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#so tempi duri
pgfone · 4 months
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Temporale + nespole
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gregor-samsung · 7 months
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L'uomo che decise di fingersi un altro
“ Avevo deciso di fingermi un altro, non nel senso di cambiare nome o connotati. O tutti e due; no, fingermi un altro «dentro». Non pensavo a un suicidio psicologico, non intendevo cancellare la mia identità per sostituirla, pretendevo di mantenerla, ma di nasconderla; inventandomi, per convenienza, una natura diversa. Sì che gli altri, parlandomi, si riferissero a questa e non a me. Avrei potuto fare di tutto, senza sentirne rimorso o vergogna. Chi parla con te non sa mai chi sei: conosce un viso, un nome, anche un carattere, qualche pensiero, ma «chi» sei non lo sa; lo sai soltanto tu che dici «io» e ne hai coscienza perché guardi dalle finestre dei «tuoi» occhi, odori dai buchi del «tuo» naso; ma per gli altri questo «io» è un «lui» e un «lui» può essere chiunque. Perché, allora — mi dicevo — non sfruttare questa impossibilità d'identificazione profonda, per sfuggire, non soltanto al male che gli altri potevano arrecarmi, ma anche a quello stesso che io potevo procurarmi per errore o incapacità? Ecco, dunque, il tema: nascondersi dietro un altro che non esiste, reinventare sé stesso finto, per proteggere quello vero. Mostruoso? non più della vita che ci espone a continui travagli. E, comunque, non si trattava di sembrare un altro agli altri, ma di sembrarlo a me stesso; chè, anzi, per il mondo dovevo continuare come se nessuna sostituzione o, meglio, sovrapposizione fosse mai avvenuta al mio interno. Cominciava un'altra vita.
Avevo rimosso me stesso e sarebbe stato un altro a subire umiliazioni, dolori, delusioni al posto mio. E potevo cambiarlo, a seconda delle circostanze, con un altro ancora, con vari altri, quanti volevo. E diversi tra loro. Condussi un'esistenza che il mondo giudicò scombinata e incoerente. E io, invece, stavo lì coerente ma irraggiungibile, ridacchiando nel mio nascondiglio per tanta invulnerabilità. Continuavo il mio lavoro, conservavo la mia posizione sociale, i miei titoli; ma consentivo all'altro che mi rappresentava, tutte le libertà possibili. Nei primi tempi le cose andarono felicemente. Il discredito che mi circondava non mi riguardava, addirittura mi divertiva. Ma, poco alla volta, presi a mal sopportare questi altri che m'inventavo, con i quali convivevo e che non stimavo. Mi accorsi come non sia vero che la vergogna, la sofferenza, i sentimenti degli altri non ci tocchino. E mi accorsi che questi altri, che m'illudevo di controllare e dirigere, diventavano sempre più autonomi e padroni. Sentivo che, continuando, avrebbero fatto di me il loro burattino. La corazza s'indeboliva, al punto che non mi distinguevo più dai fantasmi che avrebbero dovuto proteggermi. Dovevo liberarmene o non mi sarei più ritrovato. Ma non era quello che avevo voluto? No! avevo preteso di restar vivo, fingendomi morto. E non c'è, invece, finzione che duri così a lungo senza mutarsi in realtà. Decisi di ritornare in me, prima che fosse tardi. Ma era tardi: non sapevo più chi ero. E non in senso universale. Chi siamo non c'è chi lo sappia o, se c'è, tace ostinatamente. No, io mi chiedevo, più semplicemente: sono un immorale, un cinico, un vigliacco, un coraggioso? Sepolto da finzioni diverse, m'ero smarrito. Ricordavo tutte le vite vissute, ma non riuscivo più a distinguere quale fosse la mia, per potermela riprendere. Né avrei risolto nulla a scegliermi la vita che più mi sentivo di vivere. Anche se il caso m'avesse portato a scegliere la mia; non saperlo, mi sarebbe costato vivere dubitando continuamente di me. «Essere sé stessi» non è un dato oggettivo, l'interessato deve esserne informato. So io cosa significa cercarsi e non trovarsi. È come confidare i propri pensieri ad un estraneo. O come non sapere con chi conversare. O, nella migliore delle ipotesi, non sapere con «chi» si sta conversando. È come non avere mai la certezza di essere soli con sé stessi. Nessuno può aiutarmi. E non lo chiedo a nessuno. Aspetto. Chissà che un giorno io non venga a trovarmi! “
Pino Caruso, L'uomo comune, Palermo, Edizioni Novecento (collana Il liocorno), 1986¹, pp. 71-74.
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cywo-61 · 1 year
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Ma esiste anche il dolore della lotta della vita, dei tempi duri, del dovere essere forte ... Intanto continuo a dare amore ...so' testarda.
cywo
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canesenzafissadimora · 11 months
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Lo so che sono tempi duri ma tu hai superato molte prove, sei come una casetta che è stata costruita con immenso amore, che ha resistito a molte intemperie. Alcune cose sono andate perdute ma non è stata colpa tua - questo bisogna dirlo - si è abbattuta su di te troppa pioggia e ha trascinato via una parte importante, è vero, ma tu ti sei fatto forza e sei andato avanti, spavaldo, e hai ricostruito, piano piano, curando ogni ferita, mettendo in ordine tutto quello che sembrava nel caos. Lo so che sono tempi duri, molto duri, ma tu hai una corazza d'oro e un contenuto ancora più prezioso, non ti farai vincere dalle delusioni, dai silenzi, dalle mancanze, tu andrai avanti coltivando forza e speranza, senza farti scalfire, combattendo la paura, non lo sai ancora ma ti prepari solo a lotte più difficili, a sprigionare un amore ancora più grande, che coprirà tutto.
