#memoria e cronaca
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Dal 15 aprile è disponibile l’audiolibro “Rosso profondo”, il true crime firmato da Paolacci & Ronco, letto da Alberto Bergamini. Una storia vera tra mistero e memoria. Scopri di più su Alessandria today.
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Ore 7:00, la vibrazione del telefonino mi distoglie da quel torpore del sabato mattina. Quando ti concedi qualche minuto in più. La testa piena di pensieri, oggi ci sarà un evento particolare e importante per uno dei miei figli.
Un obiettivo per il suo futuro.
Ma il telefonino vibra, guardo chi è... mia madre.
Mi si forma sempre un nodo alla gola, paura che le sia successo qualcosa.
- Pronto - rispondo con un filo di voce
- Ciao Rino, ti ho preso un regalo e non te l'ho dato ieri.
- Un regalo? Perché mamma?
- Perché oggi è il tuo compleanno, Rino hai sempre la testa fra le nuvole.
Si mette a piangere preoccupata della mia memoria evanescente - Sei sempre stato così - mi dice.
- Così come mamma?
- A modo tuo.
"A modo mio". Ancora si fa fatica a comprendere che sarebbe più giusto dire "in un mondo mio". Dove tutto sarebbe più giusto, senza le terribili notizie di cronaca internazionale di queste ore.
- Si mamma, "a modo mio"... comunque grazie del regalo.
- Poi passi da me che ti abbraccio?
- Si mamma, dopo passo.
Chiudo la telefonata, ho addosso un'angoscia e tanta paura. La vita è strana, fugge ma si lascia prendere, spesso ti illude e non riesci ad afferrarla.
Mi lacrimano gli occhi, oggi mia madre mi ha fatto gli auguri di buon compleanno. Compirò gli anni tra un mese. La sto lentamente perdendo.
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Chiesa&Farmacia
Tal ministro della Giustizia, italico difensore della sovranità popolare, ma, incapace di tradurre una paginetta in lingua inglese, tanto da rilasciare il torturatore libico Al Masri sul quale pende un mandato d'arresto della CPI, a guardarlo bene da l'impressione del don Abbondio di manzoniana memoria, ma, appena si ascoltano le proprie esternazioni, è inevitabile un principio di orchite.
L'ultima boutade, la soluzione proposta per le vittime di stalking, persecuzioni, pedinamenti: rifugiarsi in chiesa e in farmacia, per cercare protezione.
Ne consegue che, la vittima dovrà rassegnarsi ad una "vita" in fuga, nell'attesa, vana (come riportano le notizie di cronaca nera/stillicidio giornaliero di violenze, soprusi e omicidi di Donne), del funzionamento del braccialetto elettronico e dell'intervento felle ff.oo., impegnate però a identificare chi espone bandiere della Palestina.
Sorge spontanea una riflessione, ricorda percaso il guardasigilli di Elisa Claps?
Anche lei si era rifugiata in chiesa.
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La fine della Chiesa come soggetto europeo
Se si guarda al pontificato di Papa Francesco attraverso le categorie della cronaca, si rischia di coglierne solo la superficie: il linguaggio inclusivo, l’apertura verso le periferie, la sinodalità come metodo di governo. Ma è solo nel pensiero radicalmente meta-storico – come quello di Giorgio Locchi – che tale figura acquista tutto il suo significato. In questa prospettiva, Bergoglio appare come un agente attivo del processo di de-europeizzazione del mondo e, con esso, della fine del mito europeo. Il mito europeo – secondo Locchi – è la visione eroica e creatrice dell’uomo, incentrata sull’idea di autoaffermazione storica e di continuità culturale. È il mito dell’eterno ritorno del medesimo, che si oppone radicalmente all’idea lineare del tempo, quella giudaico-cristiana e poi progressista, che pensa la storia come redenzione o progresso. Papa Ratzinger, pur dentro l’orizzonte cristiano, si era mostrato consapevole del valore della forma, della tradizione, della memoria mitica dell’Europa. Con Francesco, invece, si compie un salto qualitativo. Il Vaticano diventa un soggetto etico-politico del mondo globalizzato, parla il linguaggio delle Nazioni Unite, fa propria l’agenda delle ONG. Il papa non è più il vicario di Cristo, ma il portavoce spirituale della postmodernità. In termini locchiani, potremmo dire che Francesco è il primo papa pienamente figlio dell’ideologia dell’uguaglianza universale: ha interiorizzato la negazione della differenza come nuovo comandamento morale. È il pontefice dell’umanità astratta, e quindi contro ogni forma.
Per duemila anni, il cristianesimo ha convissuto – spesso in tensione, talvolta in sinergia – con la struttura spirituale, simbolica e politica dell’Europa. Con Costantino e poi con Gregorio Magno, con Carlo Magno e poi con Innocenzo III, la Chiesa non si è limitata a predicare il Vangelo: ha assunto la forma imperiale, si è fatta custode di un ordine, di una gerarchia, di una civiltà. Il cattolicesimo è stato, in fondo, il compromesso tra il messaggio paolino e l’eredità pagano-classica di Roma. È stato il cristianesimo romanizzato, radicato nella Storia, nella liturgia, nella teologia, nell’Europa. Benedetto XVI ne è stato il simbolo vivente. Un papa teologo, europeo fino al midollo, convinto che il cristianesimo avesse bisogno della ragione greca per non dissolversi nella superstizione o nell’ideologia. Il suo celebre discorso di Ratisbona, che rivendicava il logos greco-cristiano come base della civiltà occidentale, fu un atto di resistenza culturale contro la deriva relativista. Non è un caso che Benedetto XVI sia stato rapidamente marginalizzato: troppo europeo, troppo teologico, troppo ostico per un mondo che preferisce la narrazione al dogma, il sentimento alla verità. In questa prospettiva, la rottura di Bergoglio con Ratzinger non è solo dottrinale: è ontologica. Ratzinger rappresentava ancora l’idea che la verità fosse legata alla forma, alla gerarchia, alla Tradizione. Con Francesco, il compromesso millenario si spezza. La Chiesa smette di pensarsi come forma storica europea e si presenta finalmente per ciò che, nelle sue radici, è sempre stata: una religione universale, egualitaria, misericordiosa, senza identità. Un cristianesimo purificato dalla storia, slegato da ogni civiltà. E proprio per questo, un cristianesimo pienamente realizzato.
Ciò che sembra un atto di riforma è in realtà un atto di compimento, Francesco non tradisce il cristianesimo: lo realizza. Ma è proprio questa realizzazione a decretare la fine della Chiesa come soggetto europeo, come potenza spirituale e politica dell’Occidente. La Chiesa si dissolve nel mondo, diventa coscienza, si fa ONG morale. Non è più il cuore della civiltà: è il suo specchio. Perché quando il cristianesimo smette di essere romano, smette anche di essere europeo. E quando smette di essere europeo, smette di essere civiltà. Francesco è stato il papa di questo passaggio. Non lo ha causato, sia chiaro, ma lo ha certamente capito. Non lo ha contrastato, ma lo ha accompagnato fino in fondo. È difficile trovare nella storia un altro papa capace di parlare con tanta efficacia ai poteri del mondo. E non in senso apologetico, ma in senso simbolico. Francesco durante il suo pontificato ha adottato tutti i codici dell’umanitarismo globale: la compassione, l’inclusione, l’equità, la sostenibilità. Ha fatto della Chiesa non un bastione, ma una piattaforma. Ha reso il cattolicesimo permeabile, fluido, adattabile. In una parola: disponibile. Ma disponibile a chi? A cosa? Alla nuova etica globale che si impone come surrogato della trascendenza. Una spiritualità dolce, priva di escatologia, senza dogmi, senza confini, che ha nella cura e nell’empatia i suoi sacramenti laici. Una morale senza Dio, che accetta tutti e salva nessuno. Francesco non l’ha inventata: l’ha riconosciuta. E l’ha abbracciata.
Così, mentre il mondo è in cordoglio per il papa argentino, e la stampa lo celebra come “il pontefice del dialogo”, l’Europa si svuota di senso, la Chiesa perde (probabilmente per sempre) la sua forma romana, e l’uomo europeo – quello che ancora crede nella missione storica, nella verticalità del destino, nella potenza creatrice della differenza – si ritrova in un nuovo campo di possibilità. Non saremo certo noi a rimpiangere i tempi del Papa-Re a fronte di una chiesa pienamente globalitaria. Papa Francesco non è stato un semplice pastore ma l’alfiere terminale del lungo processo di cristianizzazione dell’Occidente, che ha portato non alla salvezza, ma all’oblio del mito. Il suo pontificato non apre, ma chiude e dissolve la storia della Chiesa come storia dell’Europa. È la fine della Chiesa come forma, e quindi la fine di un’epoca.
Kulturaeuropa
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Continua a sorprendermi l'ingenuità di tante persone che ancora credono che l'informazione ci presenti i fatti in base alla loro rilevanza.
