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#L’ultima tentazione
iannozzigiuseppe · 1 year
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L’ultima tentazione - Nikos Kazantzakis - Traduzione dal greco: Gilda Tentorio, Nicola Crocetti - Crocetti Editore
L’ultima tentazione Nikos Kazantzakis Traduzione dal greco: Gilda Tentorio, Nicola Crocetti Crocetti Editore È il romanzo più scandaloso dell’autore di Zorba e dell’Odissea, che per questo libro nel 1953 venne scomunicato dalla Chiesa ortodossa greca. L’opera conobbe una fortuna mondiale postuma dopo la celebre versione cinematografica diretta da Martin Scorsese. In Italia venne tradotto dalla…
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canesenzafissadimora · 7 months
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"Cara Francesca,
spero che questa mia ti trovi bene.
Non so quando la riceverai. Quando io me ne sarò già andato.
Ho sessantacinque anni, ormai, e ne sono passati esattamente tredici dal nostro primo incontro, quando imboccai il vialetto di casa tua in cerca di indicazioni sulla strada.
Spero con tutto me stesso che questo pacchetto non sconvolga in alcun modo la tua vita. Il fatto è che non sopporto di pensare alle mie macchine fotografiche sullo scaffale riservato all’attrezzatura di seconda mano di un negozio o nelle mani di uno sconosciuto. Saranno in pessime condizioni quando le riceverai, ma non ho nessun altro a cui lasciarle e mi scuso del rischio che forse ti costringerò a correre mandandotele.
Dal 1965 al 1975 ho viaggiato quasi ininterrottamente. Nell’intento di allontanarmi almeno parzialmente dalla tentazione di telefonarti o di venire a cercarti, tentazione che da sveglio in pratica non mi lascia mai, ho accettato tutti gli incarichi oltreoceano che sono riuscito a procurarmi. Ci sono stati momenti, molti momenti, in cui mi sono detto: << All’inferno, vado a Winterset e, costi quel che costi, porto Francesca via con me>>.
Ma non ho dimenticato le tue parole, e rispetto i tuoi sentimenti. Forse avevi ragione, non lo so. So però che uscire dal viale di casa tua, in quella arroventata mattinata di agosto, è stata la prova più ardua che abbia mai affrontato e che mai avrò occasione di affrontare. Dubito, in effetti, che molti uomini ne abbiano vissute di più dure.
Ho lasciato il National Geographic, nel 1975 e da allora mi sono dedicato soprattutto a fotografare ciò che piaceva a me, prendendo il lavoro là dove potevo, servizi locali o regionali che non mi impegnavano mai più di pochi giorni.
Finanziariamente è stata dura, ma tiro avanti.
Come ho sempre fatto.
Buona parte del mio lavoro lo svolgo nella zona di Puget Sound. Mi va bene così. Pare che invecchiando gli uomini si rivolgano sempre più spesso all’acqua.
Ah, sì, adesso ho un cane, un golden retriever.
L’ho chiamato Highway, e lo porto quasi sempre con me, quando siamo in viaggio, se ne sta con la testa fuori dal finestrino, in cerca di posti interessanti da fotografare.
Nel 1972 sono caduto da una rupe nell’Acadia National Park, nel Maine, e mi sono fratturato una caviglia.
Nella caduta ho perso la catena e la medaglia, ma fortunatamente non erano finite lontano. Le ho recuperate e un gioielliere ha provveduto ad aggiustare la catena.
Vivo con il cuore impolverato, Meglio di così non saprei metterla. C’erano state delle donne prima di te, qualcuna, ma nessuna dopo. Non mi sono votato deliberatamente alla castità: è solo che non provo alcun interesse.
Una volta ho avuto modo di osservare il comportamento di un’oca canadese la cui compagna era stata uccisa dai cacciatori. Si uniscono per la vita, sai. Dopo l’episodio, ha continuato ad aggirarsi intorno allo stagno per qualche giorno. L’ultima volta che l’ho vista, nuotava tutta sola tra il riso selvatico, ancora alla ricerca. Immagino che da un punto di vista letterario la mia analogia sia troppo scontata, ma è più o meno così che mi sento anch’io.
Con la fantasia, nelle mattine caliginose o nei pomeriggi in cui il sole riflette sull’acqua a nord-ovest, cerco di immaginare dove sei e che cosa stai facendo.
Niente di complicato…ti vedo in giardino, seduta sulla veranda, in piedi davanti al lavello della cucina. Cose così.
Ricordo tutti. Il tuo profumo e il tuo sapore, che erano come l’estate stessa. La tua pelle contro la mia, e il suono dei tuoi bisbigli mentre ti amavo.
Robert Penn Warren scrisse: << Un mondo che sembra abbandonato da Dio >>. Non male, molto vicino a quello che provo per te certe volte. Ma non posso vivere sempre così. Quando la tensione diventa eccessiva, carico Harry e, in compagnia di Highway, ritorno sulla strada per qualche giorno.
Commiserarmi non mi piace. Non è nella mia natura. E in genere non me la passo poi tanto male.
Al contrario, sono felice di averti almeno incontrata.
Avremmo potuto sfiorarci come due frammenti di polvere cosmica, senza sapere mai nella l’uno dell’altra.
Dio o l’universo o qualunque altro nome si scelga di dare ai grandi sistemi di ordini ed equilibri, non riconosce il tempo terrestre. Per l’universo, quattro giorni non sono diversi da quattro miliardi di anni luce. Per quanto mi riguarda, cerco di tenerlo sempre a mente.
Ma, dopo tutto, sono un uomo.
E tutte le considerazioni filosofiche non bastano a impedirmi di desiderarti, ogni giorno, ogni momento, con la testa piena dello spietato gemito del tempo, del tempo che non potrò mai vivere con te.
Ti amo, di un amore profondo e totale. E così sarà sempre."
L’ultimo cowboy,
Robert.
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“I ponti di Madison County”, R.J.Waller
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gregor-samsung · 2 years
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“ Gli Stati Uniti d’America hanno combattuto oltre un centinaio di conflitti in due secoli e mezzo. Fra guerre mondiali e spedizioni di taglia minima, la neonazione inventata dai ribelli antibritannici ha imbracciato le armi più di ogni altra al mondo. Guerre quasi tutte vittoriose nel primo secolo e mezzo, tutte perse o non vinte dopo il 1945. L’ultima e più lunga (2001-2021) è (stata?) quella contro il terrorismo. Modello di uso a-strategico della forza in quanto sfida a un nemico indefinito e cangiante. Conflitto potenzialmente infinito, certamente invincibile. Infatti straperso con il suggello della tragica fuga dall’Afghanistan, il 15 agosto 2021, che si scoprirà prologo del 24 febbraio 2022. La Pax americana è chimera. Logica imperiale impone di distinguere fra conflitti inevitabili e inutili. I primi, strategici e di imponenti dimensioni, aprono e chiudono fasi della potenza, fissano il rango della nazione fra le altre, segnano la storia universale. Decidono. I secondi accelerano l’entropia del sistema. Derive tattiche antimperiali, che accumulandosi possono indurre negativi effetti strategici. Gli americani hanno ingaggiato e vinto cinque conflitti strategici: il primo, istitutivo dello Stato, è Guerra di indipendenza (1776-1783); il secondo, fondativo della nazione, cosiddetta Guerra di secessione (1861-1865); il terzo, contro la Spagna (1898), termina con il controllo di Cuba e l’acquisizione della prima e ultima colonia, le Filippine, di cui la repubblica non sa che fare; il quarto, Prima guerra mondiale (1917-1918), combattuto nel continente di origine, getta le basi dell’impero; il quinto, Seconda guerra mondiale (1941-1945), lo sigilla. E stabilisce la diffusa presenza militare nel mondo. Eccesso di responsabilità da cui scaturisce il rischio di logorarsi in conflitti insieme antimperiali e antinazionali, perché minano la credibilità americana nel mondo e la disponibilità della nazione a sostenerla. Rischio brillantemente gestito grazie all’antemurale sovietico, ma ormai fuori controllo. Le Forze armate americane riunite formano una massa di oltre due milioni e duecentomila soldati. Considerandone le ramificazioni, fra cui diciassette milioni di veterani più rispettive famiglie, un americano su tre ha o ha avuto a che fare con la guerra. In termini relativi, nessun’altra potenza esibisce un rapporto simile fra comunità militare e popolazione totale. Coltello a doppio taglio. Formidabile deterrente contro ogni rivale. Ma anche tentazione permanente a risolvere le controversie internazionali armi in pugno, sottoponendo il paese a stress continui, difficilmente giustificabili. Non era questa la postura auspicata dai fondatori. La disposizione alla violenza degli americani, testimoniata dalla diffusione delle armi e delle milizie armate, non è frutto dell’organizzazione dello Stato ma del temperamento bellicoso della nazione. “
Lucio Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Feltrinelli (collana Varia), novembre 2022. [Libro elettronico]
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ambrenoir · 6 months
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Una sera al vostro ritorno a casa li vedrete pentiti arrivare sotto casa, con dei palloncini in mano e un biglietto per il vostro prossimo viaggio insieme a New York.
No, purtroppo, no. Quella era l’ultima serie Netflix.
I loro ritorni non hanno niente di spettacolare. Il loro ritorno, dopo magari mesi di silenzi punitivi, avrà più a che fare con la noia. Riappariranno in un giorno qualunque senza grandi motivazioni. Se pensate a un pentimento, al desiderio di cambiamento, se vi aspettate parole sul bisogno di una relazione più stabile, o se immaginate che nel periodo di distacco loro abbiano sofferto e abbiano messo da parte le altalene emotive e finalmente potrete scendere per godervi insieme il panorama…bé, dimenticatelo. Perché spariranno ancora e ancora, in un poof! In un loop disfunzionale teso all’eternità. Anzi, probabilmente spariranno già subito dopo la vostra risposta, perché avranno già rafforzato il loro ego. Alla prima occasione in cui li chiamerete, ecco di nuovo il silenzio. No, non sono cambiati e voi gli siete semplicemente di nuovo scesi. Purtroppo è così. Per un attimo i vostri dubbi sul motivo del ritorno vi faranno sentire ancora importanti…Appunto, per un attimo! L’amore che intendono loro è quello sempre sull’orlo del precipizio, quello che è sempre in bilico. Non è il vostro amore, è quello che intendono loro. Un amore che mette in ansia, che non dà sicurezza, che ti lascia sempre in bilico. Un amore dove dovrete buttare nel cesso la spontaneità e dove dovrete sudare le sette camicie per un briciolo di considerazione.
Come potete salvarvi? Non facendovi trovare. Non facendovi riacchiappare da un ambiguo stato di whatsapp o da una storia su Instagram, con qualche riferimento che tuttavia non li esponga troppo e che dovrete come sempre interpretare voi. L’unico lieto fine possibile è quello di trovare la forza di non cadere in tentazione. Di non cedere alla banalità del male.
