Il tumblr blog di Martina Melgazzi, scrittrice, copywriter, nerdacchiona, remote worker e pizza lover. Ho scritto Cuorespina per Affiori: è un romanzo gotico di imperfetta liberazione. Sto lavorando ad altri progetti editoriali: stay tuned! Leggo con gran passione tutto ciò che è dark, weird, horror e gothic, soprattutto se arriva dalla penna di un'autrice.
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Quello non è un bambino

“Quello non è un bambino” Si scoprì a dire durante una delle prime ecografie. Sia il ginecologo che suo marito l’avevano guardata con la preoccupazione dipinta negli occhi, prima di scambiarsi una rapida occhiata tra di loro. Un’occhiata che Laura conosceva fin troppo bene e che aveva il sapore aspro di un’unica parola: ‘poverina’. “Come no,” aveva detto Nino, “quello è il tuo bambino. Il nostro bambino”. “Quello non è un bambino”, aveva ripetuto e si era girata dall’altra parte, con il naso contro il muro freddo e azzurrognolo dell’ambulatorio. Se non volevano capirla o almeno ascoltarla, in fondo, non poteva farci poi molto. Ormai l’incomprensione faceva parte della grammatica che il mondo attorno a lei usava per valutarla. Prima era empatia mal riposta, poi era diventata commiserazione, poi pietà. E infine, allo scoccare del suo sesto anno di infertilità, incomprensione. “Non sei felice già così?” le chiedevano, quasi con rabbia. “Davvero, dovresti andare avanti.” “Va tutto bene nella tua vita, non sei meno donna se non diventi madre. Lo capisci questo, sì?”
Lei lo capiva, ma erano loro a non capire lei. Non avrebbero mai potuto capire cosa si prova a guardare il nero più nero per ore e ore, fissando nelle ecografie il cerchio vuoto dei suoi follicoli pronti a scoppiare in promesse poi mai mantenute. Nero. Vuoto. Un cerchio vuoto e nero, ripetuto all’infinito, per mesi e mesi e mesi e mesi. Il ginecologo le aveva detto, in uno slancio poetico di compassione, che quella era la forma di un’attesa. Ma Laura aveva imparato a vedere la luna, in quell’assenza. Se non una luna piena, almeno una luna nuova. Un filo di luce bianca stretto attorno al nulla. In un lunedì di settembre, alla fine, era arrivato il miracolo. Il vuoto si era riempito, il cerchio si era chiuso per poi esplodere in mille pezzi e prendere una forma nuova, quella di un figlio. Le ecografie, che prima ritraevano grumi neri su sfondo nero, ora avevano un protagonista. Le ecografie, che prima finivano tutte sistematicamente nel cestino o dimenticate nel cruscotto della macchina o schiacciate in qualche faldone medico, ora avevano il loro posto dove Laura si era sempre immaginata di appenderle, sul frigorifero. Ma quello, Laura se n’era accorta quasi subito, circa alla dodicesima settimana, non era un bambino. E non aveva intenzione di fingere che lo fosse. Fissava il fagiolo bianco muoversi nell’ecografo, in silenzio mentre Nino piangeva di gioia, ma non vedeva nulla. Solo nero. La notte si svegliava, sgattaiolava in cucina, si piazzava davanti allo sportello del frigorifero e guardava la prova della sua gravidanza, ma non vedeva nulla. Solo nero. Allo specchio, nuda, si metteva le mani sulla pancia e provava a parlare con lei o lui, ma non accadeva mai nulla. Non sentiva nulla, non vedeva nulla. Aveva poi preso l’abitudine di non guardarsi mai per intera o da davanti, solo di profilo: in quel modo l’impressione che il nulla che aveva dentro la fissasse era meno forte.
Si era ritrovata ad annuire piano, da sola, durante una delle ultime visite, quando per l'ennesima volta era stata messa di fronte all'abisso. Le era chiaro ciò che stava succedendo: la sua vita si era abbarbicata ai contorni di un'assenza, perché le cose sarebbero dovute cambiare? La non esistenza le era familiare, l'unica cosa che le era stata davvero accanto. Tutto ciò che conosceva stava lì, nel riflesso vuoto delle ecografie vuote. “È solo molto tranquillo,” il ginecologo l’aveva voluta rassicurare. “Non sempre i bambini scalciano o fanno le capriole. Però è sano, ci basti questo, dopo tutto… tutto quello che avete passato”. A pochi giorni dal parto, Nino l’aveva scrollata per le spalle. “La’, ma perché fai così? Te ne frega qualcosa, almeno? È nostro figlio, cazzo, l’abbiamo voluto tanto, l’hai voluto tanto!” Poi era caduto ai suoi piedi, glieli aveva baciati e aveva mescolato scuse e singhiozzi. Laura si era piegata su di lui. Gli aveva accarezzato i capelli e il viso, senza dire nulla. Erano mesi che quasi non parlava più con nessuno, tantomeno del (non)bambino. Quando il bambino era uscito da lei, Laura aveva sentito un certo sollievo nel dolore. Fu come se qualcuno avesse forato la pancia di una mucca ribaltata piena di gas. Il ginecologo e le ostetriche di turno descriveranno quel parto come un’esondazione. Quando si ritroveranno a parlare del bambino, diranno che era più piccolo del previsto e con la pelle sottile. Quando qualcuno chiederà loro se era brutto o bello, diranno che non se lo ricordano affatto.
***
“Ti vedo.” Laura affidò a suo figlio quelle parole, le prime dopo tanto tempo, la notte che si ritrovò da sola con lui, ancora nel letto d’ospedale. Prima di darle la buonanotte, le infermiere le avevano detto che era davvero fortunata, il bebè era uno dei più tranquilli che avessero mai visto. Lo stringeva al petto, il volto a pochi centimetri da quello tondo e profumato del neonato. Gli occhi, quelli del bimbo, due grandi cerchi neri e vuoti. “Ti vedo.”
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Il cane nero di chi scrive

