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#Generazione Settanta
marcogiovenale · 1 year
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audio integrale della presentazione di "generazione settanta", di miguel gotor @ piper club, 26 mag. 2023
Presentazione del libro di Miguel Gotor, Generazione Settanta. Storia del decennio più lungo del secolo breve (1966-1982), Einaudi, 2022. Al Piper Club, 27 maggio 2023. Lettura di Alessandra Vanzi, interventi di Marco Giovenale., Maria Teresa Carbone, Andrea Cortellessa, Giuseppe…
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fotopadova · 1 year
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Walker Evans. Parte terza: grandezza e contraddizioni
di Paolo Felletti Spadazzi
 --- Un nuovo modo di vedere
-- Quando ci narra la storia della fotografia in America, Susan Sontag (Sontag 2004) inizia con una citazione di Walt Whitman (1819-1892), il padre della poesia americana, secondo il quale "ogni oggetto o condizione o combinazione o processo esprime una sua bellezza". Secondo Sontag "la fotografia americana è passata dall'affermazione all'erosione e da questa alla parodia del programma di Withman. Il più edificante personaggio di questa storia è Walker Ewans", la cui poetica."deriva ancora da Whitman, e precisamente dall'abbattimento delle discriminazioni tra bello e brutto, tra importante e banale". Questo modo di vedere ricorda una citazione del Talmud che Guido Guidi ama ripetere: “Ovunque tu guardi c’è qualcosa da vedere”. Walker Evans ci insegna a vedere in modo diverso le cose di ogni giorno, un po' come fece la pop art negli anni '60, usando oggetti quotidiani come le bottiglie di Coca Cola o le lattine di zuppa al pomodoro.
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A sinistra: Walker Evans, Griglia per  camion,  Connecticut (1973). A destra:. Robert Rauschenberg, Auto  con telone (1979)
 Anche il famoso illustratore Saul Steinberg (1914-1999) avrebbe affermato che Evans ha insegnato a vedere a tutta una generazione (Katz 1971).
John Szarkowski, nella sua introduzione alla retrospettiva su Evans esposta al MoMA nel 1971, scrive: "Le immagini di Evans hanno ampliato il nostro senso della tradizione visiva utilizzabile e hanno influenzato il modo in cui ora vediamo non solo altre fotografie, ma anche cartelloni pubblicitari, discariche, cartoline, stazioni di servizio, architettura vernacolare, strade principali e pareti delle stanze."
Nel 1933 il Museum of Modern Art espone "Walker Evans: Photographs of 19th Century Houses", che è la prima mostra fotografica personale allestita da un importante museo negli Stati Uniti.
Nel 1938, in occasione della celebre personale di Evans, American Photographs, sempre al MoMA, Thomas Mabry, direttore del Museo, osservava che Evans era ritenuto dai suoi ammiratori uno dei più grandi fotografi americani viventi.
Tuttavia, un incremento ancora maggiore della popolarità di Evans derivò dalla mostra retrospettiva del 1971 e dalla relativa pubblicazione, entrambe curate per il MoMa da John Szarkowski.
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1971. Copertina della monografia su  Walker Evans curata da John Szarkowski insieme alla omonima esposizione  allestita al MoMA
 A tale proposito Lewis Baltz afferma che “a metà degli anni settanta il prestigio di Evans era così assoluto da far pensare che in America non fosse possibile intraprendere alcuna ambiziosa attività fotografica senza invocarne il nome [...] Per moltissimi fotografi americani Evans è quello che Cartier-Bresson è per i francesi: un artista con un retaggio inesauribile”
Numerosi altri storici e critici collocano Evans fra i fotografi più influenti e famosi del 20° secolo (Hilton Kramer, Bruce Jackson, David Campany, Philippe De Montebello e Maria Morris Hambourg).
In particolare Hilton Kramer (1928-2016), noto critico e saggista statunitense, nella sua introduzione alla biografia di Walker Evans redatta da James Mellow (Mellow 2001), afferma che "è stato riconosciuto da lungo tempo che Walker Evans è stato in America il più grande fotografo della sua generazione. Ciò che viene riconosciuto meno spesso è che è stato anche una delle figure emblematiche nell'arte e nella cultura del suo periodo storico".
Naturalmente una personalità di spicco come quella di Evans non poteva che dividere le opinioni del suo pubblico, in particolare all'inizio della sua carriera. Ad esempio, il fotografo Ansel Adams scrisse che le fotografie di Evans gli avevano fatto venire un'ernia (Rathbone 1995).
Tra i fotografi italiani che riconoscono l'importanza di Evans per la propria formazione ricordiamo Luigi Ghirri (Ghirri 2021), che scrive "Evans è l’autore che ho amato, amo e stimo più di ogni altro e che sento più vicino. Ho visto le fotografie di Evans nel 1975, e ritengo sia stato fondamentale per il mio lavoro, per quello che avevo fatto e stavo facendo e per il suo successivo sviluppo” (Ghirri 2021).
Gabriele Basilico, parlando di Evans, affermò: “penso sia stato il mio vero grande maestro segreto, un riferimento etico e estetico che ha molto influenzato il mio lavoro” (Gasparini 2016).
Michele Smargiassi, che ha curato una recente monografia su Evans (Smargiassi 2021), lo definisce "il più misterioso, sfuggente, contraddittorio (azzardiamo: anche il più grande) dei fotografi americani".
 B/N o colore?
Secondo Oscar Wilde "La fedeltà è per la vita sentimentale ciò che la coerenza è per la vita intellettuale: semplicemente la confessione di un fallimento". E l'attività di Evans, coronata da indubbio successo, non è stata certo esente da aspetti contraddittori che accenneremo di seguito.
Consideriamo dapprima il rapporto di Evans con la fotografia a colori.
Evans sosteneva che la pellicola a colori può essere usata validamente quando la caratteristica di un soggetto è la sua volgarità e quando il colore proviene dalla mano dell’uomo.
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1958.  Architectural Forum, Color Accidents
 Anche se le fotografie più conosciute di Evans sono in bianco e nero, occorre ricordare che realizzò, tra il 1945 e i 1965, ben nove memorabili portfolio con fotografie a colori per la rivista Fortune e la serie "Color Accidents", tutta imperniata sul colore, per la rivista Architectural Forum.
Però, in un'intervista del 1971, quando Paul Cummings gli chiese se era mai stato interessato dalla fotografia a colori, Evans rispose che aveva fatto fotografie a colori in alcune occasioni, ma non lo approvava molto. E soggiunse "Perché credo che il colore non sia ancora veritiero. Inoltre credo che non ce ne sia bisogno. E che non sia nemmeno durevole".
In un'altra occasione disse che uno degli aspetti positivi del colore è la sua deperibilità.
Quando, a partire dal 1973, cominciò ad utilizzare compulsivamente una Polaroid SX-70, ebbe a dire: "Un anno fa avrei detto che la fotografia a colori era volgare. Il paradosso è una mia abitudine. Ora mi dedicherò con grande cura al mio lavoro a colori" (Mora 2004).
