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Too left 2 be right: crediamo ancora nei live
A pochi giorni dalla pubblicazione del loro nuovo disco, i Too left 2 be right raccontano della loro evoluzione nel corso degli anni, del nuovo approccio alle registrazioni, del tempo che cambia e di come ci si debba adeguare. Soprattutto condividono la convinzione che la musica live sia ancora il veicolo migliore attraverso cui trasmettere la propria musica. Un’intervista tutta da leggere.
Una presentazione per chi non vi conosce
Ciao, siamo una band di Roma attiva dal 2006 e con 3 pubblicazioni alle spalle. Il 19 maggio uscirà “Candies”, il nostro nuovo album distribuito da (R)esisto. Lo troverete su tutte le piattaforme musicali. Da qualche settimana è online anche il primo omonimo singolo per il quale abbiamo prodotto un video ufficiale che trovate su YouTube.
Entriamo subito nel vivo. Il vostro ultimo disco. Ci sono continuità e notevoli differenze con il lavoro precedente. Scelta o casualità?
È stata sicuramente un’evoluzione molto naturale, non pensata a tavolino. A dire la verità non ci siamo mai posti questioni del genere, componiamo molto liberamente. Il disco è potente e variegato come i precedenti, e richiama in più punti gli anni ’90 e i suoi fantastici gruppi con cui siamo tutti cresciuti. In “Candies” le composizioni sono però più personali, “centrate” e abbiamo dato più spazio alla melodia.
Nel lavoro si nota un complessivo miglioramento della band, sia a livello tecnico sia compositivo. Evoluzione o avete deciso di cambiare approccio?
Grazie, ma anche dal punto tecnico non c’è stato un progetto vero e proprio. Probabilmente i tanti concerti alle spalle e le giornate passate in saletta hanno amalgamato meglio il nostro sound anche a livello tecnico
Avete affrontato le registrazioni nello stesso modo?
No, questa volta per le registrazioni ci siamo affidati a Danilo Silvestri e ai suoi GreenMountain Studio, e mai scelta fu più azzeccata. Un professionista assoluto con centinaia di dischi prodotti, ma soprattutto una persona eccezionale, che si è inserita alla grande nel gruppo. Per noi è ormai il quinto elemento dei Too Left! Abbiamo registrato il disco in analogico, con un passaggio anche su nastro, roba ormai purtroppo sempre più rara. Grazie a Danilo abbiamo sperimentato diversi sound e il risultato è fantastico. La ciliegina sulla torta l’ha poi messa Claudio Pisi Gruer con il suo mastering che ha dato al tutto equilibrio e una botta pazzeschi
Quando site nati come band la situazione musicale generale era molto diversa. Come vi trovate in questo nuovo contesto dove tecnologia e social media la fanno da padroni? A giudicare dal disco, sembra che vi sia congeniale.
Cerchiamo di rimanere al passo coi tempi. Alcuni aspetti della rivoluzione digitale sono innegabilmente positivi, primo fra tutti il poter proporre la propria musica potenzialmente a tutto il mondo. Forse l’aspetto in cui siamo meno a proprio agio è proprio la parte legata ai social network. Nessun giudizio, però crediamo ancora nella musica live, nel passaparola tra appassionati, nella solidarietà tra gruppi.
Secondo voi il rock sta tornando in auge? O non ha mai smesso di esserlo, nonostante tutto?
Non è facile risponderti, gli amanti del rock come noi a volte tendono a vivere in maniera un po’ autoreferenziale, chiudendosi in una sorta di “bolla di chitarre elettriche”. Meglio parlare di musica buona e musica meno buona, anche nel rock c’è tanta mondezza. Ci sembra però che tanti ragazzi ora stiano rimbracciando le chitarre e anche il fenomeno Maneskin non può che far bene. C’è tanta bella musica nuova in giro, nonostante trend come la trap che sinceramente hanno davvero poco da dire.
Il genere che proponete è un mix di infinite influenze. Un caso o una scelta?
È il naturale risultato di 4 amici con una mentalità musicale molto aperta. Siamo cresciuti con gruppi come Faith No More, Soundgarden, Primus, Rage Against The Machine, gente che non aveva paura di sperimentare, di rischiare. Anche noi nel nostro piccolo suoniamo semplicemente quello che ci piace
Cosa è più importante che un brano funzioni o che sia orecchiabile?