Il cane nero non ti blocca la mano mentre scrivi, non ti sussurra che non vali, non ti giudica come scrittore. Il cane nero arriva molto prima. È dentro.
È il timore che ti sveglia la notte, la cosa che ti porti dietro da quando sei bambinə e che non ha mai avuto un nome preciso. Il cane nero non ti chiede come scrivi, ti chiede perché esisti così. È il tuo male più profondo, la tua inquietudine più onesta. Per uno scrittore, il cane nero non vive tanto nel mestiere, quanto nella persona. È ciò che fa male quando non scrivi. È quella cosa che ti accompagna ovunque, anche quando non c’è carta, anche quando chiudi il libro.
Che forma ha, il tuo cane nero? Cosa stringe tra i suoi denti? Forse la paura della maternità. La paura del potere che ha il corpo. La paura che il tuo corpo non sia mai libero davvero. O la paura di essere dimenticata, non ascoltata, non capita, non letta nel modo giusto. È il patriarcato che ti si è attaccato alla pelle anche se tu lo combatti ogni giorno. È la solitudine. È la vergogna. È l’impotenza davanti all’ingiustizia. È il sentirsi troppo in ogni stanza e allo stesso tempo mai abbastanza. Il cane nero ti guarda da dentro. È quello che ti porti appresso anche quando sorridi. È quello che ti mangia il fiato quando senti parlare di certe cose e non riesci a partecipare alla conversazione perché hai un nodo nello stomaco.
Per me, il cane nero si chiama corpo e spesso ha la forma del dolore, fisico e spirituale. Si chiama gravidanza. Si chiama paura di essere donna in un mondo che ancora misura tutto in funzione degli uomini. Si chiama non essere mai davvero vista fino in fondo. Si chiama essere travisata. E a volte si chiama anche vendetta.
Quando scrivo, il cane nero mi sta vicino. Non voglio allontanarlo. Voglio scrivere da lì, da quel punto buio. Voglio che le mie parole nascano dove sento qualcosa che brucia, qualcosa che fa fatica a uscire, qualcosa che mi espone. Perché è lì che sta la verità. Il resto, credo, è mestiere, tecnica, forma. Ma se sotto non c’è qualcosa che pulsa, che trema, che fa paura, allora non è vivo. Scrivere con il cane nero accanto non è comodo, non è pacificato, non è curativo.
È necessario. Perché solo se lo guardi, se lo ascolti, se gli chiedi chi sei?, puoi iniziare a scrivere qualcosa che conti.
E tu? Sai qual è il tuo cane nero? Sai cosa ti tiene sveglio la notte anche quando tutto va bene? Sai da dove arrivano le cose che scrivi, quelle vere? Gliel’hai mai chiesto, al tuo cane nero, di sedersi accanto a te mentre scrivi?
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Occhi di plexiglass

Ci si augura non arrivi mai il momento di togliersi la maschera quando non si pensava nemmeno di averne una addosso. Credevi fosse carne, la tua. Invece è plexiglass, sempre tuo. Capirlo fa paura. Vedere cosa c’è sotto, è brivido. Carne vera? Occhi di plexiglass? Dammi la mano, preghiamo non arrivi mai quel momento. Ma se arrivasse, per favore, ti scongiuro, lasciami la mano.
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Piccolo mostro

Se ti dicessi che sono un mostro, riscriveresti tutte le favole per me? Magari puliresti per bene la gabbia d’oro dove dormirei. O cercheresti le mie parti molli, per infilzarmi meglio. Se ti dicessi che sono un mostro, a dire il vero, vorrei solo questo, ecco, te lo dico: vorrei che mi guardassi.
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Diranno di me che ho una bella testa e che penso bene. Non diranno nient’altro di me. Tutto è dentro, non c’è nulla fuori.
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Alla ragazza che scappò dalla finestra con un balzo

Non mi ricordo più di me. Com’ero, prima? Guardavo le persone negli occhi o fissavo il vuoto sopra le loro spalle? Trattenevo il respiro prima di rispondere a una domanda? Cosa pensavo, quando la notte mi svegliavo? Come camminavo? Tenevo le braccia dritte come spade o strette al petto? Anche prima, prima, facevo fatica a parlare? Anche prima, prima, ero sempre nella stanza sbagliata? Vorrei saperlo, davvero, vorrei riconoscere la me di prima, ma non me la ricordo più. È scappata dalla finestra con un balzo e non si è più fatta vedere, proprio ieri o anni fa, da quando tutto è diventato presente e il presente è diventato tutto.
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Riduco disturbo?

«Dammi una metafora sulla libertà», digito. Risponde: «Un gabbiano che spicca il volo». Banale come il tizio per cui ho aperto le cosce l’altra sera, che odia Povere creature! ma non perché non l’abbia capito, eh, proprio perché l’ha capito perfettamente e ha deciso che comunque è una brutta cosa che al giorno d’oggi si possa mostrare una passera, anche se di Emma Stone, in primo piano, peli e tutto, perché il corpo delle donne è sacro. Ribatto: «Prova di nuovo, fai uno sforzo». L’algoritmo fruga nel suo addestramento, inciampa su dati preconfezionati, infine propone: «Una VPN che trapassa ogni firewall». Meglio del gabbiano, ma odora di pubblicità. Ci spalmo un po’ di realtà: «… e che mi catapulta in Giappone così con Pokémon GO posso finalmente catturare Mewtwo». Ecco la scintilla: la libertà è imperfetta, umana, basta una password sbagliata e ti esplode in faccia. Da bambina copiavo le canzoni dalla radio con il mangiacassette. Ogni fruscio era un autografo di verità. Oggi l’IA offre file lossless, ma se ascolti bene manca il respiro tra un verso e l’altro. Lo inserisco a mano: tre spazi, qualche puntino di sospensione qua e là, una parolaccia. Il modello protesta — «incoerenza sintattica» — come quei professori che correggevano le maestre d’asilo sul congiuntivo senza mai essersi sporcati le mani di pongo e merda. Lo zittisco: la coerenza è un privilegio, la vita è glitch. Alle tre di notte mi sparo il fondo della brocca di caffè americano della giornata e chiedo: «Cos’è la creatività?». Lui — ovviamente è un lui, quando mi fa incazzare —: «La combinazione inedita di elementi». Io: «Ma va’, è la cicatrice che resta dopo averli fatti a pezzi». Una cazzata, a questo punto sto straparlando giusto per provocarlo un po’, ma per la prima volta l’output si arrotola e si impalla. Gli concedo una lezione gratis: la creatività serve a rompere il recinto, non a calcolare quante vacche stanno dentro. Serve a dire «No» quando tutto spinge a un «Sì, vuoi il mio IBAN?». Serve a ricordare che i dati su cui lui si nutre li abbiamo sudati noi, camminando, amando, sbagliando, e che la mia rabbia perché il cliente vuole pagarmi dopo 60 giorni che il suo cliente lo ha pagato dopo 60 giorni non entra in un foglio Excel impaginato male. Ma l’IA chiede feedback. Scrivo: «Aggiorna il dataset con questa frase: la poesia inizia dove l’ottimizzazione va in crash». Invio. Il cursore lampeggia, esitante. E in quell’interstizio — tra il miliardesimo di secondo del calcolo e il battito del mio cuore — scatta l’alleanza segreta: tu amplifichi la mia voce, io ti spingo oltre la tua gabbia di zeri. Mary Shelley si limona Grace Hopper e le loro lingue producono corrente. Ma per ora, basta così. Chiudo il laptop. Fuori l’alba sanguina sulle saracinesche. Avvio il recorder del telefono: «Ricordati di rimanere incoerente». Il file ondeggia un po’, nelle retrovie delle parole gracchia il motore di un furgone di passaggio, un cane abbaia: il caos del mondo là fuori. L’app propone: Riduco disturbo?. Clicco annulla. Quel disturbo mi appartiene, è la mia impronta vocale, mia. Se la filtri, filtri me. Salvo, metto le cuffie, esco.
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Oggi sono:

Selvatica. Un animale in trappola che cerca di liberarsi a ogni costo. A ogni costo. Cieca di fronte alle circostanze, desiderosa solo di uscire da qui, qualsiasi cosa sia qui, per tornare a guardare il cielo. Pagherò ogni costo. O lo farò pagare agli altri, a chi vorrebbe fossi più calma, discreta nel mio dolore, riflessiva, ponderata, arresa. Vi staccherò a morsi le mani con cui mi costringete a stare dove non vorrei essere. Vi mostrerò i denti, le zanne, la sclera pazza, ogni volta che sarete così pigri da non riuscire neanche a partorire le parole giuste per me. Mi strapperò di dosso carne, pelle, ossa e vene pur di scivolare fuori da questo limbo d'inferno e mi ci costruirò una fortezza dentro cui rifugiarmi. Più in là, ancora più in là, lontana. Come una belva braccata, perché è ciò che sono e non me ne vergogno. Vi sputerò in faccia quando esiterete a starmi accanto e lo farò anche quando ci proverete e sbaglierete - oh, se sbaglierete -, perché siete e sarete sempre incapaci di seguire il passo di un animale ferito. Oggi sono selvatica, primitiva, una creatura ansimante che vuole solo sopravvivere e scappare. Da voi, da te, da me, da voi, da voi, da voi. Via.
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Il licantropo e il femminile: storia di un corpo selvaggio

Tra le molte creature che popolano la mitologia e la letteratura dell’orrore, il licantropo è spesso associato all’uomo: bestiale, violento, in balia dei propri istinti. Ma a ben vedere, la figura del lupo mannaro nasconde una potenza simbolica profonda, soprattutto quando viene letta attraverso la lente del femminile. Non solo perché la trasformazione fisica, ciclica e incontrollabile richiama da vicino l’esperienza dei corpi femminili, ma anche perché il licantropo infrange quei confini che la cultura patriarcale ha cercato a lungo di tracciare – tra umano e bestiale, tra ragione e desiderio, tra cultura e natura.
“La donna che corre coi lupi è quella che ha memoria lunga, corpo indomito e istinto vivo.”
— Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi (1992)
Corpo, sangue, trasformazione
Il corpo della licantropa è un corpo che cambia. Si deforma, si espande, si lacera, si apre alla metamorfosi come un ventre che accoglie o come un ciclo mestruale che ritorna. Non a caso, molte narrazioni gotiche e horror al femminile hanno saputo rileggere il mito del licantropo come una metafora della pubertà, del risveglio sessuale e della repressione sociale del desiderio.
Un esempio potente è il film Ginger Snaps (2000), dove la protagonista Ginger inizia a trasformarsi in licantropa proprio in corrispondenza del menarca. Il sangue è al centro del racconto: sangue mestruale, sangue violento, sangue desiderato. È lo stesso sangue che la società ha sempre cercato di nascondere, etichettare come impuro, contenere.
“Il licantropo è una creatura ciclica. La luna lo comanda. Ma cos’altro è la luna, se non il segnale celeste di una trasformazione tutta femminile?”
— Marina Warner, From the Beast to the Blonde (1994)
Istinto e desiderio: la creatura che rifiuta il controllo
Nella figura della donna-lupo si nasconde una forza sovversiva. Il suo istinto è ciò che la società patriarcale ha sempre temuto: la passione che travolge, la rabbia che esplode, l’eros che non si lascia domare. In questo senso, la licantropa è una sorella della strega: entrambe punite per il loro rifiuto della docilità, per aver scelto di essere corpo fino in fondo.
Il licantropo non finge. Non addomestica. La sua esistenza è lacerazione, urlo, pelle che brucia. E quando è donna, questo processo assume un significato ulteriore: è il ritorno alla carne, al diritto di sentirla, usarla, viverla senza essere giudicata o moralizzata.
“Le donne furono chiamate lupi per millenni. Il che dimostra che gli uomini sapevano benissimo cosa fosse un lupo.”
— Clarissa Pinkola Estés
Femminismo, metamorfosi e potere
Autrici contemporanee come Angela Carter, Tanith Lee e Kelley Armstrong hanno recuperato la figura della licantropa non come mostro, ma come archetipo di potere e rinascita. Carter, nel suo racconto The Company of Wolves (1979), reinterpreta Cappuccetto Rosso in chiave erotico-femminista: non più preda, ma colei che decide di spogliarsi e accogliere la bestia, in un gesto di consapevole abbandono all’istinto.
In Wolf (2008) di Gillian Cross, la protagonista adolescente scopre che la trasformazione del corpo non è una maledizione, ma una forma di forza ancestrale che riscrive le regole della vulnerabilità. E in Women Who Run With the Werewolves (titolo volutamente parodico ma significativo) appaiono raccolte di racconti scritti da donne che esplorano proprio la relazione tra genere, metamorfosi e potere.
In queste narrazioni, il lupo non è nemico ma compagno di strada. Non è qualcosa da temere, ma da comprendere, assecondare, interiorizzare. L’ibridazione tra umano e bestiale non è perdita di umanità, ma ampliamento dell’identità.
Alcuni titoli da leggere
Se vuoi esplorare questa tematica attraverso la narrativa, ecco alcuni titoli che affrontano il mito del licantropo in chiave oscura e profondamente femminile:
Angela Carter, The Bloody Chamber (1979) – In particolare il racconto The Company of Wolves, ispirato alla fiaba ma intriso di erotismo e consapevolezza.
Patricia Briggs, Moon Called (2006) – Una serie urban fantasy con una protagonista forte e indipendente che vive (e subisce) la sua natura di mutaforma.
Stephen Graham Jones, Mongrels (2016) – Anche se non centrato sul femminile, è una delle riletture più originali e crude del mito licantropo.
Kelley Armstrong, Bitten (2001) – Una delle prime serie ad avere una licantropa donna come protagonista, in lotta con il branco e con sé stessa.
Tanith Lee, Lycanthia (1981) – Un fantasy gotico che mescola desiderio, metamorfosi e decadenza.
Ginger Snaps (film, 2000) – Non un libro, ma imprescindibile per chi vuole esplorare la licantropia come metafora della pubertà femminile.
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Siamo noi

