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#Va oltre le questioni dei club
box-box-stay-out · 1 year
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gazemoil · 5 years
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RECENSIONI 4IN1: Kehlani, Flume, Deerhunter, Better Oblivion Community Center
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In questa istallazione di Recensioni 4in1 parliamo in breve di quattro dischi, tra album e mixtape, usciti durante il primo quadrimestre dell’anno. E’ una buona occasione per recensire musica che, per questioni di tempo, non ha trovato spazio in un articolo prima di ora, ma anche si merita almeno qualche parola. E’ il turno di due dei mixtape più in evidenza dell’inverno: l’atmosferico While We Wait della cantante rnb Kehlani ed il bizzarro Hi This Is Flume del noto producer australiano Flume. Poi è la volta di due piccoli album che non devono essere passati inosservati a chi piace controllare cosa transita appena sotto il radar del mainstream: Why Hasn’t Everything Already Disappeared? dei Deerhunter e l’inaspettata collaborazione tra Conor Oberst e Phoebe Bridgers con Better Oblivion Community Center.
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Kehlani - While We Wait (TSNMI / Atlantic, 2019)
La cantante californiana Kehlani Ashley Parrish, nota solo come Kehlani, ritorna a distanza di due anni dal fortunato disco d’esordio SweetSexySavage con il mixtape While We Wait. Nell’attesa, come suggerisce il titolo, di portare a termine la sua prima gravidanza, il nuovo progetto - formato da nove tracce per una durata di trenta minuti - sembra il copione di un romanzo su quanto possa essere complessa la coesistenza funzionale tra amore e comunicazione in un presente iper-mediatico come il nostro. La sua storia, quindi, non presenta colpi di scena eclatanti e non segue traiettorie affatto imprevedibili, in realtà, non attribuisce poi così tanto peso alla narrazione che diventa, come ormai è comune nell’rnb, un pretesto per creare l’atmosfera romantica, flirtante e nostalgica che va di pari passo col genere. Kehlani incontra stilisticamente SZA, H.E.R. e Drake per illustrare queste realtà confuse, talvolta ripercorrendo traumi del passato, sentimenti repressi, incomunicabilità delle parole e costrizioni della mascolinità per come viene comunemente intesa. I suoi personaggi sono, dunque, persone emotivamente provate che cercano di capirsi a vicenda. Comunque sia, i brani rimangono in linea generale molto gradevoli e pop. La produzione è pulita e di qualità, sebbene non sia nulla di speciale, così come le strumentali sono sempre molto colorate e moderne, ma raramente sopra la media, a metà strada tra trap ed alternative hip-hop, urban ed rnb con ammicchi vagamente funk e soul - come in Morning Glory che potrebbe benissimo trovarsi nel prossimo album di Ariana Grande. Il vero punto di forza è perciò la voce della cantante, lucida e balsamica, seducente ma non forzatamente zuccherata. 
Si inizia benissimo con Footsteps che rimane probabilmente imbattuta dagli altri brani in quanto ad intensità, scorrendo fluidissima grazie ad una composizione molto tranquilla ma intrigante che sovrappone cori, un giro di chitarra nello sfondo immerso nel riverbero, bassi e hi-hats sintetici di matrice trap ed una collaborazione azzeccatissima con Musiq Soulchild. Molto più elettronica è la successiva Too Deep, uno degli improbabili momenti più divertenti, in cui i synth sono bollicine caramellate ovattate da una patina che li rende in qualche modo più sinistri; ancora grandissimo uso delle sovrapposizioni vocali che qui diventano fondamentali per costruire la spirale dentro cui viene incanalato il testo, animato dal momento in cui si ci rende conto del risvolto soffocante del sentirsi improvvisamente e pericolosamente con la testa tra le nuvole. “We was candy crushin’ / But this shit gettin’ to deep”. Il vocabolario di Kehlani non è per nulla ricercato e per questo l’intera problematica da lei presentata rimane irrisolta, analizzata soltanto in superficie. Gli altri highlight sono le trap-peggianti Night Like This con Ty Dolla $ign e la più notturna RPG con 6lack. Per la scelta piuttosto ristretta delle tematiche - ed il modo in cui sono state sviluppate - il sound ed il ritmo, While We Wait risulta leggermente tirato per le lunghe. E’ il classico esempio della musica bella finché dura, ma che una volta finita passa velocemente nel dimenticatoio. 
