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#moti del 1848
beautifulvenezia · 2 months
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Day 211: Colonna Commemorativa dei Moti del 1848 | Daily Venice for you!
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claudio1959 · 9 months
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Il *7 gennaio 1797* nasce a Reggio Emilia il Tricolore, come bandiera della Repubblica Cispadana, costituita dai territori di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia.
A proporre che lo stendardo o bandiera cispadana, formato dai colori verde, bianco e rosso, fosse innalzato in tutti i luoghi soggetti alla sovranità della repubblica cispadana, è il sacerdote cattolico Giuseppe Compagnoni.
La bandiera rossa, bianca e verde, allora a strisce orizzontali con il rosso in alto, sarà confermata come vessillo della Repubblica Cisalpina. Adottato dai patrioti del Risorgimento già nei moti del 1821 e poi nel 1848 dal Re Carlo Alberto di Piemonte, il tricolore sarà la bandiera dell’unità d’Italia.
Ma perché vennero scelti il verde, il rosso e il bianco? L'Italia del 1796 era un agglomerato di piccole Repubbliche di ispirazione giacobina che si erano sostituite agli antichi assolutismi.
E per omaggiare la conquista delle libertà, e chiaramente il modello francese, quasi tutte le Repubbliche si dotarono di bandiere caratterizzate da tre fasce di dimensioni uguali. Mentre i tre colori derivano dalla Legione Lombarda i cui vessilli presentavano proprio con i colori verde, bianco e rosso, fortemente radicati nel patrimonio di quella regione; il bianco e il rosso, infatti, comparivano nell'antichissimo stemma comunale di Milano (croce rossa su campo bianco), mentre verdi erano, fin dal 1782, le uniformi della Guardia civica milanese. Ma anche la Legione Italiana, che accoglieva, i soldati delle terre dell'Emilia e della Romagna, si era dotata di questi tre colori; motivo che probabilmente spinse la Repubblica Cispadana a confermarli nella propria bandiera.
Successivamente al Congresso di Vienna, il tricolore fu soffocato dalla Restaurazione. Ragione per cui assunse, nell'immaginario collettivo, un ruolo di libertà e di speranza; e ciò è testimoniato dai moti del 1831, dalle rivolte mazziniane; o lo si può ritrovare nella disperata impresa dei fratelli Bandiera e nelle sollevazioni negli Stati della Chiesa. E quando giunse la stagione del '48, e della concessione delle Costituzioni, la bandiera divenne il simbolo di una riscossa ormai nazionale, che investì l'intera penisola: da Milano a Venezia, da Roma a Palermo.
Nel 1997, in occasione del secondo centenario del Tricolore, il parlamento proclama il 7 gennaio “giornata nazionale della bandiera”.
Oggi ricorre il 227 anniversario della Giornata nazionale della Bandiera, un simbolo codificato nell'articolo 12 della Costituzione italiana che ne definisce la foggia: "verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni".
Consacrata nella Costituzione, la Bandiera è il simbolo dell’Unità nazionale, racchiude i valori di libertà, solidarietà ed uguaglianza sui quali si fonda la nostra Patria e incarna quello straordinario patrimonio storico, culturale e identitario che universalmente viene riconosciuto all’Italia.