 Niente politica
Altri aspetti contraddittori possono essere osservati nel rapporto di Evans con la politica e, in particolare, con l'establishment americano dell'epoca, di cui si è fatto cenno anche nella seconda parte.
Evans espresse più volte le sue riserve nei confronti della fotografia che pretende di cambiare il mondo.
Tuttavia, nel 1933, all'inizio della sua carriera, Evans accetta un lavoro con rilevanti aspetti politici. L'editore J. B. Lippincott chiede a Evans di realizzare le fotografie per un libro del giornalista radicale Carleton Beals (The Crime of Cuba) che costituisce una violenta accusa agli interessi del capitalismo nordamericano, che proteggevano la brutale dittatura del presidente cubano Gerardo Machado. Alcune delle 31 fotografie che vengono scelte da Evans per la pubblicazione, tra le centinaia di scatti eseguiti, sembrano riflettere l'impegno politico del libro.
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1933 L'ultima fotografia di The  Crime of Cuba. Compaiono le scritte Abbasso la guerra Imperialista e Appoggiamo  lo sciopero dei lavoratori di sigari
 Due anni dopo Evans viene reclutato dalla Resettlement Administration, divenuta in seguito Farm Security Administration (FSA). La principale finalità della sezione Storica della FSA, dove viene arruolato Evans, è di documentare, ai politici e a tutti i cittadini americani, la povertà rurale seguita alla grande depressione del '29, anche per giustificare i conseguenti interventi governativi di sostegno. Una nota redatta a mano da Evans in tale occasione, nella quale elenca le richieste da fare al suo nuovo datore di lavoro, si conclude con la frase "NO POLITICS whatever" (Niente politica, in nessun modo).
Infine, nel 1938, in una nota introduttiva (non pubblicata) al proprio libro fotografico American Photograph, ritiene necessario precisare che le fotografie "sono presentate senza sponsorizzazioni o collegamenti con le direttive, estetiche o politiche, di nessuna tra istituzioni, pubblicazioni o agenzie governative per le quali è stato svolto parte del lavoro".
Si registra quindi un continuo tentativo da parte di Evans di dimostrare di aver effettuato le riprese in modo totalmente indipendente dalle finalità del proprio committente, anche se in certi casi come quello di Cuba, il risultato finale è stato evidentemente utilizzato anche con fini politici.
Nonostante questa asserita disaffezione per la politica, nel 1971, quando fu intervistato da Leslie Katz, Evans affermò: "All'epoca ero davvero antiamericano. (al ritorno da Parigi 1927-1930) L'America era un grande business e volevo scappare. Mi ha nauseato. La mia fotografia è stata una reazione semiconscia contro il retto pensiero e l'ottimismo; era un attacco all'establishment" (Katz 1971).
A quanto pare, quello che Lewis Baltz definisce "il più americano dei fotografi" (Baltz 2014), potrebbe forse essere stato, allo stesso tempo, il più antiamericano di essi.
Bibliografia
Baltz, Lewis (2014). Il più americano dei fotografi, in Scritti, Monza: Johan & Levi (ed. or. 2013)
Beals, Carleton (1933). The Crime of Cuba. Philadelphia: J. B. Lippincott,.
Cummings, Paul (1971), Oral history interview with Walker Evans, Oct. 13-Dec. 23, Archives of American Art, Smithsonian Institution https://www.aaa.si.edu/download_pdf_transcript/ajax?record_id=edanmdm-AAADCD_oh_212650
Evans, Walker (2012). American Photographs, New York: Museum of Modern Art (ed.or. 1938)
Gasparini, Laura (a cura di) (2016). Walker Evans. Italia, Milano: Silvana Editoriale
Ghirri, Luigi (2021). Niente di antico sotto il sole, (scritti e interviste a cura di Francesco Zanot), Macerata: Quodlibet.
Katz, Leslie (1971) in Bertrand, Anne ed. (2017). Walker Evans. Le Secret del la Photographie. Entretien avec Leslie Katz, Parigi, Centre Pompidou parzialmente riportata in: https://americansuburbx.com/2011/10/interview-an-interview-with-walker-evans-pt-1-1971.html
Mellow, James R. (2001). Walker Evans, New York, Basic Books
Mora, Gilles; Hill, John T. (2004), Walker Evans: The Hungry Eye, LondonThames & Hudson (prima ed. 1993)
Rathbone, Belinda (1995). Walker Evans: A Biography, Boston: Houghton Mifflin Harcourt
Smargiassi, Michele (ed.) (2021). Walker Evans, Roma: Roberto Koch Editore
Sontag, Susan (2004). Sulla fotografia, Torino: Einaudi, (ed. or. 1973)
Szarkowski, John (1971). Walker Evans, New York: MoMA 
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rideretremando · 9 months
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La mia generazione è cresciuta nel mito della rivoluzione. E nemmeno io sono immune dal suo fascino. Certo, non ho mai pensato che il potere dovesse essere conquistato con la violenza, come predicavano gli estremisti degli anni Settanta. Ma, anche quando ho scelto il riformismo, sono rimasto fedele all’idea che, per cambiare davvero le cose, qualsiasi riforma deve essere radicale, decisa, senza mezze misure. L’Italia va rivoltata come un calzino. 
Luca Ricolfi
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inbiancamagliadortiche · 11 months
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[...] "I segreti della mente non includono soltanto le nostre esperienze di vita personali, ma anche quelle che inconsapevolmente portiamo dentro di noi: ricordi, sentimenti e traumi che ereditiamo da generazioni precedenti” che non sono riuscite a mentalizzarli, simboleggiarli ed elaborarli adeguatamente"
“Le esperienze troppo dolorose per essere interamente comprese ed elaborate vengono trasmesse alla generazione successiva. Questi traumi indicibili e troppo dolorosi perché la mente possa digerirli, diventano la nostra eredità e influenzano i nostri figli e  iloro figli, in modi che non riescono a comprendere o controllare".
Un fenomeno che la professoressa Yolanda Gampel, della Tel Aviv University, ha definito “radioattività del trauma”, una metafora presa in prestito dalla fisica nucleare per descrivere come la radiazione emotiva, al pari di quella fisica, “si diffonde nella vita delle generazioni successive, manifestandosi in forma di sintomi fisici ed emotivi, reminiscenze del trauma [non sperimentato personalmente] e in un diffuso attacco alla propria vita”
A partire dagli anni Settanta, le neuroscienze hanno confermato quanto scoperto dalla psicoanalisi, ovvero che il trauma dei sopravvissuti e persino i segreti più oscuri, ma svelati a nessuno, influenzano davvero le vite dei figli e dei nipoti. Questi studi, relativamente recenti, si focalizzano sull’epigenetica, sull’impatto non genetico e sulle variazioni dell’espressione genetica; analizzano il modo in cui i geni vengono modificati nei discendenti dei sopravvissuti al trauma e studiano le modalità tramite cui l’ambiente, e il trauma in modo particolare, possono lasciare un’impronta chimica nei geni di una persona, impronta che viene trasmessa alla generazione successiva. Questa ricerca empirica evidenzia il ruolo fondamentale degli ormoni dello stress nello sviluppo del cervello e, quindi, nei meccanismi biologici attraverso cui il trauma si trasmette di generazione in generazione”
La possibilità e l’importanza di allargare lo sguardo alla storia familiare delle persone che ci troviamo di fronte nella stanza d’analisi permette talvolta di “affrontare il lutto e l’elaborazione del dolore che i nostri genitori non sono riusciti a sopportare e favorisce la cessazione dell’identificazione con quelli che hanno sofferto”, un’operazione delicata e difficile ma preziosissima perché “quando impariamo a identificare l’eredità emotiva che vive dentro di noi, le cose iniziano ad acquisire un senso e le nostre vite iniziano a cambiare”.
