 years
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un utile specchi(ett)o multi-link per gli appassionati del mainstream poetico italiano
un utile specchi(ett)o multi-link per gli appassionati del mainstream poetico italiano
Constato che negli ultimi giorni, dei documenti che ho caricato su Academia, uno in particolare ha avuto un buon numero di visite & letture, pur essendo caricato da pochissimo. Questo qui: https://www.academia.edu/78131798/Il_sistema_immunitario_del_mainstream_mini_notilla_ Chi volesse leggerlo non in pdf ma in html su slowforward, lo trova pari pari all’indirizzo…
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donaruz · 2 months
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"Essere se stessi è una virtù esclusiva dei bambini, dei matti e dei solitari."
Il 18 Febbraio 1940, esattamente 82
anni fa, nasceva a Genova il cantautore e poeta italiano Fabrizio De Andre 🎵
Cantore dei poveri e degli emarginati, De André ha rivoluzionato la canzone d'autore con brani scomodi e taglianti. Ma accarezzati sempre da una profonda dolcezza e umanità.
Molti testi delle sue canzoni sono considerate da alcuni critici vere e proprie poesie, tanto da essere inserite in varie antologie scolastiche di letteratura già dai primi anni settanta e da ricevere gli elogi anche di grandi nomi della poesia come Mario Luzi. È stato anche uno degli artisti che maggiormente hanno valorizzato la lingua ligure. Fabrizio De André è considerato uno dei più grandi poeti italiani del Novecento oltre che un vero e proprio genio della canzone italiana: nella sua carriera ha venduto 65 milioni di dischi, guadagnando un posto nella classifica degli artisti italiani di maggior successo.
Atlantide
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notizieoggi2023 · 3 months
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https://notizieoggi2023.blogspot.com/2024/02/la-poesia-deve-alzare-le-proprie.html La poesia deve alzare le proprie barricate contro l'invasione dell'antiumanesimo Soltanto chi come me, o come qualcuno dei miei lettori, ama davvero la letteratura si rende conto, senza ipocrisia, che nella società odierna e per le attuali classi dirigenti la letteratura è diventata un impiccio, un residuato, qualcosa da portare in cantina a riempirsi di polvere. Oggi è, o sembra, tutto finito. Inutile ricordare agli uomini della politica e dell'economia, qualunque sia il loro colore politico, che se l'Italia non è rimasta una espressione geografica, ed è nata in quanto entità storica e statuale è stato soprattutto perché l'hanno sognata, preconizzata, amata i poeti, da Dante a Petrarca, da Foscolo a Manzoni al giovane Leopardi, da Carducci a D'Annunzio, da Ungaretti a Pasolini. Inutile ricordare che l'Italia è prima di tutto la sua lingua meravigliosa e dorata, è il suo patrimonio inesauribile d'anima, d'arte, di poesia, di musica. Sembra che sia chiaro soltanto tra i pochissimi grandi uomini rimasti in Italia, penso a Riccardo Muti. Sono venuti in odio i modelli eccellenti, erosi da un falso egualitarismo straccione, e dal dominio dei social, dove «uno vale uno» e il primo pirla può impunemente apostrofare un premio Nobel: fenomeno che condannò anche Umberto Eco, non sospettabile certo di simpatie per gli «apocalittici» nemici della modernità. La scuola, disastrata in maniera equanime da governi di sinistra e di destra sino all'abominio grillino dei banchi a rotelle, ha ridotto lo studio della letteratura a pochi autori, spesso soltanto del Novecento, ignorando i classici e il loro splendore e, di fronte ad ancora tanti bravissimi insegnanti, c'è sempre qualcuno (a volte ministri come il non rimpianto Franceschini) che preme per dare più spazio a fumettisti, saltimbanchi, cuochi, comici, rapper, trapper, cantautori, dj, influencer: seguendo pedissequamente ogni moda. Si è inventato il binomio scuola lavoro, come se l'insegnamento invece di formare prima di tutto esseri umani nella loro interezza dovesse formare pizzaioli, con tutto il rispetto per la categoria. Il lavoro della scuola era far crescere il sapere e l'anima del ragazzo, la sua comprensione di se stesso, della società, della storia, del mondo. E niente poteva farlo meglio di quell'antico ma sempre nuovo sistema di conoscenza che è la Letteratura. Niente formava di più e più in profondità che leggere poesie e romanzi, grandi strumenti di educazione al destino. Niente formava di più che il pensiero dei grandi, da Machiavelli a Galileo, da Vico a De Sanctis. Intendiamoci, non è che oggi non ci siano più quelli che scrivono poesie e romanzi. Ormai il 90 per cento degli italiani ha pubblicato un romanzo, i social diffondono a piene mani poesia, e chiamano poesia anche ogni incolpevole vagito e belato sentimentale. Ci sono in giro migliaia di sedicenti autori che scrivono tutti allo stesso modo, carino e insignificante, quasi sempre lontani da ogni scossa metafisica, da ogni senso del mistero, da ogni empito fantastico, e riducono il romanzo a qualche bella frase, a qualche trovata, o a tanto lacrimoso patetismo autobiografico. Eppure in questo mare magnum, dove nessuno distingue più niente da niente, ci sono ancora libri appassionanti e autori veri. Fiorisce la letteratura di genere, dove almeno persistono i temi eterni del male, della giustizia, della verità, e che il mercato premia (cosa che è vano vituperare): io leggo con piacere per esempio Donato Carrisi, e quando mi è capitato di conversare con Maurizio De Giovanni ho toccato con lui temi a me cari come il mito con più vivacità che con autori snobbetti e un po' premiati, magari usciti dalla celebratissima scuola Holden. Poeti veri e grandi, penso ad esempio a Milo De Angelis, esistono ancora. E ogni giorno ricevo testi di giovani che credono nella poesia e scrivono in cerca di nuove forme del vivere e di assoluto. Scrittori di alta qualità ci sono, Sandro Veronesi, Antonio Scurati, Eraldo Affinati, per esempio. E ci sono i critici, penso a Giorgio Ficara, a Alfonso Berardinelli, a Massimo Onofri, a Silvio Perrella, per altro saggisti e scrittori in proprio: ma esiste sempre di meno lo spazio editoriale e istituzionale per esercitare l'importantissimo compito della critica, vagliare la produzione letteraria, individuare i valori più forti, non transeunti, seguire gli autori, sostenere una tendenza. Oggi tutto è effimero, volatile, virtuale. Leggero: ma non si dica con criminale menzogna che è la leggerezza di Italo Calvino: tutt'al più è quella di Luciana Littizzetto. A cui preferisco le giovani tiktoker, che quando cinguettano innamorate di un titolo possono anche riservare sorprese, magari stanno rileggendo e rinverdendo un classico... Il vuoto è prima di tutto un vuoto sociale, culturale, spirituale. Ed è da connettersi al crollo dell'umanesimo, che dalla Firenze del Rinascimento sino all'esistenzialismo di Sartre e di Camus aveva innervato la cultura europea. Per molti esponenti del mondo intellettuale l'essere umano non è più al centro della società, l'essere umano intero, in carne ed ossa, con i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue debolezze, la sua follia, la sua capacità di ribellione, di autodeterminazione del proprio futuro. Ed è caduto a picco il senso della Tradizione, che è da modaioli imbecilli vedere come passato e polvere, mentre è conoscenza attiva e critica delle radici e insieme forza propulsiva per proseguire nella costruzione di una civiltà. La letteratura è stata a lungo il midollo spinale (l'espressione è di Jacques Attali) di una Nazione. E certamente di quella Europa che per primo Victor Hugo sognò come «Stati Uniti d'Europa». Senza letteratura, senza poesia, senza il primato dello spirito si configura una società non liquida, come vuole una celebre definizione sociologica, ma smidollata, un'Europa vaso di coccio tra le Potenze del nuovo ordine mondiale, prona di fronte alle insidiose idiozie nichiliste della cosiddetta cancel culture che ha soffiato dall'America in questi anni e alla fine si è rivelata una cultura della cancellazione, o del tentativo di cancellazione, guarda caso, proprio della parte gloriosa della cultura europea, oggi indifesa, incapace di reagire, di ritrovare l'orgoglio e l'amore di se stessa. Per la prima volta nella storia dell'umanità al vertice dei valori, come potere assoluto e incontestabile, è rimasta l'economia, declinata come finanza e profitto. E per la prima volta nella storia dell'umanità tutto il resto viene considerato un ingombro, qualcosa di attardato e inutile: il sacro, l'ideale, la gratuità, il valore, l'onore, la bellezza spirituale, la ribellione: il tesoro millenario della letteratura, da Omero a Borges. Il primato totalitario del profitto non ha niente a che fare col liberalismo che conosco io, quello di Benedetto Croce, Panfilo Gentile, Salvador De Madariaga. È in realtà un feticcio, un idolo, un Vitello d'Oro senza nessun Mosè in vista pronto ad abbatterlo: una irresistibile forza disumanizzante. Il pericolo, senza un nuovo umanesimo per il XXI secolo, è che si corra verso un'era di uomini-macchina, in balia di piccoli desideri indotti dalla pubblicità (e non so ancora per quanto dai miserabili imbonitori elettronici detti influencer), un'era di esseri privi di carne, di anima, di sesso, di radici, di sogni, vacui consumatori di tempo libero, prodotti deperibili e altrettanto deperibili ideologie. Uno strumento di opposizione, di resistenza e forse di contrattacco rispetto alle forze dell'antiumanesimo è la voce legislatrice (anche se mai riconosciuta come tale) della poesia, quell'antico e attualissimo sistema di conoscenza dell'anima e dell'universo che chiamiamo letteratura. Per questo nel disegno dei dominatori tecnologici ed economici del mondo poesia e letteratura non devono valere più niente, non devono avere spazio né ascolto. O, come ho appreso interrogando Chat GPT, opere poetiche e narrative potranno essere prodotte, pulite e anestetizzate, dalla IA, «assolutamente sì». Non so se un disegno così riuscirà. Dico soltanto che se riuscirà, quando saranno abbattute le statue di Virgilio, Dante, Shakespeare, Michelangelo, Goethe, Beethoven, Voltaire, Tolstoj la civiltà europea sarà finita. A me questo disegno non piace, e sono disposto, cari lettori, ad avversarlo sino all'ultimo sangue. All'ultima pagina.