Massimo Bisotti
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luigifurone · 8 months
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9. (La casa blu)
Aveva fatto appena in tempo a passare dal negozio ed a prendere una latta, prima che chiudesse. Entrò in casa, la posò nell’ingresso. Tanto l’avrebbe usate l’indomani mattina. La cucina lo aspettava come sempre, lo aspettava anche quell’odore di resina e altri piatti da lavare. La ferita cominciò a pulsare e gli sfuggì un verso. Era stufo, era un po’ stufo. Ma doveva resistere. Erano quasi due anni. Quasi due anni erano una buona cosa, ma non ancora abbastanza. Mise le uova a sfrigolare, le guardò mentre si doravano e diventavano croccanti. Avevano un buon sapore. Poi sarebbe cominciata la sera e negli occhi aperti sarebbero entrate le figure colorate e conosciute.
Si svegliò abbastanza presto, ma fuori era già chiaro. Doveva riverniciare la parete sul retro della casa, era quella che prendeva più luce e andava trattata più spesso. Quando era arrivato lì, s’era imposto alcune cose. La casa doveva essere dipinta di blu, tranne che per i cornicioni delle finestre. Questi dovevano restare bianchi.  In più, la casa avrebbe dovuto mantenere il suo colore, impeccabilmente, il più impeccabilmente possibile. Ecco perché la controllava così spesso e la laccava quasi di continuo. L’altra regola era quella di mantenere l’interno molto semplice, frugale, con vasellame di metallo o legno o ceramica. L’ultima regola era di restare lì per sempre.
Non erano regole che avessero un significato particolare. O forse ce l’avevano, ma lui non era in grado di capirlo. Forse non era ancora in grado di capirlo. E non lo voleva neppure. Per adesso gli bastava che gli servissero a vivere, ad avere un ordine. Una disciplina di cui farsi schiavo, senza pretese. Un qualcosa che lo facesse andare avanti. La sera, invece, quando non poteva lavorare e doveva fermarsi, non aveva altro sistema che tormentarsi la mano. Quella piccola ferita cui non dava modo di rimarginarsi. Da un paio di settimane era stato costretto a bendarsi, il taglio esasperato aveva fatto infezione. Forse non gli restava che l’ospedale.
Ecco. Forse le regole erano come una diga, misera. Misera come lui. Si sentiva così misero. Avvertiva le onde che si stavano gonfiando, sapeva che sarebbero arrivate. Si stavano formando là, lontano, dove il suo occhio non poteva arrivare. Ma la sua meritata sapienza, quella sì, che lo sapeva. Da quel mare contro cui non poteva nulla, qualche maroso si stava alzando per venire a prenderlo, a cercare di soffocarlo. E lui se ne sarebbe stato lì, senza invocare pietà, inzuppato d’acqua, sbattuto tra le rocce, come se quel boia lo punisse. E infatti non c’era alcuna confessione da estorcere, ma il semplice espiare.
Abitava appena fuori del paese, in una delle poche case che chiudevano la periferia. La strada gli passava davanti e poi si allungava verso il Nord, seguendo il contorno delle spiagge. Ogni tanto andava in paese a mangiare al piccolo locale, l’unico, o semplicemente a bere della birra. Non parlava molto, e il fatto che fosse straniero aiutava. Ad un quarto d’ora di strada c’era invece il traghetto per la città, dove aveva trovato lavoro. Lo scorso inverno era stato quasi insopportabile. Aveva avuto la tentazione di tornare,  quando l’aria aveva ripreso tepore ed il sole una specie di forza.
Il sentimento della fine era un serpente. Un serpente muscoloso, aggrovigliato al centro dello stomaco, che si torceva fin dentro alle sue braccia. Non si poteva vomitarlo, quel grumo di disgusto; le cose finivano, per colpa di qualcuno o forse di nessuno, e non si poteva più fare nulla. Non bastava neanche guardarle, come fossero fotografie in un album di ricordi, perché non davano nessun succo, non avevano linfa, e invece avrebbero dovuto essere acqua e morbido limo. Erano fotogrammi e figure che arrivavano, specialmente la sera, colorate, come pellicole che il tempo bruciava e scioglieva tra le mani. Non restava niente.
Se doveva riconoscersi una colpa era quella di essersi guardato dentro; non avrebbe dovuto farlo; nessuno ne avrebbe patito, di quella sua cecità; e invece, quello che aveva tirato fuori, dalle quinte del suo teatrino, non era piaciuto al pubblico, era stata la fine. Lei ne era morta. E lui ne era morto, al contempo. Ogni passo dell’inarrestabile delirio seguito alla sua confessione lo avevano vissuto entrambi. Era bravo, ad immaginare, era la cosa che aveva fatto di più, in tutta la sua vita; perciò aveva sentito tutto, la disperazione di lei, la rabbia, e soprattutto la maledetta impotenza. Era un precipitare disperato e senza senso, un disgusto che si apriva come un serpente dal centro dello stomaco fino a divorare ogni confine.
La sera non andava mai in paese, tantomeno in città. Passava il tempo libero a ripassare di blu le assi delle pareti esterne della casa, e, quando diventava troppo scuro per proseguire, si rinchiudeva coi suoi pensieri. Arrivavano come immagini di un filmino sbiadito, di una pellicola troppo vecchia, quasi stesse per dissolversi da un momento all’altro. Quando facevano troppo male si scopriva una ferita della mano fino a farla di nuovo sanguinare. Se l’era fatta quando s’erano lasciati, e da allora la teneva in vita. Sentire, sentirla dentro, quella fine, era stato troppo. Quella fine aveva segnato tutto il resto, perché da quel momento aveva capito che ogni cosa sarebbe finita allo stesso modo. Con un grumo di disgusto per l’insensatezza e l’impotenza per l’amore, che non si conserva.
Da allora se n’era andato lontano, più lontano. Non era nemmeno un’idea. Era un annaspare, quello di un uomo sommerso dall’acqua, che non sappia più che fare, e muove le braccia senza accorgersene, senza sapere quanto possa valere, quanto senso abbia il suo balletto. Non voleva iniziare più nulla, perché sapeva che il prezzo sarebbe stato troppo alto, per chi inizia qualcosa. Così, dipingere una casa di blu e non tenere oggetti di plastica in casa gli era sembrata una routine sufficiente. Non voleva causare altri lutti, e la cosa migliore da farsi era rinchiudersi da qualche parte. Bastava così poco ad essere la speranza di qualcuno, a dare ai suoi giorni la forma di un delfino che scivola e scivola ancora, lucido, splendente.
Gli veniva spesso in mente quell’uomo. Doveva essere stato a Luglio. Sulla riva del mare si affaccendavano mercanti stranieri cui non dava più ascolto e poi aveva intravisto con la coda dell’occhio quella pelle strana. Era disegnata di macchie e glabra, con strane ragnatele biancastre e rosse. Quei filamenti intrecciati ricoprivano la faccia di quell’uomo e per un pezzo avevo cancellato anche la bocca. Ne aveva sul petto e sulle braccia, su un braccio fin dove cominciava il moncherino. Il fuoco, forse, o qualche acido, aveva mangiato le dita e parte della mano, e, non pago, si era divertito sul petto e sul volto.
Era un uomo normale. Camminava portandosi appresso se stesso, e di sicuro non l’avrebbe voluto, di starsene così, tatuato fin dentro le ossa. Eppure era successo, nessuno aveva potuto strapparlo a quel tormento. Nessuna prova che avesse commesso colpe tali da meritare quel castigo. Poteva succedere a chiunque. Un giorno un artiglio ti strappa la carne e ti lascia così, in mezzo ad una strada, e tu vorresti ricostruire tutto, ma non puoi, non puoi, non puoi, non puoi. Non puoi. Puoi solo provare a sopravvivere, a rattoppare, a zoppicare dolente per il resto dei tuoi giorni. Poteva succedere a chiunque, nessuno era al sicuro. Non c’era niente che bastasse.
Ricordava anche che quell’uomo, dopo essergli passato davanti, era tornato, una mezz’oretta dopo. Teneva in braccio un bambino, probabilmente suo figlio. Era un bel bambino e sorrideva. Sembrava indifferente a quella pelle scabrosa, che era lì, vicino alla sua. Sembrava non sapesse di stringere un uomo che aveva perso un certo aspetto, un aspetto tranquillo, e che invece adesso indossava un costume spaventoso. Quel bambino sembrava un cane, di quelli che annusano innocenti anche le cose più immondi, senza voler cancellarle, senza voler esiliare alcun nome.
Ma la vita andava avanti, spingendosi nel fondo, come chi voglia liberarsi da un laccio, che si stringe di più, proprio per il forsennato  movimento. L’innocenza era un sogno, e le scaglie di vernice cadevano giù, come i sogni, lasciando i muri a screpolarsi, a cedere, mentre la polvere per terra si faceva sempre più spessa e soffocante. Le cose nascevano per precipitare, le corde si rompevano in pezzi, tra le mani gocce, sempre più piccole.
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perfettamentechic · 1 year
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29 marzo … ricordiamo …
29 marzo … ricordiamo … #semprevivineiricordi #nomidaricordare #personaggiimportanti #perfettamentechic
2022: Paul Herman, attore statunitense. Caratterista dal fisico esile e dal volto scavato, Herman apparve in molte pellicole di genere gangster. Il suo ruolo più famoso è probabilmente nella serie televisiva I Sopran.  Sul grande schermo partecipò ad alcuni capolavori, con registi come Sergio Leone (C’era una volta in America) e Martin Scorsese (L’ultima tentazione di Cristo, Quei bravi…
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incamminoblog · 2 years
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Giulio Michelini Commento al vangelo della Prima domenica di Quaresima
I Domenica di Quaresima (Anno A)  (26/02/2023) Vangelo: Mt 4,1-11  🏠 La scena della prova di Gesù può essere suddivisa in tre parti, incorniciate da un’introduzione e una conclusione. In 4,1 si presentano gli attori del dramma (Gesù, lo Spirito, il diavolo) e il luogo della prima tentazione (il deserto); sono descritte poi la prima prova (4,2-4), la seconda (4,5-7) e l’ultima (4,8-10). In 4,11…
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sfondami-il-cuore · 2 years
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Innessa resta dopo il sesso. Vasha non ha dubbi che lo faccia perché ha capito quanto preferisca quei momenti al piacere vero e proprio; dopotutto, una donna di quarantacinque anni ha già superato la fase della follia cieca in preda alla passione e necessita, segretamente, che qualcuno smussi la propria corazza. 𝐿𝑒𝑖 le è stesa accanto, nuda e ancora accaldata, i capelli sciolti le vestono il profilo del corpo. Quando le accarezza la pancia con le dita, Vasha rimpiange che, per incontrarla, si limi le unghie. Il rimpianto muore nell’istante in cui Innessa si trascina tra le sue cosce e torna a sfiorarla, su e giù, imprimendosi nella carne ancora fradicia dall’orgasmo imbrattato della sua stessa saliva.
“L’offerta per venire a Mosca è ancora valida.”
Hanno scopato talmente tanto da aver sbloccato l’abitudine di conversare, tra un’oscenità e l’altra. Una ciocca corvina di Innessa le dondola contro lo zigomo. Si tiene col gomito puntellato nel materasso e l’altra mano si impegna per farla sospirare, eppure oggi sembra avere gli occhi vispi che suggeriscono buonumore.
Infatti, le propina una risposta che la fa sorridere. “Ti ho già detto di no. Fanculo alla Madrepatria.”