TRACCE MIGLIORI: Footsteps; Nights Like This; RPG
TRACCE PEGGIORI: Morning Glory; Butterfly
VOTO: 65/100
di Viviana Bonura
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Flume - Hi This Is Flume (Future Classic, 2019)
Tre anni sono passati da Skin, il secondo disco del producer australiano Flume che lo ha annoverato tra i nomi più noti del filone EDM della musica elettronica, pur conservando un’integrità artistica dati alcuni aspetti peculiari del suo stile, quali le influenze glitch pop, future bass ed hip-hop incorporate in maniera eccentrica, sbilenca e sempre bizzarra. A fargli da controparte ci sono stati i due EP della serie Skin Companion che hanno ampliato il contesto in cui l’artista voleva collocarsi, ovvero, mostrandosi intenzionato a presentare un sound lucido ed espansivo per far presa sulla situazione attuale della musica elettronica, ma ancora personale ed aggiornato sulle sperimentazioni. La mossa successiva di Flume conferma questa voglia di essere appetibile senza rinunciare a fare di testa sua, pubblicando il mixtape Hi This Is Flume, in cui ha potuto dare sfogo ai suoi estri più creativi ed anticonvenzionali. 
Il mixtape dura ben quaranta minuti, ma la durata media delle tracce è di circa due minuti, ciascuna perfettamente incasellata davanti e dietro l’altra tramite transizioni disinvolte, permettendo così al progetto di essere un’opera intera e fluida, un’esperienza olistica e connessa. Per esempio, la tastiera intrepidamente acuta e caramellata ed il beat industriale pesante, insieme alla collaborazione del rapper grime slowthai nella traccia High Beams creano un sound vibrante, rovente e ghiacciato allo stesso tempo, da cui si genera la successiva Jewel, una traccia altrettanto bella dalla melodia glitchy che ci traspone nel tipico mondo etereo e robotico di Flume, una pulsante e vaporosa visione ultra-futuristica nel bel mezzo di una flora rigogliosa. Lo stesso discorso vale per i droni distopici di Dreamtime, in cui i synth sembrano i battiti cardiaci di una strana creatura sottomarina ed il campionamento di una voce femminile distorta serve come tavolozza per creare la successiva Is It Cold In The Water?, remix di un brano di SOPHIE in cui Flume fa squadra col producer Eprom per rivisitare la traccia con più variazione e struttura ritmica rispetto all’originale, malgrado a tratti possa essere troppo rigida, rimane apprezzabile la sua nuova abrasione noise. Verso la fine il minutaggio per brano si restringe ed il mixtape diventa una vera e propria traccia unica, schizzi di beat e sovrapposizioni sintetiche elaborate in cui si susseguono altre strane manipolazioni e distorsioni, ancora accenni magnetici allo stile industrial, ma anche alle virtualità vaporwave coi tagli laser di Vitality, campionamenti di voci tra cui ritorna l’apprezzata Kučka in Voices. Saltano all’orecchio la frizzantissma MUD e la vertiginosa Upgrade che creano muri di suoni da club per nulla prevedibili che non hanno paura a diventare rumorosi e scatenati. Ma la vera perla del progetto è l’affamatissima collaborazione con JPEGMAFIA in How To Build A Relationship, una traccia fantastica, eccitante ed esplosiva sotto tutti i punti di vista in cui si palesa la brillantezza di entrambi. 
Sì, ci sono dei momenti che appaiono fini a se stessi, quei brani di qualche secondo che sembrano non aggiungere nulla, ma alla fine Hi This Is Flume è fatto proprio di quei piccoli pezzi che insieme si danno spinta e senso. Probabilmente è proprio questo che rende il mixtape del produttore australiano una boccata d’aria fresca sia nel più generale panorama musicale della musica elettronica - in cui si vedono troppo spesso personaggi stampati in serie capaci solo di appostarsi dietro la consolle per premere play -  sia nella sua stessa discografia che per quanto differente può anche risultare troppo confezionata ed addolcita. Hi This Is Flume è effettivamente qualcosa di sperimentale e ci porge un lato promettente dell’artista, non può fare di certo compagnia alle cose più inaudite e rivoluzionarie della musica elettronica, ma può stare sicuramente ai livelli di Bonobo, Jamie xx o Sbtrkt. Se veramente questo è Flume a noi piace parecchio.