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theladyorlando · 6 months
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Maid Quiet
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Dovevamo vederci con Marta, per una piccola birra consolatoria di fine settimana. Ma alla fine non ce n'è stato il tempo. Il giorno dopo Marta mi ha detto di sentire la mancanza della poesia nella vita: dice che è come un tassello che lei non ha. Però me lo ha detto in un messaggio che a me pare proprio una poesia. E io non ho saputo bene cosa risponderle. Subito mi è venuto in mente che io a volte mi impongo la compagnia di certi poeti, una specie di esercizio. La scorsa primavera per esempio è toccato a Yeats. E Yeats è un esercizio bello impegnativo, non è per niente facile, per quel poco che ci ho capito, a lui piace tanto restare enigmatico, ama le scritture automatiche, le rose alchemiche, i vortici, le torri. In mezzo alle sue cose difficili però ne spuntano fuori alcune di una semplicità disarmante. Qualcuno, da dentro alla sua poesia, mi ha chiamata a un certo punto per nome come dice lui -someone called me by my name- e ricordo anche benissimo quand'è che è successo. Ero al dottorato e seguivo dei corsi improvvisati sul momento da docenti che non mi spettavano, su temi che non mi spettavano, su temi che, mi dicevo, non era possibile che spettassero alla letteratura. Ma cos'è in fondo che distingue la letteratura vera da un'indagine documentaristica? Dove esattamente si colloca il confine tra la poesia e l'inchiesta? Tra la poesia e le corse prive di senso in cui ci siamo persi quotidianamente? Cos'è che può assumersi di diritto il nome di arte, per davvero? Non lo so, e in quei momenti lo sapevo anche di meno: ci guardavamo, io e miei colleghi di dottorato, come chi sospetta di aver perso la strada ma non osa dirlo ad alta voce per paura di spaventare il compagno di viaggio. Mi scusi, è qui che abita la poesia? E il docente di americano, per tutta risposta, spegneva le luci in aula e mandava sullo schermo quel film-documentario sul caso della pattuglia di soldati in Afghanistan che per pura noia una sera decidono di stuprare una ragazza e di bruciarne il corpo. Leone d'argento, morality play, commedia grottesca, tutto molto bello. Ma, mi scusi se insisto, è qui allora che abita la poesia? A me pareva proprio che dentro quell' aula ci fosse davvero tutto quanto io abbia sempre considerato estraneo alla poesia. Ma io sono un tantino rigida nelle mie aspettative a riguardo, devo ammetterlo. Per me il canone si esaurisce con la morte di Vittoria. La scomparsa della regina sancisce il tramonto della poesia sul globo terracqueo. Sono rigida, dicevo. Rigida e prevenuta: e il Novecento è sporco delle guerre, e la sua poesia lo dice. Ma quale secolo non è sporco, dopotutto? Il fatto è che io sono proprio rigida, signori, sono prevenuta e sono nel torto. Eppure sento che su quella soglia, alla morte di Vittoria, la poesia fa come per salutare con la sua piccola mano: sento che quello è in qualche modo un tramonto, molto nuvoloso, e che la poesia in quell'istante brilla più intensa che mai: 22 gennaio 1901. A silver lining: la poesia è una linea d'argento che si disegna sui profili di nuvoloni neri. Sono davvero dei grossi nuvoloni quelli che arrivano, io non mi sbaglio. E so di non sbagliare perché me lo ha detto proprio un poeta, un poeta mi ha chiamata per nome a un certo punto -someone called me by my name- e me lo ha detto. Uno che l'ha vista, quell'alba del 22 gennaio 1901; uno che ha aiutato la piccola mano della poesia a salutare il secolo che tramontava, l'ha aiutata blindandosi nelle sue torri, nascondendosi nei suoi vortici, interrogando le sue letture automatiche e le sue rose alchemiche: William Butler Yeats un giorno mi ha chiamata per nome (someone called me by my name) e mi ha detto semplicemente
"The wrong of unshapely things is a wrong too great to be told."
Il torto delle cose brutte è un torto troppo grande da dire.
Io trovo che qui ci sia tutto: la poesia non vuole dirle, certe cose. E poi ha fame di rimediare al brutto. La poesia ha proprio fame, fame di rifare la terra, come dice lui, e di rifare il cielo e l'acqua: ha fame di rifarli belli, uno scrigno d'oro in cui mettere al riparo quell'immagine che è capace di far sbocciare una rosa nel profondo del cuore. Allora non mi sbagliavo, e in auell'aula non abitava la poesia. Questo solo verso, di tutti i versi, me lo dimostra, che la poesia ha ancora fame di rimediare al brutto. Ma avevo torto invece a pensare che fosse tramontata con Vittoria: questo me lo ha dimostrato Marta, che la cerca ancora, come me. Allora le ho risposto che io amo la poesia proprio perché è un tassello che va cercato sempre, lo cerchi anche quando non te ne accorgi, e lui immancabilmente sa trovare spazio perché è capace di farsi breve, piccolo, più piccolo di una emoticon o di un hashtag, anche un solo verso, anche una sola parola. La poesia è così brava a stare dentro al palmo di una mano che è rimasta davvero l'unico tassello in grado di avere senso dentro a giornate troppo spesso prive di senso e sempre (questa la garanzia) prive di tempo; è capace di perdonare le negligenze di uno e di aspettarlo per mesi, pure per anni, cosa che un romanzo lasciato al primo capitolo non è davvero disposto a concederti: tu devi solo ricominciare. Per questo le voglio davvero bene, e mi fa venire come voglia di urlarlo al mondo, che persino in questo tempo che non ha tempo per niente, neanche per una piccola birra consolatoria, un tempo in cui semplicemente non c'è spazio fisico per alcuna narrativa di senso compiuto, sento che la poesia ha fame. E davvero il presente è proprio il tempo perfetto, come dice parlando delle lettere Virginia Woolf al suo giovane poeta:
The great age of letter–writing is, of course, the present.
Il tempo delle lettere non è tramontato con l'invenzione del telegrafo o del telefono, attenzione: questo è invece il suo grande momento, è oggi il trionfo della corrispondenza epistolare. O della poesia. E così come voglio bene alla poesia, io voglio bene a Marta, che l'altra sera davanti a una piccola birra e dietro ai resoconti delle sue corse dietro al tempo ai figli al lavoro mi avrebbe parlato di poesia, io lo so. Un tassello che, davvero, non le manca per niente. A me invece è mancato vederla, l'altra sera. E la poesia, che mi corrisponde nell'amore, lo sento benissimo, mi ha dato stamattina una parola per dire perfettamente il mio desiderio inappagato di stare con lei: appetite. Io e Marta non abbiamo bevuto insieme eppure sono rimasta con fame. E sento che la mia fame non è molto lontana dalla fame di Yeats, quella con cui lui voleva rifare il mondo e tutte le sue cose:
I hunger to build them anew.