“Ho un regalo per te, pensavo ti avrebbe convinta a raggiungermi questo inverno.”
Il respiro caldo di Innessa le coccola la mandibola, è di nuovo eccitata. “Mh?” Le morde la pelle del collo e le falangi strisciano pigramente tra le pieghe del suo piacere, senza lasciarsi mai risucchiare dal desiderio. Vasha si nega la tentazione di bloccarle il polso.
“Ho trovato tuo padre. Il tuo vero padre.”
Il dito affusolato di Innessa la viola dolcemente. “Ah, sì?”
Vasha inclina il mento per guardarla perdersi col muso tra i propri seni e sa che non smetterà mai di ringraziare Byunghun per rinvigorire ogni suo viaggio a Seoul col regalo meraviglioso ch’è sua moglie.
“Ti piacerebbe conoscerlo, Innessa?”
Il naso le struscia sullo sterno nello scuotimento lento del collo. “No, angelo.” Vasha ama come le braccia toniche di Innessa si flettano sotto lo sforzo muscolare di addentrarsi in lei con la voracità di una bestia affamata fin dal primo risveglio. Sta già allargando le cosce per la quarta volta in due ore.
“Non sei curiosa nemmeno di sapere che tipo sia?”
“Lo vorrei tenere in vita solo per torturarlo fino ad annoiarmi delle sue patetiche suppliche addolorate, ma di certo non ho intenzione di sapere quanto cazzo ami, che ne so, il giardinaggio.”
Vasha ingoia un sospiro: Innessa le sta infilando la lingua nell’ombelico, prima di morderle la carne tenera che lo circonda. “Quello che dici è sexy da morire. Ti sfido a trovare la parte negativa.”
“Io, con gli esseri umani, mi comporto come mi comporto con le bestie: un solo colpo e sono fuori dai giochi, ma non c’è punto di ritorno se inizi a trattare gli uomini da uomini. Ho ancora tempo per perdere l’ultima forma di altruismo che mi rimane.”
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“Penso di essere sociopatica,” le dice un giorno.
“No, sei solo stupida.”
Non lo è, ma si comporta come tale. Come quando stanno sull’autobus e Innessa inizia a infossarsi il lecca lecca talmente a fondo nella guancia da farlo venire duro ad un vecchio davanti a loro, per esempio. Nel ripensarci, quindici minuti dopo, 𝐕𝐚𝐫𝐯𝐚𝐫𝐚 è così arrabbiata che le tira le trecce lunghissime. La fa sbilanciare dall’altalena e quasi si rompe il collo, Innessa, e quasi lo rompe a lei in segno di vendetta. “Ma che hai in testa, idiota?”
“Non capisco perché devi sempre fare così.”
“Così come?”
“Scopare con tutti. Sempre. Sei ossessionata.”
Innessa si sistema e, finalmente, la fissa. Succede poche volte, ma quando accade, Varvara si sente al centro di un occhio di bue gigante che proviene dall’alto, un faro luminosissimo che la schiaccia tra le travi di un parquet immaginario. Anche se sua sorella non ha niente, al di sotto delle ciglia, se non due piccole iridi svuotate.
“Se non dico di no, non possono stuprarmi.”
Il cielo è plumbeo, pare quasi voglia caderle addosso e diventare tutt’uno con l’erba incolta del parco. A proposito, le sta solleticano da dieci minuti i polpacci, dà fastidio. Varvara fatica a spostare lo sguardo da quello di Innessa sedicenne. Si presuppone che certe cose si dicano puntando gli occhi altrove, ma 𝐿𝑒𝑖 la osserva come se le volesse far vomitare a forza una reazione dalla gola. Anche Varvara ha paura della verità. Non è sempre stata l’eccezionale sorella maggiore che vuole far credere agli altri. A quattordici anni, qualcosa la fa talmente arrabbiare che l’unico modo per non farsi rompere una costola, per Innessa, è stato quello di contrattaccare e scappare in bagno con un’intera ciocca dei suoi capelli in mano, il naso colante di sangue e almeno dieci perché incagliati tra i denti. Probabilmente non le verrà mai perdonato il fatto che quel pomeriggio non abbia indagato.
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Cuba l’ha privata del segno dell’abbronzatura: dai pantaloncini inesistenti non spuntano più quelle due striscioline sottili che le abbracciano i fianchi, lasciando solo che emergano le ossa pelviche oltre la pelle sottile del ventre. Sua zia è sdraiata sul divano, la testa sul bracciolo e i piedi che gli tapinano le cosce ogniqualvolta le sue mani allentano la pressione dei palmi. La sta massaggiando da mezzora, ormai. 𝐿𝑒𝑖 è in silenzio, guarda il soffitto, qualche volta sussurra robaccia in russo. 𝐒𝐞𝐨𝐣𝐢𝐧 oggi ha l’ossessione per le ossa dei polsi, vorrebbe spezzarglieli.
“Non avrò mai un figlio, per questo motivo Byunghun non mi inserirà mai nel testamento come unica erede di tutte le sue ricchezze.” Innessa non gli sta propriamente parlando, piuttosto sta pensando ad alta voce, conscia della fedeltà che nutre nei suoi confronti. Le alliscia il collo del piede, una Winston incastrata tra i denti; 𝐿𝑒𝑖 sta fumando un sigaro. Souvenir, l’ha chiamato. “Come tutte le cose che amo troppo, penso sia arrivato il momento di disfarmene.”
Le dita di Seojin si bloccano sulla sua pelle; Innessa lo schiaffeggia con la pianta del piede e lui torna a macinarle la carne, silenzioso come un sacerdote. “Come vorresti farlo?”
“Non lo so. So solo che dovrò sposare quello schifoso di tuo padre, lui è così stupido che mi inserirebbe nel testamento intestandomi tutto. Ed ecco che a me va la fortuna dei Jung, togliendo quello che spetta a te. L’unico problema è che vorrà scoparmi, chissà se ci riuscirebbe. Dopotutto, suo figlio non è che abbia segnato il traguardo” Lui esercita troppa pressione e 𝐿𝑒𝑖 gli schiaffeggia nuovamente la guancia. Non sa se lo raccapriccia più l’idea di immaginare Innessa e suo padre assieme o la tendenza a denigrare gli uomini che intercorre in tutte le sue frasi del cazzo. Lo irrita. “Mi disferei anche di lui.”
Seojin tace. La guarda da sotto la frangia corvina, Innessa sta ricambiando con un sopracciglio inarcato. Certo, è ovvio che 𝐿𝑒𝑖 conosca la domanda che sta per rifilarle: “E io?”
“Se sposo tuo padre potrò adottarti, bambino mio. Diventerei la tua mammina sexy e si chiuderebbe il cerchio.”
Passa forse un minuto, un minuto e mezzo, un’eternità, prima che lui le risponda. “Quando lo faresti?”
Ma Innessa ride, gli molla un altro calcio sulla guancia e si riempie la bocca da puttana col fumo del sigaro. “Chissà. Era solo un’idea.” Lo poggia in bilico sul bracciolo per sollevarsi e riempirsi il bicchierino del Brandy, che giace a terra. Lo manda giù tutto d’un sorso, la lunga treccia si infila tra le scapole e le dondola contro le chiappe semi-scoperte. Seojin ancora non ha superato la fase in cui vorrebbe spremerci il naso come fanno i cani. Sua zia si lascia cadere nuovamente con la schiena sul divano e gli strofina il retro del collo con un polpaccio, attirando la sua attenzione sul lieve avvallamento che congiunge quelle cosce spalancate. Riesce a distinguere la forma della sua fica demoniaca nonostante la presenza della stoffa. Le vorrebbe tappare la bocca con una mano e farla stare finalmente zitta mentre conquista ciò ch’è suo di diritto. “Dopo i trent’anni. Eliminati quei due, angelo, finalmente potrai avermi. Tutta per te.”
Seojin non ha intenzione di aspettare i trent’anni di Innessa.
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Le sue giornate si costruiscono sempre sulla stessa semplicità. Si sveglia, prepara due uova al tegamino, fuma una sigaretta e si consuma la bocca con almeno cinque sbadigli filati. I primi giorni, l’impresa titanica è stata quella di tornare, o meglio, di diventare abile ai fornelli dopo anni ad essere rimpinzata dalla cucina egregia degli chef personali. Quindi, pranzo o cena che siano, 𝗜𝗻𝗻𝗲𝘀𝘀𝗮 butta nell’acqua pesce e verdure e va avanti di zuppa o carne alla griglia. Lava i piatti nel ruscello che si nasconde tra gli alberi, sapone biologico alla mano che sgrassa solo unito all’olio di gomito, e se il freddo non le punge troppo la pelle si spoglia e si butta nell’acqua. Restare puliti è la vera sfida. Quando può, monta a cavallo della sua Jeep e scende fino a Geiranger, altrimenti deve ingegnarsi con la doccetta da campeggio o i flussi gelidi che offre la Norvegia. D’altronde Innessa ripudia la convenzione dei vestiti e ogni occasione è buona per liberarsene; una maglia buttata a terra, gli slip che pendono dagli aghi della tenda come fossero bandiere colonialiste, un calzino qui e un calzino lì. Dal punto in cui si è stabilita non vede la città: ci sono solo lei e qualche impronta rosea lontanissima che le ricorda di premersi l’Imperiale Montecarlo contro il fianco.
Dormire in tenda è strano. Lo è fino alla fine della sua permanenza nel Geirangerfjord. Le pareti sono inesistenti e percepisci la natura pulsarti addosso come se volesse spremerti nei suoi grossi polmoni bestiali. Innessa non chiude occhio se non nelle ore diurne, almeno per i primi due giorni. L’adrenalina che le morde il ventre la fa sentire viva. Qualcosa scricchiola all’esterno e le dita scattano sul grilletto. Il terzo giorno si addormenta. Il quarto, invece, si infila una mano tra le cosce e si crogiola nell’amplesso più bello che abbia mai avuto con se stessa. Masturbarsi nel bel mezzo del nulla è qualcosa che tutti dovrebbero fare una volta nella vita.
Si è stanziata a ridosso di uno strapiombo. L’erba si fa scivolosa di rugiada e fa slittare i piedi ogniqualvolta che Innessa venga spinta dalla curiosità a raggiungere il confine del suo isolotto. La roccia precipita nell’acqua. Basterebbe lasciarsi cadere e il primo impatto si avrebbe con una delle ossa che emergono dallo scheletro della montagna, prima di frantumarsi sulla superficie del mare. Lanciarsi è stato il primo desiderio di morte che ha avuto. È facile, veloce, probabilmente indolore se hai la fortuna di non restare paralizzato in uno stato comatoso del cazzo.
Preferisce addormentarsi in quella porzione di mondo, a ridosso del dirupo. Dapprima lo fa di giorno, per recuperare le ore in cui non ha dormito nella notte. Qualche volta in slip, qualche volta nuda, raramente con più di una maglietta addosso. Pancia rivolta verso il terreno, il sangue dell’erba spalmato su una guancia, sulle ginocchia, sui punti di contatto tra lei e la pelle verde della natura. La seconda volta si sveglia e ha un piede che galleggia nell’aria. Si spaventa così tanto che lo fa una terza volta, ma alla quarta non ha già più paura.