TRACCE MIGLIORI: High Beams; Jewel; How To Build A Relationship
TRACCE PEGGIORI: Hi This Is Flume;  ╜φ°⌂▌╫§╜φ°⌂▌╫§╜φ°⌂▌╫§╜φ°⌂▌╫§╜φ°⌂▌╫§╜φ°⌂▌╫§╜φ°⌂▌╫§╜φ°⌂▌╫§°⌂ ▌
VOTO: 70/100
di Viviana Bonura
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Deerhunter - Why Hasn’t Everything Already Disappeared? (4AD, 2019)
Per oltre un decennio i Deerhunter, band capitanata da Bradford Cox, si sono fatti conoscere per il loro approccio neo-psichedelico, punk e surreale all’indie rock e pop. Come in un quadro metafisico la loro musica è stata generalmente caratterizzata da una tensione latente contenuta un involucro placido, pulito e definito, dentro cui si celano tracce o espressioni dirette di orrore ed oscurità. L’impressione è che esistano, inchiodati sotto la superficie delle dinamiche socio-politiche quotidiane, una miriade di sentimenti ed esperienze negative che influenzano la nostra prospettiva sul mondo. Solitamente, la superficie placida è quella sonora, mentre l’oscurità è celata nei testi. Il loro ottavo disco, Why Hasn’t Everything Already Disappeared? lotta contro gli impulsi escapisti e conflittuali del caso, continuando l’esplorazione delle diverse sfaccettature sonore della band, purtroppo senza riuscire ad evitare alcuni importanti errori, come il finire per incarnare quello stesso limbo anestetizzante che tanto compiangono nel mondo esterno.
Già nel 2015 Cox si era dichiarato stanco della nostalgia soffusa dei primi dischi dei Deerhunter, quella nebbia affascinante della giovinezza, volendo avvicinarsi al mondo degli adulti. Nel loro ottavo album questa sensazione si è percettibilmente intensificata e l’impressione è di una band che inizia ad essere insofferente. La nostalgia, dopotutto, alimenta alcune delle più pericolose correnti di pensiero reazionarie degli Stati Uniti, richiamando un'immagine nazionale perfettamente omogenea che mai è veramente esistita. Le canzoni di Why Hasn't Everything Already Disappeared? considerano visceralmente le ricadute postume del capitalismo, facendo i conti con le conseguenze della vita in un paese che si sta reiterando fino alla morte. L’apertura Death in Midsummer racconta di memorie di amici defunti tra rintocchi di clavicembalo e batteria che sembrano registrati dentro un frigorifero; entrambi colpiscono bruschi, tirando il brano verso l’interno. Al di sotto di essi, tuttavia, un pianoforte squilla come se si disperdesse all’infinito in uno spazio aperto. Un assolo di chitarra dai sapori psichedelici rinforza l’illusione che la canzone stia avendo luogo contemporaneamente sia un’arena che in una bara. La combinazione vertiginosa di queste due atmosfere la rende perfetta per il testo: “They were in hills / They were in factories / They are in graves now”. 
Ci sono preoccupazioni che rimango implicite, scelta che suggerisce che l’intera tematica sia una questione artistica piuttosto che una dichiarazione di una certa posizione politica, più un’esplorazione del posto in cui potremmo finire se scegliamo la strada della distruzione. E’ come se gran parte del disco suonasse come una pellicola sottoesposta, sviluppata con sonorità analogiche e granulose. Dall’inizio alla fine Cox avvista una distante apocalisse osservandola attraverso un vetro scuro, offuscato, e mentre progredisce si lascia andare ad affermazioni nichiliste per ricordarci della sua presenza. “In the country / there's much duress / violence has taken hold / follow me / the golden void” canta fermamente in No One’s Sleeping, brano che sembra una canzone indie rock suonata col clavicembalo. I cambiamenti di temperamento del disco gli attribuiscono un effetto freddo e distanziante - forse è proprio questo il suo più grande difetto - poiché incorpora sonorità davvero insolite. A volte però, si apre uno spiraglio, quell’incisività che li incornicia nel pop, ad esempio nella strumentale Greenpoint Gothic. Esistono anche altri punti salienti, come What Happens to People che dimostra la prodezza della band nel generare consonanze, la loro abilità nel mettere insieme una trama sonora vivida fatta di chitarre splendenti e sintetizzatori spessi. Eppure, persino questa traccia ha la sfortuna di essere seguita da Detournement, un brano dalle strane modulazioni vocali da sorpassare immediatamente in quanto indugia nelle peggiori inclinazioni della personalità appuntita di Cox.
TRACCE MIGLIORI: Death In Midsummer; Greenpoint Gothic; What Happens To People?