Una cosa non esclude l’altra, anzi, i pianeti si allineano proprio quando le due cose vanno a braccetto. Abbiamo scelto come primo singolo la canzone “Candies” (che apre l’album) proprio per questo motivo. La ricerca del ritornello “catchy” non deve però essere un’ossessione.
Come fate a gestire la complessità dei vostri brani? Anche solo a livello mnemonico…
Con molta semplicità e tante prove. Il segreto è suonare in maniera mai forzata, senza la mania di stupire l’ascoltatore. Il resto viene da sé
I testi da dove nascono?
I testi sono tutti di Piex, il nostro cantante. Il resto del gruppo a volte suggerisce qualche tema, ma sono tutti farina del suo sacco. SOS Mall, il precedente album, era più di pancia, più rabbioso. Questa volta c’è molta più speranza e anche una mano tesa verso il prossimo e verso le nuove generazioni
Una band per cui vi piacerebbe aprire?
Quanto tempo hai a disposizione ? L’elenco sarebbe veramente lungo, così su due piedi ti rispondiamo Faith No More e Incubus, potremmo piacere al loro pubblico. Poi scenderemmo dal palco e andremmo in prima fila però…
Una che vorreste aprisse per voi?
Ipotizzando di essere famosi e poter scegliere una band d’apertura, forse vorremmo dare una chance a qualcuno che ci ha ispirato, ma che non ha avuto il giusto riconoscimento. Perciò ti rispondiamo Sprung Monkey
Il vostro concetto di underground?
Non è facile definire il termine underground. Si può riferire ad un seguito limitato o ad uno stile ricercato e di nicchia, ad una scena geograficamente minore… Una cosa è sicura: non è sinonimo di bassa qualità, anzi!
La sua ‘malattia’ peggiore? La cura?
Il problema sta nel cercare un seguito che dia almeno un senso a tutti gli sforzi e i sacrifici che si fanno. Nessuno di noi gruppi underground probabilmente sarà i nuovi Metallica, ma anche i Metallica sono stati un gruppo underground a cui per fortuna è stata data fiducia.
Una band underground che consigliereste?
Metropolitan Ratto Sweet. Adoriamo quei tre maledetti!
Una mainstream che ancora vi stupisce?
I Between The Buried And Me ci stupiscono sempre, geniali! I Mars Volta è un altro gruppo che ci ha sempre sorpreso ad ogni uscita. Purtroppo l’ultimo album ci ha stupito in negativo…
Ieri l’idea, oggi il disco, e domani…
Domani i live, alla fine conta solo quello. Si compone e si registra per poi divertirsi sul palco
Una domanda che non vi hanno mai posto ma vi piacerebbe vi fosse rivolta?
“Ehi, vi va di aprire i nostri prossimi concerti negli States”, pronunciata da Mike Patton
Se foste voi ad intervistare, ipotizzando di avere a disposizione anche una macchina del tempo, chi intervistereste e cosa gli chiedereste?
Ci piacerebbe andare indietro nel 1992 ed intervistare un giovane Zack de la Rocha, sarebbe molto interessante. Oppure Flea nel 1991, dopo l’uscita di Blood Sugar Sex Magik. Ad entrambi vorremmo chiedere se hanno la minima idea di che razza di album perfetti hanno creato.
Un saluto e una raccomandazione a chi vi legge
Innanzitutto un grande ringraziamento a Tempi Dispari per lo spazio che concede alle band emergenti. Un abbraccio a tutti i lettori, speriamo che possiate darci una chance e che vogliate ascoltare questo album in cui crediamo tanto. E vi aspettiamo tutti sotto il palco!
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Too left 2 be right: crossover progressivo
Uno degli aspetti migliori dello scrivere recensioni, è notare l’evoluzione delle band. Nello specifico parlo dei Too left 2 be right. Il loro ultimo Candies, in uscita nel mese di maggio, è davvero un gran passo avanti. Il sound, fin dal primo ascolto, come anche il songrwrtiting, è decisamente più maturo, più personale, più ricco e stimolante rispetto ai lavori precedenti. Vero è che di tempo dal disco scorso ne è passato. Ultimo disco è targato 2016. Ma è anche segno di come la band non sia rimasta ferma. Tutt’altro. Lo studio incessante degli strumenti, voce inclusa, si sente. I brani rispetto al passato risultano più fluidi, meglio amalgamati, con trame più fitte ed architetture più complesse.