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ideeperscrittori · 2 years
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HO CAPITO COME FUNZIONA
Ok, se riporti quella frase di D'Annunzio puoi dire che è la "frase di uno scrittore" usata originariamente in un contesto non fascista. E se la abbini allo stemma della X Mas puoi dire che si tratta di un simbolo della marina militare (odio la marina militare, ma questo è un altro discorso). E magari dirai pure che c'è una canzone di John Lennon intitolata "Happy Xmas". Ok, puoi dire che il fascismo non ha l'esclusiva di «me ne frego». Ok, se fischietti le note di "Giovinezza" puoi dire che il motivetto fu composto nel 1909. Puoi dire che la croce celtica in origine era un simbolo della tradizione precristiana. Ho capito come funziona. A 'sto punto puoi anche dire che la svastica era un simbolo sacro indù. E il saluto romano puoi dire di averlo visto nei kolossal hollywoodiani, anche se in realtà non era un saluto in voga tra gli antichi romani. Puoi dire che "Boia chi molla" fu usato addirittura nel Settecento e poi nei moti del 1848. Puoi dire che "Dux" significava comandante militare in epoca romana. Puoi mettere insieme tutte queste cose, puoi addirittura ostentarle, perché ti difenderai così. Vedo che per molti è una difesa convincente. Ne prendo atto, siamo fottuti. Quelli come Montesano (uno che già nel 2017 portava le canzoni del leader di CasaPound nei suoi spettacoli) ci sommergeranno di simbologia nazifascista e si attaccheranno a queste cose quando saranno sgamati. E piagnucoleranno. E faranno le vittime. Li odio con tutte le mie forze. [L'Ideota]
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cinquecolonnemagazine · 7 months
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Castelli della Campania: Un Viaggio tra Storia e Leggenda
La Campania, terra ricca di storia e cultura, vanta un patrimonio di castelli medievali che raccontano le vicende di un passato affascinante. Dalle rovine suggestive alle fortezze maestose, queste dimore storiche offrono un viaggio indimenticabile tra epoche diverse, tra battaglie epiche e intrighi di corte. Un tuffo nel Medioevo Sulle colline che dominano il golfo di Napoli, sorge il Castel Sant'Elmo, una fortezza inespugnabile voluta da Carlo I d'Angiò. La sua struttura imponente, con la caratteristica pianta a stella, offre una vista mozzafiato sulla città e sul mare. A pochi passi dal centro storico, si trova invece il Maschio Angioino, un castello normanno-svevo che ha visto susseguirsi regnanti e dinastie. Le sue sale ospitano oggi il Museo Civico, con opere d'arte e reperti archeologici di inestimabile valore. Sulle tracce dei Longobardi Salendo verso la costiera amalfitana, si incontra il Castello di Arechi, una fortezza longobarda che domina la città di Salerno. Le sue mura possenti racchiudono un museo archeologico con reperti di epoca romana e longobarda. Un'altra tappa imperdibile è il Castello di Lettere, situato nell'omonimo borgo medievale. La sua storia è legata alla leggenda di Sant'Alfonso Maria de' Liguori, che qui trovò rifugio durante i moti del 1848. Fortezze costiere e borghi incantati La Campania è ricca anche di castelli costieri che, in passato, proteggevano le città dalle incursioni saracene. Tra i più suggestivi, il Castello Aragonese di Ischia, un imponente complesso fortificato che sorge su un isolotto vulcanico. Collegato alla terraferma da un ponte, il castello ospita oggi un museo archeologico e diverse mostre d'arte. Merita una visita anche il Castello di Baia, situato nell'omonima località flegrea. Le sue rovine, immerse in un parco archeologico di grande bellezza, raccontano il fascino di un'antica città romana. Un'esperienza indimenticabile Visitare i castelli della Campania significa immergersi in un'atmosfera magica e suggestiva. Tra mura merlate, torrioni e giardini segreti, si possono rivivere le atmosfere del Medioevo e scoprire storie di dame e cavalieri, battaglie e conquiste. Un'esperienza imperdibile per gli appassionati di storia, cultura e leggende. Oltre ai castelli menzionati, la Campania offre una varietà di altre fortezze da esplorare: - Castello di Gesualdo: Un castello normanno situato nell'Avellinese, famoso per essere stato la dimora del principe Carlo Gesualdo da Venosa, compositore e musicista. - Castello Lancellotti: Un castello medievale situato a Lauro, in provincia di Avellino, con un museo che ospita opere d'arte e reperti archeologici. - Rocca dei Rettori: Una fortezza medievale situata a San Felice a Cancello, in provincia di Caserta, con una vista panoramica sulla valle del Volturno. Foto di Didier da Pixabay Read the full article
