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#una contraddizione in termini
gregor-samsung · 2 months
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“ La gente ha poca immaginazione. Non sa vedere un mondo diverso da quello che ha sotto gli occhi. Finché il progetto rivoluzionario è un'astrazione, sono in pochi ad abbracciarlo. Appena sembra incarnarsi, le masse se ne accorgono e si voltano speranzose da quella parte. La realtà è che le masse non si lasciano convincere dalle parole; solo dai fatti. Per cui è poco producente dipingere l'anarchia a parole: dovremmo avere la possibilità di contrapporre allo Stato comunista una società anarchica. Purtroppo non l'abbiamo. Giacché la società anarchica nata in Spagna in risposta al golpe fascista, è durata solo pochi mesi. Nel 1937 i comunisti l'avevano già distrutta; due anni dopo la vittoria fascista mise un definitivo suggello funebre su quell'esperienza.
È un'esperienza in atto che dovremmo poter contrapporre a quella comunista: ragione di più per fare prima possibile una rivoluzione, sia pure parziale, che sostituisca, nella testa della gente, il mito dell'Ottobre 1917, dell'Urss e della Cina. Un potere statale temporaneo anarchico è una contraddizione in termini da un punto di vista teorico. In pratica ogni progresso è stato reso possibile dall'attuarsi di una contraddizione in termini. Il pericolo della fine del mondo può essere scongiurato solo da un potere statale temporaneo anarchico, per quanto il concetto appaia doppiamente contraddittorio (il potere tende a conservarsi, quindi a diventare permanente; potere statale e anarchia sono in antitesi). “
Carlo Cassola, La lezione della storia. Dalla Democrazia all’Anarchia: una via per salvare l’Umanità, BUR, 1978¹; pp. 97-98. (Corsivi dell’autore)
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fridagentileschi · 8 months
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MULTICULTURALISMO e INTEGRAZIONE: assurda contraddizione in termini (di Helmut Leftbuster)
Se il multiculturalismo intende affermare un modello in cui diverse culture convivono come per magia nello stesso territorio a prescindere dalla naturale spettanza di quel territorio medesimo alla sua originaria popolazione autoctona, significa che altri, da altre terre, sono venuti ad occupare indebitamente quel delimitato spazio (nazionale) che la Costituzione consacra come “sovrano“. E quindi:
a) i MULTICULTURALISTI sono dei FILO-COLONIALISTI post litteram, poiché negano la sacertà dei confini politici e naturali di un paese e del suo popolo.
b) i MULTICULTURALISTI auspicano l’avvento del MULTICULTURALISMO solo nei territorii europei, dal momento che nessuno parla mai di calate di islandesi in Arabia Saudita, o di tedeschi in Cina. Quindi applicano (forzosamente e senza alcuna considerazione per il parere degli indigeni) un modello ideologico e parziale basato il più delle volte su un distorto e mendace spirito pauperista del tutto mal riposto.
c) i MULTICULTURALISTI blaterano sempre e contestualmente di INTEGRAZIONE: ma se MULTICULTURALISMO significa coesistenza di culture diverse in un medesimo spazio limitato, chi dovrebbe integrare chi? Chiunque riuscisse ad “integrare” l’altro spingerebbe verso uno sbilanciamento mono-culturale che snaturerebbe il significato stesso del “multi”, sia che a sbilanciare fossero gli ospiti sia che fossero i padroni di casa; quindi, quella dell’integrazione è solo una ciancia per infiocchettare in qualche modo un concetto subdolo e palesemente contro-natura; un concetto senza senso.
E quando non c’è senso non c’è ragione, e senza la ragione non può esserci diritto.
HELMUT LEFTBUSTER
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curiositasmundi · 5 months
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[...]
«Penso sia molto bello che una parte della gioventù prenda a cuore i problemi gravi del mondo. Fanno bene a sperare per il futuro», commenta Carlo Rovelli, fisico e saggista, che dopo aver insegnato in Italia e negli Stati Uniti oggi è professore ordinario di fisica teorica all’Università di Aix-Marseille in Francia. Spiega di non avere basi per sapere se il movimento di contestazione che sta prendendo forma sarà unitario e duraturo, né per sostenere o contraddire chi dice che potremmo essere di fronte ai semi di un “nuovo Sessantotto”: «La storia non si ripete. Penso che nessuno possa già sapere come evolveranno le cose». Ma crede che il movimento a supporto del popolo palestinese si stia allargando velocemente in tutti i paesi occidentali «a causa della flagrante contraddizione fra le notizie che arrivano a tutti su quanto accade in Palestina e il racconto dei principali media. In Palestina c'è un massacro in corso, e questo è ovviamente intollerabile per la generosità di molti giovani, che sono immuni, per fortuna, alla pelosità e all'ipocrisia di chi pensa che in fondo vada bene così». 
Secondo il professore nel mondo contemporaneo c’è tanta violenza: «una minoranza, a cui apparteniamo, non esita a massacrare per difendere il proprio dominio e i propri privilegi. Il colmo dell'ironia è che usiamo la parola "democrazia" per giustificare il dominio armato di una minoranza ricca sul resto del mondo: il 10 per cento dell'umanità controlla il 90 per cento della ricchezza del pianeta. Il mondo si sta ribellando e andiamo verso un conflitto globale, in più in piena crisi ecologica. E pensiamo solo a vincere, invece che a cercare soluzioni. Spero che i giovani sappiano spingere a cambiare rotta», aggiunge Rovelli, con la speranza che la voce dei giovani non rimanga inascoltata perché «prendere posizione è importante: il massacro in corso in Palestina è insopportabile. La gente muore di fame, a pochi chilometri da uno stato ricco che li massacra con le bombe». 
Il fisico, conosciuto per le sue posizioni a favore della pace, già durante il Concertone del Primo Maggio 2023 aveva esortato pubblicamente i giovani ad agire. A prendere in considerazione i problemi che mettono a rischio il pianeta, come la crisi climatica, le disuguaglianze crescenti e soprattutto la tensione del mondo che si prepara alla guerra: «La guerra che cresce è la cosa più importante da fermare. Invece di collaborare, i paesi si aizzano uno contro l’altro, come galletti in un pollaio. […] Il mondo non è dei signori della guerra il mondo è vostro. E voi il mondo potete cambiarlo, insieme. […] Le cose del mondo che ci piacciono sono state costruite da ragazzi, giovani che hanno saputo sognare un mondo migliore. Immaginatelo, costruitelo», aveva detto dal palco di Roma, a conclusione di un discorso in grado di scatenare non poche polemiche.  
«Le accuse di antisemitismo sono ciniche e completamente infondate. Questi stessi giovani scenderebbero egualmente in piazza per difendere la popolazione ebraica massacrata.  Anzi, lo farebbero con ancora più furore. Ma è peggio di così: perché brandire la stupida accusa di antisemitismo è soffiare sul fuoco del razzismo: razzismo è leggere tutto in termini di razza, invece che nei termini di chi muore sotto le bombe e chi dà l’ordine di sganciarle. Chi continua a parlare di antisemitismo non sa liberarsi dal suo implicito razzismo», aggiunge oggi. A difesa dei movimenti studenteschi che lottano affinché la guerra a Gaza abbia fine, a sostegno della popolazione palestinese che stanno prendendo sempre più spazio nelle università: «Penso che l'entrata della polizia negli atenei sia un grande insegnamento per i giovani - conclude- insegna loro a diffidare delle istituzioni. A capire che qualche volta il potere non è per loro. È contro di loro, contro la loro sincerità, contro chi muore sotto le bombe». 
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intotheclash · 3 months
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Il voto utile è una contraddizione in termini.
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valentina-lauricella · 8 months
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Current reading
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"[…] il pensiero leopardiano si costruisce faticosamente, di giorno in giorno, di rimando in rimando; e vive in quei grovigli, in un andirivieni tendenzialmente interminabile e comunque interminato. Non abbiamo innanzi a noi un oggetto soddisfatto di sé, preciso e chiuso su se stesso come un sonetto; ma un maestoso caos: vivo, inquieto, che cerca di estendersi sino ai confini dell’universo per riportarne una mappa accurata, munita di commento e note: perché l’esplorazione operata da Leopardi è esplorazione di filologo; la sua acribia è acribia di filologo. Con un filo di ironia potremmo apparentare anche il suo scetticismo e relativismo alla cautela con la quale il filologo contempla i risultati del proprio lavoro: consapevole che per quanto accuratamente abbia condotto l’indagine non può aver tenuto conto di tutte le variabili; sicché il lavoro rimane sempre aperto, provvisorio: un eterno preludio pronto ad agganciare una divagazione, ad accogliere una smentita o una contraddizione. Probabilmente è proprio questa insolente apertura a sconcertare e irritare i filosofi. E tutti noi, in fondo, che avremmo bisogno di rigirare fra le mani un oggetto chiaro e ben tornito e invece siamo costretti ad addentarci in un territorio pieno di insidie e praticamente inesplorabile."