L’unico vero talento di Innessa è sapersi togliere dalle palle nel momento più opportuno. Sceglie l’intercapedine perfetta tra un istante e l’altro ed è lì che scompare in un mare di rose, come il più stupido dei trucchi di magia. Possono spingerle addosso qualsiasi altro pregio, ma in realtà è solo questo. Innessa non è nulla di più. Si sente minuscola e meravigliosa e impettita e incodardita come chiunque davanti gli immensi obbrobri di Madre Natura.
Al quinto giorno sta ballando attorno al fuoco, quando decide di attaccarsi alla bocca invitante del Brandy. Si sente uno schifo. Le prende così male che ripensa a quella volta in cui si è procurata un aborto. Ah, è passato solo un mese. Povero Seojin, pensa. Nato e cresciuto in una famiglia tanto rispettabile, solo per diventare una pedina sulla scacchiera della Signora Nessuno.
La notte fa freddo per davvero, cazzo. Innessa batte i denti. Morire di ipotermia è una delle poche eventualità a non galvanizzarla. Inizia a pizzicarsi la pelle con le unghie e la mattina dopo si ritrova piena di graffi: racconterà di essere stata aggredita nella notte da qualche animale. Un uomo, forse. La differenza tanto sta nella dignità, no? Uno ce l’ha, l’altro no.
Un pomeriggio si imbatte in un fotografo naturalistico. Entrambi si beccano un grande spavento. Finiscono per sorseggiare birra attorno al fuoco, gli offre di dormire nella sua Jeep mentre lei resta in tenda. Innessa parla di Byunghun, di quello che le disse la prima volta che s’incontrarono, qualcosa sul preferire le donne povere perché sanno essere anche molto cattive. Il cielo appare vicinissimo, Innessa nutre il presagio che, da un momento all’altro, la risucchierà nella sua voragine di astri. Sono dieci, quindici giorni che non tocca un uomo. Il tipo, un norvegese dalla zazzera biondissima, le allunga una mano sulla coscia. “Non mi va.” “Okay.” “Oh, è stato facile.” “Un no basta e avanza.” “Eppure sembra che i miei no non vengano mai rispettati. Forse sono poco convincente. Forse non mi piace essere rispettata.” Non si ricorderà mai il suo nome.
Il 29 Agosto vuole morire più degli altri giorni. Il cielo è grigio. Guarda verso il basso, è completamente nuda, le braccia dietro alla schiena e il fucile schiaffato ad un paio di metri di distanza. I capelli le pendono da tutte le parti, chissà se si animerebbero per salvarla durante la caduta. Ci sono momenti in cui Innessa o sente troppo o non sente niente. È una montagna russa del cazzo e lei non ci sta seduta, no, ma rimane incastrata con la caviglia durante il tentativo di lanciarsi giù e quindi si fa strattonare di qui e di lì, tenuta solo per un’estremità del corpo. Oggi è uno di quei momenti in cui non prova nulla ed è l’unica cosa che la terrorizza da tutta la vita. Madre Natura le respira addosso, le bacia il collo e la spinge per i fianchi. La sta reclamando. Concimami, dice. Fertilizzami, incalza. Innessa vorrebbe risponderle che l’avvelenerebbe, ma Madre Natura insiste, perché lei è l’unica a non vederla come erbaccia da estirpare. Si sente più vuota di quello che segue lo strapiombo. Fa danzare un piede nell’atmosfera. Innessa vuole smettere di avere paura.
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schizografia · 4 years
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(...) il Cristo è un buon personaggio per un film? Non va dimenticato che esso non smette di respingere i termini usuali nei quali lo si vuole rinchiudere. Esasperato, trova delle formule, sostituisce il dialogo con la parabola, parla figurato, è un po’ snob (figlio di papà). Poco simpatico. In questo senso, il film è fedele.
Serge Daney
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iannozzigiuseppe · 1 year
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L’ultima tentazione - Nikos Kazantzakis - Traduzione dal greco: Gilda Tentorio, Nicola Crocetti - Crocetti Editore
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sydmorrisonblog · 3 years
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ROBERT WADLOW: THE GENTLE GIANT (il gigante gentile)
Chissà cosa passò per la mente di Robert Wadlow, quel 27 giugno 1940 in cui fu misurato per l’ultima volta, facendo registrare l’altezza di 2,72 metri e diventando così a tutti gli effetti l’uomo più alto mai registrato nella storia. In febbraio aveva compiuto 22 anni, un’età in cui normalmente non si cresce più da tempo, mentre lui invece continuava a crescere, e il ritmo non sembrava rallentare rispetto agli anni precedenti. Nonostante i giornali pubblicassero la notizia in prima pagina e tutti gli States lo festeggiassero come una gloria nazionale, difficilmente Robert poteva sentirsi felice. La sua altezza non era un dono degli dei, ma l’effetto di una malattia, una iperplasia (crescita abnorme, spesso dovuta a un tumore benigno) dell’ipofisi, la ghiandola endocrina che regola i tempi e la velocità della crescita. 
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Robert Wadlow sin dalla più tenera età era stato molto più alto dei suoi coetanei, e già a 6 anni aveva superato i 170 cm. La soglia dei 2 metri era stata passata tra il decimo e l’undicesimo anno. Parallelamente, cresceva anche la sua massa fisica: a 22 anni pesava oltre 200 kg, anche se non appariva certo grasso.
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Eppure, quel ragazzo avrebbe desiderato soltanto una vita normale. Primo di cinque figli, nato il 22 febbraio 1918 e sempre vissuto ad Alton, nell’Illinois, era stato un bravo studente, anche se era stato sempre necessario costruirgli dei banchi su misura. Si era ottimamente diplomato alla High School nel 1936 e, subito dopo, si era iscritto allo Shurtleff College, l’università della sua città, in cui aveva sede una rinomata scuola di Legge, con l’intenzione di diventare avvocato. Nel giardino della stessa università, oggi, è ricordato con una statua a grandezza naturale.
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Era stato anche uno scout, e aveva provato a fare tutto ciò che normalmente facevano a quel tempo i ragazzi della sua età, almeno finché gli era stato possibile. Nel tempo, le sue enormi dimensioni gli avevano dato sempre più problemi, soprattutto le gambe che erano diventate lunghissime e rischiavano di non reggere il peso del busto. A differenza di altri giganti, non aveva ceduto alla tentazione della sedia a rotelle, e aveva preferito aiutarsi a camminare con un bastone o con dei tutori ortopedici.
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Una meraviglia come lui non poteva passare inosservata agli occhi dei pubblicitari del tempo, che infatti lo avevano ingaggiato come testimonial di diverse campagne, prima tra le quali quella della ditta di calzature che gli faceva le scarpe su misura. Con la pubblicità, guadagnava benissimo e ogni tanto doveva spostarsi per partecipare a degli eventi. Il 4 luglio 1940, festa dell’indipendenza, ne aveva uno alla Riserva Nazionale Manistee, nel Michigan, fondata da pochi anni e già ben conosciuta dagli escursionisti di tutto il Paese.
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Affinché restasse in piedi tutto il tempo necessario a esibirsi senza stancarsi troppo, gli furono montati dei nuovi tutori metallici sulle gambe. Uno di questi, sfregando sulla cute, gli provocò una profonda escoriazione alla caviglia. Robert non se ne accorse perché, in seguito alla crescita e al conseguente stiramento dei nervi, la sua sensibilità a livello delle estremità era alquanto ridotta. Il problema fu sottovalutato dagli specialisti, la ferita si infettò e fu necessario il ricovero in ospedale, sempre a Manistee. Le terapie antibiotiche, a quel tempo, erano ancora in fase sperimentale; Robert fu trattato con un intervento chirurgico e delle successive trasfusioni di sangue. Ma qualcos’altro andò storto e, anziché guarire, sviluppò una reazione autoimmune, forse dovuta al fatto che il sangue non era del tutto compatibile con il suo gruppo. Dopo 11 giorni di agonia, il 15 luglio 1940, morì durante il sonno.
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Fu trasportato ad Alton in una bara lunga quasi 3,5 metri e pesante oltre 450 kg, che si avvicendarono a portare 20 uomini durante una cerimonia pubblica cui parteciparono 40.000 persone. Fu l’ultimo addio a un ragazzo che avrebbe voluto soltanto essere normale e, prima ancora che essere una celebrità, era riuscito a farsi amare da chiunque lo avesse conosciuto: molto socievole e amichevole con tutti, protettivo con i bambini e chiunque gli apparisse debole, sempre pronto a scherzare o a mettersi in posa per una foto ricordo. Lo chiamavano “The Gentle Giant” (Il gigante gentile), un soprannome che accompagna la sua icona ancor oggi.
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danzameccanica · 4 years
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Girando per Volterra capiterà quasi matematicamente di entrare dentro il duomo cittadino. La prima cosa che vi rapirà l’occhio, sia che siate amatori o non amatori d’arte, sarà il soffitto a scomparti “alla veneziana”, riccamente decorato con serafini dorati. Se siete poi amatori d’arte verrete catturati da una “Maddalena penitente” di Guido Reni (più aiuti), da una “Caduta di Saulo” del Domenichino e, anche se non ve ne intendete poi così tanto di pittura, è impossibile non rimanere affascinati dalle prime due scene nella navata sinistra: “il Martirio di San Sebastiano” di Francesco Cugni e “L’allegoria dell’Immacolata Concezione” di Niccolò “Il Pomarancio” Cirignani.
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Quest’ultima, soprattutto, riesce a ipnotizzare lo spettatore grazie ai suoi colori cangianti, quasi fluorescenti, grazie alle torsioni dei personaggi rappresentati e al tortuoso stile manierista. Il Pomarancio vanta una carriera abbastanza altalenante fra le alte citazioni tibaldesche e michelangiolesche (S. Giovanni dei Fiorentini, Roma; S.Croce in Gerusalemme, Roma), scene civili a Castiglione del Lago e interessanti imitazioni di Pontormo (a Umbertide). Questo tipo di Allegoria dell’Immacolata Concezione è tanto curioso e particolare quanto circoscritto in questa area del nord della Toscana. Nello stesso duomo di Volterra, basterà imboccare il transetto a sinistra, voltarsi di 180 gradi per ritrovare una tavola analoga, dipinta da Cosimo Daddi, ma di poco interesse.
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Nella vicina chiesa di San Francesco c’è una variante della stessa Allegoria, in uno stile che può dirsi fra Pontormo e Bartolomeo Cesi. L’autore è Giovanni Battista Naldini, l’opera è degna di nota ma sicuramente rimane all’ombra di questa sensazionale del Pomarancio.
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Per risalire ai primi modelli di ispirazione di questa Allegoria (quella del Pomarancio, che è il nostro oggetto, ma anche le altre che vedremo) dobbiamo risalire a Giorgio Vasari che sarà il primo a scegliere un certo tipo di fonti letterarie e, allo stesso tempo, creare un modello iconografico. Nel 1543 realizzerà per Messer Bindo Altoviti, quello che per noi sarà il primo prototipo destinato alla chiesa dei Santi Apostoli, Firenze (Vasari, Ricordanze, p.16).  