Solo allora saprai di che amore sei davvero capace.
Lo so che sono tempi duri ma non mollare, cuore mio, resisti ora, cerca di guardare avanti.
Coraggio, cuore mio. Verrà il tempo in cui non sarai più solo.
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Laura Messina
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m2024a · 7 months
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https://notizieoggi2023.blogspot.com/2024/03/chiara-ferragni-viaggio-new-york-ecco.html
Chiara Ferragni, viaggio a New York: ecco con chi è. La dedica: «Ti voglio bene» Chiara Ferragni è volata a New York per lavoro: nelle sue Instagram stories ha affidato un messaggio di ringraziamento ai suoi follower. «Sono tempi duri, ma so che voi ci siete», ha detto. Certo è che questo è un periodo molto complicato per i Ferragni, la sua famiglia e il suo lavoro. L'imprenditrice digitale, con questo "viaggio lavorativo", si lascia alle spalle i commenti su una copertina che la vede protagonista, le polemiche dopo l’intervista a Che tempo che fa, i guai giudiziari legati allo scandalo del Pandoro-gate e naturalmente la crisi sentimentale con Fedez. Chiara Ferragni a New York è in compagnia di una persona speciale. Andiamo a vedere di chi si tratta. Chiara Ferragni a New York Chiara Ferragni è volata nella Grande Mela con Martina Maccherone, una delle prime Talent Manager in Italia e la più giovane del settore grazie proprio al sostegno dell'imprenditrice digitale. Martina ha pubblicato nelle sue Instagram stories una foto che mostra Chiara Ferragni di spalle mentre osserva la città dalla finestra. «Il giorno della festa della donna ricordate di supportare tutti i giorni le donne attorno a voi - ha scritto Martina Maccherone a corredo dello scatto -. Ognuna vive e combatte le proprie piccole e grandi battaglie e solo con la forza che ci possiamo dare a vicenda saremo in grado di conquistare il mondo». Poi la dedica toccante (e perché no, in risposta alle polemiche) per Chiara Ferragni. «Oggi ho la fortuna di passare questo giorno con una delle persone che più mi ha supportato e ispirato nella mia vita personale e lavorativa - ha concluso Martina -. Ti voglio bene sempre»
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inpuntadipiedi · 1 year
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il mio pollice subconscio che invece di aprire instagram apre satisfyer
lo so amico sono tempi duri
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der-papero · 3 years
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Edicola
Io: buongiorno, potrei avere per favore l'ultimo numero della Settimana Enigmistica e di Vanity Fair.
Lui: Vanity Fair nun ce ll'ho, è finito. Perché questi mica ce fanno anna in ferie a noi, tutti chiusi per il Covid e cor culo al caldo, ma le edicole no, qua a farce er mazzo, tutti i santi giorni!
Io: (???)... ha ragione, son tempi duri questi...
Lui: eh no, che non c'o so??? So' tutti via, e non ce consegnano un cazzo, perché i signori scialano, e noi a tribola' dalla mattina alla sera...
Io:... (ormai vado a braccio)... questo capitalismo imperante è una piaga...
Lui: 'nfatti, semo rimasti solo noi!
Io: tenga duro! Buona giornata.
Lui: a lei!
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ma-pi-ma · 4 years
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Ho avuto tempi duri con la mia coscienza. Tutto ciò che oggi so è che per sentirsi corretti, la cosa più importante è essere onesti con sé stessi.
Brad Pitt
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erosioni · 4 years
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Affinché i miei ricordi servano a qualcuno o a qualcosa. Se avete voglia di leggere quello che c’è prima è QUI. 
I miei primi due anni a Roma sono molto confusi nella memoria. Mi sembrava di essere su una cazzo di giostra al luna park. Forse nella centrifuga di una lavatrice sarebbe un paragone più descrittivo. Non ero abituato a incontrare tante persone e così diverse dopo la solitudine dell’adolescenza e del liceo. Per la prima volta avevo degli amici e di tanti tipi diversi.
C’erano i “normali”, i miei compagni di appartamento con cui bevevo, andavo alle feste e frequentavo ragazze. C’erano quelli del cineclub dove mi ero iscritto e andavo a parlare di cinema per ore e poi bevevamo birre orrende in lattina e fumavamo finché non ci lacrimavano gli occhi. C’erano le mie conoscenze del giro gay di Roma. Non tanto quelli che mi rimorchiavano casualmente nei vari luoghi di battuage, ma coetanei che avevo finito per conoscere durante i vagabondaggi in quelle serate. Mi portavano nei locali, quei pochi che c’erano, dove finivo per conoscere ancora altra gente. I froci-adulti, quelli sulla piazza dai tempi duri, che ti raccontavano l’aneddoto sul cazzo di Pasolini o su Sandro Penna. I poeti a Roma sembravano tutti froci. I froci-militanti, quelli che giravano attorno al Mario Mieli e ti facevano le ramanzine sull’aids. I primi trans che mi facevano una grandissima impressione, come figure uscite da un libro di favole folli. E poi le feste, non quelle dei normali, quelle dei froci, dove c’era sempre la possibilità che tutto degenerasse in sesso collettivo (mi è successo una sola volta in realtà).