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lamilanomagazine · 8 months
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Milano, al via il progetto di valorizzazione della cripta del monumento Cinque giornate
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Milano, al via il progetto di valorizzazione della cripta del monumento Cinque giornate. Valorizzare uno tra i luoghi che custodiscono la memoria storica di Milano e restituire dignità ai caduti per l'indipendenza di questa città. Sono questi gli obiettivi alla base dell'ambizioso progetto di valorizzazione della cripta del Monumento delle Cinque Giornate, presentato oggi a Palazzo Marino da Comune di Milano, Università degli Studi e Fondazione IRCCS Ca' Granda Ospedale Maggiore Policlinico. Un percorso che si inserisce all'interno di un programma più ampio di promozione artistica e culturale dei cimiteri, del Sacrario dei Caduti e delle Cripte storiche della città. «Il monumento commemorativo di piazza Cinque Giornate - dichiara l'assessora ai Servizi civici Gaia Romani - fu all'epoca fortemente voluto dalla cittadinanza, e quella che ruota attorno all'obelisco e alla cripta sottostante è una storia che ancora oggi tocca i cuori dei milanesi. A dimostrarlo è la grande partecipazione che ogni anno, dal 18 al 22 marzo, l'apertura straordinaria registra, grazie alla passione e all'impegno dei volontari e delle volontarie in forza al Monumentale, che accolgono decine e decine di visitatori e visitatrici. Come Amministrazione, per questo, siamo molto orgogliosi dei lavori di restauro che verranno condotti e della collaborazione con l'Università Statale e il Policlinico di Milano. Ci tengo, inoltre, a ringraziare personalmente la professoressa Cattaneo, fondatrice del Labanof, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense, che da decenni lavora per dare un nome a corpi che non ce l'hanno. Nomi di donne e uomini valorosi che hanno dato lustro alla nostra città e che meritano, con le loro storie, di essere consegnati alla memoria storica di Milano». «Si tratta di un progetto multidisciplinare nato dalla convergenza di professionalità e competenze distinte, animate e guidate dalla responsabilità della condivisione, con tutte le persone che vivono la città, della ricchezza e bellezza del patrimonio storico, culturale e artistico collettivo», afferma la responsabile della cripta di piazza Cinque Giornate Giovanna Colace. Alla fine del XIX secolo le autorità milanesi e l'allora sindaco decisero di onorare la memoria dei patrioti caduti durante i moti avvenuti fra il 18 e il 22 marzo1848 - considerati il primo vero tentativo del capoluogo lombardo di sollevarsi e liberarsi dal dominatore austriaco - attraverso la realizzazione di un monumento commemorativo. Il risultato dei lavori, affidati allo scultore Giuseppe Grandi, fu un obelisco in bronzo alto più o meno 23 metri circondato da cinque figure femminili, allegoria delle Cinque Giornate, che campeggia oggi nell'omonima piazza e sul quale sono riportati i nomi dei caduti del 1848. Caduti che vennero sepolti, in un primo momento, presso il Sepolcreto dell'antica Ca' Granda – oggi ospedale Policlinico di Milano – così come nella chiesa di Santa Maria del Carmine e che, nel 1895, furono traslati nella cripta collocata sotto il monumento di piazza Cinque Giornate. Percorrendo una scala chiusa da una botola in bronzo, anch'essa opera del Grandi, si accede a un deambulatorio e a un corridoio centrale che unisce la sala d'ingresso con una apertura sul lato esterno, chiusa da una grata.Il progetto presentato oggi prevede un'opera di restauro completo del Monumento e della Cripta, che avrà, in via preliminare, la finalità di eliminare le infiltrazioni di acqua, causa del forte degrado della struttura. Una volta terminati gli interventi all'esterno, che saranno realizzati dalla Direzione Tecnica e Arredo Urbano, l'area Funebri e Cimiteriali del Comune di Milano partirà con una campagna di diagnostica comprendente una mappatura del degrado, un'esplorazione georadar sia sulle pavimentazioni che sulle murature e un'analisi chimico