C'era una grande, bellissima mimosa lungo il sentiero di tufo che porta all'asilo di Agnese: ci andavamo spesso con lei a febbraio, anche prima che iniziasse la scuola, a fare dei piccoli rametti, quei pochi che ci venivano lasciati a portata di mano da chiunque altro avesse voglia di farsi un giro sotto l'albero. Un giorno salendo a scuola la scorsa primavera l'abbiamo trovata aperta in due, una metà era crollata a terra, e i merli le giravano intorno confusi, non sapevano più cosa farci con quei rami prostrati, come funzionano ora? Mi è venuto da piangere perché la mimosa così ridotta mi ha fatto pensare al corpo di mio padre, prostrato, sopra a un letto d'ospedale parcheggiato in camera. E soprattutto perché mi sono detta, immediatamente, che così non poteva mica continuare: che l'avrebbero tagliato, quell'albero che era un po' nostro, perché adesso lui era solo un pericolo per i bambini sulla strada di scuola. E così è stato, ma ci sono voluti mesi, tanto che alla fine neanche ci facevo più caso, passando in macchina ai piedi del sentiero, se la mimosa fosse ancora lì. Finché un giorno rientrando a casa non c'era più, così facile.
Where has Maid Quiet gone to,
Nodding her russet hood?
The winds that awakened the stars
Are blowing through my blood.
O how could I be so calm
When she rose up to depart?
Now words that called up the lightning
Are hurtling through my heart.
Senza cerimonie, né funerali, né saluti pubblici, se n'era andata: e io come ho fatto a restare così calma quando lei si è alzata per andare? Cosa resta di lei ora che il tronco non c'è più? Me lo chiedo della mimosa, me lo chiedo di mio padre, me lo chiedo insieme a William Butler Yeats: me lo chiedo insieme a Marta, lo so. E la risposta è lì, accanto al sentiero di tufo: proprio lì dove è rimasta prostrata per settimane la madre, ora si vede, passando anche da lontano, un bel prato di piccole, verdi, rigogliose mimose: le figlie. Le figlie rimangono, e fanno fatica, ma ad ogni acquazzone che viene quelle prendono qualche centimetro, sempre più alte, finché qualcuna di loro non deciderà che è tempo di mettere su un piccolo tronco, e così forse anche lei sarà una madre, un padre. Ecco quello che rimane: io so che Marta è una giovane mimosa, sembra quasi un fiore a guardarla ma lei è già un piccolo albero, e cresce con ogni acquazzone che arriva. E saperla con me, in questo prato che è un po' orfano, mi fa sentire che vale ancora la pena di mettere su un tronco. Mi fa sentire che questo è ancora il grande o piccolo -che importa?- tempo della poesia, il presente.
E comunque poi ce la siamo bevuta la birra della consolazione, e non è stata solo una.
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susieporta · 8 months
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Una delle esperienze più comuni dell'esistenza terrena, che facciamo cioè tutti e sempre di nuovo, è la sua pesantezza.
La vita molte volte, anche durante una stessa giornata, si fa pesante, e ci stanca da morire.
"Sono stanco di soffrire" (Salmo 109, 107), geme il salmista.
Sono stanco, siamo stanchi, perché portiamo un carico molto pesante.
Ma cos'è questo carico? Cosa è così pesante?
La nostra vita biologica è di per sé pesante?
Non mi pare, a meno che non sorgano problemi fisici di rilievo.
Allora sarà la nostra psiche ad essere pesante?
Sì, in un certo senso Io sono pesante, l'Io, il mio Io, il mio pensiero, i miei malintesi, rendono pesante a volte perfino le circostanze più favorevoli.
Diciamola così: ciò che rende pesante questo momento è il modo in cui Io lo penso, lo lo capisco, Io lo interpreto, e così ne faccio esperienza.
L'Io ordinario, l'Io che si crede separato e autosufficiente è il vero Peso, è il Piombo che ci porta giù, nell'abisso della nostra disperazione.
Sotto sotto, magari a livelli semiconsci, tutti noi sappiamo benissimo che è il nostro stesso Io, la nostra coscienza che rende pesante tutto ciò che tocca, e perciò ricerchiamo qualunque forma di sollievo, che ci liberi da questa zavorra mortale.
Ecco perché ci ubriachiamo, ci droghiamo, ci stordiamo nelle discoteche o nei rave, ci annichiliamo nel lavoro, nella frenesia di mille comunicazioni o relazioni sessuali, ci ammazziamo gli uni con gli altri, e così via.
E questa società al collasso offre molteplici compensazioni, sempre più "digitali" ovviamente, per aiutare gli umani a perdere momentaneamente il peso insopportabile del loro piccolo io.
Questa civiltà cioè da una parte alimenta la separazione più radicale dei piccoli io dentro i loro corpi mortali, rendendo la nostra vita di una pesantezza ormai indicibile, e poi ci offre infinite vie illusorie di fuga in realtà virtuali di ogni tipo, che somigliano sempre di più semplicemente a vizi.
Poi quegli stessi personaggi che notte e giorno insegnano a se stessi e a tutti i poveri malcapitati che noi umani siamo solo "scimmie nude", robot un po' goffi e presto da sostituire con Meccani più efficienti, bambocci inutili da ingannare, da indottrinare, da asservire e da sfruttare senza scrupoli, in nome di Potentati Oscuri; questi stessi Brutti Figuri si meravigliano che i giovani si ammazzino tra loro o si distruggano con l'alcol, la prostituzione, e lo stupro, invece di inebriarsi delle guerre e degli spettacoli molto edificanti che i Buoni propongono loro.
La buona notizia, cari amici, è che possiamo liberarci dal peso del nostro piccolo Io senza doverci ubriacare di soldi, di informazione malsana, o di pornografia, e senza nemmeno dover mettere un punto finale alla nostra vita con una bella pallottola in testa, come fecero Majakovskij, e tanti altri poeti del Novecento.
No, amici, possiamo alleggerirci in ogni momento, possiamo imparare a lasciare andare le gabbie del nostro piccolo io, possiamo cioè aprirci volontariamente alla Sfera Leggerissima del nostro Sé più interiore, e da lì riprendere il cammino.
Senza peso.
Con le ali ai piedi, come Hermes-Mercurio, il dio alchemico del più rapido passaggio.
Nei nostri Gruppi in fondo non facciamo altro che sperimentare questo mistero: il peso è solo un carico che possiamo mollare.
Perciò vi invito fraternamente ad iscrivervi (https://www.darsipace.it/iscriviti-ai-gruppi-darsi-pace/)
Ramana Maharshi, un grande mistico Hindu del XX secolo, diceva che l'essere umano sembra una persona che si affatica da morire tenendo su con le braccia due valigie pesantissime, senza rendersi conto di trovarsi su un treno.
Quelle valigie cioè le possiamo posare.
Anche adesso.
Depositare, e lasciarci portare
Dal vento.
Marco Guzzi
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rideretremando · 1 year
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"UN CUORE CHE NON DORME. SU DUE POESIE D’AMORE DEL NOVECENTO ITALIANO (2018)
Chi volesse allestire un’antologia di belle poesie d’amore del nostro Novecento, magari per disporre di un bacino di citazioni a uso anche privato, non avrebbe la strada facile. Non, almeno, se pretendesse di trovarsi tra le mani un canzoniere che celebra l’eros nella sua pienezza – l’eros al tempo stesso eccezionale e quotidiano, inconfondibile e universale. Chi dispiega apertamente il suo canto amoroso, se si escludono l’ossessivo riduzionismo efebico di Sandro Penna e la meteoropatia emotiva della penniana Patrizia Cavalli? Ci sono, è vero, lirici suggestivamente terrestri e sensuali, perfino in senso linguistico, come Gatto, Betocchi e certo Caproni, non a caso cresciuti anche loro, accanto a Penna, sul rovescio del tessuto ermetico: ma finiscono quasi sempre per diventare o troppo domestici o troppo sfuggenti, ripiegando su una freschezza insieme patetica e pudica e partendo per la tangente del manierismo. Ci sono, ancora, poeti erotico-famigliari alla Sanguineti o alla Giudici, che non esitano a palpare i corpi e a immergerli nella vita di tutti i giorni: ma lo fanno esibendo preventivamente il falsetto, il passaporto di una vezzosa diplomazia crepuscolare; così come il primo Pagliarani e Massimo Ferretti schiacciano altri corpi sotto la loro musica avida e guascona. Quanto a Sereni, i suoi rossori di innamorato vengono subito puniti da una reticenza brusca che li lascia a galleggiare nel vuoto. La nostra lirica novecentesca, osservava Garboli mezzo secolo fa, è “altamente ‘omosessuale’ ”, nel senso di una estrema introversione del tema amoroso: in genere “s’ispira a presupposti assoluti, di a tu per tu con Dio, sdegnando le sparpagliate occasioni del ‘sentimento’, i suoi trasalimenti, i suoi brividi, le sue piccole e struggenti ferite. La poesia moderna è tutta ‘intellettuale’ (…) Respinge le situazioni da fumetto, il ‘lui e lei’. Il poeta contemporaneo” non si può immaginare “innamorato degli aspetti femminili della vita quali la gioia, la giovinezza, lo splendore della pelle, una bella mattinata piena di sole, le ore della felicità che è sempre rubata, sempre momentanea, sempre sul punto di essere uccisa”.