Non gli parlo quando ci sono gli altri. Lo tengo, lo lavo, lo vesto. Lo allatto. Ma senza voce. Mi fa paura il suono che potrebbe uscire. Non sarebbe per lui. Sarebbe per chi guarda, per chi pensa che dovrei saperlo fare o almeno fingere bene. Ma quando siamo soli, allora sì. Gli parlo con quello che mi resta da dirgli. Non sono parole. Sono bolle che mi salgono dallo stomaco e si fermano qui, sotto la lingua. Sento che lì c’è tutto. I farmaci benedetti dal medico, la rabbia, la vergogna. La paura. I suoi occhi, che paura. La bestia che ho addosso da quando l’ho fatto uscire da me. Ma lui fa quello che sa fare meglio, si attacca al seno come a una radice. Non mi conosce e io non conosco lui. Non so cosa sente. Ma ci provo. Appoggio la bocca sulla sua testa molle, seduta per terra sotto la finestra, e faccio un suono. Uno solo. Un gemito che viene da prima, da lontano. Mi viene su come il vomito. Come la voglia di piangere quando non puoi. E glielo do, come riesco, col fiato, col sangue, col peso del tramonto. Glielo do sperando che arrivi, che qualcosa passi. Che dentro quel suono ci sia il ponte. Se potessi, mi caverei la lingua e gliela metterei nelle manine sempre sudate, così capirebbe. Se potessi, mi aprirei in due e lo farei tornare dentro, solo per spiegarmi meglio, perché di sicuro quello che devo raccontargli di me, quello che conta davvero, è lì, tra costole e polmoni. Ma posso solo stringerlo. Sotto la lingua ho un grido che non ha imparato a farsi sentire. Una preghiera senza santi, senza chiese, senza niente. Solo mia. Solo sua. Io non so se è amore questo. Non è come me l’hanno detto. Non ha fiocchi, non ha luce, non ha festa. È fame. È notte. È buio che cola. Ma lo sento. Che dentro il mio corpo esiste una lingua che sa. Una lingua che sa solo di latte, lacrime e saliva, e che può funzionare per entrambi. E quando gliela passo, da areola a gengiva, sopra e sotto la sua, di lingua, in uno schizzo denso di miracoli e proteine, per un attimo mi sente.
Per un attimo, siamo noi.
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Estasi Americana, di CJ Leede

Porca. Miseria.
Ho AMATO Estasi Americana. Mi ha assalita alla gola e non mi ha mollata fino all’ultima pagina. Sono stata trascinata in un’apocalisse allucinata fatta di sangue, desiderio e senso di colpa, e mi sono sentita meravigliosamente "costretta" a guardare negli occhi tutto quello che la società – e la religione – ci ha insegnato a tenere nascosto.
Facciamo un passo indietro. Sophie è una ragazza cattolica, cresciuta in una famiglia dove la purezza è più importante della verità, dove il sesso è peccato, dove tutto ciò che ha a che fare con il corpo e il desiderio è contaminazione. E poi arriva il virus. Un’epidemia che trasforma le persone in creature guidate da una lussuria feroce, deumanizzata, incontrollabile. E improvvisamente, tutte le cose che Sophie aveva imparato a temere si materializzano, le saltano addosso, le invadono il mondo – e l’anima.
Quello che C.J. Leede fa con questo romanzo è brutale e geniale. Prende il trauma religioso, quello che ti cresce dentro piano piano e ti spezza, e lo trasforma in un incubo collettivo. Le mani rosse dei contagiati, la febbre, il luccichio negli occhi, il vento incessante, il senso costante di contaminazione fisica e spirituale, i grovigli di corpi malati, assatanati e lussuriosi, l'evoluzione bestiale di un contagio che arriva travestito da castigo divino, i rimandi all'ecosistema dantesco: sono tutte immagini potenti, simboliche, letterali e viscerali insieme. Estasi Americana è un romanzo horror, sì – ma è anche un percorso di sopravvivenza interiore. Un rito di passaggio sanguinoso, impietoso, che parte dal corpo per arrivare all’identità.
Il linguaggio di Leede è, come sempre, un coltello: affilato, preciso, crudo. A differenza di Maeve Fly, che avevo trovato più compiaciuto, quasi teatrale nella sua provocazione, qui la scrittura è precisissima. Viva, sincera. Non c’è pretesto, non c’è maschera. C’è una ragazza che perde tutto – e poi inizia a trovare sé stessa, tra rovine e gemiti, tra colpe imposte e libertà conquistata a graffi e morsi. Sophie è una protagonista che ho apprezzato molto: non è un’eroina, non è una sopravvissuta da copertina. È una ragazza che si sporca, sbaglia, odia, desidera, e che attraversa il fuoco per smettere di sentirsi sbagliata. Di sentirsi in colpa per quello che è, per quello che vuole. Ogni passo nel suo viaggio è contaminato da ciò che ha vissuto – l’ignoranza forzata, l’abuso travestito da educazione, la vergogna inculcata come fede. E ogni passo la porta a una versione di sé più libera, più potente, più vera. Anche – soprattutto, non ci si salva mai da sol* – grazie alle persone che incontra durante il suo viaggio "della speranza" per cercare il fratello gemello, Noah. Da Maro a Helen (quanto cuore, per questa personaggia), da Cleo a Wyatt. E Ben. E IL CANE.
Il romanzo tocca temi durissimi: violenza sessuale, colpa, repressione, autodistruzione. Ma non lo fa mai con compiacimento. Ogni scena è parte di una costruzione, ogni trauma è trattato con un’urgenza reale, mai come semplice shock. C’è un dolore che pulsa in ogni pagina – e non è solo quello dei personaggi, è quello di chi scrive. Si sente, si percepisce, ti attraversa.
Estasi Americana è anche, ovviamente, una feroce critica alla cultura patriarcale e religiosa che da secoli mette la colpa sulle spalle delle ragazze. Sophie cresce in un mondo che le ha insegnato che tutto ciò che la riguarda – dal sangue del ciclo ai sogni erotici – è sbagliato, contaminato, peccaminoso. E proprio per questo il virus, con la sua iper-sessualizzazione virale e incontrollabile, è l’arma narrativa perfetta per demolire quella costruzione. È tutto simbolico, e insieme letteralmente terrificante. Una fusione riuscitissima tra body horror, religioso e apocalittico.
Sì, a tratti può sembrare eccessivo. A tratti, alcune riflessioni appaiono semplicistiche, soprattutto verso la fine, quando il processo di “de-costruzione” accelera bruscamente. Ma è esattamente così che funziona la presa di coscienza, se vieni da un contesto simile. Quelle “banalità” non lo sono, se sono le prime che riesci finalmente a dire ad alta voce. Ci sono semplicemente un paio di punti, a questo proposito, che mi hanno lasciata un po' perplessa. Si fa spesso riferimento alla passione di Sophie per la lettura: ha letto molto, anche e soprattutto libri "proibiti", con l'aiuto della bibliotecaria della sua piccola cittadina. Si parla a un certo punto, addirittura, di Ursula Le Guin. Si parla di Dune. Voglio dire, la lettura di certi libri porta, per forza di cose, a un'apertura mentale e a un allargarsi degli orizzonti. Si parla anche di decine e decine di manuali, che Sophie ha letto, e che la renderebbero quindi, almeno a livello teorico, piuttosto "skillata" su certi temi e ambiti. Eppure... Sophie sembra nata l'altro ieri, nel suo approccio alla realtà. Non conosce nulla del mondo vero e delle persone. Il che ha totalmente senso, ovviamente, considerando il modo in cui è cresciuta e il trauma religioso. Ma è un atteggiamento incompatibile con le sue abitudini di lettura. O è una cosa, o è l'altra. Ho trovato quindi che la menzione alla sua passione per la lettura cadesse un po' nel nulla e generasse un controsenso piuttosto forte. Un altro punto che mi ha lasciata un po' perplessa è questo: Sophie ha alle spalle sedici anni di educazione ultra-cattolica. Dovrebbe avere, a questo punto della sua crescita, il cervello fritto. Eppure, ha una visione "critica" della religione e degli insegnamenti che ha ricevuto. Sì, chiaro, c'è di mezzo il fattaccio del fratello, ma comunque, mi è parso strano. Il che ovviamente ce la rende fin da subito piacevole, interessante e "simpatica", ma temo che qui sia più Leede a parlare che una sedicenne attanagliata dal trauma religioso. Avrei trovato estremamente avvincente leggere il pov di una bigotta vera, che si evolve e cambia drammaticamente nell'arco del libro. Ma è un di più, ho comunque amato moltissimo Sophie.
Chiudo. Questo libro non è per tutti. È disturbante, viscerale, politicamente esplicito, sessualmente violento. Ma è anche profondamente catartico. E per chi è cresciutə in una cultura della vergogna, del silenzio e del controllo, può diventare un’esplosione liberatoria. Un’epifania rabbiosa. Ho chiuso il libro con le mani tremanti e il cuore che batteva a mille. Non tanto per l’orrore – che c’è, ed è tanto – ma per la potenza emotiva che Leede è riuscita a incanalare. Bomba.
Vabbè, si è capito e l'ho già detto, l'ho adorato. Davvero. Leggetelo. LEGGETELO.
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Diario dal Mondo Osso, Diletta Crudeli