L’eredità emotiva. Una terapeuta, i suoi pazienti e il retaggio del trauma, Galit Atlas
Fonte: Stralci dall'articolo Ereditare il trauma, di Moreno Montanari, Doppiozero
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odioilvento · 2 years
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È tutto il giorno che penso a quando avevo 15 anni, sarà stato il sogno di stanotte.
Ho sognato persone con cui uscivo a quei tempi, non li vedo da anni, direi decenni, ed ho iniziato a pensare a come ci si incontrava prima.
Io che sono della metà degli anni settanta (così adesso non mi chiedete più quanti anni ho) non avevo un cellulare. Adesso scrivi un WhatsApp e concordi posto e orario, non devi telefonare. Noi no, ed era bello. Io uscivo, andavo a casa della mia amica, citofonavo e lei apriva ed usciva. Oppure uscivo ed andavo alle panchine dove ci si trovava tutti. Non ci si avvisava prima, uscivi e sapevi che lì avresti trovato gli amici. Si andava in centro a fare una vasca in corso e mentre camminavi avanti e indietro e parlavi, salutavi altri e il gruppo diventava sempre più numeroso. Anche quando si andava in vacanza dove è nato mio papà, uscivi e trovavi tutti al monumento del paese. E sapevi che se volevi vedere qualcuno da lì passava sicuramente.
Non avevamo un cellulare a testa, se volevi qualcuno andavi a casa sua a prenderlo. E se non era della città chiamavi col telefono di casa (adesso ho un telefono di casa solo per il Wi-Fi e senza suoneria per non farmi rompere dai callcenter). Avevo un duplex. La padrona di casa che abitava sopra di noi si lamentava che era sempre occupato perché io parlavo con le mie compagne di classe per spiegare loro i compiti. E ci stavo ore al telefono a parlare. Adesso fai una foto e in due minuti te la risolvi, o almeno così fanno le mie nipoti quando non sanno come fare un compito.
Quando tornavi a casa non avevi un cellulare su cui stare, non c'erano social dove perdersi, quindi leggevi o facevi quello che ti piaceva, ma sicuramente staccavi la spina e stavi un po' solo con te stesso.
Non sto parlando male della tecnologia o dei social. Sono qui a scrivere e sui social ho ritrovato persone a cui tenevo e che in altro modo non avrei potuto più contattare. Non potrei stare senza cellulare e chi dice il contrario è ipocrita. Sto solo pensando che la mia generazione è fortunata ad avere vissuto anche il prima. Penso che solo noi possiamo capire quello che abbiamo adesso e siamo grati di quello che abbiamo avuto prima.
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vocenarrante · 1 year
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"Ecce bombo" è il ritratto spietato di una generazione, quella dei ragazzi degli anni Settanta, impegnati, politicizzati, ribelli, ma profondamente insicuri e un po' complessati. Il film, il secondo di Nanni Moretti, in cui le tematiche ricorrenti nelle sue opere successive sono già tratteggiate con precisione, esce nel 1978, nel ventre rovente degli anni di piombo e i suoi personaggi sono perfettamente calati nel contesto politico e sociale di quel periodo, gravido di promesse disattese e di contraddizioni. Alcune battute sono rimaste dei cult ancora in voga oggi, tipo "Faccio cose, vedo gente" o "Mi si nota di più se non vengo o se vengo e sto in disparte?" — view on Instagram https://ift.tt/3reETfU
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realnews20 · 4 days
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Quando si pensa alla moda italiana, di primo slancio, viene in mente un mondo scintillante fatto di sfilate, boutique, shopping e dive sui red carpet. Specialmente a giugno, mese dedicato alla presentazioni delle nuove collezioni maschili tra Pitti a Firenze e la Settimana della Moda Uomo a Milano. Ma la spina dorsale del settore è costituita da distretti specializzati che hanno affinato tecniche di lavorazione uniche al mondo, dal tombolo alla pelletteria, dalla confezione degli abiti alla lavorazione dell’oro. Aziende e artigiani che tramandano quell’abilità, quel savoir-faire, che il mondo ci invidia: non è un modo di dire, visto che i colossi del lusso spesso e volentieri si affidano alle nostre realtà per rifinire o realizzare alcuni capi. Una di queste è Mantero, azienda tessile fondata a Como nel 1902 che porta avanti la secolare tradizione della stampa su seta, proiettandola nel futuro grazie a una continua ricerca tecnologica che permette di ottenere un eccezionale standard di qualità riducendo l’impatto sull’ambiente. FQMagazine ha visitato il quartier generale dell’azienda: un viaggio che collega, idealmente, Giappone e Italia, passato e futuro. La tradizione del distretto della seta La storia della lavorazione della seta, a Como, inizia già nel XVI secolo, ma è soprattutto con l’industrializzazione di fine Ottocento in Lombardia che la città diventa un punto di riferimento in Europa. Ed è proprio qui che, nel 1985, arriva il giovane Riccardo Mantero. Pochi anni dopo, nel 1902, si mette in proprio e lancia la “Ditta Riccardo Mantero”. Generazione dopo generazione, la ditta cresce, si verticalizza, investe su industrializzazione e produzione. Negli anni ’50 stringe accordi con l’allora nascente del prêt-à-porter fiorentino, negli anni Settanta debutta nel mondo degli accessori e inizia a espandersi in tutto il mondo. Nonostante l’avanzata della globalizzazione e del fast-fashion, Mantero non ha mai delocalizzato. L’azienda resta (orgogliosamente) a Como, sotto l’egida di Franco Mantero – dal 2021 presidente di Mantero Seta – e di Lucia Mantero – responsabile della divisione di sviluppo prodotto e direttrice creativa. La sfida è chiara: proteggere un’eredità immensa in un mercato della moda che va sempre più veloce. L’archivio e la collezione di Kimono Il cuore di Mantero è l’archivio – un sogno per gli amanti delle biblioteche – ed è qui che inizia il nostro viaggio. Più di diecimila volumi, tutti accuratamente catalogati, che contengono disegni, temi e fantasie che negli anni hanno ispirato creativi e stilisti. I più antichi risalgono addirittura all’Ottocento: sfogliandoli si trovano motivi così moderni che non sfigurerebbero nei nostri armadi. L’archivio non contiene solo libri, ma stampe su tessuto e 70mila foulard prodotti per le più famose maison – i cui nomi rimangono top secret, ma la lista è talmente lunga che è facile indovinare. Qui i designer possono trovare suggestioni provenienti da ogni angolo del globo. Fiore all’occhiello è infatti una collezione di 763 kimono, sotto-kimono, giacche e 70 Obi dei periodi Meiji, Taisho e Showa, che abbracciano un arco di tempo che va dal 1878 al 1945. Ogni pezzo è stato accuratamente catalogato e conservato dalla collezionista Nancy Martin Stetson. Insieme, rappresentano uno straordinario compendio delle tecniche tessili giapponesi, capaci di ottenere precise fantasie legando e torcendo il tessuto a mano. Un necessario momento di cultura, per Franco Mantero, che al Fattoquotidiano.it spiega: “Puntando solo sulla tecnologia si rischia di appiattirsi e di perdersi qualcosa. Vogliamo fare in modo che chi viene qui possa toccare, ammirare le tecniche, capire il significato dei simboli giapponesi”. Prendersi un momento per comprenderne appieno il valore, senza lasciarsi trascinare dai ritmi frenetici che il settore impone. Mantero – a buon diritto – non invia nulla dei suoi cataloghi: bisogna prendere appuntamento con l’azienda, entrare, sedersi. Dare il giusto tempo e la giusta attenzione a ciò che si guarda.