Del resto questa lirica non è che l’ultimo, stravolto capitolo di una storia poetica occidentale che può leggersi in chiave rougemontiana. È la storia che mantiene al centro l’“amore dell’amore”, Narciso e Tristano: quella tenuta a battesimo dai versi provenzali, stilnovisti e petrarcheschi in cui si sublima l’oggetto del desiderio fino a farlo sparire, secondo una metafisica che torna vestita di panni moderni nell’opera di un Montale. L’amore innalzato all’empireo, si sa, si specchia poi in basso nelle sue caricature popolari, nelle deformazioni carnevalesche che non fanno che sancirne la supremazia; così come le demoniache donne romantiche e baudelairiane, dietro il loro teschio di streghe, di bestie e di carogne, lasciano intravedere il volto etereo dell’angelo caduto.
Ciò che questo Occidente rimuove all’origine è la nudità dei classici: il loro tranquillo intreccio di cerimoniosità rituale e affetto scanzonato, l’umiltà con cui si volgono al desiderio e all’osceno (a ciò che c’è nell’eros di irrevocabile e tremendo, ossia di sacro) proprio mentre ne abbozzano con tratti lievi gli episodi più prosaici. I moderni hanno eletto questa nudità a mito irraggiungibile; e se a volte hanno creduto di vederla riapparire a lampi in qualche loro contemporaneo sfuggito alla morsa della Storia – e magari, per via omosessuale, sfuggito pure al “lui e lei” - l’hanno celebrata come fosse un miracolo. Perché la norma, al contrario, è appunto l’atteggiamento di chi ruota sempre intorno alle aporie dell’amore genialmente descritto da De Rougemont - di chi ne assalta, scalfisce o spernacchia l’idolo per poi tributargli un inevitabile omaggio, o addirittura per rendere ancora più impalpabile e onnipresente il suo fantasma. Questo fantasma, è vero, a un certo punto s’incarna anche al di fuori del mero rovesciamento burlesco: ma l’incarnazione viene allora appaltata al romanzo ‘medio’, o a quel cinema a cui subito, con pochi ritocchi, un tale romanzo si propone come sceneggiatura. Lì, nello specchio narrativo di una società ormai laicizzata, l’afflato idealizzante e romantico rivela il suo spirito volgarmente calcolatore, scende a patti con la routine trascinandosi tra letti precari, scene mélo e struggimenti dozzinali. La poesia invece, già arroccata in sé stessa per sfuggire alla lingua della tribù, ha sommato a questo arrocco formale la vaghezza difensiva con cui l’uomo moderno allude a una realtà che nonostante tutto continua a porglisi pavesianamente davanti come il banco di prova della vita: il “grande amore”, che per definizione “non si trova”. Così l’antico “né con te né senza di te” diventa una ipnosi da eterni adolescenti, un inseguimento della propria ombra, una leggenda che nutre sottotraccia ogni parola ipotecandola senza dichiararsi, e che carica ogni oggetto dell’aura amorosa dopo averla resa irriconoscibile.
Si dànno, ovviamente, le eccezioni. Una è vistosa proprio perché melodrammatica: nei “Nuovi versi alla Lina”, il verdiano e heiniano Saba del 1912 dialoga con la moglie che l’ha tradito, e nella sua temeraria impudicizia ci fa udire tutti del suo cuor gli affanni. Soffre, si lamenta, interroga, accusa, perdona, torna sui fatti senza capacitarsi dell’accaduto e del suo effetto emotivo. Siamo di fronte a un raro caso di poesia imperniata sulla passione coniugale - poesia insieme traumatica e casalinga, canzonettistica e dolorosa. Con sovrana semplicità, il poeta vi dichiara il suo stupore per ciò che può fare l’ossessione, la ferita narcissica inferta dalla gelosia: il mondo caldo e vivido delle sue passeggiate si svuota, e lo sguardo è obbligato a concentrarsi su un punto solo, una femmina qualunque, una cosa così comune e piccola che “una casa nello spazio, / un piroscafo è tanto più di lei”.
Ma se dovessi compilare quell’antologia, io la aprirei in un altro modo. La aprirei con due testi nei quali le domande su Amore e Morte che alonano la più tipica poesia d’Occidente dal Medioevo al Novecento riecheggiano nel nido buio della coppia; e lì, in una situazione d’intimità reale, non vagheggiata ma vissuta, vengono affrontate e approfondite, conservate e superate, o piuttosto scontate, tra tenerezze tremanti e pene solitarie. Parlo di due testi dove l’amore è assolutamente vero e al tempo stesso ‘impossibile’: “Vecchio e giovane” di Umberto Saba e “Canzonette mortali” di Giovanni Raboni. In entrambi i casi un uomo anziano, con gli occhi sbarrati nell’ombra, veglia su un corpo giovane disteso accanto a sé nel letto, e cerca di accettare l'incommensurabilità dei rispettivi destini biologici.
Ecco la poesia di Saba: “Un vecchio amava un ragazzo. Egli, bimbo / - gatto in vista selvatico - temeva / castighi a occulti pensieri. Ora due / cose nel cuore lasciano un'impronta / dolce: la donna che regola il passo / leggero al tuo la prima volta, e il bimbo / che, al fine tu lo salvi, fiducioso / mette la sua manina nella tua. // Giovinetto tiranno, occhi di cielo, / aperti sopra un abisso, pregava / lunga all'amico suo la ninna nanna. / La ninna nanna era una storia, quale / una rara commossa esperienza / filtrava alla sua ingorda adolescenza: / altro bene, altro male. ‘Adesso basta – / diceva a un tratto; - spegniamo, dormiamo.’ / E si voltava contro il muro. ‘T'amo – / dopo un silenzio aggiungeva - tu buono / sempre con me, col tuo bambino.’ E subito / sprofondava in un sonno inquieto. Il vecchio, / con gli occhi aperti, non dormiva più. // Oblioso, insensibile, parvenza / d'angelo ancora. Nella tua impazienza, / cuore, non accusarlo. Pensa: È solo; / ha un compito difficile; ha la vita / non dietro, ma dinanzi a sé. Tu affretta, / se puoi, tua morte. O non pensarci più”.
Ed ecco la poesia di Raboni: “Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro / e solo del futuro, di nient’altro / ho qualche volta nostalgia / ricordo adesso con spavento / quando alle mie carezze smetterai di bagnarti, / quando dal mio piacere / sarai divisa e forse per bellezza / d’essere tanto amata o per dolcezza / d’avermi amato / farai finta lo stesso di godere. // Le volte che è con furia / che nel tuo ventre cerco la mia gioia / è perché, amore, so che più di tanto / non avrà tempo il tempo / di scorrere equamente per noi due / e che solo in un sogno o dalla corsa / del tempo buttandomi giù prima / posso fare che un giorno tu non voglia / da un altro amore credere l’amore. // Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno / dopo l’altro ti lascio, anima mia. / Per gelosia di vecchio, per paura / di perderti – o perché / avrò smesso di vivere, soltanto. / Però sto fermo, intanto, / come sta fermo un ramo / su cui sta fermo un passero, m’incanto… // Non questa volta, non ancora. / Quando ci scivoliamo dalle braccia / è solo per cercare un altro abbraccio, / quello del sonno, della calma – e c’è / come fosse per sempre / da pensare al riposo della spalla, / da aver riguardo per i tuoi capelli. // Meglio che tu non sappia / con che preghiere m’addormento, quali / parole borbottando / nel quarto muto della gola / per non farmi squartare un’altra volta / dall’avido sonno indovino. // Il cuore che non dorme / dice al cuore che dorme: Abbi paura. / Ma io non sono il mio cuore, non ascolto / né do la sorte, so bene che mancarti, / non perderti, era l’ultima sventura. // Ti muovi nel sonno. Non girarti, / non vedermi vicino e senza luce! / Occhio per occhio, parola per parola, / sto ripassando la parte della vita. // Penso se avrò il coraggio / di tacere, sorridere, guardarti / che mi guardi morire. // Solo questo domando: esserti sempre, / per quanto tu mi sei cara, leggero. // Ti giri nel sonno, in un sogno, a poca luce // 1982-1983”.