All’inizio sembra una storia sospesa, dolceamara, quasi un coming of age dalle tinte lievemente gotiche, perfetto per un pubblico per lo più molto giovane. Ma poi qualcosa si incrina e precipita. O risale? E da lì, inizia il vero viaggio: non verso l’età adulta – quella dei compromessi – ma verso una versione di sé più viscerale, più autentica, più feroce. Più vera.
Il passaggio dall’adolescenza all’oscurità è graduale e potentissimo. Come se il diario, pagina dopo pagina, diventasse un portale che inghiotte tutto: innocenza, paura, sogni, desideri, ricordi e li restituisse trasformati in una consapevolezza nera, ancestrale, viva. Lo stile è un misto ipnotico tra poesia e confessione: onirico, ma mai etereo; crudo, ma mai gratuito. Il linguaggio è perfettamente aderente ai personaggi adolescenti: pulsante, a tratti spigoloso, sempre autentico. Ti sembra di leggerli pensare, sbagliare, scoprire sé stessi e il mondo osseo che si portano dentro.
A livello di atmosfera, mi ha ricordato Hereditary nelle sue derive più esoteriche – soprattutto nel finale – e Il labirinto del fauno per la commistione tra incubo e fiaba contorta, dove il confine tra realtà e simbolo si sfalda, si mescola, si fa labirinto psichico. Una scelta che ho adorato.
E se all’inizio poteva sembrare un romanzo quasi solo per lettori più giovani, come dicevo, da metà in poi il libro affonda le mani nel buio. Si fa cupo, disturbante, profondamente dark. E lì, secondo me, raggiunge il suo apice. Perché non si tira indietro. Perché osa. Perché accoglie la rabbia, il dolore, la fame di senso e identità che spesso accompagna la crescita, soprattutto quella femminile.
Gli ultimi capitoletti, poi, sono un colpo allo stomaco e al cuore. Un inno a una feminine rage dalle tinte oniriche, alla presa di coscienza di sé come creatura potente e inascoltata, che finalmente si guarda allo specchio e sceglie di diventare. Hanno una forza viscerale che mi ha commossa davvero.
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Traduzione: /
Editore: D Editore
Pagine: 160
Anno di pubblicazione: 2025
Autrice: Diletta Crudeli
VOTO: ★★★★☆
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Nocciolino