Ma l'intelletto umano è capace di contenere al tempo stesso opinioni e dogmi dirittamente fra se contrarii, e di contenerli conoscendone la scambievole, inconciliabile contrarietà. (Zibaldone, 3151)
In questo secolo, stante la filosofia, e stante la liaison che hanno acquistata tutte le cognizioni tra loro, ogni menomo soggetto facilissimamente diviene vastissimo. Tanto più è necessario, volendo pur fare un libro, che uno sappia limitarsi, che attenda diligentemente a circoscrivere il proprio argomento, sì nell'idea de' lettori, e sì massimamente nella propria intenzione; e che si faccia un dovere di non trapassare i termini stabilitisi. (Zibaldone, 4484)
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crazy-so-na-sega · 9 months
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Oracolo di Delfi -la Pizia
Se l'origine della sapienza greca sta nella "mania", nell'esaltazione pitica, in un'esperienza mistica e misterica, come si spiega allora il passaggio da questo sfondo religioso all'elaborazione di un pensiero astratto, razionale, discorsivo? Eppure nella fase matura di questa età dei sapienti noi troviamo una ragione formata, articolata, una logica non elementare, uno sviluppo teoretico di grande livello. A rendere possibile tutto ciò è stata la dialettica, termine che usiamo nel senso originario di arte della discussione, tra due o più persone viventi, non escogitata da un'invenzione letteraria. Il suo grande sviluppo unitario giunge a compimento con Aristotele che guarda retrospettivamente a tutto il materiale elaborato da quest'arte, a tutte le vie da essa seguite, a tutte le forme, le regole, gli accorgimenti, gli artifici sofistici, per tentare di costruire su questa base una trattazione sistematica, stabilendo i principi generali. Dove ne va cercata l'origine? Il giovane Aristotele sostiene che Zenone è stato l'inventore della dialettica. Se tuttavia confrontiamo le testimonianze su Zenone con i frammenti di Parmenide, suo maestro, sembra inevitabile ammettere già in quest'ultimo una stessa padronanza dialettica dei concetti più astratti, delle categorie degli universali. Sembra perciò naturale pensare a una tradizione ancora più antica.
La dialettica nasce sul terreno dell'agonismo. Quando lo sfondo religioso si è allontanato e l'impulso conoscitivo non ha più bisogno di essere stimolato da una sfida del dio, quando una gara per la conoscenza tra uomini non richiede più che essi siano divinatori, ecco apparire un agonismo soltanto umano. Sulla base dei Topici aristotelici, si può ricostruire uno schema generale dell'andamento di una discussione, pur variato infinitamente nel suo svolgersi effettivo. L'interrogante propone una domanda in forma alternativa, presentando cioè i due corni di una contraddizione. Il rispondente fa suo uno dei due corni, ossia afferma con la sua risposta che questo è vero, fa una scelta. Questa risposta iniziale è chiamata la tesi della discussione: il compito dell'interrogante è dimostrare, dedurre la proposizione che contraddice la tesi. In tal modo raggiunge la vittoria. Ma la dimostrazione non è enunciata unilateralmente, bensì si articola attraverso una serie lunga e complessa di domande, le cui risposte costituiscono i singoli anelli della dimostrazione. L'interrogante cerca di impedire che il disegno della sua argomentazione sia perspicuo, ma alla fine tutte le risposte saranno altrettante affermazioni del rispondente: se il loro nesso confuta la tesi, ossia la risposta iniziale del rispondente, sarà chiaro che il rispondente, attraverso i vari anelli dell'argomentazione, avrà lui stesso confutato la propria tesi iniziale. Nella dialettica non occorrono giudici che decidano chi è il vincitore: risulta dalla discussione stessa, poiché è il rispondente che prima afferma la tesi e poi la confuta. Si ha invece la vittoria del rispondente, quando riesce a impedire la confutazione della tesi.
Questa pratica è stata la culla della ragione in generale, della disciplina logica, di ogni raffinatezza discorsiva. Difatti, dimostrare una certa proposizione, ci insegna Aristotele, significa trovare un medio, cioè un concetto universale, tale da potersi unire a ciascuno dei due termini della proposizione, in modo che si possa dedurre da tali nessi la proposizione stessa, ossia dimostrarla. La dialettica è stata così la disciplina che ha permesso di sceverare le astrazioni più evanescenti pensate dell'uomo: la famosa tavola delle categorie aristoteliche è un frutto finale della dialettica ma l'uso di tali categorie è documentabile da molto tempo prima di Aristotele, lo stesso vale per i principi formali a cominciare dal principio del terzo escluso.
Esaminando le testimonianze più antiche e confrontando la terminologia usata nei due casi c'è da supporre un nesso di continuità tra lo sfondo religioso della divinazione e dell'enigma e lo sviluppo della dialettica vera e propria. Il nome con cui le fonti designano l'enigma è "próblema", che in origine e presso i tragici significa ostacolo, qualcosa che è proiettato in avanti. E difatti l'enigma è una prova, una sfida cui il dio espone l'uomo. Ma lo stesso termine "próblema" rimane vivo e in posizione centrale nel linguaggio dialettico, al punto che nei Topici di Aristotele esso significa "formulazione di una ricerca", designando la formulazione della domanda dialettica che dà inizio alla discussione. E non si tratta soltanto di un'identità del termine: l'enigma è l'intrusione dell'attività ostile del dio nella sfera umana, la sua sfida, allo stesso modo che la domanda iniziale dell'interrogante è l'apertura della sfida dialettica, la provocazione alla gara. Oltre a ciò si è detto più volte che la formulazione dell'enigma, per la maggior parte dei casi, è contraddittoria, così come la formulazione della domanda dialettica propone esplicitamente i due corni di una contraddizione. Ricordiamo anche, come usati ora in senso dialettico ora in senso enigmatico, i termini "interrogazione", "aporia", "ricerca", "domanda dubbia".
Dunque il misticismo e il razionalismo non sarebbero in Grecia qualcosa di antitetico, dovrebbero intendersi piuttosto come due fasi successive di un fenomeno fondamentale. La dialettica interviene quando la crudeltà del dio verso l'uomo va attenuandosi, quando l'agonismo si svolge soltanto tra umani. Chi doveva rispondere all'enigma, o taceva, ed era subito sconfitto, o sbagliava, e la sentenza veniva dal dio o dal divinatore. nella discussione invece il rispondente può difendere la sua tesi. Rimane comunque uno sfondo religioso: la crudeltà diretta della Sfinge diventa qui una crudeltà mediata, travestita, ma in questo senso addirittura più apollinea. C'è quasi una ritualità nel quadro dello scontro dialettico, che di regola si svolge di fronte a un pubblico silenzioso. Alla fine il rispondente deve arrendersi, se le regole sono rispettate, come tutti si attendono che debba soccombere, come per il compimento di un sacrificio. Del resto si può addirittura non essere del tutto certi che nella dialettica il rischio non fosse mortale. Per un antico l'umiliazione della sconfitta era intollerabile. Se Cesare fosse stato radicalmente battuto in battaglia, non sarebbe sopravvissuto. E forse Parmenide, Zenone, Gorgia non furono mai sconfitti in una discussione pubblica, in un vero agone.
-Giorgio Colli "La nascita della filosofia"
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diceriadelluntore · 2 years
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Scandali
È il pubblico scandalo ad offendere: peccare in silenzio è non peccare affatto. Molière
Nel 1966, il professor Stephen Marcus, cattedratico di Critica letteraria alla Columbia University, pubblicò un saggio dal titolo: The Other Victorians: A Study of Sexuality and Pornography in Mid-Nineteenth-Century England. Fu il primo tentativo di catturare le caratteristiche bizzarre della sessualità dell’epoca vittoriana inglese nella evidente contraddizione in termini di una società che, secondo gli approfonditi studi di Marcus, non permetteva alle donne di mostrare nemmeno una caviglia o menzionare le gambe, perfino quelle di un tavolo o di un pianoforte, ma produceva e consumava una quantità impressionante di pornografia, soprattutto sadomasochistica (d’altronde la Venere In Pelliccia di Von Masoch è del 1870).
Mi è venuto in mente questo libro sulla questione dell’ormai classico bacio sanremese tra Rosa Chemical e Fedez. Non mi interessa la premeditazione del gesto, visti i due personaggi coinvolti, ma mi interessa un paragone con la stessa azione, di bacio omoerotico, che ha visto protagonista pochi minuti prima Elodie con BigMama. Del secondo, non si fa nessuna menzione, quasi a ricordare inconsciamente a chi fa la voce grossa per il primo che in fondo non è affatto scandaloso che due donne si bacino, ed è probabilmente più godibile da vedere
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abr · 11 months
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Grave errore STATALISTA dei popolari, che rivela la loro natura di centrodestra 1.0 arretrato social qualcosa, quindi autolesionista; è risposta reazionaria alla furba E SCONTATA mossa dei socialisti che potevan fare loro prima (i catalans eran seduti sulla riva del fiume ad aspettare chi accettava per primo l'amnistia per i ribelli).
Ennesima conferma che il centrodestra social popolare è una contraddizione in termini, è socialdemocrazia e che la sinistra non ha più ideali di sorta, é solo potere per il potere, somma di minoranze confliggenti per reggersi - da cui il classico del nichilismo amorale: "il nemico del mio nemico è mio amico".