Mi sorprende che ancora non sia chiaro a tutti che il sistema informativo è truccato, propone, ma in realtà ci impone il suo ordine del giorno per obbedire ad interessi che non sono mai quelli esplicitati.
L'informazione insomma è un Sistema di orientamento mentale, un sofisticato sistema poliziesco.
Eppure basterebbe un minimo di attenzione e di memoria per comprendere che gli argomenti vanno e vengono senza alcuna necessità intrinseca, e cioè oggi può divenire essenziale qualcosa che solo ieri passava inosservato, o viceversa oggi può passare del tutto sotto traccia un tema che domani salterà agli onori della cronaca.
E ciò accade solo in base a ciò che il Sistema vuole occultare o far sembrare indispensabile, spesso per nascondere questioni ben più rilevanti, ma pericolose.
Per cui quando vediamo sorgere all'orizzonte un'immensa discussione globale, o anche nazionale a volte, dovremmo solo chiederci: ma che cosa vogliono nasconderci? oppure: ma che cosa vogliono imporci?
E' un trucco, chiaro? è solo un gioco da tavolo, un gioco di prestigio impostato dai padroni dell'informazione! è una sorta di Magia Nera, di Incantesimo, nel quale pare che ancora masse di milioni di persone cadono come tonni nella rete, pronti ad essere arpionati a sangue.
Sì, perché in fondo è sempre un bagno di sangue, fisico o psichico, quello che questi Signori vogliono indurre.
E allora, care sorelle e amiche, proviamo a crearci un ordine del giorno autonomo, e chiediamoci: ma di che cosa è giusto parlare oggi, 6 dicembre del 2023?
Io direi che il Tema sia ben chiaro dentro l'abisso dei nostri cuori dissestati, e oggi lo definirei così:
Finire è Fiorire:
Spostiamo la nostra attenzione lì dove questi due verbi all'infinito s'incrociano:
Adesso cioè, nel punto presente, in cui possiamo decidere la fine del finire e l'iniziare dell'inizio:
Decidere: Recidere il cordone ombelicale che ci alimenta al veleno di questo mondo:
E' solo lì che la violenza si scioglie:
Sciolta e Assolta in uno Spirito novello
come il vino di dicembre, frizzicarello e vivace
come l'amore.
Questa è l'unica notizia di cui voglio parlare.
L'unica davvero Buona.
Marco Guzzi
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RAI: SERVIZIO PUBBLICO?
M'è capitato per sbaglio di vedere l'altro pomeriggio, "La Vita in Diretta" condotta da un certo Alberto Matano su RAIUNO.
Un programma che ho scoperto va in onda tutti i santi giorni feriali.
Ho messo in moto il cervello.
A chi giova imbastire un programma del genere? Un programma che si onora di sfruculiare in mille modi diversi, la curiosità macabra del pubblico.
Di sollecitare una sorta di perversione sadica nell'apprendere i dettagli feroci e disumani degli assassini che abbelliscono il nostro bel paese. E intendo il numero delle coltellate, il topicida fatto ingerire alla ragazza incinta, la trappola mortale architettata e spacciata per "incontro chiarificatore".
Eccolo allora il festival della pugnalata, del sangue schizzato sul pavimento, androne, scalinata. Un fiorire delle peggiori atrocità sbandierate a destra e manca con l'ausilio del commento della criminologa di turno.
A chi serve un orrore del genere travestito da cronaca del Presente.
Certo, serve a certo Pseudo-giornalismo per fare ascolti. Per scandalizzare, per scioccare, per catturare attenzioni raschiando il fondo del barile della peggiore "cronaca nera" del nostro paese.
Ma questo rimestare, questo intingere continuamente le mani nei delitti della peggiore criminalità e della miseria di certi individui perversi e malati, a chi giova?
È EDUCATIVO ?
È MORALE ?
È QUESTO CHE DEVE ESSERE IL "SERVIZIO PUBBLICO" FINANZIATO COL CANONE DA TUTTI QUANTI?
È SOCIALMENTE ACCETTABILE PRESTARSI A FARSI MEGAFONO E CASSA DI RISONANZA DEL PEGGIO CHE ACCADE NELLA NOSTRA ATTUALE SOCIETÀ?
La cosa che mi lascia di sasso è la SERIALITÀ delle puntate.
Mi spiego: un singolo crimine, delitto, omicidio, viene ripreso quotidianamente.
A volte anche per decine di puntate.
Quasi che un telespettatore dovesse mandare a memoria l'intera sequenza di un assassinio. E questi allora che fanno?
Ti aiutano a memorizzare. Spacchettando l'intero accadimento in tante sequenze da imparare un poco ogni giorno.
Come se fosse una POESIA da imparare a memoria!
...ogni giorno ti offriremo 4 versi dell'intero componimento!
Ci pensavo ieri sera.
Perchè allora, invece di presentarci una serie infinita di femminicidi ormai già avvenuti, non si cambia punto di vista e di osservazione?
Perchè, se ci sta davvero a cuore il problema di questa piaga sociale che è la violenza alle donne, il giornalista, invece che intervistare a bocce ferme, i parenti e le amiche della malcapitata di turno, non va ad intervistare...
una donna ANCORA VIVA, ANCORA RESPIRANTE, ANCORA PENSANTE
che abbia presentato una denuncia per maltrattamenti, violenza, percossse ?
Perchè se si è davvero " servizio pubblico" invece che speculare sul dolore e sulla carneficina in corso ai danni del genere femminile, non si decide di documentare il problema vero, di entrare nella carne viva di questi inferni umani che sono certe relazioni.
Perchè non si decide, invece, quando ancora "si è in tempo" di prendere le parti delle vittime di maltrattamenti, di documentarne le difficoltà, di arrivare a chiedere immediati interventi di ordine pubblico (braccialetto elettronico o carcere) contro gli aggressori, prima ancora che l'irreparabile sia accaduto?
Non sarebbe forse quello il migliore SERVIZIO PUBBLICO che si potrebbe svolgere a difesa delle donne che rischiano ogni giorno di essere le prossime vittime di femminicidio?
Io me lo chiedo.
Meno tv del dolore, e più trasmissioni educative sul tipo di relazioni che vale la pena vivere.
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Berenice
- Edgar Allan Poe -
La sventura ha molti aspetti; la miseria sulla terra è multiforme. Domina il vasto orizzonte come l’arcobaleno e i suoi colori sono altrettanto variati, altrettanto distinti eppure strettamente fusi. Domina il vasto orizzonte come l’arcobaleno. In che modo ho potuto trarre un carattere di bruttezza da un esempio di bellezza? Dal sogno dell’amicizia e della pace una similitudine di dolore? Ma come, in morale, il male è la conseguenza del bene, ugualmente, nella realtà dalla gioia nasce l’affanno; sia che il ricordo del passato felice crei 1’angoscia dell’oggi, sia che le agonie reali traggano la loro origine dalle estasi che sono state possibili.
Io ho da raccontare una storia la cui essenza è piena di orrore. La sopprimerei volentieri se non fosse piuttosto una cronaca di sentimenti che di fatti.
Il mio nome di battesimo è Egeo, il mio nome di famiglia non lo dirò. Nella regione non c’è castello più carico di gloria e d’anni che il mio vecchio e melanconico maniero avito. Da molto tempo la nostra famiglia aveva nome di una razza di visionari; il fatto è che in molte particolarità notevoli- nel carattere della nostra casa padronale- negli affreschi della gran sala- negli arazzi delle camere- nei fregi dei colonnini della sala d’armi- ma più specialmente nella galleria dei vecchi quadri, nell’aspetto della biblioteca e finalmente nella natura peculiare del contenuto di questa biblioteca- si può trovare di che giustificare ampiamente questa persuasione.
I ricordi dei miei primi anni sono legati unicamente a quella sala e a quei volumi dei quali non parlerò più. Quivi morì mia madre; quivi nacqui io. Ma sarebbe ozioso dire che non ho mai vissuto prima d’allora- che l’anima non ha un’esistenza anteriore. Lo negate?- non discutiamo su questa materia. Io son convinto ma non cerco di convincere altri. C’è, del resto, una rimembranza, di forme eteree, di occhi spirituali e parlanti, di suoni melodiosi e melanconici, una rimembranza che non vuole andarsene; una specie di memoria pari a una ombra,- vaga, trasmutabile, indeterminata, vacillante; e di questa ombra essenziale non potrò mai disfarmene, finché brillerà il sole della mia ragione.