Il ragazzo ritratto da Saba torna nel secondo dopoguerra in diverse sue pagine - telemachie in forma di epigramma, scorciatoie, poesie carezzevoli e terribili – e viene di solito identificato con il figlio del libraio antiquario milanese presso cui il poeta abitò tra il ’45 e il ’48, quel Federico Almansi che pochi anni più tardi sarebbe sprofondato nella schizofrenia. “Vecchio e giovane” fu inserita nel fascicolo di liriche intitolato “Epigrafe” (1947-1948) e destinato a una pubblicazione postuma. È composta da tre strofe di otto, tredici e sei versi, in sostanza endecasillabi camuffati dalle saldature e dalle pause di un racconto che ora si avvolge a spirale e ora si rapprende in laconiche ellissi. Fin dall’incipit, l’ambiguità del contesto è come ignorata (e sottolineata) da un’affermazione perentoria: “Un vecchio amava un ragazzo”. Il poeta finge parodicamente la fiaba, recita una saggezza lineare e una limpidezza che invece nelle prime strofe è negata dai connettivi del discorso, dal ritratto del “giovinetto” e dal dialogo con il suo amico. I “castighi a occulti pensieri” e gli occhi “aperti sopra un abisso”, alternati alla esibita calma gnomica del narratore che tiene ai due capi il filo dell’esistenza, fanno davvero pensare a un turbamento psichico, a un esorcismo condotto sul bordo della follia. “Celeste” qui non è l’azzurra pupilla sabiana che tutto può contemplare e ospitare, ma un cielo che schiaccia e un vuoto che inghiotte. Il vecchio filtra una storia, l’adolescente ingordo l’assume come un farmaco e poi vuole addormentarsi in fretta. Così da un lato del letto inizia il “sonno inquieto”, dall’altro un’insonnia senza speranza. Dopo avere evocato le due prospettive che più frequentemente si fronteggiano nella sua opera, il punto di vista filiale e il punto di vista materno, il poeta prova a lenire il dolore di quella mancata empatia immedesimandosi nel compagno: se non sa restituire l’affetto è perché lotta con la propria angoscia di creatura incompiuta, ancora senza centro, e dunque fatalmente sorda ai bisogni di coloro che la accudiscono. Inutile accusarlo: è fisiologico che i ritmi non possano accordarsi. Non resta che smettere di pensarci, o ‘passare oltre’.
In questa poesia le sigle di stile alto lasciate cadere qua e là non dipendono più dal tono impettito, dalle sonorità goffe o rotonde di banda paesana che caratterizzano molte composizioni giovanili - anzi somigliano quasi a una sprezzatura, al gioco agrodolce di chi si concede il lirismo appunto perché i suoi rischi e le sue promesse non fanno più presa. I panneggi levigati e sontuosi, appena suggeriti a qualche svolta, non contraddicono la natura diafana e fantasmatica del testo. Ogni fanfara, bozzettistica o classicista, resta ormai alle spalle. Il risultato è una maestà calma e dolente, una trasparenza in cui non si dà scarto tra detto e cantato o tra sussurro e musica, fusi in un fraseggio di tenerezza straziata ma asciutta e lucidamente arida (la stessa tenerezza alla quale, giungendovi dall’opposta sponda di una depressione sia vitale sia stilistica, Sbarbaro era approdato intorno al ’30 nei “Versi a Dina”).
Anche il Raboni maturo si muove con un passo felpato di questo genere. È un passo che acquista nelle fasi di transizione della sua parabola poetica: prima, appunto, negli anni Ottanta delle “Canzonette”, luogo di sutura tra lo stile manzonian-brechtiano della penitente giovinezza lombarda e il manierismo delle forme chiuse; poi, alla fine, in “Barlumi di storia”, dove dalle forme chiuse ritorna a uscire ‘verso la prosa’ (ma affiora già nel metricista “Quare tristis”, non appena taglia a metà il sonetto come in “Svegliami, ti prego, succede ancora…”). Anche nelle sue strofe “mortali” la diversa biologia dei corpi stesi nell’alcova è il punto di partenza scelto per evocare i topoi di amore e morte, presenza e assenza, realtà e irrealtà; anche qui il rapporto è vissuto come un’iniziazione sempre esposta al fallimento, destinata a essere giocoforza interrotta; e anche qui l’ansia si attenua solo attraverso una resa simile a un cupio dissolvi. Se Luigi Baldacci giudicava “Vecchio e giovane” la poesia più “marmorea e straziata” del Novecento, a proposito di “Canzonette mortali”, dopo avere opportunamente citato i classici e in particolare Catullo, Paolo Maccari ha ripreso un’espressione utilizzata altrove da Raboni, e pure vicina all’ossimoro, parlando di un testo “obiettivamente straziante”.
“Canzonette” è costruita a imbuto, per strofe di lunghezza decrescente - da dieci versi a uno - secondo una formula mutuata a quanto pare dalla sinfonia 45 di Haydn nota come “Sinfonia degli addii”. La prima strofa s’impernia su un motivo tipicamente raboniano: in quelle “spoglie del futuro” il tempo assume l’aspetto di una pellicola già proiettata, da riavvolgere e far scorrere avanti e indietro con agio funerario (si veda, in “Barlumi di storia”, il riepilogo di “Si farà una gran fatica, qualcuno…”). Tutto è già compiuto e ci sta davanti in una spossata, paradossale eternità barocca. I versi descrivono un moto lento di onde che si allungano e si contraggono, qua limpide e là torbide o schiumose. Le abbreviazioni coincidono spesso con smorzature gravi come pesi sul cuore, in cui la voce sembra strozzata o soffocata. A poco a poco il discorso si assesta intorno alla misura di un endecasillabo che fa da chiusa provvisoria, icastica, per poi riaprirsi subito su un’incertezza allarmata; e dopo trasalimenti, nenie, attese a respiro trattenuto e constatazioni lapidarie, la serie non si chiude con un sigillo ma con una sospensione, un ‘piano’ da stretta che si allenta. ‘Vista’ così alla moviola, la consunzione può ancora confondersi con la stasi, con un indefinito protrarsi di quell’equilibrio squilibrato: nessuno sa quanto durerà il misto di angoscia e incanto.
La lentezza cerimoniale, l’iniziazione religiosa all’eros e alla morte del Raboni d’inizio anni Ottanta si gioca qui tra l’‘amen’ di chi sente di poter accettare qualunque cosa perché ha incontrato il proprio destino (“mancarti, / non perderti, era l’ultima sventura”) e l’allarme che ispira ineluttabilmente il possesso, la consapevolezza della futura perdita (“Il cuore che non dorme / dice al cuore che dorme: Abbi paura”). Se in altre liriche coeve il poeta sgrana le immagini di un teatrino pornografico con leggerezza tenera e devota, qui scioglie il “godere” nel tema della consegna a una sorte di dissoluzione fisica; ma l’accettazione di questa sorte è poi incrinata da commoventi, atroci soprassalti vitalistici - dalla fame di futuro di chi, ormai sulla soglia dell’aldilà, tenta di riafferrare un impossibile accordo della giovinezza e può farlo solo “ripassando la parte” tra una pausa e l’altra, perché il suo stato normale di uomo quasi vecchio è un torpore che se assecondato lo porterebbe lontanissimo dal ritmo a cui batte il cuore della compagna.
“Fare l’amore e morire sono una cosa sola”, diceva Truffaut del cinema “decisamente più sessuale che sensuale” di Alfred Hitchcock, così proustianamente amato da Raboni: e lo si potrebbe ripetere davanti a entrambe le poesie. Ma in chiusura vorrei ricordare un altro regista, che ha girato un film dove la quotidianità condivisa dell’amore appare altrettanto fatale e precaria. È il Chaplin di “Luci della ribalta”. Alla sua uscita, nel 1952, se ne occupò tempestivamente proprio Garboli, che al tema era con tutta evidenza sensibilissimo se trent’anni dopo decise di scrivere anche delle “Canzonette”, opera di un autore per il resto molto distante da lui. In un pezzo pubblicato di recente nella “Gioia della partita”, il ventenne studioso di Dante si concede un’incursione nel campo del grande schermo dialogando con il commento che al film ha dedicato Carlo Muscetta, rappresentante di quel marxismo postbellico verso cui Garboli mantiene sempre un affetto aprioristico pur mentre batte per suo conto tutt’altre strade. Nel descrivere la storia di Calvero e Terry, il giovane critico parla dello “stato di provvisorietà in cui viene a trovarsi un amore per altro verso tanto permanente, tanto terribilmente serio e affondato nelle radici della vita che tollera di paragonarsi solo all’aria stessa in cui unicamente è dato di vivere”. “Come torni in dramma, in amore, in strazio sopportato tanta voglia di vita, che non ha sfogo e non può averlo, una volta ricalati i personaggi dalla favola in realtà e nella storia che loro è data, mediocre fuori, grande e ricca e varia dentro, diversa e uguale a tutte, come tante: questo è ‘Limelight’”, afferma nella pagina centrale del suo pezzo. “Ed è questo, precisamente, il solo modo in cui l’umano incontro di due vite diverse, Calvero e Terry, può divenire, farsi storia e una sola storia; pur non avendo, di una storia d’amore, che l’ansia d’essere tale e il saper d’esserlo e il non esserlo invece, di fatto: così che continuamente si mescola alla favola la realtà e si affaccia nella felicità la disperazione, indissolubile l’una dall’altra; perché ciò che è accaduto in mezzo a quelle due vite scova il modo d’essere una medesima cosa fra loro proprio e appunto perché comune a due vite, a due storie diverse. La vitalità, l’istinto divengono l’amore che salda persona a persona ma l’amore onde si vincolano le vite di Calvero e di Terry suscita davvero un patema indicibile, proprio una sorta di chiuso finimondo se per forza di cose tanto più brucia ogni limite quanto più gli fanno tormentosa prigione i naturalistici limiti della giovinezza e della vecchiaia, i quali infine sbiadiscono e si dissolvono come tali ma riaffiorano nuovamente come i confini stessi del tempo, della realtà in cui ciascuno dei due personaggi si cala, della storicità insomma propria di Calvero, di Terry”.