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vividiste · 2 years
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Che BASTARDI😡 💩💩💩
“Per finire in fretta un vitello, ne chiudiamo otto o nove assieme nel box di stordimento. Cerchiamo di stordirli, ma loro saltano e scalciano, si gettano gli uni sugli altri. Non sai più quali sono storditi e quali no. Li appendiamo comunque a testa in giù e li facciamo scorrere, mentre si agitano e urlano”
“A volte lo scuoiatore si accorge che una mucca è ancora viva quando gli incide il lato della testa e quella comincia a scalciare come una matta. Se succede, lo scuoiatore le pianta un coltello alla base del cranio, così si paralizza, anche se non smette di sentire dolore”
“Se un maiale è ancora cosciente - a quegli animali serve un sacco di tempo per morire dissanguati - finiscono nella vasca d’acqua bollente, toccano la superficie e cominciano ad agitarsi e urlare. Ma c’è un braccio meccanico rotante che li spinge sotto, non hanno la possibilità di uscire. Non so se muoiano per annegamento o per le ustioni, ma gli ci vuole almeno un paio di minuti perché smettano di agitarsi”
( Testimonianze di lavoratori dei mattatoi tratte dal libro:
Gail Eisnitz, Slaughterhouse: The shocking story of greed, neglect, and inhumane treatment inside the U.S. meat industry, Prometheus Books )
www.britishmeat.com/slaught.html
http://www.veganzetta.org/macello/
http://www.tecnologia-ambiente.it/mattatoio-storie-di-ordinaria-brutalita
P.S. Per tutte le persone che commentano sottolineando il particolare che le testimonianze sono "datate", consiglio vivamente d'informarsi sulle recentissime indagini sotto copertura in vari macelli europei. Giusto così, per non fare la figura degli ignoranti.
Per quanto riguarda la "macellazione umanitaria", una contraddizione in termini un non senso del tutto privo di logica utile solo a far tacere la coscienza, mai perdere di vista l'ingiustizia di uccidere chi vuole vivere. Non c'è e non ci sarà mai niente di umanitario nell'ammazzare. Mai.
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aqueostransmission · 3 months
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...in Roaming
Come da titolo la ricerca di segnale è il mio status quo di questo periodo. Che poi accostare i termini "status quo" e "roaming" potrebbe essere un po' una contraddizione in termini ma è da vedere più come una sorta di cerchio chiuso percorso da un ubriaco che sbatte da una parte all'altra in confusione totale.
Si, mi sarebbe piaciuto di gran lunga dire che è un periodo di ricerca personale comunque produttivo ma la verità è che non ho la benché minima idea di quale sia il significato della vita, come tutti o quasi gli abitanti del pianeta terra credo, ma in particolare della mia vita. Mi spiego meglio (spero!). Finora ho avuto la percezione precisa di una cosa soltanto e cioè che io mi sento totalmente inadeguata in tutti i ruoli che ricopro o quasi. Diciamo che come mamma ancora non mi sento del tutto fallita ma sono comunque sulla buona strada e questo per la mia tendenza a procrastinare i miei buoni propositi di miglioramento personale. Il roaming sta nel fatto che è un periodo di grandi domande e di grandi messe in discussione di tutto ma proprio tutto, tanto che sto perdendo anche i pochi punti fermi che mi ritrovavo proprio perché mi sto chiedendo "come mai sono dei punti fermi nella mia vita?" "Lo sono perché ci credo davvero o perché sono cresciuta pensando che lo fossero?". Ora ci sono due possibili vie che si possono intraprendere:
1) continuare allegramente ad ignorare i tarli che nel frattempo si sono insinuati nel tuo cervello, sperando che ti sentirai magicamente meglio (così come ho sempre fatto dopo ogni crisi per evitare la fatica del ragionamento e la frustrazione di ritrovarsi con mille altre domande);
2) fermarsi una buona volta ad analizzare profondamente tutto questo agglomerato di sensazioni, credenze, verità (presunte e non), luoghi comuni, convincimenti ecc...
Non sono impazzita a 41 anni ma direi che è arrivato proprio il momento non perché mi alletti l'idea ma perché mi rendo conto che non sto bene e non pretendo di conoscere tutte le risposte ma quanto meno riuscire ad intuire a che serve la mia presenza su questa terra e perché niente mi rende davvero felice. Mi sono rotta di sentirmi in colpa per le mie freddezze, le mie negligenze e il mio "presunto egoismo" sempre che sia davvero tale o magari frutto di traumi psicologici di cui non conservo nemmeno il ricordo oppure dei quali ho reminiscenze confuse e pur avendo il sentore che il mio essere così come sono ora, derivi da questi traumi, tuttavia non ne sono del tutto convinta o non so in che entità abbiano contribuito a scolpire me stessa.
Detto ciò. Ho buttato il sasso nello stagno e ho dato inizio ad una turbolenza che però intendo sondare anello per anello per bene, anche se potrebbe essere doloroso. Sento proprio il bisogno di analizzare tutto con una certa metodicità perché la mia "ADHD" genera le domande a raffica e le aggroviglia o le disperde senza che ne riesca a cavare mai un ragno dal buco ma al contrario ne esco solo più stremata, con le stesse domande moltiplicate al cubo e con una vera e propria paralisi che non mi permette di districare nulla semplicemente perché non so più da dove cominciare.
Sono sicura di essere stata sufficientemente poco chiara, anzi enigmatica direi (prima di tutto con me stessa) ma buttar giù con la scrittura il mio infinito flusso di pensieri credo che possa aiutarmi a trovare un modo per crearmi una sorta di schemino con dei punti chiave dai quali partire. Quindi serve molto a me e poco a chi legge al di fuori di me. E' solo un primo passo. Riconoscere che c'è un problema e c'è una difficoltà ad individuarlo (forse perché troppo complesso o forse perché sono complicata io). La prossima volta inizierò a stilare dei grandi temi o dei filoni narrativi dai quali poter partire.
See you soon!
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lorenxo · 9 months
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Ciao Michela #5
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Ciao Michela, buongiorno! Ho già tra le mani il tuo ultimo libro. Grazie, a te e ad Alessandro che l'ha curato.
Riflettere su cosa vuol dire dare la vita non significa svalutare la maternità naturale ma provare a liberarsi dai significati politici costrittivi che sono stati dati sia alla maternità naturale che a tutto ciò di cui è metafora, immagine, rappresentazione.
Hai criticato le forme di potere che limitano i ruoli e le relazioni generative, a volte tornando sulle tue stesse parole, aprendo orizzonti a chi cerca legami più liberi. Questi non sono una contraddizione in termini, ma possibilità umane ancora da esplorare.
Hai di nuovo sollevato domande importanti e scomode, producendo anche un esempio di critica e autocritica. Insomma, hai fatto casino, e finito il vuoto rumore dell'ignoranza e della violenza, sarà la musica che risuonerà ancora e ancora, cantata da tantə altrə.
Dàje sempre così.