Le tecniche di stampa all’avanguardia Si dice di molte aziende che sanno coniugare “tradizione e modernità”. Nel caso di Mantero non solo è vero, ma si concretizza in un continuo lavoro di ricerca e sperimentazione, nonché in tecnologie d’avanguardia: dalla stampa inkjet alla recentissima stampa Flock, che consiste nell’applicazione di polveri di diversa natura derivate dalla frammentazione in minuscole particelle di fibre, prevalentemente di nylon e poliestere. La caduta delle polveri viene “controllata” da una floccatrice a carrello messa in linea sul carrello di stampa tradizionale, che avrà già stampato colla a disegno. Osservando i macchinari all’opera, Lucia Mantero sottolinea la volontà dell’azienda di recuperare antiche tecniche che oggi sarebbero impossibili – per il costo o perché non più in linea con gli standard ambientali – ma che sopravvivono grazie a nuovi soluzioni tecnologiche, anziché essere perdute per sempre. La nuova sfida: ridurre i consumi Essere all’avanguardia, nel 2024, significa anche uno sforzo maggiore verso la sostenibilità, tallone d’Achille del settore tessile. È innegabile che la stampa, la vaporizzazione e il lavaggio dei tessuti richiedano un enorme consumo di acqua e di calore. Ma cambiare rotta si può, spiega Franco Mantero: se una volta si consumavano 100 litri d’acqua per un metro di seta, l’investimento in macchinari più efficienti ha permesso di ridurlo a 15-20 litri: “Con il nuovo impianto in funzione da gennaio 2024 – spiegano dall’azienda – prevediamo di ridurre di oltre il 50% il consumo di acqua per metro di tessuto”. Il più recente capitolo nella storia dell’azienda è il lancio del proprio marchio – Mantero 1902 – che include abbigliamento, denim, scarpe e una grande varietà di proposte maschili (non solo cravatte, per esempio, ma camicie hawaiane). Il quartier generale a Grandate, poco distante dal lago, ospita 500 dipendenti, di cui quasi la metà donne e, a colpo d’occhio, moltissimi giovani. Un alveare di creatività e competenza, dove ognuno ha una specifica professionalità, dagli stampatori alle coloriste che controllano che le esatte sfumature cromatiche di ogni capo per far sì, ad esempio, che i due lati di un tessuto stampato non si influenzino a vicenda, ma anzi si esaltino reciprocamente. Un dettaglio a cui nessuno pensa, legandosi un foulard al collo, ma che fa la differenza tra la qualità e l’eccellenza. L'articolo La moda italiana oltre le fashion week: alla scoperta della seta stampata di Mantero, tra la tradizione di Como e il fascino del Giappone proviene da Il Fatto Quotidiano. [ad_2] Sorgente ↣ :
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agrpress-blog · 1 month
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Meryl Streep a Cannes 77: eleganza e stile inarrivabili Meryl Streep, la regina incontrastata d... #cannes #merylstreep #palmadoro #redcarpet https://agrpress.it/meryl-streep-a-cannes-77-eleganza-e-stile-inarrivabili/?feed_id=5217&_unique_id=664441364ae29
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carmenvicinanza · 3 months
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Vera Lynn
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Vera Lynn è la cantante passata alla storia con il brano We Will Meet Again, che ha rincuorato i soldati inglesi durante la seconda guerra mondiale e che, ancora oggi, è tra le melodie patriottiche più amate in Gran Bretagna.
La canzone venne utilizzata da Stanley Kubrick nella colonna sonora del film Il dottor Stranamore del 1964 e ha visto una nuova rinascita dopo che la Regina Elisabetta II ne ha citato il testo in un discorso fatto al paese durante la fase più critica della pandemia da Covid -19 nel 2020.
A lei, Roger Waters dei Pink Floyd ha dedicato la canzone Vera, tratta da The Wall nel 1979.
Vera Lynn è lo pseudonimo di Vera Margaret Welch nata a Londra il 20 marzo 1917 in una famiglia umile. Ha iniziato a cantare nei pub all’età di sette anni, ha adottato il cognome da nubile della nonna materna come pseudonimo quando ne aveva undici e si è unita a una band giovanile chiamata Madame Harris’s Kracker Kabaret Kids.
Esibendosi nel circuito del music hall inglese, nel 1933, è stata notata da Howard Baker che l’aveva invitata a unirsi alla sua orchestra. Con lui ha inciso il suo primo disco, It’s Home, nel 1935, anno in cui ha partecipato anche alla sua prima trasmissione radiofonica, con la Joe Loss Orchestra.
Il suo cavallo di battaglia, la canzone We Will Meet Again, con la musica di Ross Parker e le parole di Hugh Charles, è stata incisa nel 1939 insieme al marito, Harry Lewis, clarinettista e sassofonista.
Il suo successo è avvenuto durante il secondo conflitto mondiale, tanto che un sondaggio del Daily Express l’aveva dichiarata come la cantante più amata dai soldati britannici. In quegli anni conduceva un programma radiofonico diretto alle truppe, ha cantato nella metropolitana di Londra, usata come rifugio durante i bombardamenti, e si è esibita per i soldati al fronte in Egitto, Birmania e India. Sfidando il pericolo, con la sua voce, ha portato conforto a chi combattevae ai malati negli ospedali di guerra.
Amatissima e rassicurante, ha rappresentato la speranza e la resilienza di una generazione devastata.
Il successo straordinario della sua canzone ha originato, nel 1943, l’omonimo film che l’ha vista protagonista.