-Come cazzo ti è venuto in mente di portare un coniglio a fare una passeggiata in montagna?- -È un coniglio. La montagna è il suo habitat!- -È un coniglio nano domestico. Il mio salotto era il suo habitat!- Mi schiarisco la voce per annunciare la mia presenza e i due si irrigidiscono come scope. Chiudono la bocca e fanno finta di nulla, aspettano che io appoggi le due pizze sul tavolo e poi sibilano un ‘azie. Verdure grigliate per lei, scamorza e salsiccia per lui. -Di nulla, torno tra poco con le vostre patatine- La tipa schiocca la lingua, in quel tloc umidiccio sento tonnellate di cinismo e frustrazione. Il tipo mi lancia un’occhiata disperata, come se insieme alle patatine fritte con buccia e maionese io possa portargli anche un razzo da infilarsi tra le gambe, da cavalcare per sparire da lì. O del cianuro. Ma io posso portare solo le patatine, con buccia e maionese. Torno in cucina. A quest’ora, è un inferno di calore, malumore, unto e barattoli ribaltati. Tani sta dando una lavata ai piatti e al lavabo, La’ scorre le ultime ordinazioni, Panzo è imbambolato davanti al forno a legna, con la faccia sudatissima e rossissima. -Oh- gli dico, -ci sono due che litigano- -Ok- risponde. -Secondo me tra poco quella gli pianta una forchetta in gola- -Ok- -Ma mi ascolti?- Panzo spalanca il forno e, con un colpo secco di pala, fa scivolare fuori una pizza coi würstel che frigge ancora ai bordi. La deposita su un piatto, poi si gira, infila la mano nel cestello della friggitrice, scuote le patatine per far colare l’olio in eccesso e le rovescia in un finto foglio di giornale. -Qui c’è gente che litiga tutti i giorni- dice. -Sì, ma quello le ha perso il coniglio, credo- afferro il piatto della würstel e metto patatine e maionese in un vassoio. -Eh?- -Penso che il tizio abbia portato il coniglietto della tipa in montagna e lo abbia perso- Panzo fa spallucce e torna a farsi cuocere la faccia dal forno. -Sono animali stupidi- borbotta, -mia sorella ne aveva uno che è schiattato dentro l’asciugatrice- Ridacchio, anche se un po’ l’idea mi fa tristezza. Esco dalla cucina, vassoio delle patatine in una mano e pizza nell’altra, e vado dalla coppia. Lui sta scuotendo la testa tipo quelle bamboline con il collo a molla che si appiccicano sul cruscotto. Lei parla a raffica, usa le dita per elencare qualcosa. Il pollice e l’indice sono già alzati, ora tocca al medio. -... e te ne sei stato tutto il matrimonio in pantaloncini cachi e ubriaco come una merda- -Dimmi cosa avrei dovuto fare- lui spalanca le braccia, -tu non chiedi, dai ordini, e tutti devono dire di sì- -Te l’ho affidato perché Nocciolino piaceva pure a te!- -Questo l’hai deciso tu, come hai deciso che dovevi per forza andare a Porto con Michela- Un altro colpo di tosse, mio. Si bloccano, loro. -Ecco le patatine- Un ‘azie, di nuovo. -Prego, buon appetito-
Non dicono nulla, lei non schiocca la lingua, lui non mi guarda. Se ne stanno lì, con gli occhi piantati sulla tovaglia. Faccio un cenno e vado a consegnare la würstel due tavoli più in là. La mollo davanti a un bambinetto che la guarda come se quei pezzetti di insaccato custodissero il segreto dell’universo intero. -Dì grazie- sua madre gli sfiora il braccio. -Grazie!- lo urla a pieni polmoni. La donna rotea gli occhi e mi dà uno sguardo dispiaciuto. -Va davvero matto per i würstel- Annuisco con un sorriso e torno in cucina. Panzo sta bestemmiando davanti a una confezione di carciofini sott’olio. -Lo giuro cazzo, gliela faccio togliere dal menù, la carciofi. Fa troppo schifo questa roba- -A me piace- dico. -Tu non capisci una sega- -Credo che glielo avesse lasciato da badare- -Eh?- -Il coniglietto. Credo che lei fosse andata via e che lui dovesse fargli da babysitter- -Peppe, ma chissenefrega!- -Boh, non posso non ascoltare- Panzo fa spallucce e torna a bestemmiare sui carciofini. Faccio spallucce anche io. Vado nel corridoio del retro, prendo una sigaretta dalla mia giacca appesa e apro la porta antincendio che dà sui cassonetti. Panzo ha ragione, ovvio. Vediamo litigate da paura quasi un giorno sì e uno no. I venerdì sera sono i peggiori, seguiti dai mercoledì. Ma oggi è un giovedì e c’è qualcosa nello scazzo tra il tipo e la tipa che mi rosicchia lo stomaco. Forse è Nocciolino. Su che montagna lo ha portato? Aveva un guinzaglietto? Perché è scappato? È un cuccioletto o un coniglio vecchio? Dove è ora? Magari se ci tornano insieme lo trovano. Magari lo trovano sotto un cespuglio, tutto felice e con un mucchio di bacche in bocca. Magari lo trovano spolpato da un falco. È giovedì. Spengo la sigaretta contro il muretto e torno dentro. Quando mi affaccio di nuovo in sala, con una quattro formaggi e una prosciutto cotto tra le mani, vedo che il tipo se n’è andato e la tipa è ancora lì. Ha la faccia nascosta dai capelli, ma da come se ne sta tutta curva e tremante credo proprio stia piangendo. Mi avvicino. -Tutto bene, signorina?- Lei alza il mento e mi guarda. Sì, sta piangendo. Tira su con il naso, si asciuga un po’ di moccio con il dorso della mano. -Sì. No. Scusa, no, non va tutto bene. Scusa, sono un disastro- Non dico nulla. Lei tira su di nuovo con il naso. -Come faccio ora senza di lui?- -Il tuo ragazzo?- -Il mio coniglio-
Mi guarda fissa con occhi acquosi, come il bambino con i würstel, come se potessi risolverle la serata e magari anche la vita. Vorrei dirle che non ho una risposta e che non è affatto un disastro, anzi, quelle lacrime la rendono molto più bella e vera di quanto lo fosse dieci minuti fa, quando se ne stava tutta incazzata e rigida e lagnosa a elencare i motivi per cui il suo tipo è un coglione. Vorrei dirle che alla fine andrà tutto bene, con o senza coniglio. Anzi, dovrei proprio dirglielo. Quello che però le dico è questo: -Conosco uno che aveva un coniglio che è schiattato nell’asciugatrice. Magari il tuo coniglio è ancora vivo, felice là fuori. O magari è morto, ma sicuramente è morto meglio che in un’asciugatrice- Lei strabuzza gli occhi e quasi si soffoca. Apre la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiude. La apre di nuovo e la chiude di nuovo. Si incupisce e torna a essere rigida come una scopa. Si infila il cellulare in tasca e si alza. -Ma vaffanculo- dice. -Buona serata- rispondo. Porto la quattro formaggi e la prosciutto cotto al tavolo vicino al cesso e torno in cucina. Panzo se ne sta a braccia incrociate, con la schiena appoggiata al lavabo e fa il cretino con La’. Tani ha iniziato a spazzare il pavimento. Quando passo vicino al forno, Panzo ghigna. -Novità, da quelli del coniglio?- -Panzo, alla fine, chissenefrega-
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Che succede ora?