Io nacqui in quella stanza là. Emergendo così di mezzo alla lunga notte che sembrava essere ma non era la, non esistenza, per cadere ad un tratto in una regione fantasmagorica, in un palazzo fantastico- negli strani domini del pensiero e dell’erudizione monastica- non è meraviglia che io guardassi intorno a me con occhio ardente e sbigottito- che abbia consumato l’infanzia fra i libri e prodigato la mia gioventù in fantasticherie; ma quel che è strano- quando gli anni passarono e il meriggio della mia virilità mi trovò vivo ancora nella dimora dei miei antenati- quel che è strano è quel ristagno che si produsse nelle sorgenti della mia vita, quella completa inversione che si produsse nelle qualità dei miei pensieri più abituali. Le realtà del mondo agivano su me come delle visioni e solo come visioni, mentre che 1’idee folli del mondo dei sogni divenivano, in compenso, non solo il pascolo della mia esistenza quotidiana, ma effettivamente la mia stessa unica, la mia intera esistenza.
Berenice ed io eravamo cugini e crescevamo insieme nella casa paterna. Ma crescemmo disugualmente: io malaticcio e sepolto nella mia melanconia, essa agile, graziosa, esuberante di energia; a lei il vagabondare per le colline- a me gli studi da monaco io vivevo nel mio cuore stesso e mi votavo, anima e corpo, alla più intensa, alla, più ingrata meditazione- essa errava traverso alla vita, noncurante, senza pensare alle ombre del suo cammino né nella fuga silenziosa delle ore alla nere piume Berenice!- io invoco il suo nome – e dalle grigie rovine della mia memoria su levano a questo nome mille ricordi tumultuosi. Ah, La sua immagine è là, vive dinanzi a me come nei giorni primi della sua spensieratezza e della sua gioia! Oh, magnifica e insieme fantasiosa bellezza! Oh silfide nei boschetti di Arnheim! Oh naiade di quelle fontane! Poi- poi tutto diviene mistero e terrore storia che non vuole esser raccontata. Un male- un male tragico piombo sul suo corpo come il simoun; anzi mentre la contemplavo, lo spirito trasformatore passava su di lei e la rubava a poco a poco, impossessandosi della sua mente delle sue abitudini, del suo carattere, perturbando perfino la sua fisionomia in modo sottilissimo e terribile. Ahimé! il distruttore veniva e se ne andava; ma la vittima- la vera Berenice- che è diventata? Quella lì non la conoscevo o almeno non la riconoscevo più quale la Berenice di un tempo. Nel corteo numeroso di malattie apportate da quel fatale e principale attacco che produsse una rivoluzione così orribile nell’essere fisico e morale di mia cugina, la più tormentosa e la più ostinata era una specie di epilessia che spesso finiva in catalessi- catalessi che rassomigliavano in tutto alla morte, da cui essa, certe volte, si risvegliava in un modo brusco e improvviso. Nel tempo stesso il mio male- perché mi hanno detto che non potevo denominarlo altrimenti- il mio male aumentava rapidamente i sintomi erano aggravati dall’uso dell’oppio; e finalmente prese il carattere di una monomania di nuovo genere e mai vista. Ogni ora, ogni minuto, guadagnava in energia e alla fine conquistò su me il più strano e il più incomprensibile potere. Questa monomania se devo servirmi di questo vocabolo consisteva in una morbosa irritabilità delle facoltà dello spirito che il linguaggio filosofico comprende sotto il nome di “facoltà di attenzione”. È più che probabile che non sia capito; ma in verità, temo di non poter dare in nessun modo alla più gran parte dei lettori un’idea esatta di questa intensità d’interesse per la quale, nel caso mio la facoltà meditativa- eviterò il linguaggio tecnico – si applicava e si sprofondava nella contemplazione delle cose le più banali di questo mondo.
Riflettere infaticabilmente per ore ed ore, inchiodando l’attenzione su qualche puerile citazione in margine o nel testo di un libro- restare assorto per quasi tutta una giornata d’estate per un’ombra bizzarra che si allungava obliquamente sugli arazzi o sul pavimento- dimenticare tutto per una intera notte nel sorvegliare la fiammella diritta di un lume o la brace del caminetto- sognare giorni interi sul profumo di un fiore- ripetere in una maniera monotona qualche parola volgare fino a che il suono a forza d’esser ripetuto, non rappresenti più allo spirito nessuna idea- perdere ogni coscienza di movimento e di esistenza fisica in un assoluto riposo prolungato ostinatamente- queste erano alcune delle più comuni e perniciose aberrazioni delle mie facoltà mentali, aberrazioni che certamente non restano del tutto senza esempi, ma che certamente sfidano ogni spiegazione e ogni analisi. Anzi mi spiego meglio. L’anormale, intensa, morbosa attenzione eccitata così da oggetti in se stessi frivoli, non e di natura tale da confondersi con quella inclinazione al fantasticare che è comune a tutta umanità, a cui si abbandonano sopratutto le persone di ardente immaginazione.
Non solamente non era, come si potrebbe supporre a prima vista, un termine remoto, un’esagerazione di quell’inclinazione, ma anzi n’era differente per origine e per qualità. Nell’un caso il sognatore, l’uomo immaginativo occupato da un oggetto generalmente non frivolo, perde a poco a poco di vista il suo oggetto attraverso un’ infinità di deduzioni e suggestioni che ne scaturiscono fuori, cosicché in fondo ad una di queste meditazioni spesso piene di voluttà si accorge che l’incitamentum o causa prima delle sue riflessioni è completamente svanito e dimenticato. Nel caso mio invece il punto di partenza era sempre banale sebbene assumesse un’ importanza immaginaria e di rifrazione, traversando il campo della mia visione malata. Io facevo poche deduzioni- se pure ne facevo, e nel caso, esse tornavano ostinatamente all’oggetto principale come a un centro. Le meditazioni non erano mai piacevoli; e alla fine del sogno la causa prima lungi dall’essere fuori questione aveva raggiunto quell’importanza straordinariamente esagerata che era il tratto dominante del mio male. In poche parole la facoltà dello spirito in modo speciale acuita in me era, come dissi la facoltà, dell’attenzione, mentre che nel sognatore comune quella della meditazione.
In quel tempo i libri se non mi servivano proprio a irritare il male, partecipavano ampiamente come si può capire, nel loro carattere imaginativo e irrazionale, delle qualità peculiari del male stesso. Mi ricordo bene, fra gli altri del trattato del nobile italiano Celio Secondo Curione, Della grandezza del felice regno di Dio; la grande opera di S. Agostino, La Città di Dio e Della carne del Cristo di Tertulliano, il cui inintelligibile detto: credibile est quia ineptum est; sepultus resurrexit, certum quia est quia impossibile est– assorbì esclusivamente tutto il mio tempo, per più settimane di una laboriosa e infruttuosa investigazione.
Senza dubbio più d’uno concluderà che la mia ragione, scossa nel suo equilibrio da certe cose insignificanti, offriva una certa somiglianza con quella rocca marina di cui parla Tolomeo Efestio che resisteva immutabilmente a tutti gli attacchi degli uomini e al furore più terribile delle acque e dei venti e che fremeva al tocco del fiore chiamato asfodelo. A un giudice superficiale parrà semplicissimo e fuor di dubbio che la terribile alterazione prodotta della condizione morale di Berenice dalla sua malattia dovesse fornirmi più di una occasione ad esercitare questa intensa e anormale meditazione di cui a grave fatica ho potuto definirvi la qualità. Ebbene le cose non stavano punto in questo modo. Nei lucidi intervalli della mia infermità, la sua sventura mi cagionava è vero molto dolore; quella rovina totale della sua bella e dolce esistenza mi pungeva acutamente il cuore; io riflettevo spesso e amaramente sul modo misterioso e strano nel quale aveva potuto prodursi una sì rapida trasformazione. Ma queste riflessioni non avevano il colore proprio al mio male ed erano uguali a quelle che in circostanze analoghe si sarebbero presentate alla massa comune degli uomini. Quanto alla mia malattia, fedele al suo carattere, si faceva un pascolo dei cambiamenti meno importanti ma più visibili, che si manifestavano nell’organismo fisico di Berenice- nella strana e spaventevole distorsione del suo aspetto. È certissimo che nei giorni più luminosi della sua incomparabile bellezza io non l’avevo amata. Nella strana anomalia della mia esistenza, i sentimenti non mi sono mai venuti dal cuore e le mie passioni mi son sempre venute dallo spirito. Traverso alla pallidezza del crepuscolo- a mezzogiorno fra le ombre intrecciate della foresta- e la notte nel silenzio della mia biblioteca- essa mi era passata oltre gli occhi e io 1’avevo vista, non come la Berenice vivente e respirante, ma come la Berenice di un sogno, non come un essere della terra, un essere carnale, ma come l’astrazione di un tal essere; non come una cosa da ammirare, ma da analizzare non come oggetto di amore, ma come il tema di una meditazione tanto astrusa quanto anormale. E ora, ora tremavo al suo cospetto, impallidivo al suo avvicinarsi; intanto sebbene lamentassi amaramente la sua triste condizione di deperimento, mi ricordai che essa mi aveva amato lungamente e, in un momento infelice, le parlai di matrimonio. Il tempo fissato per le nostre nozze si avicinava quando un pomeriggio d’inverno- una di quelle giornate nebbiose che preparano la febbre al cuore- mi sedei credendomi solo nella stanza della biblioteca. Ma, alzando gli occhi, vidi Berenice dinanzi a me.