TRACCE PEGGIORI: Détournement; Tarnung
VOTO: 60/100
di Viviana Bonura
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Better Oblivion Community Center - Better Oblivion Community Center (Dead Oceans, 2019)
In una fredda giornata di gennaio, il cantautore Conor Oberst - meglio conosciuto come il leader dei Bright Eyes - e la cantautrice Phoebe Bridgers decidono di formalizzare la loro ammirazione reciproca e di dare un seguito ad una collaborazione iniziata nell’album d’esordio di lei con Better Oblivion Community Center, un inaspettato nuovo progetto musicale che si propone di unire il sensibile e malinconico indie folk di entrambi. Bridgers è da poco reduce dall’esperienza con un altro nuovo super-gruppo, quello delle boygenius, ma è proprio con Oberst che ha dimostrato di avere una naturale armonia, una simbiosi priva di qualsiasi egocentrismo che faceva sperare benissimo per una collaborazione a lungo termine. Il loro omonimo Better Oblivion Community Center è un disco molto semplice che non si discosta assolutamente dalle sonorità, già molto simili tra di loro, di ciascun solista -  e probabilmente, questo si rivela il problema di fondo. Per quasi l’ottanta percento dei trentasette minuti complessivi i due cantano insieme, narrando secondo il loro stile canonico dei malfunzionamenti quotidiani dell’essere umano e tirando fuori, qualche volta, riminiscenze del passato e quella strana sensazione di aver sempre sentito un’ambivalenza tra felicità e tristezza anche nei momenti più belli della vita.
Nei primi lavori coi Bright Eyes, la scrittura di Oberst era particolarmente vivida perché tutto ciò di cui parlava sembrava una questione di vita o di morte. Col tempo il suo istrionismo è andato perdendosi, ma stavolta, a fianco della penna empatica e cristallina di Bridgers anche Oberst sembra ringiovanito. Il punto di forza del disco è proprio nei testi, ma il suo più grande punto debole è il non essere voluto uscire dalla zona di comfort. La produzione, quindi, risulta molto elementare, pulita e senza nulla di originale, per la maggior parte acustica e sobria, tranne per la più briosa Dylan Thomas che fa da sorta di cavallo di battaglia coi suoi ritmi rock più vivi ed una band di supporto. Exeption To The Rule è proprio come dice il titolo, una traccia che improvvisamente sembra darci proprio quello che vogliamo, ovvero, una formula con altri ingredienti, delle sonorità più speziate, ma piuttosto, coi suoi synth retrò che quasi sovrastano le voci, risulta più una sbandata rigida, sterile ed insapore. 
Le altre tracce sono decisamente mediocri, ma possiamo essere d’accordo sul fatto che Service Road e Chesapeake riescono a distinguersi positivamente all’interno di una tracklist fin troppo piatta. La prima rivela Oberst in un momento particolarmente delicato ed onesto, ricordando un giovane fratello che non c’è più, mentre la voce calda e crepuscolare di Bridgers è come una mano di conforto sulla sua spalla. La seconda è la pura e nostalgica poesia di un artista acclamato su un palco, osservato dal punto di vista di Bridgers che nel pubblico si trova schiacciata tra la folla, desiderando che finisca presto di suonare, parallelamente, ricorda una persona a lei cara abituata a suonare per nessuno e questo scatena in lei un senso di colpa che, sistematicamente, la distrae dal presente per rimuginare sul passato. Quella tridimensionalità in più la si intravede proprio negli ultimi sessanta secondi della conclusiva Dominos, cover di Taylor Hollingsworth, includendo un assolo di chitarra elettrica distorta che prosegue rumorosa su un basso pieno. Soddisfazione troppo breve, ma se non altro chiude il disco su una nota positiva. Oberst e Bridgers sono indubbiamente fatti l’uno per l’altra, tuttavia, il loro primo album condiviso non è nulla di speciale. Sicuramente è bello da ascoltare finché dura, ma non vanta nessun momento riconoscibile o memorabile una volta finito.
TRACCE MIGLIORI: Dylan Thomas; Service Road; Chesapeake
TRACCE PEGGIORI: Sleepwalkin’; Exeption To The Rule; Big Black Heart
VOTO: 55/100
di Viviana Bonura
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protobodhis4ttva · 8 years
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Capitolo 2: Il mese di Roman Polański e delle lettere imbarazzanti
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(Link Playlist) Questa volta sono perfettamente in orario! Il titolo di questo capitolo del mio 2017 allude alla quantità esorbitante di lettere scritte durante questo mese, tutte trasudanti di disagio, e alla mole di film di Roman che ho sia scoperto che rivisto, probabilmente influenzata passivamente da una lettura di inizio mese: “Le ragazze” di Emma Cline. [La foto è uno screenshot della scena che ho più amato del film “L’arte del sogno” di Michel Gondy, la mia grande scoperta del mese.]