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ilquadernodelgiallo · 9 months
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A Enzo sembra di essere chiaramente & apertamente contro, ma non sente il bisogno di dirsi che è intimamente pro, perché se ti sta piacendo il mondo che arriva, e però odi quelli che lo stanno costruendo, cioè il capitalismo finanziario e la multi-nazionale cazzuta e de-localizzante, devi ammettere che il problema è tuo, la contraddizione è tua e ci convivi praticamente da quando facevi casini al Mamiani. Ma Enzo, e quelli come lui, non sono in grado di dirselo. _______________ È il potere nella sua manifestazione più pura, cioè nel possesso dei corpi e nella facoltà di infliggere impunemente dolore. [...] Ci ostiniamo a leggere gli eventi, a conferirgli un senso senza sapere cosa davvero sia il senso e se esista fuori di noi o se non sia altro che il costrutto che ci è imprescindibile per vivere, cioè se non sia altro che una catena immaginaria di cause e di effetti. _______________ Ma i no-global erano a loro insaputa intrisi di consenso, perché mancavano di un'ideologia unitaria e cioè, a loro volta, non avevano un costrutto robusto, fatto di odio, di analisi razionale, di opportuna menzogna, di una forte capacità di replicazione nelle menti degli esposti alla sua influenza, vale a dire degli umani giovani. Chi prima cercò e poi subì quella spaventosa violenza, chi visse quelle ore, quegli attimi terribili fra afa e sangue, non aveva dentro di sé un'impalcatura antagonista che gli permettesse di assorbirne l'urto, leggendolo ideologicamente e restituendolo al mittente sotto forma di lotta ulteriore o, come si dice, «innalzando il livello dello scontro», perché si trattava per lo più di creature allevate nel berlusconismo degli anni Ottanta. Il movimento assunse invece l'habitus della vittima, cioè quello di giovani incolpevoli, coi loro innocui valori di eguaglianza universale, ingiustamente massacrati dal sistema. In fondo non stavamo facendo niente, eravamo lì solo per manifestare il nostro dissenso. La cosa più grave fu che era quasi del tutto vero. I no-global di Genova furono massacrati perché capaci anche di violenza, ma privi della forza. La forza è quella che si costruisce con l'ideologia e con la disciplina, cioè col partito, anzi col Partito, cioè un forte partito di tipo leninista a guida centralizzata che nasce dalla sofferenza, un partito capace di intimorire il capitale e i corpi armati dello Stato, un partito capace di mobilitarsi a livello nazionale, con una forte rappresentanza in parlamento che gli permetta di condizionare la politica del Paese. Ma i no-global non potevano essere questo, perché il tempo di quel tipo di aggregazione politica era finito da decenni, ed è per ciò che da semplici manifestanti, privi di servizio d'ordine, si trasformarono in carne da macello, carne rossa piangente sanguinante sbavante implorante, massa inerme in ginocchio davanti alla forza dello Stato che, percependone la debolezza, scatenò su di loro tutta la libidine dei suoi repressi frustrati sotto-pagati servitori. [...] A Genova la forza era tutta dalla parte del governo - di cui Gianfranco Fini era vice-presidente del Consiglio - cha la stava esercitando in modo incontrollato e selvaggio, cioè non politico, ma naturale. In altri termini, fascista. _______________
Noi, come i no-global, possiamo odiare il capitale, ma il capitale non ci odia, gli siamo indifferenti: se gli serviamo ci tiene a stipendio, se no ci scansa e procede oltre, ma se gli rompiamo il cazzo ci schiaccia. I no-global neanche li vede, perché non ha un'anima, è un meme, e ha solo un imperativo: replicarsi e moltiplicarsi, all'infinito, distruggendo tutto, se necessario… Ok la smetto, sono un po' ciucco e straparlo. Filippo dice, Scusa un attimo, tu stai a dì che la politica non può fare niente? Cioè, i giochi sono fatti? Che quelli che sò andati a Genova potevano non annacce che non cambiava niente? Giacomo dice, leggermente biascicando, C'è stato l'89, regà . Fine del comunismo sovietico, cioè dell'unico ente politico globale, assieme a quello cinese - prima che diventasse un altro tipo de capitalismo - capace di arginare l'azione del capitale multi-nazionale e di tenere in piedi i partiti comunisti occidentali con analoga funzione periferica, compreso il pci, che infatti si è subito sciolto. Da quel momento in poi per il capitale è stata tutta discesa. _______________ Un compagno in pullman mi diceva «quella roba non mi interessa, sfasciano tutto, creano tensione, provocano le cariche e poi si defilano, non dico non siano compagni, sono anarchici, e oggi come oggi chiunque mostri antagonismo è compagno, ma scontrarsi con i servitori dello Stato è un atto politico, è una pratica con una sua storia e le sue tecniche, le sue tattiche e certi suoi valori che non ti sto a dire… Sì, valori, cioè significati politici, andare in piazza non è solo protestare, è marcare una presenza, usare il terreno, appropriarsene, esistere politicamente nello spazio e anche nella violenza, quando serve, soprattutto per difendersi: farsi menare non è una bella cosa, è una cosa da vittime, è vittimarsi, è accartocciarsi per terra, è lamentarsi, non reagire a testa alta guardarli in faccia e tenergli testa… Sono umani come noi, ragazzetti descolarizzati dell'hinterland napoletano, della Basilicata, calabresi torvi e socialmente incazzati, gente costretta, coatti, non bisogna dimenticare questi dati quando gli vai sotto…» È andato avanti così per un'ora. Era interessante. I vecchi compagni - avrà avuto tipo una sessantina d'anni - sono così, solidi, coi loro schemi, ha detto Tiziana dopo che lui si è addormentato, è come viaggiare a ritroso in un tempo comunistico che non ho mai conosciuto e che non so se era bello o era brutto, perché nessuno di loro sa davvero dirtelo, qui ce n'è più d'una di queste figure. _______________ Continuamente urla a sé stessa, Via-via-via-di-qui, ma poi resta, attratta non sa bene da cosa. Anzi lo sa, è la percezione del terrore e la visione della violenza e, perché è raro vederla comparire, invece che nella solita fiction, nel vero indicibile della realtà, quando ferisce e spacca crani e insanguina volti e provoca urla lamenti bestemmie. In questo momento i legittimi delegati alla violenza dello Stato è come se dicessero apertamente, Vi possiamo uccidere, per adesso non lo facciamo, ma possiamo farlo e soprattutto vorremmo farlo, tutto questo sangue serve a dirvi che noi, gruppo umano organizzato militarmente cui il sistema ha delegato il monopolio della forza, la esercitiamo nell'unico modo per noi concepibile, quello della violenza. __________ La maggioranza sembra voglia restare non ostante ciò che è accaduto, anzi proprio perché è accaduto: Se scappiamo ora il movimento è morto, dicono. Non sanno ancora che il movimento, come possibile ente politico internazionale di opposizione al capitalismo globalista, è morto comunque. È uno di quei casi in cui alcuni tra i presenti credono che il loro agire momentaneo possa influire e modificare qualcosa dell'inesorabile corso delle cose stabilito dai dominanti, chiunque essi siano, qualunque cosa vogliano.
Francesco Pecoraro, Solo vera è l'estate
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trying2understandw · 9 months
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War, Peace, And That Other Thing.
Understanding political violence.
Guerra, pace e quell'altra cosa.
Capire la violenza politica.
AURELIEN
29 NOV 2023
Questa settimana stavo pensando di scrivere qualcosa su Gaza, ma francamente non ho una conoscenza dettagliata della regione, né tanto meno un'esperienza di combattimento nei tunnel, per aggiungere qualcosa a quanto è già stato detto altrove. Ma leggendo alcuni di questi servizi mi sono reso conto, ancora una volta, di quanto poco la nostra società capisca e sia disposta a riconoscere le radici e gli scopi della violenza politica, e così ho pensato che sarebbe stato interessante discutere questo argomento, tornando alla fine alla situazione attuale di Gaza.
Cominciamo con l'ovvia constatazione che la società liberale occidentale ama le distinzioni nette e gli opposti in tutti gli ambiti della vita. Siamo una società profondamente aristotelica: tutto o è A o è B, non c'è nulla nel mezzo. Poiché la vita reale è disordinata, questo produce infinite discussioni complesse e in ultima analisi inutili su dove tracciare una linea di demarcazione e se questo o quell'atto, evento o dichiarazione sia in ultima analisi accettabile o se debba essere respinto e gettato nell'oscurità. Così, tutto ciò che ha a che fare con l'uso della forza in politica viene presentato in termini netti e contrapposti: guerra vs. pace, violenza vs. negoziati, conflitto vs. cooperazione, e naturalmente bene vs. male. E poi ci chiediamo perché non riusciamo a capire il mondo e perché il comportamento di molti dei suoi attori ci sorprende così spesso.
La maggior parte delle civiltà prima dell'era moderna occidentale non vedeva le cose in questo modo, e alcune ancora non lo fanno. A seconda dei gusti, possiamo seguire le teorie di Ian McGilchrist, che sostiene che viviamo in un'epoca di pericoloso dominio del cervello sinistro, che vede tutto in termini di opposti binari e differenze infinitamente dettagliate. Oppure possiamo seguire l'approccio leggermente diverso di Jean Gebser, il quale sosteneva che l'umanità, dopo aver superato le fasi magiche e mitiche della civiltà, si trova ora in quella che lui chiamava la fase "mentale-razionale", e per di più in una parte degenerata di questa fase.
Entrambe le teorie fanno pensare che le civiltà precedenti, più dominate dal cervello destro e meno aggressivamente razionali, non avessero difficoltà ad accettare l'idea del paradosso o della semplice contraddizione, come parte della vita. Come sottolinea Gebser, le società mentali-razionali pensano in termini di dualità (X è completamente diverso da Y) piuttosto che di polarità (X e Y sono due estremi della stessa cosa). La nostra società ama accumulare criteri complessi da utilizzare per differenziare le cose in modo chiaro: altre culture (comprese alcune contemporanee) sono sempre state felici di tollerare gradi di ambiguità e sovrapposizione.
Tali culture non hanno necessariamente visto la violenza come uno stato di cose separato, irrazionale e angosciante, ma piuttosto come una componente della vita. Le relazioni tra i villaggi potevano includere il furto di bestiame e di mogli, e talvolta faide e persino brevi periodi di violenza organizzata, ma gli abitanti sarebbero stati davvero sorpresi di ricevere la visita di moderni specialisti della gestione dei conflitti che parlavano di creare una cultura di pace: per loro, un certo grado di violenza era solo parte della vita, e spesso un rito simbolico di passaggio all'età virile. A un livello molto più alto, possiamo vedere questa stessa dinamica in molte epopee tradizionali, come Beowulf o l'Iliade. I combattimenti e la violenza fanno parte della vita. La chiamiamo "guerra di Troia", ma, così come viene presentata da Omero, ha pochi degli attributi di una guerra come la intendiamo noi. È in realtà una spedizione punitiva per vendicare un episodio di furto di moglie, che non va da nessuna parte e degenera in una serie di combattimenti eroici performativi che non hanno alcuno scopo pratico, punteggiati da feste e gare sportive. In altre parole, la vita quotidiana nell'età del bronzo.