Fu la mia immaginazione sovreccitata, o l’influsso dell’atmosfera brumosa o la veste oscura, che avvolgeva la sua persona, che le diede quel contorno così tremante e indeciso? Non potrei dirlo. Forse dopo la sua malattia era cresciuta. Essa non disse una parola; e io non avrei pronunziato una sillaba per nulla al mondo. Un brivido gelato mi corse il corpo; una sensazione di angoscia insopportabile mi opprimeva; una curiosità divorante s’introdusse nel mio animo; e appoggiandomi riverso sulla poltrona rimasi un po’ di tempo senza moto e senza respiro cogli occhi inchiodati sulla sua persona. Ahimé era estremamente smagrita; dell’essere di una volta non era sopravvissuto vestigio né era rimasto neppure un lineamento. Finalmente i miei sguardi caddero sulla sua faccia. La fronte era alta, pallidissima e supremamente serena; i capelli, una volta di un nero corvino la coprivano in parte e ombravano le tempie incavate colle fitte anella, ora di un biondo caldissimo; e quel tono capriccioso di colore stonava dolorosamente colla malinconia dominante sulla sua fisionomia. Gli occhi erano senza vita e senza splendore, come senza pupille, e involontariamente io distornai lo sguardo da quella vitrea fissità, per contemplare le labbra affinate e aggrinzite. Esse si aprirono e in un sorriso stranamente espressivo i denti della nuova Berenice si rivelarono lentamente alla mia vista. Non li avessi mai guardati o fossi io morto subito dopo averli guardati.
Una porta chiudendosi mi scosse e, alzando gli occhi, vidi che mia cugina era uscita dalla camera. Ma nella camera sconvolta del mio cervello lo spettro bianco o terribile dei suoi denti restava e voleva andarsene più. Non una scalfittura, sulla superficie di quei denti, non un’ombra sul loro smalto, non una punta sul quel sorriso passeggero non fosse bastato a imprimere nella mia memoria. Anzi li vidi allora più nettamente che non poco prima. Quei denti! quei denti!- Essi erano qui- poi là, per tutto- visibili palpabili, dinanzi a me; lunghi stretti e bianchissimi, colle labbra pallide che si torcevano intorno, orribilmente tese, com’erano poco prima. Allora sopraggiunse la furia piena della mia monomania ed invano lottai contro la sua irresistibile influenza. Nella massa infinita degli oggetti del mondo esteriore, non avevo pensiero che per i denti. Tutte le altre cose, tutte le alterazioni diverse furono assorbite in quella unica contemplazione. Essi, essi soli, eran presenti all’occhio del mio spirito e la loro esclusiva individualità divenne il fulcro della mia vita intellettuale. Io li guardavo sotto tutte le luci; li volgevo in tutti i sensi; studiavo le loro qualità; osservavo i loro segni particolari; meditavo sulla loro conformazione. Riflettevo sull’alterazione della loro natura. Rabbrividivo attribuendo loro nella mia immaginazione una facoltà, di sensazione e di sentimento e anche, senza neppure il concorso delle labbra, una potenza d’espressione morale. Fu detto eccellentemente della signorina Sallé che tutti i suoi passi erano dei sentimenti e di Berenice io pensavo seriamente che tutti i denti erano delle idee.- Delle idee!- ah! ecco il pensiero assurdo che mi ha perduto!! Delle idee! ah! ecco dunque perché li desideravo così pazzamente! Sentivo che solo il loro possesso poteva restituirmi la pace e ripristinare la mia ragione. E la sera così discese su di me- e le tenebre vennero, si fissarono e poi se ne andarono- e una luce nuova comparve e le nebbie di una seconda notte si agglomerarono su di me- ed io ero sempre immobile in quella camera solitaria, sempre seduto, sempre sepolto nella mia meditazione, o sempre il fantasma dei denti manteneva la sua influenza terribile a tal punto che io la vedevo fluttuare qua e là e traverso la luce e le ombre cangianti della camera, colla più viva e la più orrida limpidezza. Finalmente in mezzo ai miei sogni scoppiò un gran grido di dolore e di spavento al quale successe dopo una pausa, con suono di voci desolate, intramezzato da gemiti sordi di dolore e di lutto. Io mi alzai e aprendo una delle porte della biblioteca trovai nell’anticamera un servo piangente che mi disse che Berenice non viveva più! Era stata presa dall’epilessia nella mattinata; e ora, sul cader della notte, la fossa aspettava la futura abitatrice e tutti i preparativi del seppellimento erano terminati.
…
Il cuore grave di angoscia, oppresso da sbigottimento, mi diressi con una certa ripugnanza nella camera da letto della defunta. La camera era vasta e oscura e ad ogni passo inciampavo nei preparativi della sepoltura. Le cortine del letto, mi disse un domestico, erano chiuse intorno alla bara, e dentro a questa bara, aggiunse o, voce bassa, giaceva tutto quel che restava di Berenice. Chi fu dunque che mi domandò se volevo rivedere il corpo? – Io non vidi che nessuno muovesse le labbra; eppure la domanda era stata proprio fatta e l’eco dell’ultime sillabe strascicava ancora nella camera. Era impossibile opporsi e con un senso di oppressione mi trascinai accanto al letto. Sollevai adagio il cupo panno dello cortine, ma nel lasciarle ricadere discesero sulle mie spalle e separandomi dal mondo vivente mi chiusero nella più stretta comunione colla defunta. Tutta l’atmosfera della camera sapeva di morte; ma l’odore particolare della bara mi faceva male, e mi pareva che un odore deleterio esalasse già dal cadavere. Avrei dato l’oro del mondo per scappare, per fuggire il pernicioso influsso della morte per respirare ancora 1’aria pura dei cieli immortali. Ma non avevo più la forza di muovermi; i ginocchi mi vacillavano; avevo preso radice nel suolo, guardando fissamente il cadavere rigido, steso in tutta, la sua lunghezza nella bara aperta. Dio del cielo! è mai possibile? Il mio cervello delira? o il dito della defunta si è mosso sotto la tela bianca che lo chiude? Tremando di un terrore indescrivibile alzai gli occhi lentamente per vedere la faccia del cadavere. Avevano messo una benda intorno alle mascelle, ma non so come si era sciolta. Le labbra livide si torcevano in una specie di sorriso e traverso alla loro melanconica cornice i denti di Berenice bianchi, lucenti terribili mi guardavano ancora con una realtà troppo viva. Io mi scostai convulsamente dal letto e senza dir parola mi slanciai come un maniaco fuor di quella camera di misteri, di orrore e di morte.
…
Mi ritrovai nella biblioteca, ero e solo. Mi sembrava di uscire da un sogno confuso ed agitato. Vidi che era mezzanotte ed io avevo preso le mie precauzioni perché Berenice fosse sepolta subito dopo il tramonto. Ma di quel che accadde durante quel lugubre intervallo non ho conservato memoria certa né chiara. Pure la mia mente era ingombra di orrore, tanto più orribile quanto più vago, di un terrore che l’ambiguità rendeva più spaventoso. Era come una pagina paurosa nel registro della mia esistenza scritto interamente con ricordi oscuri, orrendi e inintelligibili. Mi sforzai di decifrarli, ma invano. Pure di tanto in tanto simile all’anima di un suono fuggevole, un grido sottile e penetrante- come voce di donna- mi sembrava che si ripercuotesse nelle mie orecchie. Io avevo fatto qualche cosa, ma che cos’era mai? Io mi rivolgevo la domanda ad alta voce e gli echi della camera mi bisbigliavano per tutta risposta: Che era mai?
Sulla tavola accanto a me ardeva una lampada e accanto c’era una piccola scatola di ebano. Non era una scatola di stile notevole e 1’avevo già vista più volte perché apparteneva al medico di famiglia; ma come mai era venuta lì, sulla tavola, e perché mi venivano i brividi a guardarla? Eran cose che non valeva la pena di attrarre l’attenzione; ma gli occhi mi caddero alla fine sulle pagine aperte di un libro e su una frase sottolineata. Erano le parole bizzarre, ma molto semplici del poeta Ebn Zaiat: Mi andavan dicendo i compagni miei che se avessi visitato il sepolcro dell’amica i miei affanni sarebbero alquanto allievati.