fisica eseguita su una base di prelievi. Tutte azioni propedeutiche alla successiva posa di un'apparecchiatura elettronica in grado di rimuovere la causa all'origine dell'umidità da risalita. Accanto al restauro della Cripta, si procederà al recupero e studio dei resti scheletrici lì conservati. Questa fase del progetto vedrà come responsabile la professoressa Cristina Cattaneo, docente di Medicina Legale dell'Università degli Studi di Milano e fondatrice del Labanof (Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense della Statale di Milano), che si occuperà del coordinamento e delle analisi del materiale: «Con lo studio dei resti umani che giacciono nel monumento delle Cinque Giornate, la scienza potrà restituire dignità, identità e storia a queste vittime rimaste per così lungo tempo nell’ombra». «L’Università degli Studi di Milano è onorata e lieta di partecipare a questo progetto antropologico e scientifico così utile a ricostruire uno degli eventi più importanti della storia della città - dichiara la professoressa Maria Pia Abbracchio, Prorettrice vicaria e con delega a Ricerca e Innovazione -. Obiettivo primario delle analisi della professoressa Cattaneo e del suo team è determinare il profilo biologico (sesso, età, statura, etnia, malattie) della popolazione (o delle popolazioni, nel caso non ci fossero solo i patrioti) sepolta all'interno del monumento delle Cinque Giornate. Potremo così portare a compimento la volontà, presente fin dai tempi dei fatti, di dare un nome a tutti i morti, che dovevano infatti, prima della sepoltura, rimanere esposti fino ad avanzata putrefazione, annotando connotati e contrassegni utili a poterli identificare in futuro. Questa missione contribuirà anche a ricostruire la struttura demografica e paleopatologica della popolazione di Milano che ha combattuto contro l'esercito Austrungarico, fornendo informazioni di grandissimo interesse generale». A causa della perdita di documenti di archivio, non è noto quali e quanti corpi siano stati esumati dalla cripta della Ca' Granda e dalla chiesa Santa Maria del Carmine e poi traslati in quella di Cinque giornate. Non si sa, quindi, se nel trasferimento dei caduti, avvenuto quasi cinquant'anni dopo il vittorioso esito della rivolta, siano state recuperate dal Sepolcreto dell'Ospedale unicamente le salme dei patrioti o anche i resti di altri cadaveri, compresi i corpi dei soldati avversari e dei degenti ospedalieri. Inoltre, non si conosce lo stato di conservazione delle spoglie tumulate, ovvero se si tratti di resti in casse, scheletri singoli o solo ossa mescolate fra loro. L'obiettivo, perseguito applicando il metodo già utilizzato durante lo studio del Sepolcreto posto sotto la cripta della Ca' Granda, sarà dunque quello di ricostruire la storia di vita e di morte di ciascuna persona, restituendole così la sua dignità. «Siamo molto orgogliosi di poter far parte di questo progetto così importante – spiega Marco Giachetti, Presidente del Policlinico di Milano –. La Ca' Granda è stata la prima custode dei caduti delle Cinque Giornate, ha accolto i loro resti dando una degna sepoltura a coloro che avevano combattuto per il bene della nostra città. Grazie ai documenti del nostro archivio storico siamo in grado di dare un nome e una professione ai caduti, e attraverso questo progetto potremo dar loro anche un volto e restituire la loro memoria. Un progetto, questo, nato dalla grande sinergia tra tre istituzioni storiche milanesi, che hanno creduto nella possibilità di mettere in connessione il passato, valorizzando ciascuna i propri luoghi storici e permettendo così ai milanesi di conoscere meglio la storia della loro città». La successiva analisi antropologica sui campioni scheletrici consentirà, poi, di ottenere dati utili alla ricostruzione della struttura demografica e paleontologica della popolazione di Milano che ha combattuto contro l'esercito austroungarico. Le azioni finali, invece, saranno caratterizzate da attività di ricerca documentale presso la Cittadella degli Archivi del Comune, così come nell'Archivio Storico del Policlinico e in ogni altro istituto che conservi potenziale traccia delle vicende storiche e amministrative legate ai caduti, al fine di indagare aspetti culturali e sociali dell'epoca, e di organizzare un palinsesto di eventi e iniziative divulgative.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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telodogratis · 2 years