In facoltà non ci andavo mai. Non studiavo e se studiavo non andavo a dare l’esame. Mio padre era inferocito. Tre volte alla settimana mi insultava per telefono, ma più di quello non poteva fare o non riusciva a fare. In dei periodi il mio ritmo sonno veglia era completamente invertito. Dormivo fino all’una e poi nel pomeriggio facevo le cose normali. La notte cercavo sesso o qualunque altra cosa eccitante. Mi ero iscritto in una palestra del centro storico che era frequentata da omosessuali giovani. Non ero mai stato un fissato per la forma fisica, ma imitavo quello che facevano gli altri. Forse è stato il periodo in cui sono stato più atletico, anche se bevevo come una spugna. Il mio corpo stava cambiando, ero come i mutanti dei fumetti che leggevo da ragazzino, come i Fantastici 4, come gli X-Men. Un mostro con i superpoteri e l’identità segreta. Ma soprattutto stava cambiando il mio cervello.
Tutto quello che ricordo sono facce, facce, facce e nomi, ma non necessariamente associati alle facce. Ciao sono Andrea. Ciao sono Filippo. Ciao sono Antonio. Ciao. Ciao. Ciao. Tutti usavamo nomi falsi, soprannomi, mentivamo sulla provenienza, sull’età. Queste cose non le ha inventate internet, mocciosi, si sono solo perfezionate tecnologicamente. Facce, nomi e cazzi. Tanti cazzi di tutte le dimensioni, vecchi e giovani, rugosi e lisci, con le vene in rilievo, curvi, sporchi o addirittura profumati alla colonia. Due anni pieni di vortici e cazzi. Due anni pieni di vuoto e facce. Due anni pieni di piacere e paura. Due anni pieni di prime volte.
Le prime volte che qualcuno mi ha fatto un pompino. Pensavo a un errore. Ero io che li facevo i pompini agli altri. Invece no, c’era anche chi voleva farmeli. Da uno grande non lo potevo sopportare, solo dai miei coetanei. La vista di uno coi capelli bianchi e la faccia sconvolta che si piegava a terra per prendermelo in bocca era sufficiente a farmelo smosciare istantaneamente. E la prima volta che mi hanno dato la bamba. Gentile cessione gratuita di stupefacente per “convincermi” a scopare. In realtà ero più che convinto ma ero curioso di provare quella roba e di fare come Scarface. Quanto era sexy Al Pacino in Scarface? Quanto era pericoloso?
La prima volta che mi sono lasciato legare e torturare da uno stronzo. Avevo una paura terribile e un desiderio assurdo. Mi ha aveva rimorchiato a una festa. Ero fatto o ubriaco o entrambe le cose. Forse aveva vent’anni più di me o anche più, ma portati bene. Ricordo una faccia pallida, da malato mentale però con delle mani forti, ossute, inanellate. Occhi azzurri. Mi sono sempre piaciuti gli uomini con gli occhi azzurri, io ce li ho nerissimi. Ci guardavamo e dopo un po’ mi sono andato a sedere da solo in un angolo della stanza affollata. Si è seduto accanto a me e mi accarezzava. Mi diceva all’orecchio che voleva legarmi e punirmi e io sentivo un vuoto che mi si apriva dentro e un ruggito che usciva da quel verminaio. E ovviamente mi veniva sempre più duro nonostante la paura. Mi venivano in mente tutte le seghe che mi ero fatto sulle riviste tedesche di sadomaso e le espressioni stupide e languide di quei modelli biondicci.
Poi non mi ricordo molto, a parte che ero in macchina con lui e vedevo sfrecciare le strade semivuote di Roma. Non avevo idea di dove cazzo mi stava portando e come avrei fatto a tornare indietro. I cellulari erano cose che si vedevano nei film di fantascienza, mocciosi, e non avevo detto a nessuno con chi stavo andando via. È così che ti ritrovano morto dietro un cespuglio. Magari anche oggi che lo smartphone del cazzo ti traccia minuto per minuto. Fino al cespuglio, appunto. Comunque ero talmente arrapato e fatto che neanche ci pensavo.
Ho il ricordo di lui che mi parla mentre guida, ma non di quello che mi dice. Ricordo che volevo che accendesse lo stereo per sentire musica, ma invece continuava a farmi domande a cui rispondevo a monosillabi. L’esterno della sua casa del cazzo, forse Quartiere Trieste. Un triste palazzone di lusso di quelli con i motti latini sui cornicioni. Poi di nuovo non ricordo un cazzo a parte un corridoio ingombro di tappeti e mobili color mogano. Quelli con le zampe di leone. L’impressione vomitevole che dividesse la casa con qualche vecchio genitore di cui comunque non c’era traccia mi è arrivata ex post.
La cosa che ricordo dopo è che ero legato al suo letto per i polsi. Con una corda di merda che mi faceva male. Ed ero nudo con lui addosso che mi segava. Mi ha preso a schiaffi forte. Diverse volte. Ma ero talmente fuori che sentivo pochissimo. Mi insultava, ma nella memoria la voce si è cancellata, ricordo solo l’espressione arrabbiata. I suoi occhi azzurri mi perforavano. Sparì per un tempo che mi sembrò eterno. Ora sentivo un po’ di dolore in faccia. Il cazzo cominciava ad ammosciarsi e mi veniva su la paura di essere bloccato con un coglione pazzo. Provai a scrollare le corde, ma mi facevo male ai polsi. Lo stronzo mi aveva legato strettissimo. Consenso e safe-word erano parole sconosciute e ogni volta che sento cianciare gli scienziati del bdsm mi fanno ridere con queste stronzate paralegali. La verità è che quello non mi avrebbe mollato neanche se fosse sceso San Michele Arcangelo.