Perché mai dunque a leggere quelle linee mi si rizzarono i capelli sulla testa e il sangue mi si ghiacciò nelle vene? Un colpo fu battuto alla porta, e un servo, pallido come un cadavere, entrò sulla punta dei piedi. Aveva gli occhi sconvolti dallo spavento, e mi parlo con voce bassissima, tremante, soffocata. Che mi disse? Io sentii qualche frase qua e là. Mi raccontò, sembra, che un grido spaventoso aveva turbato il silenzio della notte, che tutti i domestici si eran riuniti, e che avevan cercato nella direzione del suono, poi la sua voce bassa divenne chiara in modo da darmi i fremiti parlandomi di violazione di sepoltura, d’un corpo sfigurato, spogliato del lenzuolo, ma che ancora respirava e palpitava, che viveva ancora.
Mi guardò i vestiti; erano imbrattati di fango e di sangue aggrumato. Senza far parola mi prese dolcemente per mano; la mia mano aveva delle impronte di unghie umane. Poi richiamò la mia attezione sopra un oggetto appoggiato al muro, 1o guardai qualche minuto. era una vanga. Mi gettai con un grido sulla tavola ed afferrai la scatola di ebano, ma non ebbi la forza di aprirla e nel tremito mi sfuggì di mano, cadde pesantemente e andò in pezzi; ne uscirono rotolando con fragore di terraglia degli strumenti da dentista e con essi trentadue piccole cose bianche, simili ad avorio, che si sparpagliarono qua e là sul pavimento
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Laura Betti

«Sono comunque un’attrice ed ho una necessità fisica di perdermi nel profondo degli intricati corridoi dove si inciampa tra le bave depositate da alieni, tele di ragno luminose e mani, mani che ti spingono verso i buchi neri screziati da lampi di colore, infiniti, dove sbattono qua e là le mie pulsioni forse dimenticate da sempre oppure taciute… per poi ritrovare l’odore della superficie e rituffarmi nel sole dei proiettori, nuova, altra».
Laura Betti è stata un’attrice talentuosa, vivace e intensa. La cattiva per antonomasia delle grandi dive del cinema italiano.
Ha recitato in circa settanta film, diretta dai più grandi registi e registe del Novecento come Federico Fellini, Roberto Rossellini, Mario Monicelli, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Gianni Amelio, Francesca Archibugi, i fratelli Taviani, in capolavori come La dolce vita, Teorema, Sbatti il mostro in prima pagina, Nel nome del padre, Il grande cocomero e molti altri ancora.
Tra le interpretazioni più memorabili c’è sicuramente quella in Novecento di Bertolucci (1976) in cui ha interpretato Regina, personaggio dall’aria sinistra, quasi stregonesca, amante del fascista Attila, interpretato da Donald Sutherland.
Sul suo modo di esprimersi con le parole, il linguaggio, la voce roca e impastata, la fisicità, ci sono stati anche diversi studi accademici.
Artista a tutto tondo, ha recitato a teatro, cinema, televisione e lavorato a lungo come doppiatrice.
Soprannominata giaguara per la sua vitalità aggressiva e incontenibile associata a un passo felpato, quello con cui entrava in un film con un ruolo non da protagonista, per poi rubare la scena a tutti gli altri.
Nata col nome di Laura Trombetti a Casalecchio di Reno, Bologna, il 1º maggio 1927, ha esordito come cantante jazz, per poi passare al cabaret con Walter Chiari ne I saltimbachi.
Nel 1955 ha debuttato in teatro ne Il crogiuolo di Arthur Miller, con la regia di Luchino Visconti, seguito poi da spettacoli storici come il Cid di Corneille, in coppia con Enrico Maria Salerno e I sette peccati capitali di Brecht e Weill.
Il recital Giro a vuoto, del 1960, realizzato in collaborazione dei più grandi talenti letterari dell’epoca che amavano riunirsi nella sua casa romana, a Parigi venne recensito positivamente dal fondatore del movimento del surrealismo, André Breton.
Al cinema ha esordito nel 1956, in Noi siamo le colonne di Luigi Filippo D’Amico. Le prime parti importanti sono state in Labbra rosse di Giuseppe Bennati, Era notte a Roma di Roberto Rossellini, e soprattutto ne La dolce vita di Federico Fellini, dove interpretava una giovane saccente che nella scena finale della festa si vede rovesciare un bicchiere d’acqua in faccia da Marcello Mastroianni.
Fondamentale è stato il sodalizio con Pier Paolo Pasolini, che l’ha diretta in diverse opere teatrali e cinematografiche, tra cui svetta Teorema, che le è valso la Coppa Volpi come miglior attrice al Festival del Cinema di Venezia.
È stata la sua musa, definita da lui “una tragica Marlene Dietrich, una vera Greta Garbo che si è messa sul volto una maschera inalterabile di pupattola bionda”. Meglio di chiunque, è riuscito a sfruttare la sua capacità di caratterizzare i personaggi con la sua fisicità intensa, il forte segno caratteriale, spesso aspro, e la sua voce dal timbro pastoso.
A partire dagli anni ’70 ha cominciato a interpretare soprattutto ruoli da cattiva, scomodi e sgradevoli che, seppur secondari, restavano impressi nella memoria del pubblico.
Dopo la morte di Pasolini, nel 1975, ha tentato in tutti i modi di fare giustizia all’amico, sporse anche denuncia contro la magistratura per come erano state svolte le indagini sull’omicidio, le cui cause ancora oggi, restano oscure.
Ha continuato a farlo vivere, ricordandolo, scrivendone, dirigendo documentari su di lui.
Con Giovanni Raboni, ha pubblicato, nel 1977 Pasolini cronaca giudiziaria, persecuzione, morte seguito, due anni dopo, dal romanzo Teta Veleta il cui titolo è un riferimento a uno scritto giovanile del grande intellettuale.
Nel 1983 ha ideato e diretto il Fondo Pier Paolo Pasolini che per oltre vent’anni ha avuto la sede a Roma, poi spostato a Bologna, quando, nel 2003, ha creato il Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini, con oltre mille volumi e altro materiale relativo alle opere dello scrittore e regista.
Nel 2001, con Paolo Costella, ha diretto il documentario Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno.
È stata anche la protagonista del libro di Emanuele Trevi Qualcosa di scritto, che evidenzia come lei sia stata la vera erede spirituale di Pasolini e incontrarla è come incontrare lo scrittore, perché rimasta plasmata e posseduta dalla sua vivida presenza.
In Francia, paese che l’ha adorata e riverita molto più dell’Italia, nel 1984 è stata nominata Commandeur des Arts et Lettres.
Laura Betti si è spenta a Roma il 31 luglio 2004.
Dopo la sua morte, il fratello, ha donato al Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini anche tutti i documenti personali della carriera della sorella, raccolti sotto il nome Fondo Laura Betti, inoltre la sua città di origine, Casalecchio di Reno, nel 2015, le ha intitolato il Teatro Comunale.
Del 2011 è il documentario La passione di Laura, diretto da Paolo Petrucci, in cui viene ripercorsa la carriera dell’attrice raccogliendo anche le testimonianze di registi e intellettuali come Bernardo Bertolucci, Francesca Archibugi, Giacomo Marramao e Jack Lang. Il film è stato candidato ai Nastri d’Argento del 2012 tra i migliori documentari.
Laura Betti ha concentrato la sua esistenza nella ricerca della verità. Nell’arte, nella vita, tra la poesia che ha frequentato, nella sua recitazione.
Aveva carisma e fascino, sapeva sperimentare e aveva uno straordinario dinamismo dell’intelletto.
Ha avuto ruoli fuori dai canoni e per questo è stata difficilmente inquadrabile.
Ha saputo intrecciare linguaggi differenti come il cabaret, la canzone, il teatro, il cinema, la rivista.
Dipinta con tratti alterni, di sicuro ha saputo lasciare la sua impronta decisa e precisa nella storia della cultura italiana.
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VENTUNESIMO SECOLO - di Gianpiero Menniti
MASCHILE E FEMMINILE: IL MUTAMENTO PROFONDO
Tra le fonti del romanzo "Le Streghe di Shakespeare" c'è un testo singolare.
Anni fa, parecchi anni fa (fine anni '80, primi '90 del secolo scorso) venni incuriosito da un titolo inconsueto, "Occidente misterioso - Baccanti, gnostici, streghe: i vinti della storia e la loro eredità".
A interrogarmi non era solo l'esordio del libro ma il nome dell'autore, Giorgio Galli, scomparso nel 2020, storico e politologo milanese di riconosciuto valore.
Inaspettatamente, l'insigne docente di storia delle dottrine politiche aveva dato alle stampe un volume per raccontare che i vinti nascosti della storia fossero spesso alcuni "modelli femminili di visione del mondo", relegati nell'impulsività mistica e quindi osteggiati per la loro forte carica emotiva, in apparenza contrari alla genesi razionalista delle società considerate progredite e naturalmente, cosa più importante, ai loro assetti.
Dal mondo antico fino all'età moderna.
Dunque, sostiene Galli, nei «passaggi cruciali della costruzione dell'Occidente come civiltà, le tensioni e i conflitti tra "femminile" e "maschile" hanno avuto un ruolo superiore a quello sinora loro accreditato.».