Sarà quindi utile eliminare i confini rigidi e pensare invece a un continuum (la polarità di Gebser) in cui eventi e iniziative occupano posti diversi. La politica, la negoziazione e la violenza, perfino la guerra, non sono quindi antipatiche l'una all'altra, né stati completamente separati che raggiungiamo attraverso un salto quantico, ma qualcosa di simile a una scala di escalation, che possiamo salire e scendere. Inoltre, assistiamo a una versione di quella che i matematici chiamano "gerarchia ingarbugliata" o "ciclo strano", in cui il movimento in una direzione ci riporta al punto di partenza. Pertanto, gli stadi dell'escalation non sono ordinatamente distinti l'uno dall'altro, ma si mescolano e spesso si verificano contemporaneamente, poiché le conseguenze di un'azione hanno effetto altrove.
È questo, ad esempio, che ha lasciato perplessi gli osservatori stranieri della guerra di Bosnia, i quali presumevano che le fazioni in guerra stessero in realtà cercando una soluzione pacifica e avessero solo bisogno di un po' di aiuto. Eppure i leader di queste fazioni sembravano capire perfettamente che c'erano dinamiche diverse in gioco allo stesso tempo. Questa mattina ci vendiamo armi e cibo a vicenda e ci scambiamo prigionieri, e questo pomeriggio usciamo e ci uccidiamo a vicenda. Cosa c'è di strano? C'è una storia che ho sentito all'epoca e che credo sia vera, che riguarda una delle tante missioni in Bosnia della Troika (i ministri degli Esteri delle presidenze passate, presenti e future di quella che allora era l'Unione Europea Occidentale) guidata dal ministro degli Esteri italiano, Gianni de Michelis. De Michelis non era esattamente un ingenuo (sarebbe presto scomparso in carcere con l'accusa di corruzione), ma persino lui rimase stupito dalla doppiezza dei suoi interlocutori, che un giorno avrebbero felicemente firmato un accordo di pace, per poi romperlo prima ancora che il suo aereo fosse atterrato in patria. I giornalisti avevano cominciato a notarlo e in un'occasione avevano espresso scetticismo sugli sforzi della Troika. "Questa volta", disse de Michelis con tono cupo, "l'ho messo per iscritto". Ma anche quell'accordo fu violato. Tutto questo non è strano se ci limitiamo a capire che la politica della firma di un accordo di pace è una cosa, ma la politica del suo rispetto è un'altra. Quando la violenza sembra essere più redditizia, si ricorre di nuovo alla violenza, e il nemico lo capisce e fa lo stesso. Solo gli occidentali sono perplessi.
In precedenza ho suggerito che la violenza stessa è una forma di comunicazione e un'aggiunta alla normale vita politica. Può infatti funzionare come uno strumento di segnalazione per indicare, ad esempio, quanto sono serio riguardo a un obiettivo o quanto sono pronto a resistere a un vostro obiettivo. Voi organizzate una manifestazione. Io vedo la vostra manifestazione e ne organizzo una violenta. Voi organizzate una rivolta. Io uso il mio controllo sulla polizia per reprimere violentemente la vostra rivolta. Voi attaccate e distruggete gli uffici del mio partito politico. Io organizzo un attentato dinamitardo contro gli uffici del vostro partito politico, in cui vengono uccise delle persone. A questo punto, però, potremmo riunirci in silenzio e chiederci se ognuno di noi è disposto a un'escalation indefinita, o se forse è giunto il momento di fare una pausa. Potremmo concordare che io ti permetterò di organizzare una sparatoria negli uffici del mio partito politico e la faremo finita, poiché nessuno dei due ha nulla da guadagnare da un'ulteriore violenza.
Pertanto, la semplice escalation progressiva verso un conflitto serio, nel senso in cui viene insegnata nei corsi di Scienze Politiche, non è la norma. È meglio pensare a un processo discontinuo, in cui i giocatori scelgono di giocare una certa carta a un certo livello di serietà, come modo per trasmettere un messaggio e forse per avanzare o rifiutare determinate richieste. In Occidente, identifichiamo un certo livello di violenza che chiamiamo "conflitto armato" e lo circondiamo di tutta una serie di norme, regole, leggi e procedure che non si applicano altrimenti, anche quando la violenza viene usata in modo estensivo. In genere, vi sorprenderà sapere che non esiste una definizione condivisa, ma generalmente si ritiene che per "conflitto armato" si intenda una violenza grave e prolungata tra gruppi armati o tra un gruppo e lo Stato. Ci sono dibattiti infiniti sulla differenza tra conflitto armato internazionale e non internazionale, anche se in pratica la maggior parte dei conflitti presenta elementi di entrambi. Ma in realtà, tutto questo è solo un punto scelto arbitrariamente su uno spettro di intimidazione e violenza.
Nella vita reale, i principali attori hanno spesso un forte interesse a evitare il conflitto diretto, o a superare un grado di escalation dopo il quale la situazione diventa sempre più difficile da controllare. A volte si tratta di accordi semi-ufficiali, come quelli di deconfliction tra Russia, Stati Uniti e Turchia in Siria. A volte, come nel caso del conflitto in Ucraina, sembra che ci sia almeno una serie di intese dietro le quinte. E ora a Gaza sembra esserci un tacito accordo tra Stati Uniti e Iran per non lasciare che la situazione degeneri in un conflitto aperto e per fare pressione sui loro surrogati affinché mantengano la situazione sotto controllo. Ma Hezbollah e Israele continuano a bombardarsi a vicenda, come modo per trasmettere messaggi, non tanto all'altro quanto ai loro amici e alleati.
Ne consegue che molta violenza viene impiegata in modo pragmatico, caso per caso, e che gli incidenti violenti tra Stati non dovrebbero necessariamente precludere la cooperazione in altri settori, che potrebbe a sua volta essere accesa e spenta per trasmettere messaggi diversi. Chi segue le vicende della politica turca in (e verso) la Siria ne avrà notato un buon esempio. La sponsorizzazione di un gruppo di opposizione in un altro Paese, o il rifiuto di tale sponsorizzazione, è una tattica analoga. Durante l'occupazione occidentale dell'Afghanistan, ad esempio, l'organizzazione pakistana Inter-Services Intelligence sosteneva in realtà i Talebani in alcuni casi e per alcuni scopi, mentre in altri casi collaborava con l'Occidente.
Un problema che ne deriva è che, mentre l'Occidente ha sviluppato un elaborato vocabolario sulla violenza e sui conflitti a diversi livelli, in pratica descrive solo diverse manifestazioni della stessa cosa: l'uso della violenza di un tipo e di un grado che l'autore ritiene appropriato per i propri obiettivi politici, finanziari o di altro tipo. Così, ci sono stati conflitti in Africa in cui i gruppi militari o di milizia cercano di controllare l'accesso alle risorse naturali, ed è difficile vedere la differenza immediata con le operazioni della criminalità organizzata. Nella sanguinosa guerra civile in Congo dal 1996 al 2000, ad esempio, le sette nazioni partecipanti riuscivano come minimo a far fronte alle spese della guerra con quanto riuscivano a prendere con il saccheggio: un po' come l'Europa nel Medioevo, in effetti.
E in realtà, la violenza viene quasi sempre usata o minacciata per ragioni che appaiono razionali e difendibili agli autori, oltre che utili, anche se gli estranei usano parole come "insensato" o "inutile" per dimostrare che non capiscono, o non vogliono capire, cosa si sta facendo e perché. Un paio di settimane fa ho citato il lavoro di James Gilligan sui criminali violenti, che mostrava come la violenza fosse spesso un modo per difendere l'orgoglio e l'autostima. Anche le nazioni lo fanno: si pensi agli Stati Uniti a Grenada. E naturalmente la violenza può essere un utile strumento di intimidazione nei rapporti commerciali, l'equivalente di una banca che minaccia di pignorare un mutuo.
Quindi non si tratta tanto di una serie di categorie, tanto meno di categorie chiaramente distinte l'una dall'altra, quanto di una serie di variazioni su un tema: l'uso della forza o della minaccia della forza per stabilire, mantenere o rovesciare un particolare insieme di relazioni politiche o economiche. La metto così perché voglio suggerire che il simbolismo della violenza potenziale, e il suo uso deterrente o intimidatorio, non solo è molto più frequente del conflitto aperto, ma è anche generalmente molto più efficace.
Cominciamo con un caso che esemplifica l'uso assolutamente simbolico della violenza potenziale. Probabilmente avrete visto guardie militari, spesso in uniforme, intorno alla residenza del Presidente o del Monarca. Si tratta principalmente di una dichiarazione politica, che identifica chi è il capo legale e costituzionale delle forze armate e il dovere dell'esercito (di solito) di proteggerlo (vale la pena sottolineare che la sicurezza pratica e quotidiana di queste persone da minacce reali è garantita con mezzi diversi e molto più discreti). Un'esemplificazione su larga scala di questo tema è fornita dalla parata militare del Giorno della Bastiglia che si tiene ogni anno a Parigi. Questa si svolge in forme diverse dal 1880 (cioè subito dopo l'instaurazione definitiva della forma di governo repubblicana) e celebra quel giorno come espressione performativa della subordinazione dei militari alla Repubblica, cosa che non era sempre stata evidente in passato.