Dopo la guerra la sua fama si è estesa anche negli Stati Uniti, tanto che, nel 1952 è stata la prima artista inglese a raggiungere il primo posto della classifica americana con Auf wiederseh’n sweetheart.
È stata premiata con una lunga serie di onorificenze, fra cui la nomina a Dama dell’Impero Britannico nel 1965.
Negli anni Sessanta e settanta ha condotto diversi programmi televisivi e continuato a incidere dischi. La sua ultima esibizione pubblica è stata a Buckingham Palace, nel 1995.
Considerata un vero e proprio monumento nazionale, a 92 anni, nel 2009, è stata l’artista più anziana a raggiungere la prima posizione nella classifica degli album del Regno Unito con la compilation We’ll Meet Again: The Very Best of Vera Lynn.
Nello stesso anno ha fatto causa al British National Party per aver usato la sua canzone The White Cliff of Dover in un album contro l’immigrazione che tradiva completamente i suoi ideali.
Nel 2014 ha pubblicato la raccolta Vera Lynn: National Treasure e tre anni dopo è uscito Vera Lynn 100, una compilation di successi per commemorare i suoi cent’anni che, col suo terzo posto, l’ha resa la prima performer centenaria ad avere un album nella Top 10.
È morta il 18 giugno 2020 alla bella età di 103 anni nella sua casa di Ditchling, nel Sussex orientale. Messaggi di cordoglio sono arrivati da celebrità come la Regina Elisabetta, Paul Mc Cartney e Elton John.
Dopo la sua dipartita i suoi dischi hanno risalito le classifiche.
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biancheriaecotone · 3 months
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La Storia della Tessitura a Poirino: Un Viaggio Attraverso le Generazioni.
Poirino, un piccolo borgo nel cuore della campagna piemontese, ha un legame profondo con la tradizione tessile che si è tramandata di generazione in generazione. Le storie raccontate dai nostri genitori ci portano indietro nel tempo, rivelando un passato ricco di fatiche, imprese audaci e una comunità unita nel perseguire il sogno di creare tessuti di alta qualità per il mercato nazionale e oltre. 
Le Radici della Tessitura a Poirino.
Gaspare Bertero, orgoglioso discendenti delle famiglie che hanno plasmato il tessuto sociale di Poirino, tramandò la storia delle loro radici tessili. Nel cuore del borgo, quasi ogni famiglia possedeva un telaio a mano, un prezioso strumento per far fronte alla potenziale mancanza di lavoro durante i mesi invernali. Era un periodo in cui la tessitura rappresentava un'opportunità per integrare i magri guadagni delle campagne o dell'edilizia, offrendo un sostentamento supplementare alle famiglie locali. 
Le Ditte Tessili di Poirino.
All'inizio del Novecento, Poirino era punteggiato da diverse ditte tessili che prosperavano grazie alla maestria artigianale e alla determinazione imprenditoriale. Una di queste era la Ditta F.lli Poma, sita nell'odierno Consorzio Agrario in via Pralormo. La loro produzione comprendeva una vasta gamma di articoli di consumo nazionale, dall'abbigliamento all'arredamento, incluso un tessuto speciale utilizzato per la fabbricazione dei colorati e distintivi "barracani", ampiamente esportati nelle colonie italiane e soprattutto in Libia. 
Negli stessi anni, nacque una tessitura più piccola gestita dai soci Dassano e Carasso, specializzata nella produzione di fustagno e tela blu destinati sia all'esportazione che al mercato interno. 
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La Crescita e le Sfide del Periodo Bellico. 
Durante la prima guerra mondiale, il panorama tessile di Poirino si arricchì con l'insediamento della ditta Vastapane nel cosiddetto "fabbricone", un vasto edificio adibito alla tessitura. Quest'azienda chierese conobbe una crescita significativa grazie alle forniture al Regio Esercito, stabilendo un ciclo produttivo continuo che includeva persino la creazione di una banca con uffici sul fronte in via Indipendenza. Tuttavia, l'attività della ditta cessò intorno al 1930, lasciando spazio alla nascita di nuove imprese artigiane guidate da ex dipendenti e tecnici, desiderosi di preservare la tradizione tessile di Poirino. 
L'Eredità Familiare e l'Innovazione. 
Nel dopoguerra, Gaspare Bertero diede vita alla "Telerie e Mantilerie", un'azienda fondata sulla passione per la tessitura e il desiderio di innovare. Con l'aiuto di prestiti ottenuti da parenti e la collaborazione di un terzista locale, l'azienda si affermò nel panorama tessile piemontese, ampliando la gamma di prodotti e conquistando nuovi mercati in Toscana ed Emilia Romagna. 
La Sfida della Modernizzazione e la Chiusura. 
Gli anni Settanta portarono nuove sfide e opportunità per il settore tessile di Poirino. L'avvento di materiali più economici provenienti dal Sud America ebbe un impatto significativo sul mercato locale, mentre la concorrenza straniera iniziò a minare la produzione tradizionale. Nonostante gli sforzi per adattarsi ai cambiamenti del mercato, l'azienda di famiglia si trovò ad affrontare un declino irreversibile. Nel 1988, dopo decenni di attività, la "Telerie e Mantilerie" chiuse i battenti, segnando la fine di un'epoca per la tessitura poirinese. 
Il Patrimonio Tessile di Poirino: Un'Eredità da Preservare. 
Nonostante la chiusura delle antiche tessiture, il ricordo della loro importanza nella storia di Poirino vive nei racconti delle generazioni passate. Oggi, mentre la comunità si evolve e si adatta ai nuovi tempi, è importante preservare questo patrimonio tessile e onorare il lavoro dei nostri predecessori. La storia della tessitura a Poirino è una testimonianza del potere dell'ingegno umano, della resilienza e della determinazione nel perseguire i propri sogni, e continua a ispirare le future generazioni a mantenere viva la tradizione tessile di questo piccolo borgo piemontese.