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Il Brianza c'è un pollivendolo aperto da oltre 170 anni
Il Brianza c’è un pollivendolo aperto da oltre 170 anni
AGI – Quando la polleria Mercandalli ha aperto i battenti l’Italia non era ancora unita e si respirava l’atmosfera rivoluzionaria dei moti del 1848. Per la sua longevità di recente ha ottenuto il Premio “Impresa e Lavoro” promosso dalla Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi.  L’attuale titolare del negozio a conduzione familiare, Giuseppe Mercandalli, ripercorre con l’AGI la storia…
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pinknachowitch · 2 years
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#anthonyquinn #johnderek
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gardenofkore · 2 years
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During the lifetime of Earl William, a general law was made in Sicily, whereby the intails and strict forms of succession, which had rendered certain estates inalienable, were abolished, and the persons lawfully in possession of such estates, became absolute owners, and, as such, enabled freely to dispose of them, and Earl William, being conceived by this to have become absolute owner of Bronte, made a will, attested, as required by the law of Sicily, by six witnesses, and thereby, after reciting that he had, by the law of Sicily, become the absolute proprietor of the Bronte estate, he appointed and nominated as his absolute heiress and free successor, in and to all his hereditary estates in Sicily, and particularly in and to the Duchy of Bronte, with all and every its rights, members, and appurtenances, his daughter the Lady Charlotte Mary Baroness Bridport, wife of Samuel Baron Bridport, in such manner, that his said absolute heiress and successor might have free and entire power and authority to take and enjoy the said duchy, for herself and her heirs, and to dispose of the same, as well by acts and deeds in her lifetime, as by her last will and testament.
Earl Nelson v. Lord Bridport, in Reports of Cases in Chancery..., vol. 32, p. 558-559.
Charlotte Mary was born on September 20th 1787 to Reverend William Nelson, older brother of the Hero of Trafalgar, and his first wife Sarah Yonge. Charlotte was born most certainly in the small village Brandon-Parva (Norfolk), where her father had settled as a country parson the year before, after marrying. In 1788, her mother gave birth to a boy, Horatio.
William Nelson, described as ambitious and rowdy, benefited greatly from his brother Horatio’s fortune. In 1802 he received the degree of Doctor of Divinity from both the Universities of Cambridge and Oxford and the following year he was appointed a prebendal stall at Canterbury. In 1805, following his brother’s death, William succeeded him since Horatio had died without legitimate issue (Horatia, the Admiral’s only child by his mistress Lady Hamilton, had been excluded from inheriting her father’s titles and possessions and, to make it worse, William didn’t respect his brother’s wishes to look after her). William became thus 2nd Baron Nelson of the Nile and of Hilborough, 2nd Duke of Bronté, 1st Viscount Merton of Trafalgar and of Merton, with special remainder to his father and father's male heir and, failing them, his sisters Susannah Mrs Bolton and Catherine Mrs Matcham . In 1806 he and his successors in the title were granted £5,000 a year (the pension was discontinued in 1951 on the death of the 5th Earl, Edward Agar Horatio Nelson) plus a lump sum of £90,000 to buy an estate to be named Nelson and to be inherited by every successor of the title. The chosen venue was the manor house of Standlynch (in Downton, near Salisbury), previously owned by the banker Sir Peter Vanderput, which, after being bought by the Nelsons, was renamed Trafalgar House and then Trafalgar Park, and would be owned by the family until 1948.
In 1808, William’s heir Horatio died of tuberculosis while his wife, Sarah Yonge, died on April 13th 1828. The following year, 71-years old William married Hilare Barlow, daughter of Admiral Sir Robert Barlow and widow of her father’s cousin, George Ulric Barlow. No child was born out of this union and, when William died on February 28th 1835, at age 77, his daughter was his only living child and heir.