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Vasari decide di mettere in mostra una fusione fra un passo della Genesi (“E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la progenie di lei; questa progenie ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno” Genesi 3,15) e uno dell’Apocalisse (“Poi apparve un gran segno nel cielo: una donna rivestita del sole con la luna sotto i piedi, e sul capo una corona di dodici stelle” Apocalisse 12). Gli altre figure imprescindibili sono Adamo ed Eva, coloro che erano senza peccato ma che, a causa della tentazione del Demonio sono diventati i primi peccatori del mondo e, con il loro gesto, hanno gettato nel Peccato Originale tutta la loro progenie. Ai loro lati i Padri della Chiesa, che possono essere Abramo, Isacco e Giacobbe; a volte Mosè, a volte David; colonne portanti dell’ebraismo e del Vecchio Testamento che però, essendo nati prima di Cristo non possono usufruire del Battesimo. Guardano tutti in alto perché Maria, ha il potere di sciogliere i lacci e le catene del peccato purificando lo spirito peccatore anche di chi è vissuto prima di lei. Gli angioletti intorno alla Madonna sorreggono spesso un carteggio che, nonostante le poche variazioni recita “chi è stato condannato dalla colpa di Eva, sarà salvato da Maria”.
Nel 1541 egli aveva eseguito una piccola tavola come bozzetto, poi sequestrata dai Medici e ora agli Uffizi.
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L’invenzione piacque così tanto al Vasari che la replicò varie volte, in perfetto stile di velocità e riproduzione dei modelli, tanto cari al manierismo. Altre copie si trovano nel Museo di Arte Medieval e Moderna di Arezzo (già nella chiesa di S. Francesco):
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Una tavola all’Ashmolean Museum di Oxford:
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Un’altra del 1543 che fa parte di un trittico con ai lati i Santi Remigio e Biagio, al Museo di Villa Guinigi, Lucca:
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Una grande tavola nella Pieve di S. Salvatore a Fucecchi (ma di recente attribuita a Jacopo “Da Empoli” Chimenti.
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L’anello di congiunzione con Vasari (visto che prima si era data proprio a lui l’attribuzione) sarà la successiva versione nella Cappella del Ss. Sacramento, nella chiesa di S. Stefano ad Empoli. Qui tutto rimane pressoché identico, si allungano le forme del registro superiore, la Madonna acquista caratteri più cari al futuro Seicento; l’incarnato dolce di Eva si discosta da quello più bruno di Adamo mentre il resto dei colori diventa più squillante. Ma nient’altro cambia.
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Fra tutte le altre versioni, la più rocambolesca, affollata come un mercato (o una sauna, a giudicare dalle contorsioni muscolari) è quella di Carlo Portelli, ora alle Gallerie dell’Accademia, Firenze. Sfugge decisamente da tutte le nostre analizzate ma vale la pena darci una veloce occhiata, anche solo per diletto.
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Il Pomarancio esegue un’Allegoria dell’Immacolata Concezione a Città di Castello dove sembra essersi ispirato tanto dal modello vasariano quanto da quella dell’Empoli a S. Miniato. Nella versione di Città di Castello emergono, nel registro inferiore, i Padri della Chiesa, i quali tengono un carteggio identificativo; la Madonna, pur nella sua staticità è ornata sia di stelle che di falce di luna mentre, ai suoi piedi ci sono i progenitori, di correggesca memoria e, con un rimando di impostazione alla tavola di Daddi: simile sono adagiati i corpi, seduti e con le mani legate dietro. Ma alle loro spalle vi è il Diavolo che sta compiendo un gesto interessante: sta tirando verso di sé i  gli artigli del demonio ghermiscono una grossa catena alludendo alle carni appena corrotte e in suo dominio decisionale.
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A San Miniato, l’Empoli rappresenta i corpi di Adamo ed Eva non più penzolanti o morenti ma sono legati l’uno all’altro, come due schiavi e nemmeno si distinguono i lineamenti dei volti, tanto sono oscurati dal peccato originale; anche i loro stracci, alludono ad un momento della loro vita nel quale sono stati scacciati da tempo dall’Eden. La lettura globale dell’opera di S. Miniato, con pochi personaggi, presenti, con forti contrasti fra luci ed ombre, in uno stile più consono alla fine del Cinquecento e con forte lessico didascalico, inserisce la rappresentazione direttamente dopo la svolta dogmatica della Controriforma. C’è il serpente/diavolo, con tanto di ali da drago e corna; la Madonna non cavalca la mezzaluna né si vedono attorno a lei le dodici stelle, ma compare un dettaglio interessante che svelerò fra poco.
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La pala del Pomarancio a Volterra, tornando all’inizio del ragionamento, mostra i progenitori legati ma in piedi, opposti fra loro ma speculari. Gli allungamenti delle membra ricordano le anatomie di Rosso Fiorentino mentre i volti delle donne quelle di Pontormo; La donna alla nostra estrema destra, porta delle vesti tanto vaporose che, paradossalmente, mostrano l’ombelico e la punta dei seni; in modo meno surreale, invece, ci ricorda Andrea del Sarto o Pellegrino Tibaldi. Le piccole foglie di vite coprono le nudità dei genitali di Adamo ed Eva in quel modo che tanto bastava al decoro per mostrarsi; le pose sono michelangiolesche, soprattutto nei seni marmorei di Eva che richiama le allegorie femminili delle tombe medicee Intanto la novità della pala di Volterra sta nell’includere alcune figure femminili nel primo registro, forse Sara (moglie di Abramo) ed Ester (moglie di Isacco). Seconda novità è San Francesco che compare in primissimo piano in mezzo ai progenitori, ma questo inserimento è forse da attribuire a decisioni di committenza.
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Altra interessante licenza sono le due figure maschili che paiono anch’esse legate dietro Adamo ed Eva; non hanno elementi di riconoscimento se non per un cappello uno e un mantello l’altro. Quest’ultimo presenta l’incarnato tipico di Pontormo e delle sue invenzioni nella Deposizione di Santa Felicita: la sua nuda muscolatura, con tanto di addominali e capezzolo in mostra, è colorata di grigio.
L’ultima innovazione è forse la più interessante: Satana compare con un mezzo busto che fuoriesce in maniera indipendente sia dal tronco dell’albero che dal corpo del serpente. Il serpente dovrebbe presumibilmente avere la testa dentro il cespuglio alberato e, allo stesso modo avvinghia il corpo muscoloso del demonio, che compare senza ali né corna; non ha alcuna caratteristica demoniaca ma solo delle singolari orecchie d’asino. La doppia citazione michelangiolesca risiede in queste orecchie e in questo strano rapporto fra il busto muscoloso del Diavolo e le spire del serpente, dettagli che provengono entrambi dal Minosse nell’Inferno del Giudizio Universale. Capigliatura e torsione ricordano gli schiavi del Louvre, soprattutto se si rimane sui parallelismi col Buonarroti.
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In ultimo, ma non in ordine di importanza, anzi, proprio sul finale: il dettaglio che avevo anticipato prima e che solo Jacopo da Empoli sembra aver rappresentato in quasi tutte le sue varianti: la Madonna è incinta. Questo dettaglio è ben espresso in Apocalisse 12, 2 (”Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto”), ma può alludere anche al fatto della sua doppia natura ed “entità immacolata”: la sua e quella di suo figlio Gesù. Ricordiamo che ben prima dell’istituzione dell’Immacolata Concezione, effettuata da Papa Pio IX l’8 dicembre 1854, da sempre i dibattiti teologici si sono interrogati su questo tema. Dal Cantico dei Cantici (“… in te nessun macchia…”; Cantico 4, 7), a S. Agostino, Alberto Magno, Bernardo di Chiaravalle... il tema diventò sempre più controverso dal XIV secolo e i dipinti analizzati erano spesso chiamati con il titolo di “Disputa sull’Immacolata Concezione”.
elenco delle immagini in ordine alfabetico: Jacopo Da Empoli Chimenti – Allegoria dell’Immacolata Concezione, Abbazia di San Salvatore, Fucecchi Jacopo Da Empoli Chimenti – Allegoria dell’Immacolata Concezione, Cappella del Ss Sacramento, S. Stefano, Empoli, 1596 Jacopo Da Empoli Chimenti – Allegoria dell’Immacolata Concezione, Museo di S. Chiara, S. Miniato, 1600-10 Jacopo Da Empoli Chimenti – Allegoria dell’Immacolata Concezione, S. Agostino, Prato Niccolò “Il Pomarancio” Cirignani – Duomo di Volterra Niccolò “Il Pomarancio” Cirignani – Allegoria dell’Immacolata Concezione, Pinacoteca di Città di Castello, 1573 Cosimo Daddi – Allegoria dell’Immacolata Concezione, duomo di Volterra. Giovanni Battista Naldini – Allegoria dell’Immacolata Concezione, S. Francesco, Volterra, 1582 Carlo Portelli – Allegoria dell’Immacolata Concezione, Gallerie dell’Accademia, Firenze Giorgio Vasari – Allegoria dell’Immacolata Concezione, Uffizi, 1541 Giorgio Vasari – Allegoria dell’Immacolata Concezione, Ss. Apostoli, Firenze, 1543 Giorgio Vasari – Pala dell’Immacolata Concezione con i Ss Remigio e Biagio negli sportelli laterali, Museo Nazionale di Villa Giungi, Lucca. Giorgio Vasari – Allegoria dell’Immacolata Concezione,Ashmolean Museum, Oxford
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‘L’ULTIMA NOTTE SULLA TERRA’
O ‘COME UN ANGELO E UN DEMONE TROVARONO IL MODO DI DICHIARARE IL PROPRIO AMORE E DI FREGARE I RISPETTIVI SUPERIORI’
Salve gente! Vista la buona accoglienza della mia prima fanfiction, ho deciso di pubblicare anche le altre che tenevo nel cassetto computer... E’ ora che vedano la luce: forse questa quarantena qualche lato positivo ce l’ha :-)
Parole: 3782
Fandom: Good Omens
Ineffable Husbands, ambientato nella notte del Sabato della sventata Apocalisse, risoluzione di una lunga slow burn, mutual oblivious pining, menzione del gruppo scultoreo ambiguo a casa di Crowley, dei loro celebri amanti passati, Aziraphale conosce meglio di quanto sembri le canzoni dei Queen, jealous!Crowley
Dicono che le idee migliori vengano quando non ci si pensa troppo. Tutte le grandi invenzioni sono nate quando il rispettivo inventore era impegnato a fare tutt'altro: degli alchimisti medievali cercavano di ottenere l'elisir di lunga vita e invece realizzarono una polvere che avrebbe spento molte vite; Flaming voleva capire da cosa dipendesse il raffreddore e finì per scoprire come fermare in anticipo qualsiasi epidemia (causando il pensionamento di Pestilenza e l’ascesa di Inquinamento) e così via... Fino a Crowley e ad Aziraphale.
Il demone e l'angelo avevano appena sventato l'Apocalisse, non senza difficoltà, temendo in una certa misura quale sarebbe potuta essere la reazione dei rispettivi capi, reazione che però tardava a farsi sentire; ciò aveva dunque spinto i due 'traditori' a passare quella che credevano fosse la loro ultima notte sulla Terra a darsi ai piaceri della vita terrena... Ma andiamo con ordine.