Gridai “dove cazzo sei finito?” Tornò immediatamente e mi schiaffeggiò ancora sulla bocca, stavolta era nudo anche lui e ricordo bene che mi disse “Stai zitto”. Il dolore mi fece immediatamente eccitare. Sentivo un vago sapore di sangue in bocca. Tirò fuori dal nulla due mollette da bucato di quelle di legno. Non ebbi tempo neanche di dire “NO” e me le applicò ai capezzoli. Gridai con quanto fiato avevo in gola mentre lui mi teneva le mani sulla bocca. Tutte e due. Mi schiacciava sotto di lui mentre ero percorso da fremiti di dolore e di piacere. Mi ripeteva che ero cattivo, cattivo, cattivo, che dovevo essere punito. E mi entrava dentro il cervello come un fiume di merda.
Quando mi ha levato le mollette, dopo un tempo che mi era parso eterno ma dovevano essere pochi secondi, volevo solo che mi scopasse. Lo pregavo con una voce di infantile di punirmi e di scoparmi, ma lui mi segava e basta e smetteva appena vedeva che diventavo duro. Smetteva e ricominciava a schiaffeggiarmi e a torcermi i capezzoli doloranti. Non capivo più un cazzo. Mi sentivo nelle sue mani, potevo godere liberamente. Mi sentivo anche umiliato, ma più di tutto mi sentivo al sicuro dal dolore perché ero al centro del dolore. Mi sentivo finalmente protetto. Ero cattivo, dovevo essere punito, dovevo soffrire e godere, senza nessun pensiero. Mi ha inculato ripetutamente con le dita, con due o forse tre. Finché non sono venuto urlando. A quel punto non mi diceva neanche di stare zitto, doveva essere molto eccitato anche lui.
Poi c’è un momento di nuovo in cui non ricordo bene, vedo le immagini accelerate come quelle di un film comico degli anni Venti. Gli faccio un pompino, ma a quel punto sono slegato. Mi viene in bocca senza darsi pena di avvertire. Ancora qualcosa che non ricordo. Poi siamo vestiti. Sento le mutande bagnate e sporche, davanti e dietro. Le cose vanno velocissime. Ho la nausea e mi gira lo stomaco, ma non ho il coraggio di chiedere neanche un bicchiere d’acqua. Il dolore ai capezzoli è pulsante. Non sto bene in piedi. Lui mi parla, forse mi fa dei complimenti stupidi a cui non credo, ma intanto mi accompagna per un braccio alla porta. Guarda fuori dallo spioncino e poi si gira verso di me. Mi mette ventimila lire nella tasca dei jeans, “per il taxi”. Mi scompiglia i capelli e mi sbatte fuori. Ho ancora la nausea. 
Appena esco dal portone mi viene un conato di vomito, ma non esce niente. Sono quasi deluso. Guardo l’orologio ed è tardissimo. Non so bene dove cazzo sto e neanche me ne frega più. Fa freddo. Mi cade una lacrima. Una sola lacrima. Vergogna? Gratitudine? Sollievo? Ho i segni della corda di merda sui polsi. Passerò i prossimi giorni a coprirli e a inventare cazzate. Però anche a ripensare a quando avrei avuto il coraggio di farmelo fare un’altra volta. Come si chiamava sto pazzo? Aveva il mio numero di casa? Glielo avevo dato? Speravo di no. Ma forse speravo di sì. (Continua).
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doblondoro · 3 years
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Secondo me li fa mollare 💀 In effetti non so quanto possa essere credibile che qualcuno duri tipo 4 anni a quell'età e con tutte le difficoltà di Nico. Alla fine besse la s2 l'ha fatta bene, gli interessava questo, quindi ciò che accade dopo non è necessariamente vicino a ciò che era a quei tempi. Non credo gli interessi più darci gioie con questi personaggi perché tanto il suo lo ha già fatto. La serie poi è realistica quindi se ne uscirà con qualcosa tipo "l'amore finisce, son giovani". Non mi aspettavo gioie dalla s4 e temo di non doverne aspettare neanche per la s5.
Oh anon, hai risvegliato l'enorme - e in realtà mai sopito - disagio che dimora dentro di me.
E DUNQUE.
Cosa aspettarsi dalla quinta stagione per quanto riguarda Marti e Nico alla luce di ciò che sappiamo oggi, cioè niente?
Non lo so, e faccio ogni tipo di ipotesi.
Io non credo che Besse possa creare angst gratuita se staranno solo sullo sfondo. So che qualcuno pensa che l'abbia già fatto nella quarta stagione ma io ribadisco che non era gratuita: ha messo in luce delle difficoltà tra Marti e Nico in un modo realistico ma sensato, abbiamo scoperto di più di entrambi, per quanto mi riguarda è stato fatto un lavoro che non ha tolto loro tridimensionalità rendendoli due belle statuine innamorate.
Ma ipotizzando che in qualche modo possano ancora avere un ruolo importante, cosa sceglierebbe di fare stavolta?
Mi è capitato di vedere una serie in cui shippavo moltissimo la coppia principale, erano dolcissimi, molto improbabili insieme, ma la costruzione era stata fatta in modo che nonostante le difficoltà oggettive e le problematiche estremamente serie di uno dei due reggessero. Ma poi hanno deciso di separarli, in un modo sensato, rispettoso (no gallavich non sto parlando di voi), che semplicemente metteva al centro il percorso di uno dei protagonisti. Mi è piaciuto, nonostante abbia sofferto.