Verso la fine di questo formidabile saggio, stilisticamente ancora ingorgato, troppo abbondante e tortuoso, ma già molto garboliano nell’andatura avvolgente e nel sapore, il critico si sofferma sul punto di vista della ballerina – cioè del ‘corpo giovane’ che Saba e Raboni guardano dall’esterno – in un passo che vale la pena riportare quasi per intero: “Tanto grande è la dimensione del suo amore che sembra davvero possa tutto, anche restituire la virilità a un vecchio e il talento a chi l’ha esaurito (…): ed è un’illusione, poiché più grande diviene l’amore in Terry più acuto si fa in Calvero e in Terry lo strazio che la vita non lo conceda. Così s’alternano la felicità e la disperazione in una voglia d’amare che trova ostacolo in sé, in ciò stesso onde è nata; e chi rifletta al gusto romantico delle passioni sempre un po’ esagitate può comprendere perché in ‘Limelight’ l’amore si raffiguri in modo da non sembrare neppure più tale, un’altra cosa, tanto è vicino all’elemento inqualificabile che spinge una pietra a stare in un modo, a fiorire la rosa in un altro. Come si muova in grazia, in angoscia, in modi consueti alle storie d’amore, solitudini e improvvise felicità, come s’ammanti il desiderio l’uno dell’altra dell’esser clown Calvero, dell’esser ballerina Terry (ché ognuno simbolizza ingenuamente per suo conto), è la levità della favola, in cui la storia pare che sia sempre lì lì per sfumare; e in fondo a quella visiva trasparenza s’asciuga invece uno spasimo atroce; si dispera e invecchia e intristisce la vita di Calvero e si abbarbica l’amore di lui e di Terry tenace, con la protervia della dolcezza e per il fascino che proviene dalla vita di chi si ama, di chi si è; e si dibatte in voglia impotente, scoppia in patetiche ostinazioni, spoglio del superfluo, in un miscuglio nuovo di sofferenza e di gioia e di solitudine e di dedizione assoluta e dentro cui si vive senza aver fede in altro, perché questo solo c’è e resta, l’amore e la vita che fanno una cosa sola: quel fluido impenetrabile che sembra abbia consistenza mentre passa negli occhi di Calvero e di Terry il giorno che si ritrovano, per caso, a un caffè. Tutto si ferma intorno, si fanno grandi i loro visi accostandosi e in quell’intimità si atteggia una consapevolezza estrema, come si concentrasse in quel momento l’arco in cui la vita si compie tutta; essendo interna alla sua bellezza la sua irrimediabilità (…) C’è in ‘Limelight’ una sorta di naturalismo estremo e quell’umanesimo integrale di cui parla Muscetta e sopra tutto un ateismo quasi sfacciato e una disperazione lucida, che annulla e dà, ricrea, e tutto questo espresso in realtà dura, in pura favola, senza esterni soccorsi di consolazione. Si pensa al viso staccato e solitario di Calvero prima e dopo l’ultima pantomima; vi traspare la commozione come la luce in una pietra limpida, fredda; dice che la vita è immensa, varia, magnifica, perché limitata, terribile, breve, chiusa e angustiata da limiti netti, senza nient’altro all’infuori di sé”.
“Una voglia d’amare che trova ostacolo in sé, in ciò stesso onde è nata”: eppure non una voglia romanticamente esagitata e teatralmente esagerata, ma naturale come ciò che “spinge una pietra a stare in un modo, a fiorire la rosa in un altro”; non un ostacolo rougemontianamente ‘fittizio’, ma invalicabile, oggettivo. E ancora: in uno stile prosciugato, trasparente, il resoconto di una felicità, di una fiaba che ha come rovescio la reale assenza di consolazione, la “disperazione lucida” che dà e toglie con un gesto solo la consistenza a quell’amore. Così, anche in Saba e in Raboni, concretezza e impossibilità sono come due lati di un unico foglio, due espansioni della stessa radice: la contraddizione senza vie d’uscita di un rapporto che nasce alla tangenza di due linee vitali destinate a divaricarsi davanti alla morte. Esiste nel Novecento italiano un’altra grande poesia d’amore, che allo squilibrio di una relazione vissuta, non ‘romantica’, dà la forma più biologicamente estrema, pur sospendendola nel limbo della parodia stilnovista: è l’“Ultima preghiera” di Giorgio Caproni – ma non sono ‘preghiere’ anche “Vecchio e giovane” e le “Canzonette”? – dove i punti di vista tipici della lirica sabiana acquistano un significato letterale: la fidanzata coincide con la madre rimasta giovane accanto a un figlio vecchio.
Squilibrio dei destini, si è detto; ma nella nostra ipotetica antologia dovrebbe trovare un posto d’onore anche la più bella lirica dedicata a un genere differente di squilibrio, quello delle forze. Il potere ‘politico’, la dialettica del servo e del padrone, l’oggettivazione sadica dell’altro penetrano infatti fin dentro le stanze più private: e Noventa, nei versi “A un’ebrea” scritti mentre si annunciava all’orizzonte la Shoah, esprime tutto lo strazio di chi sa di non poter redimere la propria sopraffazione, né attingere una giusta parità, ma solo distogliere vergognosamente lo sguardo: “Gh'è nei to grandi - Oci de ebrea / Come una luse - Che me consuma; / No' ti-ssì bèla - Ma nei to oci / Mi me vergogno - De aver vardà. // Par ogni vizio - Mio ti-me doni / Tuta la grazia - Del to bon cuor, / A le me vogie - Tì ti-rispondi, / Come le vogie - Mie fusse amor. // Sistu 'na serva - No' altro o pur / Xé de una santa - 'Sta devozion? / Mi me credevo - Un òmo libero / E sento nascer - In mi el paron”…
Amare senza scoprirsi né padroni né servi: forse a volte sembra possibile solo là dove incombono ‘gli addii’, là dove tutto è vissuto al colmo di una intimità traboccante, trepida, sconvolta, e al tempo stesso tutto è guardato come già morto. L’amore nella sua pienezza non si dà, pare, senza lo sfondo di due solitudini, senza la minaccia, senza rivelarsi “sempre sul punto di essere ucciso”. La differenza è tra una poesia che rimuove questa realtà nei suoi castelli simbolico-allegorici, e una poesia che con la naturalezza perentoria degli ‘artisti da vecchi’ affronta la consumazione dell’amore sotto un cielo d’ansia."
Matteo Marchesini
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greenbor · 22 days
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Fabbricare, fabbricare, fabbricare Preferisco il rumore del mare Che dice fabbricare fare disfare Fare e disfare è tutto un lavorare Ecco quello che so fare
(Dino Campana, Opere, Canti Orfici e altri versi e scritti sparsi, ed.TEA)
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p s Dino Campana è stata una di quelle anime così poco integrate nel vivere comune, ma così importanti per tutti noi, una vera pietra angolare, (come quella del salmo 118 della Bibbia: “Una pietra scartarono i costruttori, era quella di capo d’angolo”) che, inizialmente scartata, si rivela poi una pietra portante. Dino Campana fu infatti schernito e allontanato dagli abitanti di Marradi, il suo paese natale, perché considerato “il pazzo del villaggio”; fu emarginato arrogantemente dagli intellettuali dell’epoca (i Futuristi persero addirittura con incurante negligenza il suo manoscritto Il più lungo giorno che Campana aveva loro affidato per averne un giudizio. Il manoscritto fu poi casualmente ritrovato sessant’anni dopo la morte del poeta); Campana fu inoltre abbandonato anche dal suo grande amore, Sibilla Aleramo. Dino Campana è considerato uno dei poeti più vitali del Novecento.