Mancava poco al finire di quel sabato che aveva rischiato di venir ricordato come il giorno dell'Apocalisse: Aziraphale e Crowley si trovavano nell'appartamento di quest'ultimo a consumare la sua riserva di vini pregiati collezionati negli anni. l’angelo era stato poche volte a casa sua e ogni volta non aveva potuto fare a meno di chiedersi perché l'arredamento dovesse essere così minimale: certamente era ordinato e non c'era nulla di sporco, rotto o rovinato (nemmeno le piante presentavano imperfezioni [Aziraphale era al corrente del suo 'metodo' per avere le piante migliori di Londra e se aveva scelto di presentarsi come giardiniere presso la famiglia di Warlock era stato per dimostrare al demone che si potevano ottenere buoni risultati con la gentilezza]), ma non poteva esimersi dal pensare che una piccola libreria non avrebbe sfigurato. E tutti i suoi conseguenti ragionamenti per migliorare l'arredamento arrivavano inevitabilmente a formulare la frase: "Se vivessimo insieme...", che puntualmente poneva fine al suo flusso di pensieri. Guardò il demone che se ne stava stravaccato sul divano a riempirsi per la (aveva perso il conto) volta il bicchiere: anche sotto l'effetto di parecchie bottiglie, Crowley riusciva sempre ad essere estremamente affascinante; prerogativa dei demoni, per indurre meglio in tentazione. Per 6000 anni si era mescolato agli umani, seguendo ogni moda, mutando continuamente il suo aspetto e il proprio nome... Ma per Aziraphale era sempre stato quell'angelo caduto che non smetteva mai di stuzzicarlo con le domande che lo tormentavano dalla Grande Guerra tra gli angeli, che non smetteva mai di stupirsi della capacità degli umani di rubargli il lavoro, se non di mostrarsi più caritatevoli degli stessi angeli...
"Apriamo lo Chardonnay?" propose Crowley.
"No..." rispose Aziraphale puntando un dito avanti e cercando di spostarlo da destra a sinistra: "Prima dobbiamo cercare di capire il significato della profezia!"
Crowley alzò gli occhi al cielo: "Angelo, anche se quella profetessa matta si stesse riferendo a noi due, dubito che troveremo un modo per sfuggire alla nostra punizione!"
Aziraphale quasi sbiancò: "Vuoi dire... Che ci arrendiamo? Così? Dopo aver sventato un'Apocalisse?"
"No... Prima ci facciamo la più gran bevuta della Storia" disse aprendo la bottiglia di Chardonnay e riempiendo prima il bicchiere dell'angelo e poi il suo: "e solo dopo ci arrendiamo!"
Quel giorno non era la prima volta che Crowley cercava consolazione nell'alcool ed ora era una scusa per passare le ultime ore della sua vita terrena con l'unica creatura soprannaturale che aveva vissuto la sua stessa esperienza... Mentre qualche ora fa se ne era servito per piangere la sua scomparsa. Il pensiero che l'indomani sarebbero morti insieme rendeva quasi più allettante il sapersi condannato. Tutto ciò aveva un sapore molto romantico, che li avvicinava a quel genere di storie che Crowley non avrebbe ammesso neanche sotto tortura di guardare [nel 1997 era stato costretto a trasformarsi in serpente in una sala cinematografica spaventando una coppietta colpevole di averlo beccato a piangere per il congelamento di Leonardo Di Caprio). Non ricordava di aver provato un dolore così forte dal lontano giorno in cui aveva perso per sempre la Grazia: ma se gli anni avevano contribuito a sfumare quel ricordo rendendolo meno doloroso, l'ora trascorsa pensando che il suo angelo fosse scomparso era ancora vivida nella sua memoria. E se quella era davvero la loro ultima notte sulla Terra, forse sarebbe stato il caso di rendergli noto che per quanto i suoi gusti in fatto di vestiario e di musica fossero fermi agli anni '50, rimaneva l'angelo più compassionevole e leale alla sua missione come lui non era mai riuscito ad essere.
Avevano appena fatto l'ennesimo brindisi quando l'attenzione di Aziraphale venne catturata da un gruppo scultoreo che quasi stonava con lo stile dell'appartamento.
"Quello è un pezzo nuovo?" chiese alzandosi e incamminandosi traballante verso esso.
"L'ho comprato qualche mese fa..."; biascicò Crowley, di malumore per essere costretto ad alzarsi (e per essere stato interrotto nel suo proposito di parlargli di una certa questione): "Simboleggia il male che trionfa sul bene..."
"... A me sembra che stiano facendo qualcos'altro!"
Come sempre accade quando qualcuno sta bevendo e il suo compagno esprime un pensiero che il primo non avrebbe pensato avrebbe mai potuto concepire, Crowley rischiò di ingozzarsi con il Chardonnay.
"Aziraphale!"
"Mi domando come a TE non sia venuto in mente!"
"Solo perché sono un demone non significa che la mia mente sia occupata da immagini dei sette vizi capitali 24 ore su 24..." rispose Crowley mandando giù il sorso che aveva rischiato di strozzarlo.
Rimase un attimo zitto, per poi mettersi a ridere: "Pensa se dopo tutto quello che è successo oggi, i nostri superiori ci trovassero in una situazione del genere!"
Calò il silenzio. Non volò una mosca (non sarebbe comunque volata perché in casa di Crowley non era mai entrato alcun insetto). Aziraphale lo guardava con gli occhi spalancati, tenendo però con entrambe le mani il bicchiere nel terrore che lo Chardonnay andasse sprecato. In quel lunghissimo attimo di silenzio, Crowley si morse la lingua innumerevoli volte: perché era vero che era sulla strada dell’ubriachezza, ma era sempre riuscito a conservare uno sprazzo di lucidità. Soprattutto quando si ubriacava con Aziraphel.
"Fammi tornare sobrio..."
Crowley era sempre stato bravo a tirarsi fuori dai problemi.
"Dunque, quello che volevo dire è che..."
Era facile stordire di chiacchiere e di domande il proprio interlocutore in modo da potersi dileguare senza troppe difficoltà.
"... Questa è la nostra ultima notte sulla Terra..."
"... Forse..."
"... Ok, al 99%..."
Ma era difficile trovare le parole adatte per qualcosa che si era tenuto dentro per tutto quel tempo e che in quella giornata era venuto lievemente alla luce.
"Il punto è che... Quando ti ho proposto di scappare su Alpha Centauri, quando ho trovato la biblioteca in fiamme..."
"... Mi stai chiedendo di fare sesso?" chiese candidamente Aziraphale dondolando il calice nella mano.
"Cosa?"
Crowley trattenne l'impulso di sprofondare nel pavimento e divenire parte di esso. E ringraziò di avere ancora indosso i suoi occhiali da sole.
"Perdonami, non ero tornato sobrio..."
S’incamminò nella direzione di Crowley, eliminando di due passi la distanza che c'era tra loro.
"... Continua pure, non ti interromperò!"
Crowley deglutì agitato. Ma in nome del Cielo, dell’Inferno e di qualsiasi cosa, oramai era troppo tardi per tornare indietro. Si tolse gli occhiali e lo guardò dritto in quegli occhi azzurri.
"Se davvero questa è la nostra ultima notte sulla Terra, la voglio passare col migliore amico!"
Aziraphale aggrottò le sopracciglia e appoggiò vicino alla scultura incriminata il calice: "Per migliore amico intendi quello della canzone?"
Crowley lo guardò interrogativo, per poi sbarrare gli occhi per la sorpresa: “Te la ricordi?”
"Avrò sentito le canzoni dei Queen innumerevoli volte grazie a te, caro! Ma, tornando a quella canzone... Ci ho pensato spesso e non credo che parli solo di amicizia... Insomma, you're the best friend that I ever had / I've been with you such a long time..."
Crowley sentì una fitta allo stomaco ricordandosi l'ultima volta che aveva sentito quelle parole...
"... You're my sunshine and I want you to know / that my feelings are true…”
… E I battiti del cuore aumentargli mano a mano che s’avvicinava a quella frase.
“... I really love you..."
E colmò delicatamente la distanza rimasta tra loro. Le sue gambe cedettero momentaneamente al contatto con le sue labbra: era come se tutto ciò che ci fosse di buono in lui si stesse risvegliando per venire definitivamente allo scoperto. Per la prima volta in quella lunga serata iniziò a sperare che forse, forse avrebbero davvero trovato un modo per salvarsi.
"6000 anni..."
"...Non è vero che vai veloce..."
"... Oh angelo, fidati: ne è valsa pena!"
Aziraphale d’altro canto si sentiva come se stesse scivolando in un abisso di perdizione, di cui si stava godendo ogni minuto (relativamente parlando, dal momento che Crowley aveva fermato il tempo [per quanto ci avesse scherzato, non era assolutamente dell’idea di farsi beccare dai suoi o dagli altri in quel momento che aveva così tanto desiderato]). Il suo demone stava reagendo alla sensazione di beatitudine che gli dava avere le mani nei suoi capelli, riscoprendo la morbidezza dei capelli angelici (in particolare di quei capelli angelici), quando sentì crescere in sé stesso e nel compagno determinate sensazioni che solitamente precedevano una delle attività preferite dagli umani. Sentiva più caldo di quanto avrebbe dovuto sentirne in quella stagione dell'anno, i suoi vestiti insopportabilmente stretti e una curiosità ancora più accentuata riguardante il corpo di Crowley. Aprì un occhio per vedere da che parte si trovasse la camera da letto e cercò di guidarlo in quella direzione, continuando a baciarlo.
"Mi stai portando in camera?" gli chiese Crowley. I suoi occhi brillavano come quando aveva scoperto cosa aveva fatto della sua spada di fuoco.
"Pensavo che volessi portarmi tu!" rispose innocentemente Aziraphale, ma il tono strideva con la bramosia con cui guardava il suo corpo. Crowley schioccò le dita e si ritrovarono seduti in mezzo al suo letto.
"Sei sicuro di voler cadere in tentazione?" domandò il demone sciogliendogli il cravattino.
L'angelo gli sbottonò il primo bottone della camicia e avvicinò la sua bocca all'orecchio destro.
"So resistere a tutto... Tranne alle tentazioni!"
"Di chi era questa? Oscar Wilde?"
"Tecnicamente gliel'ho suggerita io..."
Sul momento Aziraphale pensò che l'improvviso balzo di Crowley fosse dovuto al fatto di avergli toccato la schiena mentre gli sfilava la camicia: ma la ragione era più dovuta a ciò che per molti è considerato il miglior nutrimento dell'amore.
"Quindi sei stato con Oscar Wilde? Mi avevi detto che non c'era stato niente tra di voi..."
"Ci eravamo appena riconciliati: non volevo rischiare di non vederti per un altro secolo..."
Fin dall'inizio dei tempi, Crowley e Aziraphale erano sempre stati curiosi di capire in prima persona perché gli umani tendevano a compiere tante sciocchezze in nome del sesso e dell'amore, due cose per le quali sia gli angeli che i demoni non avevano grande considerazione [i primi considerano uno inaffidabile se non rivolto a Dio e l'altro disgustoso per tutto ciò che ne conseguiva (nessuna eccezione per qualsiasi tipo), mentre i secondi consideravano entrambi meri strumenti per indurre gli umani in tentazione]. Tuttavia, c'era sempre stata una certa ritrosia a parlare delle proprie esperienze in questo campo, dato il legame per così dire ineffabile che indipendentemente dal loro Accordo sembrava legarli.