MA NON VOGLIO VEDERE UNA DINAMICA DEL GENERE TRA MARTI E NICO.
MI RIFIUTO.
Voglio il racconto di due cretini innamorati che si scelgono minuto per minuto, che fanno casino, che sbagliano, che non restano immutabili ma che sono abbastanza testardi, forti, che hanno una rete di affetti su cui contare, un percorso personale che non li svilisca come personaggi singoli ma che vogliono/possono/decidono di fare insieme.
È la cosa più difficile da raccontare in modo credibile, l'opzione dell'allontanamento è molto più semplice.
Besse, I dare you.
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Ora vorrei tornare a quel 2016 in cui ascoltavo lo stato sociale e le luci della centrale elettrica, uscivo ogni sabato con il mio migliore amico e ci ubriacavamo spesso, non avevo idea di come si dovesse vivere ma quelle sere erano l'unico spiraglio, l'unico momento che aspettavo con speranza perché dal lunedì al sabato mattina vivevo nell'ansia paralizzante dei corridoi scolastici, che sembra un cliché ma per me voleva dire avere attacchi di panico frequenti e vomitare perché credevo davvero che il mio valore dipendesse da numeri e paragoni. Però amavo studiare la letteratura greca e quella latina, tornare a casa e guardare grey's anatomy, dormire al pomeriggio e studiare di notte, dare un senso alla serate del weekend applicando il concetto di simposio e il nunc est bibendum, che se ci ripenso ora mi sento banale ma anche felice. E poi c'è questa cosa di ricordare con gioia periodi che so, oggettivamente, essere stati duri da affrontare, e mi chiedo se questo strano meccanismo sia lo stesso che mettono in atto i nostalgici della guerra dopo che l'hanno vissuta e ne sono stati travolti, mi chiedo se quei momenti lì siano gli unici in cui riusciamo davvero a trovarci in contatto con parti lontane di noi, gli unici che possano, nel bene o nel male, segnare la memoria, dare una coerenza narrativa alle vite individuali che altrimenti sarebbero solo un susseguirsi di persone conosciute, cose da fare, traguardi da raggiungere, tempi da perdere e spazi da occupare. E poi so che ogni autunno della mia vita si porta addosso una dose di difficoltà e di incertezza, di paura dell'abbandono, di noia, di paranoia, ma che ogni volta che ci ripenso mi ricordo la molteplicità e la profondità delle cose usuali che vedevo per la prima volta in modo tridimensionale. E non che questo abbia davvero un'utilità pratica, serve solo a farmi sentire nostalgica e a ricordarmi che crogiolarsi nella malinconia è una condizione che in fondo cerco spesso, perché ne ho bisogno. Nell'autunno del 2016 la depressione era ancora una realtà invadente, ma stava andando meglio, forse proprio perché era autunno e io vedevo tutto da un punto di vista più ampio, senza giudicare troppo la sofferenza, come una spettatrice che ha voglia di lasciarsi trasportare da ciò che accade. E credevo anche di aver trovato l'amore e di poterci finalmente ricamare attorno la letteratura che volevo. Ancora adesso mi sembra di usare l'amore come pretesto per essere poetica e romantica nel suo senso più tragico. E infatti mi piacevano i tramonti, la pioggia e i finali tristi dei film. Non è cambiato molto, la mia tristezza si è solo fatta più pragmatica e inquadrata.
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i-am-a-polpetta · 4 years
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Penso a quanto sia stato difficile respirare oggi.
Penso a quanto sia difficile relazionarsi con gli altri senza ferirli.
Penso che perdo di vista costantemente le cose importanti perché tutto mi riporta dove so che non posso stare.
Penso che la mia amica non avesse il diritto di darti della stronza dato che manco ti conosce né tanto meno di dirmi che io vado a letto con tutte per cercare di dimenticarti che poi voglio dire, anche se fosse? Se mi piacessero le stronze? E se mi fossi davvero scopata il mondo solo per dimenticarti? Quale sarebbe il problema? Non lo capisco ma mi sento comunque in colpa anche se non è vero che mi sono scopata il mondo. Ero troppo affezionata a te per usare qualcuno con il mero scopo di dimenticarti. Però un po' ha fatto male sentirselo dire...
Penso che @firebreather883 avesse ragione quando ha detto "tempi duri questa Quarantena, tempi duri"
Mi sento come se fossi chiusa in una gabbia e questa fosse la mia unica ora d'aria.
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Smetti di pensare kla, smetti di pensare.
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monicadeola · 4 years
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«Mi chiamo Alberto Paolini, ho ottantotto anni. Ne ho passati quarantadue nel manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma. Sono entrato che avevo quindici anni e ho rivisto la città nell’anno dei mondiali, il 1990. Ho subito per tre volte l’elettrochoc perché avevano scambiato i miei silenzi per una malattia.
Ma io non parlavo perché stavo male.
Cominciamo dall’inizio, come in tutte le storie che si rispettino. Vivevo con la mia famiglia a Via Piave 15, nel quartiere Pinciano di Roma. Papà faceva il portiere e per arrotondare riparava le scarpe del vicinato. Mia madre lavorava a mezzo servizio. Era una donna dura, severa. Comandava tutto lei, una mamma “padrona”. Era sempre nervosa, urlava. A mia sorella voleva bene, a me no. Mi brontolava sempre, mi picchiava. A casa nostra nessuno dei parenti si avvicinava più, la temevano.