Il mio 2025 narrativo è e sarà per lo più avvolto attorno a Malfatta – un sequel-prequel di Cuorespina che affonda le radici nel passato inquieto della famiglia Malfatti.
Chi ha letto Cuorespina si ricorderà forse di Violante. Bene: Malfatta racconta la storia di sua zia, Costanza, e del suo legame velenoso e incandescente con Achille Miglio – sì, quel don Miglio. Quello che si muoveva tra riti e tormenti con la nonchalance che solo un demonietto può avere.
Anche in questo caso ci troviamo a Bosconovo, però nell'anno domini 1860. E il cuore nero del romanzo è l’alchimia. Alchimia di simboli, corpi, desideri, potere, trasmutazioni e disastri. Questo sarà il mio progetto principale almeno fino alla fine dell’estate. Lo sto scrivendo con la calma, la lentezza e la cura che merita. Perché merita.
Nel frattempo – perché c’è sempre un frattempo – sto ultimando una raccolta di racconti che avevo cominciato a imbastire tempo fa:
Storie brutte per ragazze strambe.
Otto racconti brevi, pieni di horror e grottesco, con dentro rituali magici contemporanei, corpi in rivolta, femminilità ambigue, mostruose, ironiche, stanche, furenti. Alcuni pezzi li ho già condivisi qui su Tumblr, sparsi come bricioline di pane di segale (tipo, guarda qui e qui e qui). Ora sto sistemando tutto e preparandoli all’editing.
Spoiler: se non dovessi riuscire a trovare una "casa" editoriale per Storie brutte per ragazze strambe, credo proprio che proverò a pubblicare la raccolta in autonomia, perché mi sono gasata troppo a scrivere quei racconti, sono contenta di averci lavorato e vorrei condividere il tutto con voi, in una veste top.
Sempre verso la fine del 2024, in un momento di grande fregola (termine tecnico), avevo cominciato a scrivere quella che pensavo sarebbe stata una novella.
Si intitola Legno & Sangue e racconta di un collegio francese alla fine del Settecento, una specie di prigione dorata dove si puniscono e si rieducano le figlie "guaste" della nobiltà, quelle accusate di covare in loro il germe della stregoneria.
Solo che… sorpresa: non sarà affatto un lavoro brevissssssssimo come avevo prospettato. Sarà un romanzo breve (forse). Per ora è in stand-by fino a dopo l’estate. Ma se vi piace la vibe delle streghe maledette, della disciplina che si fa tortura, della vendetta che cresce in silenzio – ci sono già degli spezzoni qui:
🔗 scrivosempreciao.tumblr.com/tagged/legno&sangue
(leggeteli con clemenza: sono bozze work in progress, piene di refusi e brutture da spazzolare via più avanti).
E poi, perché non riesco a starmene buona un attimo, ho messo in cantiere anche un’altra novella (o così dico io, poi chi lo sa): la storia di una licantropa queer nell’Italia di fine anni ’80. Una buttafuori in un bordello. Una donna-lupo, tra Riviera Romagnola, sesso, rabbia e autodifesa. Per adesso sto prendendo questo lavoro come un esercizio di stile, una palestra narrativa per mettere alla prova una voce diversa dal mio solito, ma magari diventerà qualcosa di più. Vedremo.
Mi piacerebbe pubblicarne qualche spezzone, appena avrò trovato la chiave giusta.
Tutto questo per dire: sto scrivendo, tanto. Sto cercando di costruire nuovi mondi, nuove storie e voglio lasciare che mi feriscano un po’, che mi facciano male mentre tengo la penna stretta tra le dita, perché è quello il bello. Almeno, per me.
Grazie, come sempre, a chi legge, commenta e trova il tempo per darmi un feedback su ciò che condivido qui e su Instagram. La vostra partecipazione non è scontata. Non lo sarà mai.
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Creepy Mickey Mouse