ragncampagnin
Esempi di Prodotto Tessile Italiano
Esplorando la Storia Tessile Italiana
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cinquecolonnemagazine · 5 months
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Burnout: 2 dipendenti su 10 nel mondo soffrono lo stress da lavoro
Burnout: il 22% dei dipendenti in tutto il mondo soffre di stress da lavoro. A dirlo è unarecente sondaggio del McKinsey Health Institute. Carico di lavoro, responsabilità e rapporti interpersonali sarebbero alcune delle principali fonti di stress sul posto di lavoro. Accanto al burnout si sta facendo strada anche un'altra sindrome: il rust-out. Burnout: cos'è lo stress da lavoro Negli anni Settanta, il termine burnout indicava la difficoltà nel gestire lo stress lavorativo nelle professioni mediche e più in generale in quelle d'aiuto. In un secondo momento, il suo significato è stato ampliato a tutte le professioni. Burnout, oggi, indica una situazione di mancato adattamento allo stress lavorativo. Si manifesta con sintomi sia fisici che psichici. Chi è affetto da burnout può soffrire di cefalee ed emicranie, disturbi dermatologici o gastrointestinali. A livello psichico può sperimentare, tra l'altro, attacchi d'ansia, depressione e calo della motivazione. Per guarire dalla sindrome si può agire a livello individuale o collettivo con l'aiuto di uno psicologo. Nel primo caso il lavoratore segue un percorso che lo aiuta a mettere la giusta distanza tra sé e il lavoro. Nel secondo, un professionista può aiutare a creare un ambiente di lavoro più funzionale e accogliente per tutti. Rust-out: cos'è e come si manifesta Se il termine burnout lo conosciamo, dunque, da circa cinquant'anni, un termine nuovo si sta facendo strada negli ultimi tempi sempre in ambito lavorativo: il rust-out. To rust out, in italiano, significa arrugginire. Allo stesso modo la sindrome del rust-out porta il lavoratore a sentirsi, appunto, come arrugginito, in difficoltà nell'affrontare il lavoro affidato. Il termine indica, infatti, una condizione che porta il lavoratore a perdere la motivazione per il lavoro. A differenza del burnout, il rust-out non è una sindrome riconosciuta dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, si manifesta come un calo di energie. La sua origine va cercata nella risposta a una routine lavorativa che mantiene il lavoratore sempre sullo stesso livello, senza alcuna opportunità di crescita. Mansioni sempre uguali mantengono il lavoratore in una continua zona di comfort che, a lungo andare, lo demotiva. Sul lungo periodo, il rust-out può trasformarsi in burnout. La soluzione? Avere dei compiti leggermente più sfidanti dei precedenti, alzare l'asticella in modo graduale e costante. Lavoratori di tutto il mondo affetti da burnout Anche se in percentuali diverse da Paese a Paese, la sindrome del burnout fa sentire la sua presenza a livello globale. Il sondaggio del McKinsey Health Institute, condotto su 30.000 dipendenti in 30 Paesi, rivela che il 22% dei lavoratori in tutto il mondo soffre di burnout. Le percentuali più alte si registrano in India (59%), le più basse in Camerun (9%). L'Italia si posiziona nella parte bassa della classifica con il 16% dei sintomi dichiarati. Le cause principali dell'insorgenza della sindrome sono nei rapporti interpersonali, la pressione provocata dalle tempistiche e dal carico di lavoro, la mancanza di chiarezza sui compiti. A soffrirne di più sono i lavoratori più giovani e i dipendenti delle piccole aziende. Il 50% dei lavoratori appartenenti alla generazione Z e ai Millennials si è detto stressato per la maggior parte del tempo che trascorre al lavoro e sarebbe pronto a rassegnare le dimissioni se si trovasse in un ambiente di lavoro tossico. Dal sondaggio emerge che un ambiente lavorativo positivo comporta non solo una maggiore produttività e migliori performance degli impiegati ma anche aggiunge valore economico all'intera società. Un altro sondaggio, condotto sempre dal McKinsey Health Institute insieme a Business in the Community, rivela che, nel Regno Unito, il miglioramento del benessere dei dipendenti oscillerebbe tra i 130 e i 170 miliardi di sterline l'anno pari a un range che va dal 6 al 17% del Pil. Un valore che si traduce in una somma che va dalle 4.000 ai 12.000 sterline per ogni dipendente. In copertina foto di Peggy und Marco Lachmann-Anke da Pixabay Read the full article
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marcogiovenale · 1 year
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oggi, 26 maggio, al piper (roma): presentazione di (e dialogo su) "generazione settanta", di miguel gotor
OGGI, VENERDÌ 26 MAGGIO 2023alle ore 18:30, al PIPER CLUB – via Tagliamento 9, Roma –presentazione del libro GENERAZIONE SETTANTA Storia del decennio più lungo del secolo breve 1966-1982di Miguel Gotor (Einaudi) Con l’autore interverranno: Alessandro De Angelis, Maria Teresa Carbone, Andrea Cortellessa, Giuseppe Garrera, Marco Giovenale, Alessandra Vanzi ingresso libero * scheda del…
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williamkergroach55 · 5 months
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Vi invito a casa mia. Capirete come le prime crepe nello specchio della mia innocenza abbiano finito per trasformarsi in un fatto indiscutibile.
La mia storia inizia in una piccola città, uno di quei paesi tranquilli dove tutti si conoscono. La mia famiglia era molto ordinaria. Mio padre lavorava, mia madre lavorava e io, figlio unico, sono cresciuto in un mondo non ideale ma tranquillo. Era il mondo occidentale degli anni Settanta, un mondo etnicamente omogeneo in cui l'orrore colpiva il Terzo Mondo, un mondo che non beneficiava della modernizzazione materiale e culturale. Certo, c'erano state le prime devastazioni della droga, ma erano rimaste confinate in ambienti marginali. Le guerre dell'impero americano si combattevano in continenti lontani, popolati da persone che non conoscevamo. E, nonostante gli sforzi di alcuni giornalisti che sentivano di avere una missione umanista, non ci interessavano le carestie o le guerre che coinvolgevano popolazioni a noi estranee.
La mia educazione è stata quella tipica di molti bambini della mia generazione. Andai a scuola, imparai a leggere e a scrivere e scoprii (con scarso interesse) la matematica e le scienze. Tutto questo sembrava far parte della norma, ma già a quell'età mi sentivo fuori posto. Non riuscivo a integrarmi completamente nella società che mi circondava, non credevo nelle sue fantasie, nei suoi modelli.
Alla fine degli anni '60 sono arrivate le prime famiglie, che si sono mescolate. A poco a poco, negli anni '70, abbiamo avuto nuove teste di moro nel parco giochi. Tutto andava bene. Non sentivo alcuna diffidenza. Erano tutti assimilati. Alcuni sono ancora amici.
I primi problemi sono iniziati negli anni '80. Bande di stranieri si aggiravano per i viali, arrivando da periferie lontane e da quartieri ghettizzati. Erano ostili, aggressivi e in cerca di guai. Erano raggruppati in bande etniche. È stato a questo punto che la retorica dell'esclusione ha fatto la sua comparsa tra alcuni politici, mentre i giornali titolavano su incidenti e crimini che coinvolgevano questi stranieri. Questi politici annunciavano le crescenti difficoltà causate dalla crescente immigrazione, mentre la stampa e i politici, agli ordini delle logge massoniche, negavano il problema e tacevano sui cognomi esotici degli stupratori e dei criminali che stavano rovinando il nostro mondo.
Quando ero adolescente ho iniziato a interessarmi alle idee e ai discorsi che riportavano la diversità culturale all'ordine del giorno. Ho letto articoli e autori che sostenevano la conservazione dell'identità etnica e denunciavano questa invasione. Non mi sembravano inverosimili, piuttosto lucidi.
Il mio cambiamento ideologico è stato graduale, passando da una benevola neutralità a un pregiudizio sfavorevole man mano che i fatti criminali si sommavano agli attacchi terroristici causati da stranieri. Era vietato parlarne, vietato criticare la diversità. I famigerati termini razzismo, nazismo ed estrema destra sono stati subito sbandierati, vietando qualsiasi dibattito.