Ancora più singolare fu l'accoglimento della robusta e davvero interessante tesi di Galli: il sistema accademico italiano lo sospinse in un limbo di marginalità.
Il suo libro venne in altri casi fortemente criticato come si fosse trattato di uno "scivolone" dell'illustre cattedratico.
Aveva toccato un nervo scoperto il buon Galli?
Nessuno, a mia memoria, entrò mai nel merito della sua proposta interpretativa, certamente molto avanzata in quel torno di fine millennio.
Lo studioso non si arrese e negli anni successivi coltivò il filone.
Galli aveva indirettamente chiarito, argomentando con dovizia, quanto fosse rimasto fervente, nel corso di un lunghissimo arco di tempo, il fiume carsico dei diritti in capo al genere femminile, la portata storicamente rilevante degli assetti sociali costituitisi anche sul contrasto verso rivendicazioni ritenute eversive e infine si basasse su quell'antica polarizzazione anche l'origine dei fermenti politico-sociali che attraversarono l'800 e il '900, secoli nei quali si è consumata la formula stantia della superiorità "maschile", ormai ampiamente decaduta e oggi in procinto di crollare definitivamente.
Si badi: non si tratta di ridurre la storia a una divisione di potere e contropotere tra i sessi (sarebbe una grossolana fandonia) ma di saper cogliere, come Galli riuscì a fare, l'importanza di questo dinamico confronto socio-culturale percorrendo l'arco del pensiero e dunque della civiltà occidentale.
Tutti i processi storici sono segnati da avvenimenti che fanno da detonatore, come recenti e tragici casi di cronaca nera insegnano da noi.
E che osserviamo in misura ancora più rilevante in scenari distanti dal nostro modello: gli accadimenti in Iran, con la "polizia morale" che massacra ragazze indifese, sono l'esempio lampante della discrasia tra un potere reazionario e una società che sul riconoscimento delle libertà individuali in capo al genere femminile e dell'habeas corpus in particolare, arriverà ad abbattere quelle obsolete forme di dominio e con esse l'intero assetto sociale, dello Stato e dei fondamenti religiosi sui quali si regge.
Quando accadrà - e accadrà anche se le martiri saranno ancora molte - quale corso prenderà la storia in Medio Oriente?
Dunque, in relazione causale, nel resto del globo?
Nessun cambiamento di status si è mai affermato pacificamente.
Ma il cambiamento è in atto, ormai segnato e inarrestabile.
Ed è, in non rare occasioni, coinciso, quando racchiuso in termini avanzati (poichè esiste anche un conservatorismo di stampo femminile non meno intransigente e detestabile) con il ruolo delle donne.

Questo sostengo facendomi breccia, implicitamente, attraverso il buon Galli, storico acuto e politologo lungimirante.
Gli idioti (nel significato originario greco) non se ne avvedono.
Gli imbecilli (nell'etimologia latina) tentano di contrastarlo.
Ne "Le Streghe di Shakespeare" l'argomento è scavato ancora più profondamente, in chiave antropologica.
Fino a contemplarne l'origine.
Sepolta in un abisso scabroso.
Nelle immagini: "Grande Dea Madre", periodo Paleolitico, collezione Mainetti, New York


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Nei giorni scorsi ho assistito a una prova aperta di The Garden, il nuovo lavoro di Gaetano Palermo, con Sara Bertolucci e Luca Gallio, che quest’anno è stato selezionato per la quarta edizione di ERetici_le strade dei teatri, il progetto di accoglienza, sostegno e accompagnamento critico, ideato e curato dal Centro di Residenza dell’Emilia Romagna.
In scena una black box ospita al suo interno un unico fermo immagine che solo alla fine si smaterializza lasciando lo spazio vuoto. Una donna, vestita con una sottoveste rosso mattone, è riversa a terra sul fondo destro del palcoscenico e lì resterà immobile, mossa solo da un respiro lento e profondo.
La dimensione immaginifica e di spaesamento che si crea per lo spettatore è dettata dalla drammaturgia sonora, che ad ogni cambio di brano amplia l’immaginario in nuove visioni, e dall’impianto luminoso, che resta statico dopo una prima accensione a lampi di neon. Per rifarci al titolo ci troviamo davanti a una natura morta, che fa però permeare di vita quell’immagine statica in ogni attimo che passa.
Fotografia o cinema? Teatro o dj set? Installazione o durational performance? O tutto questo insieme? L’impianto del lavoro è decisamente teatrale: come si diceva in principio, c’è una scena nera che si illumina quasi cinematograficamente per restare così, con la stessa tonalità di colore e luce, fino alla fine. Poi c’è la drammaturgia sonora che è ciò che da movimento a un’immagine altrimenti immobile e fa sì che lo spettatore proceda nella giustapposizione di immaginari e di significati.
Il dispositivo che il collettivo artistico mette in opera viene così definito da un crash mediale che fa collasse il cinema nel teatro, il teatro nel dj set, la fotografia nell’installazione e così via. Questo meccanismo inoltre sembra operare su quel piano di reinvenzione del medium di cui parla Rosalind Krauss (2005): facendo collassare sulla scena molteplici media il collettivo porta lo spettatore dentro il processo stesso, rendendo percettibile, grazie alla ripetizione all’infinito della stessa immagine, la finzione della rappresentazione e il funzionamento dell’immaginazione.
La mente così vaga tra le immagini della memoria: da un’apparizione lynchiana a una classica vittima del cinema di Hitchcock, da un corpo collassato durante un rave party al corpo a terra di Babbo Natale nella clip de La Verità di Brunori sas, dai corpi della cronaca nera a quello di Aylan riverso sulla spiaggia greca e così via, continuamente si creano e distruggono immagini nella mente di chi guarda.
In questa pratica mediante la quale si crea un ibrido, per restare anche nella metafora naturale, che incrocia più media, si assiste a una sorta di Iconoclash (Latour, 2005): accade allora che chi guarda si ritrova in una sorta di terra di mezzo, di indecisione dove non sa l’esatto ruolo di un’immagine, di un azione perché, nel caso di The Garden, questo si modifica non appena viene assimilato dell’occhio di chi guarda; e su questa scena ciò che accade è proprio questo: lo spettatore è messo davanti ad un’immagine iconica che cambia costantemente di significato e senso, passando dal sentimento del tragico a quello del comico fino a dissolversi svanendo ironicamente, rompendo il quadro della rappresentazione.
Una delle caratteristiche fondamentali delle immagini è, sempre per Bruno Latour, la loro capacità di scatenare passioni ed è proprio su questo meccanismo che sembra lavorare il collettivo guidato da Palermo che a settembre presenterà al pubblico una prova aperta di questo lavoro presso la Corte Ospitale di Rubiera dove si chiuderà il progetto ERetici.
*****************************************************
*Krauss, R. (2005). Reinventare il medium. Cinque saggi sull'arte d'oggi, a cura di Grazioli E., Mondadori, Milano.
* Latour, B. (2002). What is iconoclash? Or is there a world beyond the image wars. Iconoclash: Beyond the image wars in science, religion, and art, 14-37.
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Giorgio Abonante: “Entro metà maggio completeremo il taglio dell’erba nei cimiteri” – Il Sindaco di Alessandria annuncia il ritorno alla cura pubblica
Una svolta attesa per restituire dignità ai luoghi della memoria: fine dell’esternalizzazione e nuova gestione reinternalizzata Restituire decoro e rispetto ai cimiteri cittadini è una priorità morale e civile. È con questo spirito che il Sindaco di Alessandria, Giorgio Abonante, ha annunciato che entro i primi 10-12 giorni di maggio verranno conclusi gli interventi di taglio dell’erba nei…
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"Chi sono io veramente" passando da un episodio dell'infanzia. Ho quasi paura a saperlo, ma tanto non avendo io memoria neanche a breve termine, qualsiasi cosa sia farà sicuramente un po' di chiarezza.
Una mattina di fine Giugno, la scuola è appena finita. Siete il solito gruppo di amichetti, tutti intorno a sette anni e decidete di giocare a nascondino. Cominci tu a stare sotto. Devi contare fino a 20 e poi girarti e cercare. Sei bravissima a nascondino perché hai l'occhio lungo e sei curiosa. Dietro quel cespuglio però non scopristi nessuno se non la madre di Luna, la bambina che è sempre triste, che dietro la finestra del giardino baciava il giovane postino. Ti passò subito la voglia di giocare.
Per la cronaca: quel postino ha fatto carriera ed è diventato sottosegretario alle Poste e Telecomunicazioni.
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(via Festa della Repubblica all’Ecomuseo di Cascina Moglioni – 2 giugno 2025 (di Patrizia Riello Pera, Padova, ITALY).)