Non è mutato l’ambito in cui i nostri si muovono. Sempre crossover di ottima fattura. Altra caratteristica è la sottolineatura della presenza di elementi elettronici. Presenti anche nei cd precedenti ma non in modo così ben integrato. È stato poi abbandonato quel velo oscuro che ha caratterizzato il primo disco. Il motivo è anche il cambio di prospettiva dei testi. Da ‘rabbiosi’ a più aperti alla speranza. La sensazione che rimane dopo l’ascolto è quella di una band meno impegnata a dimostrare, nel primo lavoro c’erano molti più cambi repentini al limite del prog, ma più concentrata a costruire buone canzoni. La stessa voce è cambiata in meglio. Meno urlata, maggiormente contestualizzata. Più incisiva.
Il disco apre con il singolo, Candies. La base dell’intro è elettronica, poggiata su una base di pianoforte. Si prosegue, prima dell’ingresso della chitarra con suoni pieni, con un fraseggio che richiama i fab four. Il ritmo si fa incalzante subito dopo. Chitarra piena, toni più forti. Ma non è la struttura definitiva del brano. Il quale, ha moltissimi cambi al proprio interno. Subito dopo lo special distorto si entra in un terreno più jazzato, fusion quasi al quale si alterna, in pieno stile Too left, una parte più hip hop.
Anche in questo caso menzione alla voce. Perfetta. Arriva quindi il ritornello, punk rock. Aperto, melodico, orecchiabile. Di nuovo lo special che indurisce i suoni per fare spazio alla nuova strofa. Il secondo break jazzato si presenta un po’ più rabbioso. Menzione alla batteria di Mauro Borioni che accompagna con un fraseggio quasi samba. Ottimo il solo che approfitta del passaggio. Poche note ma posizionate perfettamente. Si passa a Maybe you both. Un punk rock leggero per i suoni, ma complesso per la struttura nel so insieme.
Numerosi sono i cambi e gli inserti, a partire dagli interventi elettronici. L’andamento complessivo rimane molto saltellante, aperto con un riff di tastiera iterante che accentua la melodia. Ottimo lo special centrale che passa repentinamente da suoni pienamente distorti ad un frangente completamente acustico. Ma non è finita. Si cambia di nuovo. Rientra la chitarra distorta. Prima in modo leggero per poi esplodere in un riff monolitico. Tio biab è uno brani più scuri del disco. Stilisticamente non è definibile. Chitarra acustica sostenuta da quella elettrica con tastiera lunga in sottofondo.
La distorsione quasi non si sente. Neppure quando il brano apre al ritornello. I toni. Pur se più elettrici, si tengono sempre piuttosto bassi. Scelta perfetta per dare giusta enfasi alla composizione nel suo insieme e metterla al servizio della narrazione. All’ennesimo ascolto si potrà notare come la base ritmica non è quasi mai uguale a se stessa. Ora accenti, poi stacchi su linee proprie, poi lineare. Lodevole il break solo voce e tastiera che introduce al ritornello in crescendo.
Ritmi sincopati accompagnano al finale. Si passa a Sideway down. Cambiano le atmosfere. Il riffing si fa pesante. Idem per la tastiera. Tuttavia è solo l’introduzione. Con l’ingresso della voce le distorsioni scompaiono per lasciare spazio a ritmiche complesse in cui domina la sezione ritmica, in particolar modo la batteria da una parte. Dall’altra è il basso a tenere banco portando l’accompagnamento principale sulla strofa. Sul suo tappeto poggiano le tastiere. Il compito della chitarra è quello di accompagnamento con diverse armonizzazioni.
Circa a metà sono proprio basso e batteria ad essere protagonisti. La chitarra interviene con armonici e un arpeggio leggermente dissonante. L’elettronica sottolinea il ritorno della voce prima della deflagrazione finale. Chitarra pienamente distorta, batteria incisiva, dritta, come è giusto che sia. Questo incedere possente, diluito solo dalla melodia della voce, porta alla chiusura. Half a glass of wine gioca sulla contrapposizione chiaro scuro. L’inizio e darkeggiante, nero come la pece. La chitarra acustica alleggerisce leggermente i toni ma non apre alla luce. Per questo si dovrà attendere il ritornello e le tastiere. Suoni elettronici, accompagnamento dissonante della chitarra riportano sulle coordinate iniziali.