L'unico luogo che consentiva la libertà di opinione era Internet. L'effervescenza delle comunità online contrastava nettamente con il silenzio dei media, soggetti alle direttive del governo o ai poteri finanziari, e in gran parte favorevoli all'immigrazione economica, sinonimo di disgregazione sociale e di salari più bassi.
Sul web ho trovato persone che condividevano le mie idee, le mie paure e la mia indignazione.
Non c'era odio, ma solo tanta ironia e rabbia per l'impunità concessa a tutti questi parassiti etnici che imponevano i loro costumi e i loro comportamenti barbari con la benedizione dei politici al servizio del globalismo. Le teorie cospiratorie venivano confermate dai fatti ogni giorno. L'unico luogo in cui potevamo constatarlo era il terreno scelto dal nemico: i GAFAM americani che ci avevano imposto Internet.
I forum e le piattaforme dove mi tenevo informato erano diventati scuole di pensiero, dove i discorsi xenofobi erano all'ordine del giorno. Mi ero creata una bolla di conferma, in cui le mie convinzioni venivano costantemente rafforzate e amplificate dagli altri.
Ho sentito il bisogno di uscire dalla rete. Ho capito che il giorno in cui il nemico globalista avesse deciso di toglierci Internet, saremmo stati perduti, perché avevamo perso il legame sociale, i corpi intermedi della famiglia, del quartiere o della società.
Fu allora che iniziai a scrivere dei manifesti che avevano lo scopo di allertare, informare e fornire strumenti ideologici per la rivoluzione che stavo progettando. Queste dichiarazioni motivazionali erano il culmine della mia determinazione a lottare con tutte le mie forze contro questa distopia che ci veniva imposta.
Le popolazioni non autoctone erano sempre più presenti, invadevano la nostra vita quotidiana, moltiplicavano i crimini, gli stupri e i saccheggi sotto la benevola protezione delle oligarchie sataniste che gestivano la società.
Ho esposto le mie idee per preservare l'etnia bianca e lo stile di vita e i valori del mondo occidentale.
Ero convinto che l'immigrazione di massa, pur non essendo la fonte di tutti i mali della società - lo era il globalismo massonico - dovesse essere fermata. Era necessaria un'azione violenta e risoluta per proteggere la mia cultura e la mia razza, che erano minacciate di distruzione.
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lamilanomagazine · 6 months
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Vicenza, tecnologie di ultima generazione nei presidi del sistema sanitario: inaugurato il nuovo Tomografo a Risonanza Magnetica
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Vicenza, tecnologie di ultima generazione nei presidi del sistema sanitario: inaugurato il nuovo Tomografo a Risonanza Magnetica. Santorso (Vicenza),“l’inaugurazione di oggi è l’ennesimo tassello di un impegno della Regione del Veneto a dotare di tecnologie di ultima generazione tutti i presidi del suo sistema sanitario. Un impegno che ogni anno corrisponde a un investimento di circa settanta milioni euro a cui va aggiunta anche la serie di dotazioni resa possibile dal PNRR. Una risonanza da 3 Tesla come questa non è scontata in un ospedale spoke. Ma rientra nella strategia di permettere nel modo più vasto di avere diagnosi precoci, tempestive, puntuali, e meno invasive. Un approccio che è certamente positivo per il sistema sanitario ma anche e soprattutto per la qualità di vita dei cittadini”. Queste le parole dell’assessore alla Sanità e alle Politiche sociali, Manuela Lanzarin, che oggi in rappresentanza del Presidente della Regione, Luca Zaia, all’ospedale di Santorso (Vicenza) ha inaugurato il nuovo Tomografo a Risonanza Magnetica da 3 Tesla. Un investimento di oltre 1 milione 300 mila euro - tra attrezzatura e adeguamento specifico dei locali - che si traduce in un sistema diagnostico di ultima generazione, dotato di software all’avanguardia, per l’esecuzione di eccellenza di tutte le tipologie d’esame sia di routine che avanzati. Con intensità di campo di 3T permette inoltre di essere utilizzato per sfruttare le massime performance a disposizione nelle diagnosi ma anche nella ricerca come, ad esempio, per studi funzionali del cervello. All’inaugurazione erano presenti il Direttore generale della Ulss 7 Pedemontana, Carlo Bramezza, il sindaco di Santorso Franco Balzi, il dottor Calogero Cicero, primario radiologo. “Questa grande attività di acquisizione di tecnologie di ultima generazione – ha aggiunto l’Assessore – va anche a completare una richiesta importante di prestazioni che c’è in questo territorio. È parte di uno sforzo collettivo che ci vede protagonisti nell’abbattimento delle liste attesa che stiamo monitorando e risolvendo e che, per quanto riguarda la diagnostica per immagini, attrezzature come queste ci permettono di aggredire in maniera più incisiva, diversificando e velocizzando i percorsi diagnostici”. “Investimenti diffusi nella tecnologia di eccellenza, nella robotica e nell’intelligenza artificiali sono le sfide che ci impone la proiezione nel futuro – ha concluso Lanzarin -. Ma sono imprescindibili dall’investimento nel capitale umano e quindi nel personale, guardando oltre le difficoltà che purtroppo conosciamo rispetto all’arruolamento. Attrezzature di questa qualità alzano l’asticella di un sistema di avanguardia che permettono ai giovani professionisti di guardare non solo alle due aziende universitarie, avendo la certezza di trovare terreno di grande crescita professionale anche negli altri contesti”.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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personal-reporter · 7 months
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Le grandi auto: Golf GTI
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Uno delle auto più amate di sempre, per il design semplice  e perfetto al tempo stesso… Il progetto della Volkswagen Golf GTI fu avviato negli anni Settanta da Anton Konrad, Responsabile Ufficio Stampa e P.R. della Volkswagen, anche se l’idea di un modello sportivo della Golf  non era molto ben vista, perché si temeva fosse in grado di incoraggiare comportamenti pericolosi al volante. Così Konrad invitò quattro esperti della Volkswagen a casa sua che iniziarono a collaborare al progetto fuori dall’orario d’ufficio e nei weekend ed erano il Responsabile del Progetto Golf Hermann Hablitzl, l’esperto di Telai Herbert Horntrich, l’ingegnere dello Sviluppo Alfons Löwenberg e Horst-Dieter Schwittlinsky del Marketing, poi si aggiunsero lo specialista d’Interni Jürgen Adler, Gunther Kühl del Motorsport ed Herbert Schuster, nominato intanto Responsabile per lo Sviluppo. Il giugno 1976 vide l’avvio della produzione in serie della prima Golf GTI,  un’auto compatta e leggera, con un motore potente e un assetto