TEATRO NELLA NATURA ECOMUSEO CASCINA MOGLIONI
CAPANNE DI MARCAROLO – BOSIO AL (GPS 44.5688-8.7788)
In occasione delle Festa della Repubblica, l’Ente di gestione delle Aree Protette dell’Appennino Piemontese propone una giornata dedicata alla memoria e alla cultura con particolare attenzione alla figura di Giacomo Matteotti. La giornata inizierà alle ore 15:00 con la presentazione del libro di Federico Fornaro “Giacomo Matteotti. L’Italia migliore”, una biografia completa e aggiornata di un politico scomodo, dai suoi esordi nel Polesine fino al suo tragico epilogo, con un’analisi sul pensiero e la statura morale, andando oltre la sterile celebrazione del martire. Alle ore 17.00 il programma continuerà con lo spettacolo teatrale, a cura di Quizzy Teatro, dal titolo “106 Garofani Rossi – Velia e Giacomo l’antifascista”, con Gianni Masella e Monica Massone, drammaturgia di Sergio Angelo Notti. 106 il numero degli interventi che Giacomo Matteotti fece alla Camera, prima di venire barbaramente assassinato, è il titolo di questo atto d’accusa. Un grande piano di lettura, un palcoscenico, due realtà, una con Velia Titta, la moglie, l’altra con i sicari, mentre si preparano ad eliminare chi ha osato sfidare il regime con dure parole di condanna. Il lavoro teatrale scava, nella polvere del tempo, alla ricerca di un Giacomo Matteotti diverso, fuori luogo, immerso nella quotidianità famigliare, che traspare dalla fitta corrispondenza tra lui e la moglie Velia, con un racconto temporalmente imperfetto, che ci trasporta oltre la cronaca tragica di quel 10 giugno 1924, alla ricerca di una umanità scevra da falsi sentimentalismi. Una scena spoglia, nessuna morte, nessun compiacimento voyeuristico, ma tenuta della tensione drammatica.
Il costo dell’ingresso per lo spettacolo teatrale è di 12 euro.
Per informazioni e acquisto biglietti in prevendita
www.quizzyteatro.com
whatsapp 348 4024894
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C'era una volta l'Est

Scheda informativa
Autore: Boban Pesov
Editore: Tunué
Prima pubblicazione: aprile 2025
Pagine: 192
Prezzo: € 19,90
Trama
Un viaggio attraverso le ombre della Storia e i confini dell'anima quello che Robert e Micol, una coppia ormai in crisi, intraprendono dall'Italia alla Macedonia del Nord, attraversando un'Europa segnata dai ricordi e dalle cicatrici del passato. Il ritorno verso i luoghi d'origini si trasforma in un tuffo in un'epoca che si sgretola, tra strade polverose, incontri inaspettati e segreti custoditi troppo a lungo.
Recensione
C'era una volta l'Est sono tre storie di altrettanti viaggi illustrati con estremi dettaglio e cura. Per quanto semplici siano i disegni, sono però ricchi di particolari e minuzie, che spingono il lettore a essere un osservatore attento per scoprire tutti gli “easter egg” all'interno delle singole vignette che compongono le tavole. Anche il colore gioca un ruolo fondamentale nella composizione dei disegni, separando le tre migrazioni in modo da definire i tre differenti viaggi come storie a loro stanti, pur avendo tra loro profondi legami.
I testi e le illustrazioni di C'era una volta l'Est sono una narrazione potente che fa riflettere sui temi connessi alla migrazione nella società globale odierna tramite le esperienze personali e, soprattutto, familiari passate di Boban Pesov stesso. La graphic novel, infatti, vuole rendere tangibile una realtà che spesso è taciuta, cercando di raccontare la verità dei fatti partendo da un qualcosa che può essere capita da tutti: la famiglia. Proprio per questo motivo, non si tratta di una cronaca migratoria, ma di un viaggio intimo che solleva domande sull'appartenenza, sulla memoria e sulla costruzione di se stessi.
Boban Pesov riesce a raccontare con ironia e lucidità una realtà dura, mantenendo un equilibrio sorprendente tra rabbia e tenerezza, e tra denuncia e amore.
Valutazione
★★★★★ 5/5
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Come accade che il tempo che abbiamo vissuto diviene la nostra vita? E questo il nodo affrontato da Gli anni, affresco autobiografico e al contempo cronaca collettiva del nostro mondo dal dopoguerra a oggi, nodo sciolto in un canto indissolubile attraverso la magistrale fusione della voce individuale con il coro della Storia.
Annie Ernaux convoca la Liberazione, l'Algeria, la maternità, de Gaulle, il '68, l'emancipazione femminile, Mitterrand; e ancora l'avanzata della merce, le tentazioni del conformismo,
L'avvento di internet, l'undici settembre, la riscoperta del desiderio.
Scandita dalla descrizione di fotografie e pranzi dei giorni di festa, questa “autobiografia impersonale” immerge anche la nostra esistenza nel flusso di un'inedita pratica della memoria che, spronata da una lingua tersa e affilatissima, riesce nel prodigio di “salvare” la storia di generazioni coniugando vita e morte nella luce abbagliante della bellezza del mondo.
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Torna il B1 log !!!
Ciao a tutti i nostri appassionati ! … e a giudicare dalle pressioni che abbiamo ricevuto per scrivere questo blog, sappiamo che siete in tanti e la cosa ci fa solo piacere !
Comunque, ripartiamo con il nostro B1 log per la stagione 2025, visto che come tutti sapete i nostri ragazzi sono saliti di livello per quest’anno !
Il weekend appena concluso ha visto disputarsi le prime due giornate del Girone 3 della serie cadetta e … pronti via … subito una trasferta a dir poco impegnativa per Mattia & C., partiti Giovedì 24 aprile in prima mattinata per Siracusa, non proprio dietro l’angolo …


Minuto di silenzio in memoria di Papa Francesco
A rompere il ghiaccio ci ha pensato Ale Panaro, opposto all’ex numero 68 ATP e ora 2.5 Alessio Di Mauro, giocatore obiettivamente ancora di un’altra categoria e quindi ingiocabile per il pur volenteroso nostro atleta che però porta a casa, è vero, una sonora sconfitta, ma anche e soprattutto un’ottima esperienza di campo e di vita, per l’atteggiamento sempre positivo e mai vittimista che ha mostrato. Chi lo conosce sa quanto questo sia positivo e ben augurante per una stagione che deve essere quella della maturità. Bravo Alessandro e continua su questa strada !
In contemporanea, fa il suo esordio stagionale Ricky Di Vita, opposto al giovane e molto buono Cocola Sebastiano (2.4 ex 2.3) in un match partito male per il nostro ma che sembrava tornare in carreggiata nella prima frazione persa 7 giochi a 5. Forse un filo di tensione per un uomo squadra come ha sempre dimostrato di essere Ricky, forse l’inizio stagione con ancora poco feeling per l’agonismo … sta di fatto che dopo il primo set la partita è scappata di mano con un 6 1 che si commenta da solo. Buona prova però per rompere il ghiaccio !
Scendeva in campo l’eterno giovane Leo Cassago che ci piace considerare sempre e comunque un prodotto di spicco del nostro vivaio ! Meritato quindi il ruolo da titolare nel tentativo di togliere la ruggine di inizio stagione. Ha impiegato un set in questa operazione (il primo perso nettamente per 6 giochi a 1 …) per poi indossare la sua armatura da gladiatore e lottare al massimo delle sue attuali possibilità in un secondo set che sino al 4 a 3 sotto lo ha visto competere alla pari, per poi cedere un paio di games da 40 a 15 e dover lasciar strada all’ottimo 2.6 Bongiovanni Matteo.
Toccava quindi al nostro leader, a colui che ha forgiato con le sue mani ogni armatura da lottatore che poi i compagni indossano in partita, a sua immagine e somiglianza, a colui che anche quest’anno promette di dare il 120% per i colori del CTP … Giovanni Rizzuti opposto al francese classificato 2.4 e 900 ATP Bonnaud Arthur, giocatore molto solido a dir poco. Direi che per riassumere in un’unica frase ciò che è successo, basta dire che alla fine il nostro è riuscito a portare dalla sua il tifo avversario (e badate bene, eravamo in una piazza calda in tutti i sensi come Siracusa !!!) per via dell’impegno e della dedizione dimostrate anche nel tentativo di sconfiggere i crampi di cui è stato vittima nella parte cruciale e finale del match. La cronaca dice di un primo set lottato e perso solo al tie-break dove Bonnaud ha alzato decisamente il livello.