A fare la differenza è sempre il basso che risulta portante per buona parte del brano. L’intervento della chitarra solista è limitato a poche note col wha. Nuovo cambio. Si abbassano i toni. Si torna in acustico prima di risalire. Ma solo di intensità. Chiusura repentina. Don’t call me by my first name riporta in auge la sei corde. Non in modo pesante. I suoni sono complessivamente molto misurati, mai eccessivi. Di novo elettronica. Loop su controtempo di batteria.
Per la voce si presenta il fantasma del primo amore del nostro, Mike Patton. Che non è un male, in quanto citazione circostanziata. I ritornelli in questo disco hanno la capacità di essere tutti cantabili e memorizzabili. Il solo è affidato al synth che porta al conclusione. Monoface dice è un altro brano completamente crossover. Infiniti cambi, chitarra in levare. Ritmi che si alternano tra il rock e il latin senza che vengano a mancare gli interventi elettronici. Per certi versi potrebbe essere considerato un brano a mezza strada tra surf e funky. Ma sono solo etichette. Più che lodevole lo special a ¾. Batteria percussiva, nel senso letterale del termine, vengono utilizzate delle percussioni. Voce in crescendo, chitarra zitta. Il finale è invece affidato alla psichedelia. Tastiere con suoni lunghi.
Supehero of the day riporta su margini più rockeggianti. Ma non più lineari. Tutt’altro. I ritmi si frantumano. Fino ad essere raccolti da un nuovo cambio che porta il marchio del jazz. Si cambia ancora. Dopo il jazz si inserisce una parte quasi industrial. Alternarsi che procederà fino al finale che nasconde una nuova sorpresa. Un incattivimento generale caratterizzato da un urlo della voce. È ‘solo’ un passaggio che riapre ad una nuova strofa. Il ritornello termina il brano. Si procede al penultimo step.
Dig up the roots. Di nuovo ritmi sincopati. Basso e chitarra unisono. Una sorta di poliritmia con la batteria. Ritornello hard rock. Segue il ritornello un pregevole stacco quasi jungle su cui si poggiano suoni elettronici subito surclassati dalla chitarra. Questo passaggio si alterna per un paio di giri fino a venire fagocitato dalla strofa. Sul finale si fanno presenti suoni liquidi, nel vero senso della parola. Suoni che caratterizzano fino alla fine la canzone in crescendo. Harm a hair è l’ultimo giro di questo disco.
Una composizione pesante, caratterizzata da dissonanze, ritmi spezzati, voce evocativa. Il tutto strumentale ad un ritornello aperto. Azzeccatissimo lo stacco ritmico a circa metà canzone. Questo apre la strada all’a solo di chitarra. Melodico, in puro stile anni ’90 a richiamare in qualche modo i Blind melon. Si torna a ritmiche più pesanti. Fino a quando non c’è l’ennesimo cambio. Torna l’elettronica. Solo per pochi giri ma riesce a destabilizzare quanto basta prima del ritornello a suoni pieni.
Concludendo. Un disco davvero molto molto notevole quello dei Too left 2 be right. Complesso, melodico, articolato, mai scontato. Suonato in modo egregio, registrato ancore meglio. Gli inserti elettronici, pur non essendo una novità per i nostri, davvero ottimamente si sposano al loro stile non identificabile. Diciamo crossover perché non c’è un altro termine. Potremmo semplicemente parlare di 2 be left music. E non sarebbe sbagliato. Certo i suoni dei nostri sono assolutamente identificabili e riconoscibili. Un disco che non si assimila al prima ascolto.
Come neppure al decimo. Ne serve qualcuno in più per riuscire ad iniziare ad orientarsi nel marasma di richiami e cambi. Il che è solo positivo. Vuol dire che non siamo di fronte ad un lavoro che annoia o che possa esaurire la propria vena di sorprese. Un disco consigliato ai più, in particolar modo chi cerca ascolti non banali, stimolanti, con suoni diversi chge spaziano dalla jungle al jazz passando per il metal e l’hard rock.
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