"... Non me la sarei presa per così poco!" esclamò Crowley. Poi con un tono leggermente più vago: "... Ce ne sono stati altri?"
Aziraphale distolse lo sguardo. Perché dovevano fare quel discorso proprio adesso?
"Perché tu, non hai avuto... Esperienze?"
Crowley gli rivelò che aveva avuto modo di capire molto presto quanto il sesso fosse importante per gli umani e quanto facile fosse tentarli tramite questo. Troppo facile. Negli anni quest’ultimi avevano trovato dei modi brillanti per complicarsi la vita con esso, così si era lasciato aperta quella finestra per quei momenti in cui si sentiva solo e non ci sarebbe stato lui a fargli compagnia. Aveva tutti i mezzi a sua disposizione per attirare qualcuno nella sua rete ed era un modo di unire l'utile al dilettevole, come nel caso del gentiluomo autrice di un diario pressoché indecifrabile e del cantante di Zanzibar che pensava di non saper scrivere delle buone canzoni.
"... E poco dopo, scrisse una canzone talmente assurda e talmente geniale che nessuno pensò che non sapesse scriverne!" concluse con un sorrisetto soddisfatto ripensando a quel vecchio miracolo.
Più che la lista di amanti più o meno celebri di Crowley, fu quell'ultimo dettaglio a mettere Aziraphale in subbuglio: "Mi sono dichiarato con una canzone scritta da lui?"
"Oh no, quella non è sua, l'ha solo cantata..." lo tranquillizzò Crowley: "Parlò quello che utilizza le frasi ad effetto dette agli ex!" disse prendendolo dentro con tono scherzoso.
Aziraphale sorrise imbarazzato: "Quella gliel'ho suggerita molto prima che... Ci conoscessimo... In senso biblico!"
L'angelo aveva sempre osservato quel fenomeno dall'esterno (accumulando una buona parte di libri sull’argomento), ricevendo nel frattempo numerose proposte 'indecenti' di cui cercava di non vantarsi per l'opinione che la sua parte aveva a riguardo. E avrebbe mantenuto questa condotta se durante un Carnevale a Venezia non avesse incontrato un giovane seduttore che nell'aspetto e nei modi gli ricordava vagamente un demone di sua conoscenza che l'aveva finalmente convinto a sperimentare in prima persona ciò di cui aveva sempre e solo letto. Peccato che man mano che elencava le persone con cui era stato da allora (tutte personalità passate alla storia per le proprie capacità amatorie), vide la preoccupazione manifestarsi sul viso di Crowley .
"... Lo sapevo, non avrei dovuto dirtelo... Adesso penserai che sono difficile da accontentare!"
Non aveva sbagliato. Ma nella mente di Crowley era sorto anche un altro pensiero in seguito a quella rivelazione: "In realtà, stavo pensando a tutto quello che avrai appreso!"
Aziraphale lo guardò. L'aveva fatto. Di nuovo. Il suo demone lo conosceva proprio bene. Vide formarglisi quel sorrisetto soddisfatto che faceva ogni volta che riusciva a cogliere nel segno e decise che gli avrebbe ricordato com'era sentirsi in Paradiso.
Mai come nei minuti che seguirono Crowley temette di invocare il nome di Dio e che Questa si manifestasse nella stanza. Ed era difficile pensare a qualsiasi altra invocazione che non si riferisse a niente di supernaturale come risposta alle sensazioni che lasciava il passaggio dell'angelo. Per anni si era domandato cosa avrebbero potuto provare le pietanze che Aziraphale aveva degustato con gusto e quando l'aveva visto abbassarsi avidamente verso il suo basso ventre, pensò che non l'avrebbe più guardato mangiare con gli stessi occhi. Fu l'ultimo pensiero razionale che riuscì a formulare: doveva immaginarselo che da quel dandy non avrebbe dovuto aspettarsi niente di più lontano dall'eccezionale.
Tutte le volte che Aziraphale era giaciuto con qualcuno, non aveva potuto fare a meno di sentirsi in colpa, non importava quanto soddisfacente fosse stato. Quel fantasma era inevitabilmente comparso anche in quel momento, non appena aveva visto quegli occhi gialli divorare il suo tramite mortale: ma non appena Crowley aveva dimostrato il suo apprezzamento con baci e carezze, si era sentito come un condannato a morte il cui pentimento non avrebbe alleggerito la pena e quindi tanto valeva godersi l’ultima notte di bagordi. E quando sentì cosa sapeva fare con la lingua, ringraziò che il demone fosse stato un serpente e capì perché non era poi così male essere dannati.
 "Vuoi ancora cercare di comprendere la profezia?" chiese Crowley risalendo il corpo di quell'angelo che tentava di riprendersi dal trattamento appena ricevuto.
"La notte è ancora giovane, caro" rispose Aziraphale, infilando una mano fra i suoi capelli rossi. E prima che il demone se ne potesse accorgere, aveva ribaltato le posizioni e ora cercava di impedirgli di protestare con un bacio appassionato.
"Angelo... Stai provando a tentarmi?" domandò dopo essersi riuscito a liberare da quell'attraente morsa.
Aziraphale fece un sorrisetto innocente. Ma 6000 anni di conoscenza erano bastati a Crowley per capire che quella era l'entità soprannaturale meno innocente di tutte.
"Non sarebbe la prima volta: ricordi a Roma" disse avvicinando la mano destra alla vita di Crowley e infilandola dietro la schiena: "quando ti invitai a mangiare le ostriche?"
"Non ricordo se ero più eccitato per la prospettiva di mangiarle con te o... Angelo!"
Crowley spalancò gli occhi e credette di essere andato a fuoco (per la seconda volta in quella lunga giornata) non appena sentì dove Aziraphale aveva intenzione di infilare le dita.
"Continua..." lo invitò l'angelo con voce suadente, per poi tornare momentaneamente ad essere quello di sempre: "... O devo smettere?"
L'unica ragione al mondo per cui Crowley avrebbe potuto ritenere accettabile che Aziraphale smettesse sarebbe stata la comparsa dei loro rispettivi superiori e la loro conseguente cattura... Ma anche in quel caso, prima avrebbero dovuto vedersela con lui.
"... O ero più eccitato per il tuo tentativo di tentarmi..."
La pronuncia del pronome personale fu leggermente più lunga del solito.
"... E di quando ti ho convinto ad andare in Scozia al posto mio?" continuò Aziraphale infilando un altro dito. Crowley fece in modo che il suo corpo lo accogliesse al meglio con un miracolo al volo.
"Non avrei potuto resistere a quegli occhi supplicanti!"
"E di quando..."
Aziraphale fece una pausa, sorridendo per la freschezza di quell'ultimo ricordo.
"... Hai eliminato quella macchia dalla mia giacca..."
"Smettila di tormentarmi ed entra e basta!" esplose Crowley, prendendo con la mano sinistra entrambe le loro erezioni e stringendole.
Aziraphale non se lo fece ripetere due volte: sollevò il bacino di Crowley con entrambe le mani e il demone si aggrappò all'angelo per spingerlo ancora di più dentro di sé. E dopo aver trovato il proprio ritmo, per i successivi minuti, non prevalse la beatitudine o la tentazione. Era qualcosa di... Ineffabile. Tutti quegli anni passati a cercarsi, a farsi regali e favori a vicenda, a trovare scuse per godere della rispettiva compagnia e per farsi salvare li avevano condotti lì, in quell'istante fermato nel tempo. E se la loro storia sarebbe dovuta finire l'indomani, quella storia non avrebbe avuto finale migliore.
 "Crowley..."
"Aziraphale..."
Furono le uniche parole che riuscirono a pronunciare al termine dell'amplesso. Avrebbero potuto far sparire la stanchezza e ricominciare da capo, ma stare abbracciati su quel letto, senza alcuna barriera tra loro era qualcosa che sentivano di voler sperimentare nella loro ultima notte sulla Terra... Ma un piccolo dettaglio era saltato all'orecchio di Crowley e la sua tendenza a fare domande si manifestò anche in quel momento.
"... Angelo, perché hai la mia voce e io la tu..."
Entrambi lanciarono un urlo, allontanandosi per lo spavento.
"C-c-cosa?" balbettò Crowley stupito dapprima per vedere il suo corpo dall'esterno e poi per ritrovarsi in quello dell'angelo. Provò a schioccare le dita per far tornare tutto com'era prima. Niente da fare. Le schioccò di nuovo. Ancora niente. Cosa diavolo era successo?
"Crowley, caro, per l'amor del cielo, calmati!" gli si avvicinò Aziraphale. Era un bello e strano spettacolo sentire quel demone usare quelle parole così estranee al suo vocabolario.
"Come pensi che faccia a calmarmi? Stavamo facendo il sesso migliore che avessimo mai fatto [Crowley ebbe modo di vedere sé stesso abbassare gli occhi sorridendo imbarazzato per la prima volta], quando a un tratto... Puf! Io sono te e tu sei me!"
"Sono sicuro che c'è una spiegazione logica a tutto questo..."
"... E se fosse l'inizio della nostra punizione?”
“... Non può essere...”
“... Ma tecnicamente sarebbe la punizione perfetta: un angelo che si fa tentare e un demone che riacquisisce la Grazia, ma nessuno dei due può andare all'Inferno o in Paradiso..."
"... Dimentichi che non ci è mai pesato restare sulla Terra, anzi..."
Aziraphale vide per la prima volta sé stesso buttarsi a peso morto su un letto.
"Hai ragione, angelo..." sollevò di poco la testa per guardarlo: "... O adesso devo chiamarti demone?"
Aziraphale fece un gesto con la mano per dirgli che non aveva importanza. Rimasero uno seduto e l'altro in piedi in silenzio cercando di capire l'origine di quello strano evento, quando Crowley si rialzò e guardò il suo vecchio corpo appoggiato alla testata del letto (per la prima volta in maniera composta) a pensare.
"Devo dirtelo... Stare nel tuo corpo è come essere una sorta di paladino medievale: coraggioso, gentile, sempre pronto a far la cosa giusta..."
"Grazie... E stare nel tuo è come essere uno di quei eleganti e seducenti avventurieri, così bravi ad adattarsi a qualunque situazione..."
Crowley si avvicinò al suo angelo e lo baciò.
"Magari la chiave per tornare come prima è rifare quello che stavamo facendo..." propose a un certo punto.
"Sarà curioso scoprire com'è a parti invertite!"
Ma avevano appena ricominciato a baciarsi e a stringersi tra loro che al primo tentativo di riprendere fiato s'accorsero di essere ritornati nelle loro originali sembianze.
"Ma che... Adesso ogni volta dovremo trasformarci nell'altro?" sbottò Crowley.
Detestava quando niente e nessuno poteva rispondere alle sue domande. Aziraphale, al contrario, era rimasto fermo, con gli occhi persi nei suoi pensieri.
".. . Crowley, abbiamo trovato il modo di salvarci!"
"Come?"
"Quando tutto sarà finito, dovrete scegliere saggiamente i vostri volti, perchè presto giocherete col fuoco: sta parlando del nostro scambio di corpi!"