Papà è morto quando io avevo cinque anni. Stava bene. Una sera si è portato le mani al cuore e ha cominciato a rantolare. Mia sorella ed io ci siamo tanto spaventati. Mamma ha detto poi che era stata una “sincope” a portarlo via da noi. Da quel momento tutto è precipitato. Mia madre non ce la faceva più a sostenerci, abbiamo dovuto lasciare la casa e ci ha messo in due collegi differenti, lontani. Poi, qualche anno dopo, anche lei è morta e ci siamo trovati completamente soli al mondo.
Nel mio collegio le suore erano cattive, non ci trattavano bene, spesso ci picchiavano. Insegnavano a stare zitti e obbedire senza discutere. In collegio era obbligatorio il silenzio, se parlavi eri punito. Tutti sembravano volere solo una cosa, quando ero bambino: che non parlassi. E io obbedivo, non parlavo.
Le suore non erano caritatevoli, stava cominciando la guerra, tutti avevano fame, tutti avevano paura. A 12 anni vengo mandato in un collegio di salesiani. Anche loro erano duri, severi. Anche loro picchiavano per un nonnulla. Io che, va bene, ero silenzioso e timido, subivo tante cattiverie dagli altri ragazzi.
Si faceva l’avviamento professionale e io stavo studiando in un laboratorio di sartoria. Ma quelli più grandi mi prendevano di mira. Io ero piccolo, anche fisicamente, e poi non parlavo, o parlavo poco. Mi facevano scherzi di tutti i tipi. Al laboratorio c’erano, di norma, un capo e un maestro. Il capo però era tornato al suo paese e un giorno il maestro si assentò. Al ritorno trovò una gran confusione e volle sapere di chi era la colpa. Tutti dissero che ero stato io. Ma non era vero. Un’altra volta mi spinsero fuori dalla classe e mi lasciarono in corridoio. Quando arrivò il maestro mi punì. Io non ci volevo più entrare, in quel laboratorio. Cercavo di richiamare l’attenzione del direttore che era più buono, ma non ci riuscii.
A un certo punto vennero due benefattori, due persone ricche che avevano un locale, forse un caffè, in Piazza di Spagna. Ci andava il bel mondo romano e, visto che eravamo alla fine della guerra, anche gli ufficiali americani. La signora, credo fosse svizzera, ho saputo più avanti che aveva fatto un voto. Suo figlio, durante la guerra, si era imboscato e i nazisti lo cercavano per fucilarlo. Lei si era rivolta alla Madonna garantendo che se si fosse salvato, lei avrebbe adottato un bambino in un collegio. Quel bambino fui io. Ma non venni adottato. Stetti a casa loro per un po’ e poi loro mi seguirono nel tempo. Ma da lontano. Perché a un certo punto anche loro pensarono che stessi male. Ero poco esuberante, per essere un bambino. E parlavo poco. Ma che volevano da me? Era quello che tutti, da mia madre al collegio delle suore fino ai salesiani, mi avevano imposto di fare.
D’accordo con i salesiani mi portarono alla clinica neuropsichiatrica dell’Università. C’era un giovane professore di guardia che si chiamava Giovanni Bollea. Lui disse che spesso i bambini strappati dalla famiglia o abbandonati che finiscono in collegio, hanno queste reazioni. E che dovevo solo stare sereno, stare fuori, conoscere la città e la vita. Per un po’ fu così. Ma io ero rotto dentro e le parole non mi uscivano facilmente.
Così i benefattori e i salesiani decisero di farmi ricoverare alla clinica dell’Università. Lì mi facevano tante domande, scrivevano dei moduli, mi fecero la puntura lombare che era molto dolorosa. Fui sottoposto a vari test psicologici, tra i quali quello delle macchie di Rorschach. Il dottor Finzi disse che ero un caso interessante e mi tennero lì cinque mesi.
Poi questo tempo finì e dovevo uscire. I medici dicevano che non avevo patologie, ero solamente stato troppo vessato da un’educazione repressiva.
Ma i benefattori non volevano o non potevano accogliermi e il collegio si rifiutò di riprendermi. Avevo una zia, lo scoprii allora, ma anche lei non mi volle, perché i suoi due figli erano contrari.
Non sapevano dove mettermi. Era il dopoguerra, c’era tanta fame. E allora decisero tutti insieme di ricoverarmi al Santa Maria della Pietà.
Lì mi trovai nel reparto dei bambini, anche se avrei dovuto stare con i grandi perché il limite era quattordici anni. Io ero piccolo, mingherlino e allora mi tennero con i ragazzi. Ho fatto amicizia con un bambino che si chiamava Franco. Lui era il contrario di me, faceva scherzi, si burlava di tutti e in particolare di Italia, un’infermiera che aveva paura dei piccoli insetti con i quali lui, immancabilmente, le riempiva le tasche. D’altra parte in quei tempi erano i ragni o le lucertole i nostri compagni di giochi preferiti. Non avevamo altro. Franco stava bene di testa, aveva però delle crisi epilettiche e per quello lo avevano chiuso lì. Il primo mese giocammo sempre insieme. Scaduto quel periodo, detto di osservazione, o qualcuno ti veniva a prendere oppure il tuo destino era in un padiglione di internamento. Lui fu portato al 22 e io mi sono ritrovato di nuovo solo.