Un uso un po' meno simbolico della forza è rappresentato dalle ronde di polizia e truppe armate che si vedono oggi in alcune città del mondo. Possono sembrare superficialmente simili, ma le circostanze di ogni caso sono spesso sostanzialmente diverse e rientrano in due categorie: rassicurazione della popolazione e deterrenza nei confronti di potenziali minacce. Come ho sottolineato più volte, quella che a volte viene descritta come "pace civile" (in breve, la possibilità per il cittadino di uscire per strada senza la minaccia della violenza) non può in ultima analisi derivare da un'intimidazione palese, ma solo dall'accettazione di certe regole da parte della massa della popolazione. Quindi la presenza della polizia, per la maggior parte, non ha tanto lo scopo di intimidire e far rispettare le regole, quanto quello di ricordare alla gente che questa accettazione esiste di fatto.
Ci sono persone che non accettano queste regole e ci sono circostanze in cui le regole stesse possono essere vittime della paura, della rabbia o della semplice confusione. Molti Paesi hanno elaborato disposizioni per l'uso di forze addestrate per gestire le conseguenze. Se osservate una manifestazione in Francia, ad esempio, vedrete un gran numero di gendarmi o poliziotti antisommossa dispiegati, ma nelle strade laterali, fuori dalla vista del corteo. Di solito, le autorità sono in contatto con gli organizzatori della manifestazione, e sono i loro steward a supervisionare il corteo. Ma non si può controllare chi partecipa effettivamente a una manifestazione (come hanno scoperto a loro spese i Gilets jaunes), ed è sempre possibile che gruppi esterni, o anche semplici criminali di strada, decidano di approfittare della situazione. Si tratta quindi di prendere una decisione difficile, tra il rischio di un'escalation e il rischio per le vite e le proprietà. La tendenza francese - il dispiegamento di forze massicce, ma per intimidire piuttosto che per affrontare - è un'opzione. Se si osserva attentamente, si può imparare molto osservando le forze dell'ordine al lavoro. Se non si aspettano problemi, indossano berretti e siedono nei loro furgoni o chiacchierano con la gente del posto. Quando indossano l'armatura di plastica, si sa che stanno anticipando i problemi e se li si vede in unità formate con scudi e manganelli, è probabilmente una buona idea trovarsi da un'altra parte.
Gli attacchi terroristici dell'ultimo decennio in Europa hanno praticamente costretto i governi a dispiegare le truppe nelle strade, non tanto per prevenire direttamente gli attacchi (dato che è impossibile quando qualsiasi cosa è un potenziale bersaglio) quanto per dimostrare che i governi prendono sul serio la minaccia e nella speranza che i potenziali attentatori possano essere almeno un po' scoraggiati al pensiero di avere a che fare con soldati addestrati che sanno come usare le armi. Ma siamo di nuovo al simbolismo: nessuno Stato può mantenere la propria legittimità se non dimostra che sta almeno cercando di proteggere i propri cittadini.
Alcuni esempi dell'uso della forza potenziale o reale per raggiungere diversi obiettivi, o per vanificare quelli di altri, possono essere piuttosto complessi. Mi è capitato di trovarmi a Beirut qualche anno fa in uno dei ricorrenti periodi di tensione, subito dopo l'assassinio di un importante capo della polizia. Come al solito, il fatto era stato strumentalizzato da una fazione e c'era stata una certa dose di violenza calcolata, compreso un tentativo di assalto al Serail, l'edificio piuttosto grande che ospitava l'ufficio del Primo Ministro. L'edificio era protetto da un'unità dell'Esercito libanese, in parte come vera e propria precauzione di sicurezza, dato che la violenza politica è comune in Libano, in parte come atto simbolico, in parte perché l'Esercito è popolare e ben rispettato ed è abituato a essere visto per le strade come simbolo di sicurezza. Avvicinati da una folla arrabbiata e potenzialmente violenta, i soldati non si sono fatti prendere dal panico né hanno aperto il fuoco. Avevano seguito un addestramento per il controllo della folla da parte di una certa potenza straniera, e si sono limitati a imbracciare i fucili sulle spalle e a camminare in mezzo alla folla. Cosa pensate di fare? hanno chiesto. Perché ci state attaccando? In breve tempo la folla si è dispersa. Ci sono state altre manifestazioni, alcune violente, e poco dopo, camminando in una zona centrale della città, ho potuto osservare la reazione. Personale in uniforme blu della Forza paramilitare di sicurezza interna pattugliava in veicoli e a piedi, fermandosi di tanto in tanto agli incroci. Avevano armi, tra cui mitragliatrici calibro 0,50, ma non le puntavano contro nessuno. Un generale di polizia con cui ho parlato il giorno dopo mi ha confermato quello che pensavo: stavano inviando messaggi distinti alla popolazione (protezione) e ai potenziali piantagrane (deterrenza).
Avrete notato che finora ho parlato pochissimo di "guerra" o, più semplicemente, di "conflitto armato", anche se la nostra società tende a ritenere che questo sia il caso base per l'uso della violenza e che tutto il resto sia una sorta di eccezione. In realtà, è vero il contrario. Il conflitto armato è un caso molto particolare di uso della forza, in cui la controparte ha l'organizzazione e le armi per reagire. Ma la maggior parte delle volte si ricorre alla violenza proprio perché la controparte non è in grado di reagire, o almeno è sostanzialmente più debole. Questa violenza non deve essere necessariamente esplicita: può essere implicita e intimidatoria, per costringere le persone a fare qualcosa o per impedire loro di farlo. I criminali operano spesso in questo modo. La maggior parte delle bande della criminalità organizzata evita il più possibile le manifestazioni di violenza palesi, a favore della creazione di un clima di paura che consenta loro di esercitare il controllo su un gran numero di persone.
Questo, per un processo di associazione logica, ci porta ai nazisti. Fin dalla presa del potere nel 1933, il loro obiettivo era, nel loro affascinante vocabolario, una Germania "libera dagli ebrei". Il metodo scelto prevedeva pochissima violenza palese, ma piuttosto minacce e intimidazioni, sostenute in alcuni casi da violenza vera e propria, per rendere la vita degli ebrei così difficile e sgradevole da indurli a emigrare per paura. E in effetti, due terzi di loro avevano lasciato la Germania entro il settembre 1939.
Nella loro visione paranoica del mondo, i nazisti vedevano gli ebrei come "cosmopoliti", che per definizione non potevano essere fedeli al loro Paese di residenza. La loro presenza in Germania era quindi una minaccia alla sicurezza nazionale, perché non avrebbero mai potuto essere cittadini fedeli. Tuttavia, questo modo di pensare non è esclusivo dei nazisti: è infatti il modo di pensare predefinito nelle società in cui la politica è basata sull'identità razziale, etnica o religiosa. Esiste anche un'influente scuola di pensiero politico (Bodin, Hobbes, Schmitt) che vede in ogni disunione o divisione della popolazione una debolezza di fronte agli avversari. Pertanto, solo uno Stato "puro" e omogeneo, sia ideologicamente che etnicamente, può essere veramente sicuro in modo ottimale. Se si ha paura dei propri vicini, e addirittura si è in conflitto con loro, se membri della loro comunità sono presenti nella propria, si ha un problema di sicurezza. Così le comunità sotto stress tendono all'omogeneità, espellendo o addirittura uccidendo i membri delle comunità minoritarie, per essere "sicure". L'esempio recente più noto è la famosa "pulizia etnica" in Bosnia nel 1992, dove le comunità minoritarie, che spesso vivevano in particolari sobborghi o parti di villaggi, sono state cacciate dalla comunità maggioritaria. Ma qualcosa di simile è accaduto anche durante i decenni dei Troubles in Irlanda del Nord, dove la violenza e l'intimidazione hanno fatto sì che la comunità minoritaria fosse effettivamente cacciata da alcune aree.
In alcuni casi, inoltre, la differenza religiosa era vista come una debolezza divisiva e potenzialmente pericolosa per lo Stato. Il rifiuto cristiano di venerare gli dei romani poteva incorrere nel loro disappunto, rappresentando quindi una minaccia per la sicurezza nazionale di Roma. I cristiani che persistevano nel loro credo dovevano essere giustiziati per il bene generale. La stessa logica fu seguita all'epoca della Riforma. Tendiamo a dimenticare, ad esempio, che nel XVI secolo la Francia è stata dilaniata dalla guerra civile religiosa e che, alla fine, avrebbe potuto diventare un Paese protestante. La storia intricata ed estremamente violenta della repressione del protestantesimo ebbe in seguito molto a che fare con la salvaguardia dell'unità del Paese e, sotto Luigi XIV, il cattolicesimo, insieme all'assolutismo politico e al monopolio della forza (di cui il padre di Luigi non aveva goduto) furono visti come i pilastri della sicurezza della monarchia e, per estensione, del Paese stesso.