Crowley sollevò un sopracciglio.
"Fidati, ho passato la scorsa sera a leggere il suo libro e non c'è una delle sue profezie che ha mancato di dire la verità!"
Passò cinque minuti buoni a fargli esempi di avvenimenti storici che aveva anticipato la profetessa, di cui Crowley ascoltò solo la metà, avendo la mente occupata da un pensiero più assillante.
"Sei sicuro che funzioni?" chiese a un certo punto. Il tono era calmo, ma Aziraphale sentiva trasparire la paura.
"I tramiti acquisiscono le capacità di chi li ospita, le voci sono rimaste le stesse perciò nessuno ci riconoscerà..."
Si fermò e prese il volto spaventato del demone, accarezzandogli una guancia: "Funzionerà. Qualunque cosa abbiano in serbo per noi, non ci toccherà minimamente... Devi solo avere fede... Nella nostra parte!"
Crowley spalancò gli occhi. Aziraphale fu certo di scorgere una lacrima di felicità. Sorrise e lo baciò così appassionatamente da convincere lui e sé stesso che non dubitava nemmeno un momento del loro piano.
Quando tutto sarà finito, dovrete scegliere saggiamente i vostri volti, perchè presto giocherete col fuoco.
Agnes Nutter aveva azzeccato anche il loro destino. Angelo e demone riuscirono a farla ai propri pari e a godere altri 6000 anni e più della reciproca compagnia... Anche se non riuscirono mai a capire a cosa era dovuta quel gran colpo di fortuna che gliel'aveva permesso, limitandosi a classificarlo come il miracolo che gli aveva permesso di stare insieme. E in effetti un miracolo lo era. E faceva parte del Piano Ineffabile.
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newsintheshell · 4 years
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Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon A Time, un nuovo teaser svela quando uscirà il film
L’ultima attesissima pellicola dell’epocale saga di Hideaki Anno debutterà in Giappone il 23 gennaio.
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Mostrato in occasione del debutto nei cinema giapponesi di “Demon Slayer -Kimetsu no Yaiba- The Movie: Mugen Train” (che Dynit ha appena confermato arriverà prossimamente anche in Italia) un terzo teaser trailer di “Evangelion 3.0+1.0 Thrice Upon A Time″ (Shin Evangelion Gekijou-ban :||), il quale porta con sé oltre a nuove scene anche la nuova data di uscita dell’attesissimo film conclusivo dell’epocale saga ideata da Hideaki Anno, che ha da poco compiuto 25 anni.
Inizialmente programmata per il 27 giugno di quest’anno, a causa dell’emergenza covid-19 la pellicola è stata posticipata al 23 gennaio 2021. 
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Nell’estate del 2019 i primi 10 minuti della pellicola sono stati proiettati in anteprima al Japan Expo di Parigi. Lo stesso spezzone è stato poi mostrato anche all’Anime Expo di Los Angeles, oltre che in Giappone e a Shangai.
L’incontro di un padre e di un figlio che non si vedono da anni, Gendo e Shinji Ikari, si trasforma nel teatro di una guerra spaventosa. La battaglia del genere umano contro le creature denominate Angeli è giocata con armi di nuova concezione (gli Evangelion) e al contempo antichissime (l’intelletto dei tecnocrati che manipola i sentimenti dei soldati al fronte). Un finale ben diverso da quello che Shinji, nel giorno in cui fa ritorno a Neo Tokyo-3 per riabbracciare il genitore, aveva immaginato. Sconfitta la tentazione di scappare da se stesso, il “pilota della speranza” scopre un mondo nuovo, popolato da cognizioni apparentemente inconciliabili con l’individuo che era prima di approdare alla Nerv…
EVANGELION Macchina umanoide multifunzione per le battaglie decisive A.T.FIELD Barriera antiintrusione ENTRY PLUG Capsula dell’anima RAGAZZI Soggetti qualificati a pilotare gli Evangelion
…e poiché fuggire dalla dimensione del sapere non gli è più concesso, intraprende la strada della cieca obbedienza: l’obiettivo è assecondare le ambizioni del padre, eseguire gli ordini della signorina Katsuragi, compiacere le aspettative della dottoressa Ritsuko, incoraggiare le illusioni dei compagni di scuola. Ma il destino di Shinji Ikari è un copione redatto 14 anni fa oppure è un capitolo di storia ancora tutto da scrivere?
Anno ha fondato lo studio Khara nel 2006, lanciando l’anno seguente la tetralogia di film conosciuta come Rebuild of Evangelion, che partendo dagli stessi presupposti, reinterpreta la storia della serie cult degli anni ‘90 prodotta presso Gainax, apportando pesanti modifiche e introducendo sviluppi completamente nuovi. “Evangelion: 1.0 - You Are [Not] Alone”, “Evangelion: 2.0 - You Can [Not] Advance” e “Evangelion: 3.0 - You Can (Not) Redo” hanno fatto il loro debutto rispettivamente nel 2007, 2009 e 2012. In Italia sono distribuiti in home video da Dynit, che assieme a Nexo Digital li ha proiettati anche al cinema.
L’originale serie tv “Neon Genesis Evangelion” è invece disponibile in streaming su Netflix con un nuovo doppiaggio, assieme a “Evangelion: Death (True)²” e a “The End of Evengelion”. Confermato di recente da Dynit il ritorno di quest ultimi due al cinema per una nuova Evangelion Night che si terrà nelle sale italiane dal 7 al 9 dicembre, oltre ad una edizione home video “definitiva” della serie, per la prima volta anche in Blu-ray.
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Autore: SilenziO))) (@s1lenzi0)
[FONTE]
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myborderland · 5 years
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[...]
E, allora, giacche vi è questo, cercate di saper vivere l’ultima sera dell’anno e cercate, ancora, di saper vivere il primo giorno dell’anno, e come vi imporrete con la volontà, in quella sera, in quel giorno, agli avvenimenti e a voi stesso, così finirete per imporvi, tutto l’anno.
La sera del 31 dicembre, fuggite i ritrovi dove si sbadiglia: fuggite gli spettacoli, dove si muore di freddo spirituale : evitate ogni incontro con la gente pesante o irritante. Se avete un gaio ritrovo di amici, andateci subito e passate, così, il fatidico momento della mezzanotte, e abbiate un’emozione di allegria, non un’emozione di ricordi: se avete un elegantissimo ritrovo mondano, dove sapete di trovare della gente molto simpatica, un vostro amabile flirt, un amico spiritoso, andateci subitissimo a flirtare e bevete dello champagne e abbracciate lietamente l’amico: evitate la solitudine, evitate i ricordi, non guardate gli antichi ritratti, non guardate nei cassetti che da tempo non avete aperti: la tentazione è grande ma vincetela, se no, voi rimpiangerete troppo il passato e finirete per piangere. Ciò è di pessimo augurio! E nel giorno di Capodanno abbiate la ferma volontà di essere sereno: di non trovare troppo meschino il dono che vi si fa e di non badare al dono che manca: di accogliere bene ogni più umile voto, di contentarvi di quanto la vita vi da, di non aver nervi, di compatire ai nervi altrui, di aver della bonomia nel cuore e dell’equilibrio nella mente, di perdonare ogni capriccio e di non aver capricci, di lasciarvi andare quietamente alla corrente dell’esistenza senza trovarla né troppo buona nel troppo cattiva. Fate le visite che più vi piacciono, abbiate una filosofia ottimista o almeno uno scetticismo giocondo. [...]
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strawberry8fields · 4 years
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[Di ingressi e di uscite dal palcoscenico con un copione in mano nella commedia teatrale dei giorni.]
La coreografia perfetta
Tu mi destabilizzavi. Rappresentavi per me una tentazione a cui volevo a tutti i costi resistere. L’ultima volta che mi ero concessa il lusso di cedere, ne ero uscita a pezzi. Una fitta di dolore mi attraversava al solo pensiero di rivivere di nuovo la fine di tutto e di veder crollare in un battito di ciglia le mie certezze. Il mio era un conflitto rovinoso tra rimorso e desiderio, tra equilibrio e follia, tra tormenti e piccole concessioni, alimentato dalla paura e dalla volontà di non fallire ancora una volta.
Io ero diventata per te una dolce e necessaria consuetudine. Rapidamente. Troppo.
«Tu non fai altro che cercare di trasformare un incontro fatale in uno mancato. Io vorrei restituirti il senso esistenziale del nostro legame. Vorrei rileggerti ogni giorno per restituirti ogni volta nuovi particolari. Rivivere le stesse emozioni con te in un adrenalinico ritorno. Assaporare con te ogni singolo momento.»
«Ti muovi in un balletto dalla perfetta coreografia. Per te tutto è possibile o quasi. Tutto è a portata di mano pronto ad essere colto. Hai sempre una soluzione per ogni problema. Non è tutto così semplice, sai. Non lo sono le note a margine che cerchi di interpretare e indagare al dettaglio o i buchi di trama che provi a esaminare attentamente. Non lo è la mia verità ferita, quella che mi porto incisa dentro, né lo sono le fratture interiori e le fragilità nascoste tra le pagine di un libro che credi di aver già imparato a memoria come il copione di una commedia teatrale. Non lo è il finale che fa da contraltare alle certezze che credi di aver acquisito.
Non posso farci niente se il nostro incontro mi ha sconvolto più di quanto potessi prevedere. Non posso farci niente se non posso diventare una versione migliore di quella precedente. Il punto è che non credo di potermi innamorare di te. Non credo di potermi lasciare andare ad un’intimità affettuosa e completa perché non è un conforto affettivo che cerco. Non credo di potermi aprire a un sentimento nuovo e forse non è con te che voglio percorrere questo pezzo di strada. Forse non sono le tue braccia quelle in cui mi tufferei a capofitto per sentirmi al sicuro. Forse non sento quel pugno allo stomaco che mi consentirebbe di dissacrare le mie convinzioni. Semplicemente, non voglio salvare il mio cuore dall'aridità appigliandomi all'autenticità dei tuoi sentimenti. 
«Cerco di capire semplicemente cosa ti sta succedendo perché penso che tu ti stia preparando ad una fuga. Cerco solo un modo di trattenerti.»
«Ti sei soffermato solo sulle tue sottolineature, sul tuo ruolo, sul tuo lieto fine. Avresti dovuto leggere le pagine per coglierne i punti non scontati e mai banali, specchio della parte più oscura della mia normalità. C’è un’intera realtà dietro allo squarcio da cui hai iniziato a scrutarmi con occhio indagatore, pieno di inevitabili interrogativi. Non hai ancora aperto gli occhi su un mondo che esiste effettivamente e che mi rappresenta in pieno. Ne rimarresti disorientato, fidati.
La verità è che non voglio riempire gli spazi liberi della mia esistenza con la tua presenza. Non sono la tua eroina e non voglio un compagno per i miei percorsi di viaggio articolati. Non sei tu l’oggetto del mio desiderio, della mia soddisfazione e della mia felicità. Non voglio dispiegare interamente le mie pagine davanti ai tuoi occhi. Non voglio scorrere lineare e precisa tra le tue mani.»
«Ti guardavo. Non parlavo più. Ci eravamo già detti tutto.
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