Dopo altre due settimane toccò a me. E qui la storia prende un carattere che non so descrivere. Potrei dirla così: sono finito all’elettrochoc per un equivoco. C’era un giovane medico, non il primario, che mi fece un mucchio di domande. A un certo punto mi chiese se io sentivo ogni tanto delle voci che mi chiamavano senza che ci fosse nessuno vicino. Io risposi candidamente di sì, ma volevo solo dire che ogni tanto qualcuno mi chiamava dal corridoio, insomma che ci sentivo bene. Io ero nuovo lì, non sapevo che l’espressione “sentire le voci” corrispondesse alle allucinazioni. Ho risposto di sì perché volevo dire che non avevo problemi di udito. Quando mi sono accorto dell’equivoco, o del tranello, ho cercato di correggere ma il dottore mi incalzava, era un incubo, e io ero confuso anche perché non ero abituato a parlare, non sapevo rispondere perché, da piccolo, non dovevo rispondere.
Io ho cercato di farmi capire ma lui ha scritto sul verbale che io non ero capace di spiegare la ragione per la quale sentivo le voci. Alla fine lui ha scritto qualcosa sulla cartella clinica: avevo uno “stato depressivo” il che mi rendeva, chissà perché, “una persona pericolosa”. La suora ha chiesto dove mi dovessero mandare. Lui ha risposto gelido: “Al padiglione sei a fare l’elettrochoc”.
Io mi sono subito spaventato. Quando ero con i bambini avevo visto applicare quella tecnica a un ragazzino, Claudio, e lui, a ogni scossa, era come se si alzasse in volo, se levitasse. Lo dovevano tenere per evitare che cadesse dal lettino. E poi faceva la bava alla bocca, mi aveva molto impressionato.
Tornando nella mia camerata ho chiesto a un’infermiera, si chiamava Teresa, se davvero lo avrebbero fatto anche a me. Lei mi rispose “Ma no, stai tranquillo. È per quelli che non capiscono.”. Mi rassicurò.
Ma poi mi chiamarono e mi ritrovai in una fila, tutti erano silenziosi più che disperati, gli avevano detto che dopo la cura sarebbero tornati a casa.
Arrivò il mio turno. Io volevo scappare. Avevo sentito che l’elettrochoc non si poteva fare agli anziani, ai malati di epilessia e a quelli con problemi al cuore. Allora, una volta entrato, dissi al medico che avevo male al cuore, sperando di farla franca. Lui mi appoggiò un istante lo stetoscopio al petto e disse che non avevo nulla e si poteva procedere. E procedettero. In quattro mi tennero mentre la suora mi inumidiva le tempie con un batuffolo bagnato di acqua e sale e mi appoggiava due elettrodi alle tempie. Io piangevo invocando la mamma che non avevo.
Il medico ha chiesto: “È pronto?”. La suora ha risposto: “Sì, è pronto”.
Poi non ho sentito più nulla. Mi sono risvegliato in una corsia piccola, con una sensazione penosa, non sapevo dove fossi e cosa stessi facendo, mi sentivo con la testa con la nebbia, i nervi del corpo tutti tesi.
Me ne hanno fatti tre, così. La cura prevedeva tre cicli di quindici applicazioni. Quarantacinque scosse alla tempia.
Ma poi anche io ho avuto una fortuna. Un giorno è venuta a trovarmi la benefattrice. L’aspettavo da tanto, mi aveva promesso che sarebbe venuta a trovarmi ma era passato più di un mese e non si era visto nessuno. Ero disperato, pensavo che mi avessero abbandonato tutti. Avevo quindici anni. Quando la signora è entrata e mi ha visto in quello stato, in quel padiglione, si è arrabbiata moltissimo. Non era quello che aveva concordato al momento del mio ricovero. Le dissero che c’era stato un disguido e mi mandarono subito al padiglione dei lavoratori. E lì sono rimasto fino al 1990.
Si sono avvicendati, nel tempo, vari direttori. Chi apriva i cancelli dei padiglioni, chi li chiudeva. Un direttore, Buonfiglio, diceva che i pazienti non erano dei reclusi, che dovevano muoversi, dovevano distrarsi. Organizzava feste, spettacoli, veniva spesso Claudio Villa. E anche gite. Vabbé solo una volta all’anno, ma erano bellissime. Ci si poteva anche incontrare con le donne, nascevano degli strani fidanzamenti. Ci si facevano i regalini, che so, un fazzoletto ricamato o cose così. Io avevo conosciuto una ragazza, avevamo fatto amicizia, stavo bene con lei. Ma dopo un mese è uscita e non l’ho più rivista.
Ho lavorato, per trent’anni, in tipografia, all’ufficio statistica e poi in biblioteca. Era per i medici, con testi specializzati, ma c’era un armadio con libri vari. E io li leggevo. Un infermiere una volta mi portò in regalo un pacco di riviste. Ne ero ghiotto. Mi piaceva lo sport, tifavo Venezia perché c’erano Loik e Valentino Mazzola. Poi il mio cuore lasciò posto al Grande Torino, dove giocavano i miei eroi. Di Superga seppi dalla radio e fu un dolore acuto, inconsolabile.
Un giorno vennero a dirmi che sarei uscito, avrei avuto un appartamento con altri al quartiere Ottavia. Stavo al Santa Maria della Pietà dal 1947 e ora eravamo nel 1990, la città fremeva per i mondiali. Ero entrato bambino e ora avevo quasi sessant’anni. Non sapevo cosa ci fosse fuori, in fondo stavo bene lì, tutti mi volevano bene. Quasi mi dispiaceva uscire. Quando nel quartiere seppero che stavamo per venire a vivere qui ci fu una rivolta, non ci volevano. “Questi arrivano dal manicomio, saranno pericolosi”. Hanno fatto pure manifestazioni. Poi, piano piano...