Il che equivale a ribadire che la violenza, in quasi tutti i casi, ha una sorta di logica dietro di sé, anche se non una logica che noi riconosciamo e accettiamo. Riconoscerlo è molto difficile, per cui gli storici e gli opinionisti si rifugiano spesso in luoghi comuni su "capri espiatori", "odi ancestrali", "manipolazioni" e così via. Ma questo significa confondere due cose. Un gruppo o una comunità non prende di mira un altro gruppo o una comunità a caso: c'è sempre una storia o un'inimicizia dietro l'azione, per quanto bizzarra e tenue possa sembrarci. Ma l'azione stessa è quasi sempre guidata da obiettivi che gli stessi autori considerano razionali. La nostra riluttanza a crederci ha fatto sì che gli storici inventassero ogni sorta di teorie complicate per spiegare il comportamento dei nazisti, ad esempio, invece di limitarsi a vedere cosa facevano e come spiegavano (molto pubblicamente) perché lo facevano.
Si tratta di uno degli episodi più imbarazzanti del pensiero politico moderno, oggi volutamente dimenticato. Talvolta chiamato darwinismo sociale (anche se il termine è contestato), consisteva nel prendere una versione volgarizzata della teoria di Darwin sulla competizione tra le specie e applicarla alle "razze" umane. Questo produceva una mentalità (che Darwin stesso temeva potesse nascere) in cui la storia era vista come una lotta tra razze per la sopravvivenza e la guerra, anziché essere una maledizione, era un modo per accelerare la scomparsa delle razze "inadatte". La confusione, ovviamente, era tra il concetto di "più adatto" come "più adatto" e "più adatto" come più forte e più potente. Nella misura in cui il fascismo aveva un'ideologia degna di nota, la lotta per il potere e la sopravvivenza tra individui e "razze" era praticamente l'unica cosa che aveva.
Si trattava di opinioni mainstream all'epoca, tanto comuni tra i PMC dell'epoca quanto lo è oggi l'idea di una spietata competizione economica tra aziende e nazioni: inutile dire che le due cose sono strettamente correlate. E proprio come oggi gli economisti pretendono di trovare "leggi di mercato", così gli "scienziati razziali" dell'epoca, alcuni con qualifiche impressionanti, credevano di aver individuato "leggi di natura". Alcune nazioni sarebbero semplicemente scomparse: triste, certo, ma alla fine non si possono aggirare le leggi della natura. E prima di criticare troppo, vale la pena sottolineare che prima dei giorni del DNA, e in un'epoca in cui le persone vivevano molto più vicine alla natura di quanto non lo siamo noi, molte di queste cose sembravano semplice buon senso. Esistevano diverse razze di cani e cavalli, con dimensioni, forza e altri attributi diversi, quindi perché non dovrebbe valere anche per gli esseri umani?
I nazisti, che non sembrano aver avuto un'idea originale tra loro, hanno ripreso questo concetto in forma confusa, come hanno fatto con molti altri. Il Volk tedesco (che non coincide affatto con la Germania come Paese) era oggettivamente impegnato in una lotta per la sopravvivenza contro vari altri Völker: era qualcosa di inerente alla natura del mondo, che non poteva essere cambiato. Quindi una lotta all'ultimo sangue tra, ad esempio, i Völker tedeschi e quelli slavi era inevitabile, e uno di loro sarebbe scomparso dalla storia. Non solo la guerra, ma lo sterminio, con tutto ciò che è consentito e con tutte le forme di competizione economica, e persino con i tassi di natalità competitivi, entrano nel calcolo. Si tratta probabilmente della filosofia politica più triste e disperata che sia mai stata concepita, e per certi versi è sorprendente che sia stata così ampiamente accettata. Credo che le ragioni siano probabilmente due. Una è che i diversi gruppi si sentivano segretamente superiori agli altri e quindi in qualsiasi lotta avrebbero avuto la meglio. L'altra è che, come ho già sottolineato in precedenza, la paura è un fattore enormemente potente in politica, e proprio il timore che una cosa del genere potesse essere vera incoraggiava le persone a raggiungere l'obiettivo come se lo fosse.
Inutile dire che questo atteggiamento era, ed è, l'esatto contrario della concezione liberale dominante della guerra: una lotta sgradevole, ma occasionalmente necessaria, per risolvere punti di dettaglio nelle relazioni tra Stati nazionali riconosciuti. Un gioco rude, ma comunque con delle regole, un po' un incrocio tra una causa legale e una partita di rugby, dove c'era una chiara distinzione tra i giocatori e i non giocatori. Ma se si prendono come punto di partenza le idee adottate dai nazisti (lo so, lo so), allora le regole sono pericolose, la moderazione è una debolezza e l'obiettivo logico è lo sterminio del gruppo avversario. Qualsiasi politica più moderata porterà allo sterminio.
La gente ci credeva davvero? Ebbene, sì, e si può ritrovare la stessa logica, e talvolta le stesse azioni, in diverse forme di nazionalismo virulento in Europa. L'occupazione nazista ha sollevato molte pietre e sono venute fuori cose davvero brutte. E poiché la guerra ha un effetto radicalizzante, non sorprende che percentuali significative dell'opinione pubblica britannica e americana nella Seconda guerra mondiale, e ancor più di quella in uniforme, abbiano dichiarato in momenti diversi di essere favorevoli al semplice sterminio di tedeschi e giapponesi. Ma solo i nazisti avevano le risorse per passare dalle parole ai fatti su larga scala e la campagna in Oriente fu concepita, fin dall'inizio, come una guerra di annientamento razziale. Ci sono pochi documenti più agghiaccianti del Piano generale tedesco per l'Est, che prevedeva la morte deliberata per fame di decine di milioni di slavi, lo sterminio di altri milioni di persone di razze diverse e l'espulsione della stragrande maggioranza degli altri a est degli Urali, lasciando dietro di sé solo una classe di schiavi. In una situazione del genere, i non ariani non avevano letteralmente alcun valore, se non quello di forza lavoro usa e getta, e coloro che non potevano lavorare (come i due milioni di ebrei polacchi uccisi nel 1942) venivano semplicemente uccisi, per permettere alle insufficienti scorte di cibo dell'Europa di andare avanti.
Parte del motivo per cui i nazisti trovarono questa visione paranoica del mondo così congeniale (e anche in questo caso non l'hanno inventata loro) è perché avevano davvero paura - anzi, paura - della vulnerabilità tedesca. Un Paese privo di frontiere difensive naturali, minacciato da un lato da orde bolsceviche subumane e dall'altro dalla potenza mondiale della City di Londra e dell'Impero britannico, sarebbe stato semplicemente cancellato dalla carta geografica a meno che non fosse diventato rapidamente forte e avesse colpito per primo. E, riprendendo un cliché popolare dell'epoca, i nazisti vedevano la mano degli ebrei dietro a tutto, dal Politburo sovietico al Partito Democratico americano. (È un peccato che uno studio serio delle folli teorie antisemite del XIX e XX secolo sia stato oscurato da banali polemiche recenti).
Per essere onesti (se è questa la parola che sto cercando) tali idee razionalmente apocalittiche non erano limitate ai nazisti, e non sono sempre state dirette allo sterminio dei soli nemici razziali Due esempi più contrastati (e penso che siano sufficienti per un solo saggio) saranno sufficienti per illustrare il mio punto. Uno è il famigerato Massacro di Katyn, avvenuto in Polonia nel 1940. Qualcosa come 20.000 ufficiali militari polacchi furono giustiziati dall'NKVD, nel periodo in cui l'Unione Sovietica occupava la zona. Per quanto macabro, questo approccio aveva una logica politica. Distruggendo di fatto gran parte della classe di ufficiali polacchi, si indebolì militarmente il Paese e la destra politica, a vantaggio dei comunisti polacchi. Inoltre, molti degli ufficiali erano riservisti e rappresentavano le classi professionali e intellettuali polacche, la cui perdita avrebbe indebolito ulteriormente il Paese e permesso all'Unione Sovietica di dominarlo più facilmente.
Un secondo esempio, poco conosciuto ma in fondo molto significativo, è stato il Burundi dagli anni Sessanta agli anni Novanta. I Tutsi, per definizione una piccola minoranza aristocratica, avevano il controllo dell'esercito, ma vivevano nella costante paura della grande maggioranza Hutu. Una serie di sanguinose insurrezioni hutu ha portato a sanguinose rappresaglie volte a decapitare la leadership hutu. Alla fine, approfittando di un conflitto interno alle élite tutsi, i ribelli hutu lanciarono una seria sfida nell'aprile 1972. Per rappresaglia, l'élite tutsi pianificò e attuò una politica di effettiva eliminazione di chiunque fosse sospettato di essere coinvolto nell'insurrezione, e poi di chiunque potesse rappresentare una minaccia in futuro, come scolari e studenti universitari, insegnanti e sacerdoti. Il numero esatto dei morti non sarà mai noto, ma probabilmente si aggira tra i 100 e i 300 mila. Eppure, nonostante i dettagli insopportabilmente macabri, la violenza non è stata casuale, ma altamente mirata e con obiettivi precisi. Nelle parole del vice capo missione statunitense dell'epoca, "la repressione contro gli hutu non è semplicemente un'uccisione. È anche un tentativo di togliere loro l'accesso all'occupazione, alla proprietà, all'istruzione e in generale alla possibilità di migliorarsi". In questo modo, il potere dell'aristocrazia tutsi e dell'esercito sarebbe stato preservato.