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personal-reporter · 3 months
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A zonzo per la Francia: Paul Claudel
Uno dei poeti più amati della Francia del Novecento…. Paul Claudel nacque  il 6 agosto 1868 a Villeneuve-sur-Fère, ultimo di quattro figli e, durante l’infanzia, dovette cambiare città continuamente a causa del lavoro svolto dal padre, alto funzionario dell’amministrazione statale, fino a quando nel 1882 la famiglia Claudel si stabilì definitivamente a Parigi. Continue reading A zonzo per la…
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yourtrashcollector · 2 years
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Mariangela Gualtieri, Mio vero
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letteratitudine · 8 months
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Piccola Accademia di Poesia - da una visione di Elena Mearini
MILANO - PAP - Piccola Accademia di Poesia
22 SETTEMBRE - APERTURA NUOVO ANNO ACCADEMICO con nuovi corsi e tanti ospiti tra cui LELLO VOCE e FRANCESCO ROAT.
A settembre riprendono i corsi della Piccola Accademia di Poesia di Milano, la scuola di scrittura dedicata esclusivamente al componimento in versi, un’esperienza unica in Italia.
Piccola Accademia di Poesia è una visione nata dalla fantasia di Elena Mearini, poetessa, scrittrice e imprenditrice dove "PAP" è l'acronimo usato per indicare questo luogo di incontro, confronto, dialogo e ascolto della Poesia. 
Una “Piccola Accademia” in cui, attraverso un metodo didattico innovativo e interdisciplinare, si può scoprire e mettere a punto una cifra poetica personale. Un luogo unico in cui lasciarsi invadere dalle voci dei più grandi poeti di ieri e di oggi e mettere alla prova la propria.
Vorrei che l’Accademia diventasse sempre di più un punto di riferimento per tutti coloro che desiderano frequentare e praticare la poesia ma non solo. Un luogo di confronto e scambio tra amanti della parola in ogni sua forma ed espressione, uno spazio capace di accogliere e sostenere progetti creativi che pongono al centro lo sguardo poetico sulle cose.
Elena Mearini
Si riparte il 22 settembre con i PAP, i moduli di formazione crescente sviluppata in DUE ANNI, suddivisa in quattro quadrimestri: PAP0, PAP1, PAP2 e PAP3. 
La frequentazione di ogni PAP dà accesso di diritto al quadrimestre successivo. 
I quadrimestri sono strutturati con 8 lezioni ciascuno di una durata di 3h circa per 2 incontri al mese, a scelta tra la classe del venerdì sera dalle 19 alle 22 e quella del sabato pomeriggio dalle 14.30 alle 17.30. 
Oltre alla parte didattica si prevedono esercitazioni propedeutiche alla scrittura in classe insieme ai docenti e condivisione collettiva. Talvolta ci saranno “compiti” da svolgere a casa. 
La frequentazione potrà avvenire in presenza in sede oppure online (via Zoom). 
Le sessioni saranno due all'anno: da fine settembre a inizio febbraio e da inizio marzo a fine giugno.
Si aggiungeranno frequenti occasioni di incontro con poeti contemporanei e personalità artistiche. Tra i nuovi ospiti, LELLO VOCE, scrittore e performer, tra i fondatori del Gruppo 63 e ideatore del primo Poetry Slam italiano.
Oltre a Lello Voce è prevista la presenza anche di FRANCESCO ROAT, saggista e critico letterario e GIOVANNI BLOCK compositore e cantautore (Targa Tenco come migliore autore emergente)
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La Piccola Accademia di Poesia nasce nel 2019, a oggi conta oltre 44 iscritti al primo anno (nell’anno accademico 2021/2022 erano 13), prevalenza donne (65%) con un’età che va dai 24 a 71 anni, provenienti da Milano, Lombardia e fuori regione grazie alla modalità mista di fruizione (online e in presenza).
Tra i docenti, oltre alla direttrice Elena Mearini, l'editore Marco Saya e il filosofo Angelo De Stefano.
In aggiunta ai corsi, tanti gli appuntamenti riservati agli allievi: un fitto calendario di incontri con personalità artistiche e culturali provenienti dagli ambiti più diversi, in un’ottica di contaminazione e trasversalità che è alla base del programma formativo dell’Accademia. Sandro Bonvissuto, Ivan Tresoldi, e nel 2023, Fabio Pusterla, Vivian Lamarque, Vincenzo Mascolo, Maurizio Cucchi e LELLO VOCE.
L’Accademia è un vero e proprio hub della poesia in cui poeti e insegnanti porteranno gli studenti a scoprire la consapevolezza del verso attraverso una “didattica dell’ascolto”.
Il metodo di divulgazione e insegnamento della poesia all’interno della Piccola Accademia si sviluppa seguendo tre direzioni: 
la lettura e l’analisi delle grandi voci poetiche che hanno lasciato tracce sostanziali durante il Novecento e lo studio delle più significative voci emerse nel nuovo millennio. 
Lo studio della metrica e della neometrica per l’acquisizione degli strumenti necessari a creare e governare il ritmo e le sue variazioni. 
La conoscenza del pensiero dei maggiori filosofi del secolo scorso, del loro sguardo sul linguaggio e sulla funzione della poesia.
Queste tre direzioni s’intrecciano costantemente durante le lezioni, permettendo agli allievi di approcciare contemporaneamente stile, suono e contenuto di una poesia.
Inoltre, l’ampio spazio dedicato alle esercitazioni pratiche durante le lezioni, consente un confronto immediato con il docente accelerando il processo di apprendimento e verifica delle nozioni impartite.
Altra caratteristica della Piccola Accademia è l’idea del “fare concreto insieme”, ovvero creare diverse occasioni di scambio tra gli allievi, proporre esercizi di gruppo sulla parola poetica e occasioni di reading pubblici per allenare gli allievi a confrontarsi con lo sguardo dell’altro e permettere alle loro parole di stare con e tra la gente. https://www.piccolaaccademiadipoesia.com/
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donaruz · 7 months
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"Abbiamo fatto del nostro meglio per peggiorare il mondo."