Qualsiasi altro giocatore avrebbe probabilmente sciolto ma non Giò ! … non chi deve dare sempre e comunque il buon esempio. Il nostro ha quindi iniziato un’altra partita e sorpreso tutti, avversario compreso, con un 6 3 perentorio. Peccato per il terzo, dove è sempre stato avanti di un break sino al 5 4 (30-15), quindi a due punti dal match, sino al 6 5 con break ma con i primi crampi alla gamba e alla mano che hanno comportato scelte rischiose e poco fortunate nel tentativo di chiudere in fretta. Approdati al tie-break finale, Giò non ne aveva davvero più e nonostante, ripetiamo con enfasi, il supporto anche del pubblico locale, ha ceduto al bravo avversario. GRANDE GIO’ !!!
Si arrivava quindi ai doppi con la bellissima coppia Carry/Ceruti Andrea che ha giocato un match di ottimo livello, caratterizzato pensate da 6 NO AD persi su 6 giocati, a testimonianza che nel tennis, soprattutto con le nuove regole, non tutti i punti hanno lo stesso peso e che serve tanta esperienza e acqua sotto i ponti per poterli giocare la meglio. A Guillermo certo questa attitudine non manca, ad Andrea per ovvie ragioni un filino di più ma … bravi lo stesso a giocarsela punto su punto come noi del CTP pretendiamo dai nostri giocatori ! 64 62 alla fine per Bongiovanni/Bonnaud.
L’ultimo punto per Siracusa è arrivato dall’altro doppio, con la coppia Cassago/Di Vita che hanno ceduto il passo ai fortissimi Di Mauro/Cocola per 63 61, in un match dove onestamente e per le stesse ragioni spiegate prima nel racconto su Ale Panaro, il braccio di un ex top 70 ATP accoppiato al giovane talento di Cocola, poco scampo potevano lasciare.
Come si capisce, un punteggio severo ma con tanti spunti positivi per i nostri ragazzi e per un Mattia che nonostante la lunga trasferta conclusa alle 2.30 del mattino di venerdì, lasciava buone sensazioni per il match decisivo contro il TC Schio di domenica 27 Aprile.
Stanchi, stanchissimi ma ugualmente vogliosi di difendere i nostri colori, Mattia e i suoi ragazzi si sono presentati domenica sui campi amici di via dello Sport, per affrontare uno degli incontri più importanti della stagione, contro il TC Schio di Vicenza.
A dare il via alle ostilità ci pensava ancora Ale Panaro, opposto ad un giocatore sicuramente alla sua portata, il 3.1 Pegoraro Guido, ma comunque bravissimo a tenere a bada soprattutto se stesso e i suoi dubbi, per portare a casa senza particolari patemi un 60 62 che lascia poco spazio ai commenti. Ci piace però sottolineare che questa prova deve essere una prima evidente testimonianza di una maturità che deve ormai essere acquisita per il nostro ventenne pronto ad un ulteriore salto di qualità. Permettici la battuta Ale ... ma visto quello che è successo domenica, perché non ti porti in ogni partita anche di torneo un cartonato di capitan Mattia per tenere a freno i tuoi bollenti spiriti, per guidarti e calmarti nei momenti topici del match ? … sicuramente ti può aiutare molto !
Ottima prova di Ricky Di Vita, netto vincitore per 61 64 del pari classifica 2.5 e giocatore ancora molto solido Marfia Matteo. LA qualità migliore di Riccardo domenica è stata quella di sfruttare al meglio le condizioni del campo che sicuramente volgevano a suo favore ma proprio per questo, visto anche l’esordio casalingo, potevano riservare soprese che non ci sono state. Maturo, solido e pratico come piace tanto a Mattia … e bravo Ricky !
Sul 2 a 0 per noi, partivano i due singolari che come previsto si sono rivelati i più complicati.
Da una parte Ceruti Junior, che affrontava un giocatore (Pettinà Pietro) classificato 3.1 solo perché non disputa tornei individuali ma solo gare a squadre, con una classifica a dir poco bugiarda e che non ha lasciato troppe chance al pur bravo e perfetto come atteggiamento Andrea. Certo che giocare sui campi di via dello sport, in Serie B1 e davanti ai tanti ragazzi della Scuola e del settore agonistico, non è per nulla facile con il cognome che porti ! La dedizione e la buona volontà sono innegabili e sotto gli occhi di tutti, se poi aggiungi questo giusto atteggiamento, il futuro non può che sorriderti ! Keep pushing !
Sull’altro campo il nostro numero 1, Giò Rizzuti contro il 2.4 appena retrocesso da 2.3 Dal Santo Tommaso, davvero ingiocabile per i primi 4 games e scappato appunto sul 4 a 0 … Da lì, la voce o meglio l’urlo da capitano giocatore hanno invaso mente e corpo di Giovanni che ha iniziato a portare il match dalla sua parte inanellando 3 giochi di fila e facendo capire di che pasta sono fatti i veri giocatori. Peccato però che le fatiche di Siracusa e comunque l’ottimo livello dell’avversario hanno presentato il conto e proprio durante un movimento di servizio, un forte dolore agli adduttori ha addirittura fatto cadere a terra Giovanni, costretto poi al ritiro ad inizio secondo set. Solo un forte e dolorosissimo stiramento (che speriamo rimanga tale …) potevano averla vinta su un lottatore così ! Peccato davvero per come stavi cercando di far girare il match, soprattutto perché abbiamo perso anche un ottimo doppista.
Si arrivava quindi ai doppi sul 2 pari e con un Giovanni in meno. Da sapiente stratega e perfetto conoscitore del gioco, Mattia schierava la coppia Panaro/Carry opposti a Pegoraro/Pettinà e il duo Leo/Ricky che tanto bene aveva fatto in Sicilia, contro gli esperti Dal Santo/Marfia.
Ancora una volta, affiancato da una figura carismatica e di cui si fida come Guillermo, Ale ha tirato fuori il meglio di sé (riflettici davvero tanto ragazzo mio …) portando a casa il terzo punto con un perentorio 62 63.
Permettetemi una divagazione personale su Guillermo, che una volta tanto ho avuto la fortuna di poter vedere giocare domenica … Mattia ha definito la sua prova “poesia pura”; io non posso far altro che sottoscrivere e sottolineare come davvero la sensibilità e il tocco di questo ragazzo sia ad un livello che raramente abbiamo potuto ammirare sui nostri campi, da quando nel 2005 e 2006 batteva in finale all’Open Fratelli Rossetti Montenet e Menga per scrivere il suo nome nel prestigioso albo d’oro del nostro torneo. Un piacere ed un onore riaverti a difendere i nostri colori e un’enorme fortuna per i nostri giovani averti come esempio. Mi raccomando a tutti i ragazzi … non perdete questa occasione !
Avremmo forse sottoscritto per un pareggio alla vigilia ma in vantaggio per 3 a 2 e con il secondo doppio sopra di un set e impegnato nel tie-break del secondo … un pensierino al bottino pieno lo abbiamo fatto tutti onestamente. Qualche colpo sfortunato e l’indubbia lucidità nei momenti chiave dei quotati avversari hanno però fatto sfumare il sogno ed il super tie-break perso per 10 punti a 7 hanno decretato il pareggio finale. Peccato ragazzi, ma bravi comunque a crederci e a giocare da coppia sempre più solida come siete !
Una bellissima domenica di sport per tutti noi e da sottolineare la numerosa presenza dei ragazzi della Scuola Tennis e dell’agonistica che ci hanno fatto enorme piacere !
Come promettente l’esordio in squadra della new entry Alessandro Mantegazza, ancora purtroppo fermo ai box per un problema al polso ma che sicuramente darà presto il suo prezioso contributo alla causa !
Che dire, ora una giornata di meritato riposo e appuntamento per la trasferta di Domenica 11 Maggio in quel di Torino contro il CUS, già vincitore per 5 a 1 proprio contro Schio e quindi da temere e non poco. Sperando di recuperare gli acciacchi e sicuri che tutti daranno il massimo … invitiamo chi disponibile a seguire la squadra in Corso Sicilia 50 appunto a Torino, con inizio alle ore 10.00.
Ultimo ma non ultimo, un bellissimo regalo che ci ha voluto fare la bravissima fotografa Victoria Bryfar, con delle immagini che sarebbe impossibile inserire tutte in questo blog ma che riportiamo come pochi esempi a testimoniare come Victoria sia davvero riuscita a cogliere i momenti salienti dell’incontro, non solo dal punto di vista tecnico e agonistico, ma anche e soprattutto da quello emozionale.
Davvero grazie da tutti noi Victoria … bravissima !!!

L'amicizia in una foto (cit. Mattia Ceruti)

Dare tutto e ancora di più per il tuo capitano !

Ricky !!!

Ale !

Giovanni il team leader !

Con questa grinta andrai lontano Andrea !!!
Ci fermiamo qui per i ragazzi ma come non citare la splendida cavalcata delle ragazze della Serie C, giovanissima squadra che ha addirittura vinto il Girone 1 della Serie C regionale e che ora attende il sorteggio del 6 maggio per conoscere le avversarie del tabellone ad eliminazione diretta. Capitan Moneta è tanto orgoglioso di Voi !!!


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