sportivo. Nel 1983 arrivò l’edizione speciale Pirelli equipaggiata con il 1.8 da 112 CV e resa celebre dai cerchi in lega con i caratteristici fori a forma di P che montavano appunto pneumatici Pirelli e anche l’interno era d’impatto con tessuto tartan a quadri per la fascia centrale dei sedili sportivi neri, cielo dell’abitacolo nero e pomello del cambio a forma di pallina da golf. Un anno dopo fu il momento della seconda generazione della Volkswagen Golf GTI, che montava il 1.8 da 112 CV, che aveva equipaggiato gli ultimi esemplari della prima generazione, poi con diversi motori di potenza compresa tra 107 e 160 CV. Nel 1991 ci fu la terza generazione della Volkswagen Golf GTI, in produzione fino al 1997, dove il 2.0 benzina a due valvole per cilindro da 115 CV, disponibile al lancio, venne sostituito dopo circa un anno con un 16V che erogava 150 CV. Poi nel 1996, vent’anni dopo a GTI originale, venne presentato il modello celebrativo GTI Edition 20, caratterizzato dai cerchi in lega BBS e disponibile in tre motorizzazioni, 2.0 115 CV, 2.0 16V 150 CV e, per la prima volta, un 1.9 TDI da 110 CV capace di far accelerare la Golf GTI da 0 a 100 km/h in 10,3 secondi e di raggiungere i 193 km/h di velocità massima. La quarta generazione GTI fu introdotta nel 1998 ed è rimasta in produzione fino al 2003, con i cerchi in lega BBS, i fari posteriori bruniti e, all’interno, i sedili sportivi anatomici della Recaro. Nel 2004 debuttò la quinta generazione della Volkswagen Golf GTI, in produzione fino al 2008, che richiamava in modo deciso gli elementi della prima GTI, come il profilo rosso attorno alla calandra anteriore e il rivestimento dei sedili a quadri. La sesta generazione della Golf GTI arrivò nel 2009 e rimase in produzione fino al 2012 ed era equipaggiata con il differenziale a bloccaggio elettronico trasversale XDS di serie. Nel 2012 debuttò la prima Golf GTI Cabriolet, dotata di capote elettrica in tessuto, che copriva lo 0-100 km/h in 7,3 secondi e raggiungeva i 237 km/h, oltre alla settima generazione GTI in due diverse potenze. All’inizio di marzo 2020 fu presentata l’ottava generazione della Golf GTI, spinta dal 2.0 TSI da 245 CV, con all’interno il tasto start/stop dell’avviamento dotato di una luce rossa, il volante sportivo con comandi touch e la leva shift-by-wire del cambio DSG dotato di curve caratteristiche, oltre all’interfaccia totalmente digitale Digital Cockpit, così come i servizi We Connect che introducono a bordo streaming, web radio e ulteriori funzionalità online. Read the full article
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NEVERENDING STORY - CINEMA D'ASCOLTO - FILM ALLA RADIO
La compositrice e pianista Mariangela Ungaro, saggista di CINEMA D'ASCOLTO, ha collaborato con FILM ALLA RADIO, un podcast di Marco Pieroni, raccontando i film attraverso la loro colonna sonora. E' il caso del film LA STORIA INFINITA di cui ha rifatto la canzone dei titoli di coda, "Neverending story" brano di Limahl. LA STORIA INFINITA “La storia infinita” (Die unendliche Geschichte) è un film del 1984 diretto da Wolfgang Petersen. Una produzione internazionale tra Germania Ovest, USA e UK. Ispirato al romanzo omonimo di Michael Ende, è interpretato da Noah Hathaway, Barret Oliver e Tami Stronach nella sua prima apparizione cinematografica. Il suo budget di 25 milioni di dollari ne fece il più costoso film di produzione tedesca. Il film ha avuto due seguiti, che personalmente non ritengo all’altezza del primo film, in nessun senso. Un film assolutamente unico, asciutto, pieno di simbologie. Posso asserire con certezza che tutta la generazione di bambini nati negli anni Settanta ne è rimasta piacevolmente segnata. Un film convincente anche per la recitazione di attori giovanissimi come i tre protagonisti, che non hanno avuto però la fortuna successiva che avrebbero più che meritato anche da adulti. Le musiche sono di Giorgio Moroder, classe 1940, produttore discografico, compositore e Dj italiano, celebre per la sua musica elettronica, la disco music e l’uso di sintetizzatori. Lavorò per moltissimi celebri film degli anni Ottanta, quali, ad esempio, Flashdance, Top Gun, American Gigolò. Proprio lo stesso anno del film la Storia Infinita, lavorò alla riedizione del film “Metropolis” di Lang, introducendo una nuova e moderna colonna sonora rock. La versione innescò una querelle tra cinefili, con aperte critiche e apprezzamenti: io ho apprezzato e vi rimando alla lettura del saggio dedicato al film di Lang e al confronto tra le due colonne sonore. Moroder scrisse le musiche della storia infinita insieme al sassofonista e compositore tedesco Klaus Doldinger, classe 1936. La musica è tematica, come ci aspetteremmo in un film fantasy. Ho rintracciato i seguenti temi musicali, non tanto legati a questo o quel personaggio, ma a un concetto astratto: ● Tema del destino misterioso: due terze maggiori avvicinate da un intervallo di semitono, seguite da due terze minori, avvicinate nello stesso modo. ● Tema delle quinte: orchestrale, solenne, su quinte discendenti (le quinte sono distanti un tono) separate da lanci d’arpa veloci. ● Tema del volo o dell’avventura: archi tematici, corno di sostegno, che dà quella sensazione di grande spazio aperto, ritmo sostenuto. Il tema è preceduto da archi in accordi 9-8 (con ritardo della fondamentale), ravvicinati velocemente, per dare idea di so- spensione in aria (la stessa tecnica usata per il volo di E.T.). ● Tema dell’Imperatrice: solenne, costruito su quarte ascendenti avvicinate da un tono. ● Signal di Gmork: un segnale sonoro cupo e lacerante che de- scrive il servo del potere, un felino nero gigantesco dai penetranti occhi verdi, con artigli e fauci spaventosi, un essere crudele tra lupo e pantera: archi “isterici”, accordo breve, forte, dissonante, sincro- nizzato col ruggito inquietante della belva. ● Tema della Tristezza: tema di archi tematici su tappeto di archi e sinth, con punteggiatura di organo, solenne ma molto drammatico, basato su laceranti intervalli ascendenti di sesta, come a domandare “Perché?” Ogni tema è orchestrale ma non disdegna l’uso di campioni che ne rendono il sound abbastanza simile ai brani di Vangelis. La composizione sottesa utilizza in maniera molto interessante campi armonici mai scontati e cangianti in itinere. Vi è molta coerenza compositiva tra un brano e l’altro, come si addice ai grandi maestri compositori. ...continua su CINEMA D'ASCOLTO e su RADIO CORTONA FILM ALLA RADIO. https://mariangelaungaro.wixsite.com/stardust-art-studios/cinemadascolto https://www.boomplay.com/podcasts/28764 PER ACQUISTARE L'OPERA OMNIA SUL CINEMA MONDIALE: https://www.mondadoristore.it/Cinema-d-ascolto-Mariangela-Ungaro/eai979128078682/
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