Vita Sociale - Canova: Il ruolo che i Pop_X hanno avuto a gennaio è stato occupato a febbraio dai Canova. Adoro da morire il ritmo di questa canzone, e la voce del cantante mi risulta incredibilmente affascinante. Questa canzone rappresenta un po’ il mio umore della prima metà di questo febbraio. 
Manzarek - Canova: Di nuovo i Canova. Quando sento questa canzone non posso fare a meno di desiderare ardentemente che A, ascoltandola pensi a me come io penso a lui. 
Ti Augurerei Il Male - L'Orso: Questa canzone è semplicemente bellissima. Il testo è qualcosa di stupendo e mi ci rispecchio ormai da diversi mesi. Inutile dire quanto, più di ogni altra, mi faccia pensare ad A. Mi emoziona sempre sentire questo pezzo: “Se anche da estranei siamo comunque meglio dei nostri amici”.
Float - Pacific Air: Non troppo il mio genere, scoperta per caso; la canzone che ascolto per tirarmi su. Io non sono una persona che ascolta musica per tirarsi su, anzi, solitamente la uso per fare l’opposto e questa non è nemmeno la più adatta a questo scopo. Ad ogni modo, mi trasmette un certo senso di speranza, senza essere troppo poco realistica. 
Sun - Two Door Cinema Club: La mia loro canzone preferita. L’ho riascoltata una marea di volte durante questo mese, ma non solo: l’ho anche cantata e ballata a non finire. Non penso che potrei mai stancarmi di questa canzone. 
Secondo Me - Brunori Sas: Brunori in questa canzone da letteralmente voce ai miei pensieri, anche quelli più banali e meno profondi: la mia visione di molte cose, le mie domande e molti dei miei dubbi.  Si perde in commenti critici sulla società, sul pensiero comune, ma senza scadere nella banalità tipica, ad esempio, dello Stato Sociale, sottolineando che quello è solo il suo punto di vista, e io trovo che sia sottintesa l’idea che ognuno consideri sempre e solo il proprio. L’interesse per il punto di vista dell’altro, emerge; ma in un qualche modo lo vedo ancora una volta come un’espressione egoistica: tu mi interessi, perciò mi chiedo come sia il tuo, e solo il tuo, punto di vista. Tra tutte le questioni sollevate però, per me emerge una domanda tra tutte: perché questa smania di rimuovere a tutti i costi il dolore?
Fatto di te - Thegiornalisti: Mi piace più di tutto l’inizio. Per il resto è l’ennesima canzone orecchiabilissima dei Thegiornalisti, che mi sembra parli di me, e sì, di lui. 
Verranno a chiederti il nostro amore - Fabrizio De André: Questa è la mia canzone preferita in assoluto di De André, ed è quella tra le sue che ho ascolto di più questo mese. Questa canzone per me è davvero pura poesia, e andrebbe analizzata riga per riga; ma, in sintesi, per me questa canzone parla di una storia durata tutta una vita, tra due persone che si amano, ma che erano assolutamente incapaci di scendere a compromessi. 
Il tempo non ci basterà - Mecna: Questo mese è uscito il nuovo album di Mecna, che sto ancora studiando e ascoltando. Premetto che - come sospettavo - non è paragonabile a Laska, ma sono davvero diverse le canzone che mi piacciono moltissimo. Questa canzone è tra di esse: mi piace perché io amo le storie, e questa ne racconta una e mi piace, come sempre, pensare che in passato la mia e di A storia abbia per certi versi ricalcato quella raccontata nella canzone. 
4 Marzo 1943 (Live 2016) - Francesco De Gregori: Questo mese è uscito anche l’album dei live del 2016 di De Gregori e io, che non posso fare a meno di ascoltare De Gregori almeno una volta al giorno, ho apprezzato tantissimo la cosa. Sono poche le versioni live registrate che mi piacciano di più delle canzoni registrate in studio, questo perché le canzoni live mi piace ascoltarle live, mi viene troppa nostalgia altrimenti, questa canzone nella sua versione originale di Lucio Dalla non mi piace particolarmente; eppure nella versione live cantata da De Gregori, l’ho letteralmente riscoperta in tutta la sua dolcezza. Il mese delle contraddizioni.