Per me era un’esperienza nuova. Solo quando ero piccolo avevo dormito da solo a casa. Dopo ero sempre in camerate insieme agli altri. Ora avevo una stanza tutta per me e una casa da condividere con altri come me. Avevo un po’ paura.
In manicomio ci ho lasciato un po’ di vita, tanta, e un po’ di cuore, tanto. Ho tanti ricordi.
Per esempio quando, attorno al 1968, vennero dei ragazzi a manifestare perché si aprissero le porte del manicomio. Avevano cartelli, bandiere, i capelli lunghi, esponevano le loro idee, idee di libertà. Parlavano di un professore che si chiamava Basaglia. Occuparono un padiglione. La polizia voleva mandarli via ma loro resistettero. Misero uno striscione con scritto “Centro sociale”. Ci facevano andare per corsi di ceramica, di lavorazione del cuoio. C’era anche un laboratorio di scrittura, che frequentai con passione.
Ed è lì che forse io, Alberto Paolini, ho finalmente imparato a parlare, a parlare con gli altri».
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vefa321 · 4 years
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08 Aprile 2020
Buongiorno,
Avete presente quando tutti pensano siamo a metà strada, un mercoledì è questo, il senso di aver fatto tanto con la consapevolezza che quello tanto è solo la metà del tutto.
Sono discorsi strani lo so bene, vedere in un punto ne l'inizio ne quanto meno la fine.
Questi tempi sono la metafora di un percorso sconosciuto, e per quanto possiamo essere tecnologici, non esiste navigatore che ci dica quanto manca al traguardo.
Dobbiamo affidarci alla pazienza, zucchero dei tempi amari, pane dei tempi di carestia e vino dei tempi da dimenticare.
Un mercoledì di tempi incerti sul calendario, stecca da stornare ai tempi duri.
Un giorno al servizio dei fatti.
I patti al servizio dei giorni.
Diamo tempo al tempo...
@vefa321
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maximumdante · 4 years
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A me pare strano che in tempo due settimane tra di loro possa essere cambiato qualcosa, dato che fino ad allora facevano riferimenti palesi l'uno all'altro. Io sinceramente ora li vedo entrambi un po' strani, non so che pensare. Ma se proprio dovesse essere finito tutto avessero almeno la buona grazia di dire la verità su quello che c'è stato... e spero ci sia ancora...
Allora, io sinceramente Fab l’ho visto molto calmo e posato. Sicuramente sarà preoccupato e nervoso come del resto lo siamo noi, ma ha i bambini su base stabile in questi giorni, e questo fa tanto. Lo tengono occupato. 
Ermal l’ho visto abbastanza provato, specialmente la prima settimana di quarantena, aveva il viso molto tirato. Cosa che mi fa pensare che i primi tempi fosse da solo a casa e che abbia chiamato gente perchè altrimenti impazziva.
Onestamente, io ho sempre messo in conto che non avremmo mai saputo di loro. Anche a essere positiva, sapevo che sarebbe potuto capitare di sapere di loro due ma parecchio tempo dopo.O che sarebbe potuta finire tra loro e saremmo venuti a sapere di relazioni successive, ma mai della loro.
Purtroppo possiamo solo fare ipotesi. E’ tutto un enorme “e se”.
Ma due cose ci tengo a dirle:
-Sinceramente, oggi Fabrizio secondo me ha cantato per tutti noi, ma il destinatario principale era qualcun altro.
-Così come Finirà bene. Ermal l’ha fatta per tutti noi, per ricordarci che nonostante i giorni duri che stiamo vivendo, prima o poi ne usciremo, ma di certo l’ha composta per una persona ben precisa.
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come-coca-cola · 5 years
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Nel 2019 credere nell’amore è diventato qualcosa di tremendamente difficile, assolutamente non facile, paurosamente per pochi.
Non so se sia colpa delle diecimila distrazioni, provocazioni, dei social network.
Non capisco, a volte, quale sia il problema a cui si appiglia chi all’amore non ci crede.
A volte non ci crediamo a causa di relazioni passate andate male.
Ma nessuno ha scritto il destino per voi.
Siete voi che scegliete le persone da avere accanto e le scelte vanno fatte con il tempo e la conoscenza, nulla di affrettato.
L’amore non si improvvisa,
neanche un secondo
Ma se voi siete qui, qualcuno anni fa, all’amore ci credeva tanto e ha fatto nascere voi. Qualcuno ancora prima ci ha creduto e ha fatto nascere i vostri genitori.
E non pensate che non ci siano stati tempi duri per i sognatori.
Tempi cupi, per davvero.
Guerre, battaglie, stermini, la storia ci ha insegnato.
E adesso troviamo ancora pretesti per non innamorarci, per dire che da soli è tutto più bello.
Ma quando mai è cosi?
Non innamoratevi per fretta.
Non innamoratevi per solitudine.
Non innamoratevi per moda.
Se non volete correre il rischio di avere accanto la persona sbagliata.
Innamoratevi solo quando il vostro cuore batterà per una persona e non una circostanza.
Innamoratevi quando non ci penserete.
E sarà più facile e bello, di qualsiasi altra cosa.
-Ti avrei dato tutto
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