Nasceva il 12 Ottobre 1896
𝐄𝐮𝐠𝐞𝐧𝐢𝐨 𝐌𝐨𝐧𝐭𝐚𝐥𝐞, uno dei più grandi poeti italiani del Novecento e premio Nobel per la Letteratura,. Descrisse la condizione umana con le sue paure, i desideri e le attese, facendosi interprete degli eventi più drammatici e dolorosi del secolo scorso
Atlantide
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lamilanomagazine · 11 months
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Fano: A Passaggi, il festival della poesia con il vincitore del Premio Fortini
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Fano: A Passaggi, il festival della poesia con il vincitore del Premio Fortini. L’ultima pagina dell’edizione 2023 di Passaggi Festival sarà scritta in versi: a chiudere la manifestazione dedicata ai libri, in programma a Fano, sarà il mini festival di poesia ‘Passaggi diVersi’: tre appuntamenti, tutti concentrati nella serata finale di domenica 25. Ad aprire sarà il ‘Premio letterario internazionale Franco Fortini’ (ore 21): sarà proclamato il vincitore dell’ottava edizione, scelto fra la cinquina finalista composta da Prisca Agustoni (Verso la ruggine, ed. Interlinea), Francesco Brancati (L’assedio della gioia, ed. Le Lettere), Marilena Renda (Fuoco degli occhi, Nino Aragno editore), Mary Barbara Tolusso (Apolide, ed. Mondadori), Gian Mario Villalta (Dove sono gli anni, ed. Garzanti). La Giuria del Premio, è presieduta da Christian Sinicco e composta da Maria Borio (segretaria), Bernardo De Luca, Tommaso Di Dio, Carmen Gallo, Paolo Giovannetti, Fabrizio Lombardo, Francesca Marica, Giuseppe Nibali (segretario), Niccolò Scaffai, Francesco Terzago, Italo Testa e Antonio Tricomi, Il Premio Letterario Internazionale “Franco Fortini” è organizzato da Poiein APS in partenariato con Passaggi Cultura e in collaborazione con Centro Interdipartimentale di Ricerca Franco Fortini in “Storia della tradizione culturale del Novecento” – Università di Siena, Fondazione per la critica sociale, Fondazione Palazzo Litta per Arti Onlus – MTM, Ass. Culturale Perda Sonadora – Festival Cabudanne de sos Poetas e Dipartimento di Comunicazione, arti e media “Giampaolo Fabris” dell’Università IULM. A seguire l’appuntamento dedicato agli ‘Editori coraggiosi’ (ore 22), con due coppie formate da editore e poeta, intervistate da Fabrizio Lombardo. Ci saranno Franca Mancinelli, curatrice della collana di poesia dell’editore Anima Mundi, insieme con la poetessa Roberta Castoldi, autrice de “La formula dell’orizzonte” (AnimaMundi), e Cristina Daglio, editrice di Puntoacapo, con il poeta Luca Nicoletti (“Rappresentazione della Luna”, Puntoacapo edizioni). Si terminerà, dalle 23 a mezzanotte, con ‘Calici diVersi’, con letture di poesie e degustazione di vini marchigiani dell’azienda Crespaia di Fano, e con il brindisi finale di Passaggi Festival 2023. I poeti protagonisti della lettura ad alta voce saranno Christian Sinicco, finalista al Premio Strega Poesia con ‘Ballate di Lagosta’ (Donzelli); Francesca Bavosi, autrice di “Ipotesi di misura” (Fara Editore); Gianni Iasimone con “Il mondo che credevo. Un poema metà-fisico” (Arcipelago Itaca); Daniele Ricci con “Lezione di meraviglia” (Italic Pequod) di, Salvatore Ritrovato con “La circonferenza della vita” (Marcos y Marcos). A presentare la serata saranno Fabrizio Lombardo e Marta Mallucci del social media team di Passaggi. “Quest’anno - spiega Lombardo, curatore della rassegna - abbiamo condensato in una serata lo spirito che all’interno di Passaggi festival rappresenta la poesia, ovvero uno sguardo intenso che ritiene la scrittura poetica capace di descrivere il presente meglio di altre forme. In quest’edizione ne sono testimonianza libri importanti come quelli in finale al premio Fortini; le voci al femminile dei progetti editoriali che andremo a raccontare; le diverse scritture che ascolteremo nel reading che chiuderà la rassegna e il festival”.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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cinquecolonnemagazine · 11 months
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Poeti moderni italiani: alla ricerca di un nuovo linguaggio
I poeti moderni italiani, e con moderni intendiamo quanti hanno scritto nel secolo scorso, hanno espresso stili molto diversi tra loro. Sintomo della grande vivacità del panorama poetico del Novecento. D'altronde non poteva essere che così per un secolo attraversato da due guerre mondiali e da profondi cambiamenti politici e culturali. Nella poesia del Novecento ritroviamo molte istanze tutte diverse tra loro: la sperimentazione linguistica che porta, tra l'altro, alla rottura con la metrica tradizionale; una forte componente soggettiva e introspettiva, attraverso la quale i poeti hanno esplorato i loro stati d'animo, le emozioni, le esperienze personali e la psicologia individuale; l'attenzione a problematiche sociali e l'impegno politico. Tutto questo supportato dalla ricerca di un nuovo linguaggio. Oggi accendiamo un piccolo faro su tre grandi poeti del Novecento: Giorgio Caproni, Mario Luzi e Alda Merini. Poeti moderni italiani: Giorgio Caproni Nato il 7 gennaio 1912 a Livorno e morto il 22 gennaio 1990 a Roma, Giorgio Caproni è considerato uno dei maggiori poeti italiani moderni. La sua carriera poetica ebbe inizio negli anni '30, ma la sua opera matura si sviluppò, appunto, negli anni '40 e '50, con la pubblicazione delle raccolte "Le città e la memoria" nel 1946 e "Il seme del piangere" nel 1956. Nel corso della sua vita, Caproni pubblicò altre importanti raccolte di poesie, come "Tutti i poeti sono giovani" nel 1973 e "Il sesto senso" nel 1984. Nei primi anni, è influenzato dal neorealismo e dalla poetica di Ungaretti, ma in seguito sviluppa uno stile personale caratterizzato da un linguaggio essenziale e una grande capacità di sintesi. La sua opera poetica è caratterizzata da una grande attenzione ai dettagli e da una riflessione acuta sulla condizione umana. Caproni esplora temi come il tempo, la memoria, l'amore, l'esistenza e la solitudine, cercando di dare un senso alle contraddizioni e alle complessità della vita. La sua scrittura è caratterizzata da un linguaggio essenziale, preciso e ricco di immagini evocative. Nonostante la sua grande maestria poetica, Caproni non godette di un grande successo commerciale durante la sua vita. Tuttavia, fu apprezzato e riconosciuto dalla critica letteraria, che lo considerava uno dei poeti più autentici e originali del suo tempo. Solo negli ultimi anni della sua vita ottenne un maggiore riconoscimento pubblico e diversi premi letterari, come il Premio Viareggio nel 1987 e il Premio Montale nel 1989. Oltre alla sua attività di poeta, Giorgio Caproni ha lavorato come traduttore, critico letterario e insegnante. Ha insegnato Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l'Università di Roma La Sapienza. La sua opera ha influenzato molti poeti successivi e continua a essere studiata e apprezzata per la sua profondità e originalità. Il significato dell'esistenza umana: Mario Luzi Nato il 20 ottobre 1914 a Castello, un piccolo paese in provincia di Siena, e morto il 28 febbraio 2005 a Fiesole, vicino a Firenze, Mario Luzi ha lasciato anch'egli un'impronta significativa sulla letteratura italiana. Anche per Luzi la carriera poetica ebbe inizio negli anni '30, con le prime opere pubblicate sulle riviste letterarie dell'epoca, ma la sua opera matura si sviluppò negli anni '50 e '60, quando pubblicò importanti raccolte come "Avvento notturno" nel 1957, "Al fuoco della controversia" nel 1963 e "Nella cruna del tempo" nel 1979. Nel corso della sua vita, Luzi ha anche scritto saggi critici e opere in prosa. La sua poesia si caratterizza per una profonda riflessione sulla condizione umana, sul senso dell'esistenza e sulla relazione tra l'uomo e la natura. Luzi era particolarmente attento alle sfumature e alle complessità del linguaggio, e la sua scrittura è caratterizzata da una grande precisione e ricercatezza formale. Oltre che poeta, Mario Luzi è stato membro dell'Accademia dei Lincei, dell'Accademia della Crusca e del comitato scientifico della Fondazione Lorenzo Valla. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il Premio Feltrinelli per la poesia nel 1963 e il Premio Viareggio nel 1995. Il dolore e la solitudine: Alda Merini Nata il 21 marzo 1931 a Milano e morta il 1º novembre 2009 nella stessa città, Alda Merini considerata una delle voci più significative della letteratura contemporanea italiana. La sua vita fu segnata da esperienze complesse e sofferenti. Sin dalla giovane età, infatti, Alda Merini soffrì di problemi mentali e trascorse periodi in diverse istituzioni psichiatriche. Possiamo dire che la sua esperienza di sofferenza e di lotta con la malattia mentale sia il centro della sua poesia, caratterizzata da una profonda introspezione, dalla ricerca della libertà e dal desiderio di trasmettere emozioni intense. La sua carriera poetica ha inizio negli anni '50, ma il successo arriva a partire dagli anni '80. Alda Merini ha pubblicato numerosi libri di poesie, tra cui "La presenza di Orfeo" nel 1953, "La Terra Santa" nel 1971 e "Vuoto d'amore" nel 1991. La sua poesia affronta temi universali come l'amore, la morte , la sofferenza e la ricerca del senso della vita. Nel 1996, le è stato assegnato il Premio Librex-Guggenheim Eugenio Montale, e nel 1997 ha vinto il prestigioso Premio Viareggio per la poesia. Nel corso degli anni, ha anche tenuto numerosi corsi e conferenze sul tema della poesia e della creatività. Oltre che come poetessa, Alda Merini è stata molto apprezzata anche come persona. La profonda umanità e il coraggio di aver parlato apertamente dei suoi problemi mentali l'hanno resa un personaggio simbolo del suo tempo. In copertina foto di giselaatje da Pixabay Read the full article
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queerographies · 1 year
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[Franco Buffoni un classico contemporaneo][Francesco Ottonello]
La monografia di Francesco Ottonello è il primo studio sull'opera omnia di Franco Buffoni, una delle voci poetiche protagoniste della cultura italiana a cavallo tra Novecento e Duemila.
La monografia di Francesco Ottonello, specialista sui riusi delle letterature classiche nei poeti contemporanei, è il primo studio sull’opera omnia di Franco Buffoni, una delle voci poetiche protagoniste della cultura italiana a cavallo tra Novecento e Duemila. L’autore sviluppa un’analisi approfondita delle raccolte del poeta lungo un quarantennio, scandendo attraverso l’eros tre stagioni…
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