L’Ultima Festa - Cosmo: Un mese molto indie, lo so, ma questa è stata la canzone che mi ha dato la carica questo mese e non potevo non metterla. Cosmo appartiene in tutto e per tutto a quest’estate, perciò ora riesco a tollerarlo raramente; ma sono riuscita a scoprire questa canzone in una nuova accezione, completamente svuotata del significato che originariamente le avevo attribuito. 
Should I Stay or Should I Go - The Clash: Ho fatto il rewatch di Stranger Things e ovviamente andare a recuperare questa canzone è stata d’obbligo. Una delle poche canzoni che ho potuto ascoltare con altre persone, soprattutto in macchina. Mi fa venire voglia di ballare fino a non sentirmi più le gambe.
Nmrpm - Gazzelle: Okay sì, ricorda Calcutta e va bene dai ma andiamo oltre: quanto cazzo è bella questa canzone? In assoluto l’ultima uscita preferita del mese. Questa canzone mi fa piangere come una pazza. Ha un testo semplicemente stupendo e un ritmo incredibilmente struggente. 
Ritual Union - Little Dragon: Stranamente, non mi sono affatto concentrata sul testo. Ho ascoltato per caso questa canzone mentre mi truccavo, la conoscevo già, ma devo ammettere di non averla mai ascoltata veramente. Adoro il sound, e il mix di stili non è solo interessante, ma anche decisamente riuscito. Un sottofondo perfetto. 
Tubature - Giorgio Poi: L’ho scoperto questo mese, devo ammetterlo, mi ricorda L’Officina, solo a tratti. Questa è la canzone che mi ha colpito di più: non c’è un perché preciso, nessun ricordo in particolare, semplicemente trovo il testo di questa canzone una delicata poesia. La colonna sonora della mia ultima settimana di febbraio.
Under Pressure - Queen, David Bowie: Preferisco questa versione sì, non posso fare a meno di cedere al fascino di uno dei miei prediletti. Questa è la prima canzone del lato A del vinile: non potete nemmeno immagine quante volte io l’abbia fatto ripartire questo mese. Non lo so, questa canzone, mi tocca qualcosa dentro, mi smuove.
(Trovate il link al mio profilo di Spotify (revansenich) qui e se non riuscite ad aprirlo nella pagina dei tag.)
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faccia-d-angelo · 5 years
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Un “clandestino” su mille, ce la fa. La storia di Giannis Antetokounmpo
Crisi sistemica, primavere arabe, flussi migratori notevolmente aumentati in conseguenza, divisioni fittizie tra categorie inesistenti come “migranti economici” e “profughi”.
In molti arrivano in continente europeo negli ultimi anni: qualcuno con l’obiettivo di transitare dall’attracco verso ricongiungimenti in altri stati, la maggior parte con la semplice necessità di sfuggire da guerra, fame e sfruttamento. Esseri umani ammassati in barconi, tragedie del mare che producono numeri pari a quelli di una guerra in materia di vittime.
Qualcuno può restare, qualcun altro no. Qualcuno richiede asilo, a qualcun altro viene negato. C’è chi ottiene un foglio di via, ma non può andarsene, c’è chi ha venduto tutto e non ha più niente per ritrovarsi in terra straniera, imprigionato tra frontiere chiuse. Costretto ad un’etichetta divenuta dispregiativa come quella di “clandestino”, che negli ultimi anni la politica ha trasformato in sinonimo di “criminale”, “ladro”, “stupratore”.
La politica — a tutte le latitudini — ha utilizzato questi esseri umani, già merce di scambio per mafie diverse, come pretesto per aumentare il consenso elettorale. È così che nell’ultima campagna elettorale in Italia, il tema ha mosso quantitativi di voti cinque anni fa imprevedibili, allo stesso modo in cui in Francia è cresciuto il Front National oppure in Grecia è diventato partito un movimento di origine xenofoba come Alba Dorata.
Molto prima che tutto questo diventasse “emergenza” condivisa, nel 1992, la famiglia Adetokunbo decide di rischiare la traversata verso la Grecia, provenendo dalla Nigeria, per garantirsi un futuro diverso rispetto alle prospettive di un paese in perenne guerra civile.
Si chiamano Charles e Veronica, e sbarcano nelle coste elleniche con la speranza di costruire la propria famiglia, ovviamente non calcolando le difficoltà relative clandestinità, anche perché quando si scappa per salvarsi la vita è difficile pensar che esista qualcosa di peggio.