I sopravvissuti ai massacri fuggirono in Ruanda, dove si sentivano al sicuro, e furono raggiunti da altri hutu in fuga da massacri successivi ma molto più limitati. Come ha ricostruito Mahmood Mamdani, la paura dello sterminio ha alimentato la paura dello sterminio, in un ciclo crescente di violenza che ha portato ai terribili eventi del 1994. Non solo gli estremisti, ma anche molti hutu comuni temevano che l'accordo di pace di Arusha, che aveva dato agli esuli tutsi dell'Uganda il controllo di metà dell'esercito ruandese, avrebbe portato a una ripetizione dell'incubo del 1972. Secondo loro, era giunto il momento di farla finita con l'aristocrazia tutsi una volta per tutte. E a differenza del conflitto etnico, un conflitto di classe come questo non ha una soluzione negoziale ovvia: un'aristocrazia senza contadini può essere impossibile, ma un contadino senza aristocrazia è possibile, e alcuni estremisti hutu nel 1994 volevano proprio questo. Solo così sarebbero stati al sicuro.
Sono cinquemila parole sulla violenza organizzata, l'intimidazione e la deterrenza, e quasi nessun accenno alla guerra o al "conflitto armato". Se non altro, spero che quanto detto metta i recenti eventi a Gaza e nella regione in una prospettiva più ampia e a lungo termine. Se il vostro obiettivo è esplicitamente quello di creare uno Stato etno-nazionalista-religioso, allora la stessa presenza di persone di etnia o religione diversa all'interno del vostro Stato è una minaccia alla sicurezza, che temete possa un giorno distruggervi. Questo porta ineluttabilmente a una politica di repressione, di esclusione dal potere e, infine, di espulsione e violenza. Ma ad ogni atto ostile contro altre popolazioni, si inizia a temere, ragionevolmente, di creare ancora più risentimento che un giorno si ritorcerà contro di noi. Ma non si può cambiare il proprio obiettivo, quindi la paura porta ad altra repressione, che porta ad altra paura, che porta... E alla fine si levano voci che dicono che l'unica vera soluzione è l'espulsione completa, o addirittura lo sterminio, degli altri, e logicamente hanno ragione, per alcuni valori di "soluzione".
Quindi quella a cui stiamo assistendo a Gaza non è una "guerra", né un conflitto armato nazionale o internazionale, anche se potrebbe superficialmente assomigliarvi. È la storia secolare dell'uso della violenza da parte dei forti contro i deboli, affinché i forti possano dominare e controllare il territorio che rivendicano, e quindi sentirsi al sicuro. E non si vede perché questo episodio dovrebbe concludersi in modo più positivo, o meno violento, di quanto non abbiano fatto analoghi episodi precedenti nella storia.
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silviascorcella · 10 months
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Amotea: la couture semplice e italiana, romantica eppur attuale
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C’è un che di curioso, un pizzico divertente, ed anche profondamente gustoso quando l’esito si rivela fruttuoso, nel momento in cui s’incontrano le sperimentazioni che il lessico dello stile fa per tentare di definire le evoluzioni e sperimentazioni della moda dentro etichette che suggeriscano un ritratto preciso in cui specchiarsi: come nel caso di “easy couture”, la definizione che accompagna le creazioni, le intenzioni e le suggestioni del giovane brand italiano Amotea.
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“Easy couture”, ad assaporarne il gusto nel pronunciarla parrebbe quasi una contraddizione in termini, eppure contemplando con la giusta attenzione allacciata alla sensibilità i dettagli che raccontano la storia degli abiti e del desiderio della loro creatrice, Diletta Amodei, da cui han preso vita creativa e anima sofisticata, voilà, ogni apparenza di contrasto si concilia nell’armonia di un marchio che è un piccolo mondo in equilibrio agile tra il fascino per la bellezza classica che non conosce tempo, e la raffinatezza svelta ad essere praticata nelle occasioni buone e belle della vita contemporanea.
A ben vedere anche il nome del brand proviene dalla conciliazione di elementi differenti, o più esattamente è il frutto di una crasi: l’incipit del cognome di Diletta si unisce al nome femminile che avrebbe amato consegnare ad una figlia femmina. E giocando ad ampliare la metafora, anche la nascita del marchio accade in virtù di una conciliazione: tra la passione di Diletta da bambina per la moda, e la scelta adulta di riprendere in mano il sogno di crearla, la moda, realizzato nel 2018 con il suo progetto personale. Amotea, dunque, è la sublimazione della virtù della sintesi, una sorta di esaltazione consapevole del motto “poco ma buono” agganciato alla pratica gentile della bellezza eccellente, e dei sentimenti autentici che da dentro l’animo parlano attraverso gli abiti: come fosse un’armonia musicale il cui spartito è composto da poche note, ma pregiatissime.
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C’è l’esattezza della couture nei suoi aspetti esclusivi: il made in Italy dell’eccellenza che inizia dai materiali, come per i motivi floreali tailor made, dove la peonia, regina dell’essenza del brand e simbolo del suo immaginario di eleganza etera e sensuale al tempo stesso, è ideata in esclusiva in collaborazione con i disegnatori Ratti; e come per i bottoni che son preziosi come gioielli, realizzati con l’arte artigiana dall’azienda milanese Ascoli. 
C’è la semplicità delle linee che con pochi tratti e accorgimenti attenti, percorrono le linee della femminilità, si trattengono a valorizzare i punti dove essa si concentra, e poi si sciolgono ad accarezzarla con leggerezza.
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C’è il romanticismo contemporaneo, che dell’amore personalissimo di Diletta per la sua città, Roma, fa fonte d’ispirazione inestinguibile da cui trarre suggestioni di bellezza, geografie di stile che richiamano i raffinati giardini rigogliosi, volumi scolpiti con tocchi di classe a richiamare il gusto neoclassico, mescolato a guizzi estetici perfettamente contemporanei. Tradotto in creazioni, la collezione è abitata da una manciata ricercata di modelli: c’è l’abito Tea, nato dalla memoria dei giardini di Villa Borghese, che mentre svela una spalla ricopre l’altra con una corta manica a sbuffo, e mentre svela le gambe davanti si scioglie in lunghezza sul retro con una stratificazione di rouches dall’allure principesca, c’è Didi, il completo composto di top e pantaloni svasati sul fondo e proposto in doppia versione, ovvero in pizzo sottile e sensuale e in motivo stampato floreale; c’è Julia, il mini-dress che appaia il tulle nero ai pois rossi oppure illumina la figura nella versione platinum.
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E ancora, c’è Clotilde: che dalla versione lunga e fluida dal fascino lievemente retrò, si accorcia e si arricchisce di frange danzanti e di lievi bagliori come nelle notti stellate da vivere appieno lungo l’estate. Ed infine c’è Claire: con la gonna a palloncino, le maniche in tulle sbuffante e il corpetto che disegna il busto, stuzzica la voglia di festa. 
Festeggiare l’amore per la bellezza, innanzitutto e sempre.
Silvia Scorcella
{ pubblicato su Webelieveinstyle }
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klayzt · 11 months
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"In termini pacati, Dioniso è il dio della contraddizione, di tutte le contraddizioni – lo dimostrano i suoi miti e i suoi culti – o meglio di tutto ciò che, manifestandosi in parole, si esprime in termini contraddittori. Dioniso è l’impossibile, l’assurdo che si dimostra vero con la sua presenza. Dioniso è vita e morte, gioia e dolore, estasi e spasimo, benevolenza e crudeltà, cacciatore e preda, toro e agnello, maschio e femmina, desiderio e distacco, giuoco e violenza, ma tutto ciò nell’immediatezza, nell’interiorità di un cacciatore che si slancia spietato e di una preda che sanguina e muore, tutto ciò vissuto assieme, senza prima né dopo, e con pienezza sconvolgente in ogni estremo. [...] Nel contemplare Dioniso, l’uomo non riesce più a staccarsi da se stesso, come fa quando vede gli altri dèi: Dioniso è un dio che muore. Nel crearlo l’uomo è stato trascinato a esprimere se stesso, tutto se stesso, e qualcosa ancora al di là di sé. Dioniso non è un uomo: è un animale e assieme un dio, così manifestando i punti terminali delle opposizioni che l’uomo ha in sé. Qui appunto sta l’origine oscura della sapienza. La tracotanza del conoscere che si manifesta in questa avidità di gustare tutta la vita, e i suoi risultati, l’estremismo e la simultaneità dell’opposizione, alludono alla totalità, all’esperienza indicibile della totalità. Dioniso è quindi uno slancio insondabile, lo sconfinato elemento acqueo, il flusso della vita che precipita in cascata da una roccia su un’altra roccia, con l’ebbrezza del volo e lo strazio della caduta; è l’inesauribile attraverso il frammentarsi, vive in ciascuna delle lacerazioni del corpo tenue dell’acqua contro le aguzze pietre del fondo."
Giorgio Colli
La sapienza greca I
Adelfi
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romanogreco · 1 year
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"Chi muore si salva".
E' una contraddizione in termini.
Ma c'è un motivo.
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