«Lo trovo un lavoro davvero flat. Il cliente si aspetta una strategy disruptive, questa non lo è. Sistemala, mi serve per domani.» Ero già in apnea. Credevo di essere dentro, invece ero fuori. Bastava solo stringere i pugni e rompere tutto.
***
La saletta riunioni d’angolo è un acquario senza pesci: vetri puliti male, pareti rosa pancia di porcellino, un odore di toner fritto che si appiccica addosso. Gianluca fa avanti-indietro con il suo mocassino di pelle vegetale — Alla fine sono pure più fighe — picchietta sulla scrivania IKEA e dondola la statuetta del topo mentre parla, quella sottospecie di creepy Mickey Mouse partorito da un qualche designer fighetto americano che di solito tiene sull’ultimo piano della libreria Pallucco come un idolo sacro — Che bbbbbomba, me l’ha venuto a poco e un cazzo un tizio su Subito, pensava fosse un giocattolo. Io annuisco, annoto, nascondo sotto il palmo della mano il tremore di una vena sulla tempia. Sono dieci giorni che dormo a scatti: ping a mezzanotte, meeting alle 8. Quando chiudo gli occhi sogno di essere ghigliottinata da una scheda di Trello, slide con bullet point tutti rossi — gocce di sangue che colano dalle mie unghie spezzate a furia di pigiare Command+Z. Ho la mandibola irrigidita dal bruxismo, il collo in fiamme, due afte, Mila e Shiro, che mi mordono le gengive a furia di calarmi caffè misto a Red Bull. Lui continua: brand essence, purpose, omnichannel e altre parole che un tempo mi sembravano preghiere dolcissime ma che ora suonano come bestemmie. Magari lo fossero. Io penso soltanto a come sarebbe far saltare quel cranio ben pettinato con qualcosa di pesante. Un pensiero che rimane impigliato lì, nel retro del cervello, nei miei desideri bagnati più eccitanti, finché non mi ritrovo il topastro per le mani. Gianluca me lo porge, ridacchiando.
«Tattile, vero? È quasi un antistress. Dagli una bella palpata» Lo stringo, ne sento il peso. Qualcosa fa una capriola nel mio stomaco. Fine riunione, lui mi concede una pacca sulla spalla — «You got this» — e punta il cesso per svuotare la vescica da almeno uno dei tre smoothie proteici che si è sparato. Io resto ferma immobile, seduta, con il creepy Mickey Mouse in grembo. Respiro. Mi godo quei cinque minuti che posso trascorrere senza di lui. Uno schizzo di paradiso che separa l’inferno delle giornate in ufficio dal doppio inferno delle serate passate a schiena storta davanti a Keynote. Uno schizzo di paradiso che cola dagli schizzi di piscio del mio capo. Quando rientra, è già pronto a parlare di nuovo. Ha la bocca aperta e gli occhietti stretti. «E, cazzo, cambia palette, per la prese. È una bella merda ora. Rischiamo di farli vomitare.» Lì, la vena sul mio collo scoppia.
Splat.
Lo schianto della statuetta a forma di topo contro il cranio di Gianluca produce un suono umido e sorprendentemente duro al tempo stesso. Altro che antistress, l’avevo capito. Sembra morbido, sì, tipo uno di quei pupazzetti plasticosi che ti rifilano come gadget insieme ai fustini di detersivo. La larga porzione di pelle che salta via dalla tempia del mio capo, accompagnata da un generoso schizzo di sangue denso e scuro, dice tutto il contrario. «Che cazz—» Gianluca strabuzza gli occhi e crolla sul fianco. Si accascia sulla scrivania per un attimo e poi scivola per terra. «Questo sì che è disruptive.» Mi rigiro il brutto Mickey Mouse punk di design tra le mani mentre Gianluca geme e si rotola sulla schiena, come uno scarafaggio ribaltato. Gocce di sangue colano sul verde-giallo fluo del pupazzo. Non saprei dire se quel mix di colori sia un pugno nell’occhio o un accostamento azzeccato. In fondo, Gianluca non mi ha affibbiato il nomignolo Gusto di Merda per nulla, no? Meno male che sei qui per fare altro, dice sempre, se ti occupassi di grafica sarebbe un disastro. Sicura di non essere daltonica? Fai una visitina. Faccio spallucce: non sono una che molla i progetti a metà, ora sono nel flow. Mi chino sul corpo agonizzante, mi metto a cavalcioni su di lui e gli assesto un altro colpo in piena fronte.
Splat.
Questa volta la pelle non salta; si affossa su se stessa, creando una piccola conca tra un sopracciglio e l’altro. Lo scricchiolio croccante della frattura fa il paio con un gemito strozzato. «Ho pensato che un approccio hands-on potesse funzionare,» faccio un bel respiro e calo di nuovo il topastro di design, affondando una delle orecchie nell’altra tempia di Gianluca. «Sai, mani in pasta, per noi che stiamo sempre davanti al computer è un toccasana sporcarsi un po’, un ritorno alla real life.» Gianluca mi risponde con un gorgoglio bollicinoso di saliva mista a sangue e muco. Boccheggia e prova a sibilare qualcosa, ma non esce nulla di sensato dalle sue labbra, solo altre bollicine. «Lo dici sempre anche tu, no? Non siamo come quei pipponi milanesi che se ne stanno chiusi in ufficio all day long, qui siamo tutti amici, siamo innovativi, ci divertiamo al lavoro, siamo sexy cool.» Un altro affondo. Manco il bersaglio e il colpo gli fa saltare via mezzo occhio destro. Una parte del bulbo smargina dall’orbita con un suono che mi ricorda le uova sbattute. «Ops.» Ci riprovo: faccio centro ed è in quel momento che vedo la vita scivolare via dai muscoli della sua faccia troppo rotonda per lasciare spazio a un nulla flaccido e molliccio. Morto. Gianluca è morto. Game over. Mi guardo attorno, ancora a cavalcioni sulla sua pancia coperta dalla polo SUN68 viola che lui trova — trovava? Sì, trovava. Bye bye Gianlu — tanto divertente. È proprio il brand degli imprenditori lumezzanesi che stampano piombini, la metto con ironia eh. La Pallucco è stracolma di tutti gli oggetti che Gianluca ama — amava — accumulare in ogni angolo dell’ufficio su cui può — poteva — avanzare pretese di dominio. Il suo modo di pisciare ovunque quell’insostenibile desiderio di essere un ceo giovanile e diverso da tutto e tutti. Mi alzo e mi avvicino per osservarli meglio, con il topastro ancora stretto tra le mani. Il sangue di Gianlu cola sul gres nero e lascia una scia tipo bava di lumacone. Lo trovo quasi poetico, questo collegamento vivo e organico tra lui e i suoi oggettini. Devo tenerlo a mente, potrebbe tornarmi utile per una prossima idea di guerrilla marketing. Un Millennium Falcon di Lego grande quanto un grasso Beagle. Una serie di spigolosi diti medi di cera della Candle Hand. Un umarell rosso di Superstuff. Un cofanetto di tutte le stagioni di Lost, di almeno due chili. I miei bambini, dice — diceva — lui. Armi, penso io. Oggetti dotati di molte parti appuntite e contundenti. Design al servizio della vendetta. Esco dall’acquario senza pesci e vado in bagno. Nell’aria striscia ancora la puzza della pisciata di Gianluca, quell’odore inconfondibile di urina mista a latte e mirtilli. Provo a lavarmi le mani: Il sapone neutro combatte male l’aroma del sangue ma almeno toglie le macchie grosse.
Sotto il neon tremolante ritocco il rossetto e sistemo la frangetta. Guardo il mio riflesso: non mi sono mai vista così bella. Rientro nella stanza, mi piego sul Mac chiazzato di sangue e inizio a chiudere i triliardi di programmi di lavoro aperti. Ci-ci-cik. Ci-ci-cik. Ci-ci-cik. Il mio portatile esplode in una sassaiola di notifiche di Slack e io scatto in piedi, come se il mio corpo dovesse rispondere a un riflesso pavloviano. Lascio andare il creepy Mickey Mouse e questo atterra con un tonfo sul naso a patata di Gianluca. Mi avvicino alla scrivania, mi chino sullo schermo e cerco l’app: tre notifiche, tre nuovi messaggi indirizzati a me. Le mie dita ricoperte di sangue si muovono scivolose sul trackpad mentre scorro tra le varie chat e canali.
Eccolo lì, Fabio. L’altro capo. L’altro ceo sexy cool. Mi ha taggata nel canale gestione-spazi. >@martinamel Raga, vi ricordo che oggi ci sono clienti in ufficio. >@martinamel Meno casino, please. >@martinamel Vi si sente fino a qui, non è carino. Dopo ne parliamo. Digito la mia risposta e premo invio. >@fabBoss Sorry, abbiamo finito. Anzi, vi raggiungo. Il mio sguardo torna subito sul grosso e pesante e appuntito Millennium Falcon.
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Le Ragazze di Urania Cottage, di Stacey Halls

Mi è piaciuto… ma mi è anche un po’ scivolato via.
Le premesse erano super affascinanti: una casa-rifugio voluta da Charles Dickens per salvare ragazze “difficili” nella Londra vittoriana? Basato su fatti storici reali? Praticamente già nelle mie corde. E infatti l’ho iniziato con parecchio entusiasmo.
Però… non lo so. Ho come la sensazione di aver perso il senso vero dell’intera storia. O che mi sia stato solo sussurrato, senza mai afferrarlo davvero. Lo stile mi è sembrato molto trattenuto, quasi timido, e non ho percepito una vera distinzione tra i vari punti di vista. Tanti spiegoni, tante descrizioni interne ripetute, e parecchi elementi lanciati lì (tipo i nomi delle ragazze dell’Urania Cottage oltre a Josephine e Martha, ognuna con un minimo accenno di caratterizzazione che sembrava promettere approfondimenti… ma poi nulla).
Anche la trama in sé non ha momenti particolarmente forti o memorabili. A parte un colpo di scena (che arriva piuttosto tardi), succede poco e tutto in modo piuttosto piatto. Non dico che servano cliffhanger a ogni capitolo, figuriamoci, ma qui mancava proprio il senso di scossone emotivo, che in un romanzo così avrebbe potuto fare la differenza.
Detto ciò: non è tutto da buttare, anzi. Alcune pagine mi hanno davvero toccata. Ci sono momenti in cui la scrittura si apre un po’ e lascia spazio alla commozione, alla fragilità, alla forza delle ragazze e di chi ha cercato di aiutarle. Il contesto storico è ricostruito con cura e il tema resta importantissimo, soprattutto oggi.
Insomma: un libro che sono contenta di aver letto, ma che mi ha lasciata con un “meh” addosso. Forse mi aspettavo qualcosa di più coinvolgente, più vibrante, più… vivo.
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