E nella capitale greca, arrabattandosi per portar a casa due soldi e vivendo un po’ come capita, riescono ad essere felici, piantando cinque splendidi semi destinati a sbocciare come fiori: sono Francis, Thanasis, Giannis, Kostas ed Alexis.
Nel frattempo, il loro cognome viene “grecizzato”, diventando Antetokounmpo. Molto difficile da pronunciarsi ovunque, fuori da quello stato, ma apparentemente poco importa: si stabiliscono nel quartiere periferico di Sepolia, e le prospettive di lasciarlo appaiono remote, anche se tutto sommato va bene così.
C’è da faticare per sopravvivere, per sfamare cinque piccole bocche, per sentirsi accolti in un paese in uscita da un baratro di arretratezza dentro il quale sarebbe presto ricaduto, quantomeno a livello di problematicità economiche dovute alle ben note difficoltà che portano dritte al rischio “default”.
I cinque giovani Antetokounmpo si guadagnano da vivere un po’ come possono: come Charles e Veronica, agli occhi degli autoctoni sono naturali “vu cumprà”, e quindi vendono falsi di vestiario con grandi marchi, lavorando occasionalmente come manovali, oppure nelle migliori delle ipotesi facendo i babysitter.
La famiglia è costretta a vivere una quotidianità complicata, con i pasti serali che dipendono dalla fortuna o meno del lavoro occasionale giornaliero, ed il rischio di denunce per clandestinità con il pericolo di essere “rimandati in Nigeria”, dove i figli non avevano mai messo piede. Del resto, Alba Dorata è in crescita, così come lo sono i raid punitivi o le semplici indagini di denuncia dell’irregolare, alle autorità competenti.
In tutto questo Giannis e Thanasis iniziano a giocare a pallacanestro,riuscendo inevitabilmente ad emergere aiutati da un fisico lungo, gracile ma resistente. Vengono accettati in una squadra di quartiere, dividendosi agli inizi un paio di scarpe in due, e quindi non riuscendo a giocare contemporaneamente.
Ma la loro crescita è costante, militando nel Filathlitikos ottengono la tanto agognata cittadinanza greca, e per Giannis si aprono le porte della nazionale sia under 20, che maggiore. Gioca con il suo club una stagione nella serie A2 nazionale, ma il suo potenziale attira dapprima gli scout spagnoli del Zaragoza (dove firma un contratto quadriennale) e poi quelli della lega impossibile, l’apice di aspirazione per qualsiasi giocatore di pallacanestro del mondo, la National Basketball Association.
Tutto succede rapidamente per Giannis, e come nella più improbabile delle favole, il greco dal nome impronunciabile viene selezionato dai Milwaukee Bucks nel draft del 2013, il che significa vita rivoluzionata e futuro potenzialmente roseo.
Il ragazzo è acerbo sotto tutti i punti di vista, ma nella sua prima stagione riesce a mettersi in mostra per atletismo e talento assolutamente grezzo. Non smetterà più di crescere a livello di gioco, aiutato da un sistema di allenamenti che fino ad allora avrebbe potuto solo sognare. Il suo corpo fiorisce, sboccia, si riempie di muscoli, mantenendo intatto un atletismo ed una coordinazione forse mai vista in un ragazzo di 211 centimetri.
La coordinazione di movimenti e la capacità di dominare il gioco sia orizzontalmente (per velocità) che verticalmente (con una elevazione incredibile) lo rendono il prospetto più innovativo in circolazione per la lega di basket più famosa al mondo. Nella sua quinta stagione, mostrando margini di crescita ancora inesplorati, si attesta tra i migliori giocatori del mondo con medie pari a 27 punti per gara, 10 rimbalzi e oltre una stoppata.
Contemporaneamente anche il fratello Thanasis tenta l’avventura Statunitense, giocando nelle leghe satellite alla NBA e riuscendo ad esordire pure al massimo livello, seppur con poca fortuna. Poco male, per il gioco degli Stati Uniti i dieci centimetri di differenza che lo separano dalle vette raggiunte da Giannis sono un problema, ma non lo sono in Europa dove gioca prima con l’Andorra per poi tornare “a casa”, al Panathinaikos.
Si, perché i fratelli Antetokounmpo sono Greci di nascita, seppur il riconoscimento della loro cittadinanza sia avvenuto non senza polemiche, per questioni strettamente legate a meriti sportivi. Precedentemente a quel momento, così come i loro fratelli ed a differenza di quei genitori “irregolari” in suolo Europeo, i fratelli Antetokounmpo erano cittadini di nessun luogo del mondo. Almeno legalmente.
Ed in quanto tali erano destinati a quelle che sono le prospettive di chiunque scorrazzi per le strade dei nostri paesi, in questi anni, con la carnagione più scura della nostra: lavori come ambulante, spesso ti nascondi, qualche volta ti insultano, se ti va bene ti sfruttano, se ti va male forse qualcuno ti spara in testa. Come avvenuto a Firenze non troppo tempo fa.
Chiamatelo “sogno americano”, chiamatelo “uno su mille ce la fa” (in realtà su molti di più), ma Giannis Antetokounmpo è oggi una delle superstar più brillanti nel firmamento dello sport statunitense, anche se interiormente è sempre la stessa persona che vendeva i falsi della Nike per strada, scappando da polizia e neonazisti. Oggi, con la Nike (quella vera), firma contratti di sponsorizzazioni, e forse qualche neonazista si stropiccia gli occhi guardandolo schiacciare nei canestri delle principali arene d’America.
Siamo a Milwaukee nel 2013, un giorno qualsiasi. Una coppia di appassionati e tifosi per la squadra cittadina, i Bucks, viaggia per il centro della città con la propria auto a velocità sostenuta. La loro attenzione viene improvvisamente attirata da un fulmine altissimo, che con passi giganteschi ed una velocità impressionante, sembra volare sul marciapiede a fianco della loro vettura. Sembra uno che corre i 400 metri.
“Ma quello non è il giovane esordiente dei Bucks?” dice stupita la persona seduta sul sedile del passeggero, al conducente.
La macchina affianca Giannis, che si ferma. Gli propone di dargli uno strappo al palazzo, perché è in ritardo per la partita, e non ha altro mezzo per raggiungerlo che le sue gambe ed il suo atletismo.
Giannis Antetokounmpo era uscito per la verità di casa in anticipo, recandosi alla sede più vicina della Western Union, per inviare i soldi in Grecia alla sua famiglia. Quei soldi che per lui adesso non erano indubbiamente un problema, inviati come fanno tutte quelle persone andate a cercar fortuna in un paese che non è il loro. Spediti a casa, alla famiglia che ne ha bisogno per sopravvivere al meglio. Una scena che accade ovunque, anche nelle nostre città, da decenni.
Si, però quel giorno Giannis si era fatto prendere un po’ troppo dalla generosità: distrattamente spedisce tutto quello che ha nel portafoglio, rendendosi conto di essere rimasto senza un dollaro, una volta uscito.
Potrebbe prendere un taxi, certo. Ma è arrivato nell’NBA talmente da poco, che non ha idea di quale sia il suo status di riconoscibilità acquisito: del resto, fino ad una manciata di mesi prima, era solo un altro venditore ambulante di Sepolia, che giocava a Basket per diletto. E comunque, anche per il taxi, non avrebbe moneta di scambio.
Sa perfettamente che, in caso di arrivo in ritardo al palazzo, il coach non glielo perdonerebbe in nessun modo, e quindi decide di farsela a corsa, consapevole della propria rapidità in una vera e propria sfida contro il tempo. Memore probabilmente delle fughe fatte rincorso dalla polizia, con un sacco di vestiti falsi in mano, come tante volte capita nelle nostre città, o nelle spiagge europee.
Aveva già percorso qualche chilometro quando quella macchina lo affianca, lo chiama, lo esorta a salire. Lui, praticamente incredulo, accetta. Non si aspettava di essere diventato così famoso.
Questo è Giannis Antetokounmpo, il clandestino destinato a cambiare il gioco del Basket.
A distanza da quel 1992, migliaia di persone ogni anno lasciano la Nigeria ed il continente Africano come Veronica e Charles Antetokounmpo, in cerca di una speranza per una vita migliore, dignitosa.
Lo fanno spogliandosi di tutto, sopportando fatiche e pericoli difficili da immaginare, rischiando la vita in traversate della speranza.
Alcuni riescono a sbarcare, altri non ce la fanno. E per quelli a cui è andata bene si aprono le porte dei centri di accoglienza, oppure si chiudono quelle delle frontiere, quelle dei diritti, quelli della vita civile.
Chissà se tra loro ci sono altri Giannis Antetokounmpo, destinati potenzialmente a cambiare un gioco, una professione, un paese nel futuro, partendo da un semplice sogno. Chissà quanti di quei sogni vengono infranti nell’indifferenza, nell’insensibilità, nell’incapacità di comprendere altrui, tra le increspature del Mediterraneo.
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