Previously, on July 3rd 1810, in the parish of Marylebone (London), Charlotte Mary had married Samuel Hood, second son of Henry Hood, 2nd Viscount Hood, Chamberlain of the Household to Queen Caroline. In 1814 Samuel had succeeded (under the special remainder of that title in the Peerage of Ireland) his childless great-uncle Admiral Alexander Hood as 2nd Baron Bridport. Charlotte Mary would give birth to seven children, five daughters and two sons: Mary Sophia (1811-1888), Charlotte (1813-1906), Alexander (1814-1904), Jane Sarah (1817-1907), Catherine Louisa (1818-1893), Frances Caroline (1821-1903), and Horatio Nelson (1826-1832). The couple and their children resided in Cricket St. Thomas (Somerset), in the manor once belonged to the 1st Baron Bridport.
Upon her father’s death, Charlotte (as iy had happened to her cousin Horatia), being a woman, was unseated of her successions by her cousin Thomas Bolton, son of her aunt Susannah. Thomas, who legally changed his family name into Nelson as previously agreed, inherited all his late uncle’s titles except the Duchy of Bronté, who fell upon Charlotte, now 3rd Duchess of Bronté.
The Dukedom of Bronté (in Italian, Ducato or Ducea di Bronte) was a dukedom granted in 1799 to Horatio Nelson by King Ferdinando of Naples and Sicily (later Ferdinando I of the Two Sicilies) to thank the Admiral for saving the kingdom from being conquered by the French revolutionary forces of Bonaparte and (perhaps more importantly) having helped the Bourbonic royal family to repair to Sicily following Naples’ occupation by the Frenchmen and the instauration of the Parthenopean republic. It took its name from the town of Bronte, near Catania, where stood the Castello di Maniace, a former Benedictine abbey founded in the 12th century, which King Ferdinando donated to Nelson and his heirs. The title gave its holder the right to sit in the Sicilian Parliament within the military branch and was bestowed to whomever the precedent owner desired, strangers included. Nelson (and his heirs after him) was even given the power of mero et mixto imperio, such as the concession given to a feudal lord to administer justice. Misto imperio regarded low justice, such as the right to impose light sentences, such as mild corporal punishments, imprisonment and small fines. Mero imperio granted its holder the right to imprison, exile and condemn to death.
Nelson never visited his Sicilian estate (nor did his brother William), but seems to have much appreciated the title since he signed his will Nelson Bronte. Coincidentally, Nelson’s appointment as Duke of Bronté allegedly inspired Irish Anglican priest Patrick Brunty, father of the more famous writer sisters, to change his family name into Brontë. 
When the Sicilian Consitution of 1812 abolished the feudal system, William (and his heirs after him) maintained his feudal rights, at the expense of the people of Bronte. The Dukedom of Bronté, with its feudal connotation (aggravated by its foreign origins), was seen in England as an embarrassing relic of the past, but this never stopped the Nelsons to jealously hold on to it. 
Thomas Nelson died on November 1835, merely nine months after his uncle William, and was succeeded by his son Horatio, 3rd Earl Nelson. Not satisfied with all the titles and possessions he had just inherited, Horatio decided to also claim the Dukedom of Bronté. Charlotte Mary and her husband were forced then to embark on a long legal dispute (which lasted from 1838 to 1847) that would end with the verdict, dated March 12th, which would acknowledge Lady Bridport as the legitimate bearer of the title.
It wasn’t affection that had prompted the Duchess to protect her rights, but rather her interests to keep enjoying the dukedom’s lucrative profits. In fact, her first trip to Bronte had been a complete disaster (on her side). Around 1836, Charlotte Mary had convinced her reluctant husband to visit their Sicilian estates. For a refined and classy woman like her, the Sicilian rural landscape was unbearably primitive and squalid. Shocked by a ride on sedan-chair hanging between two donkeys, by the dark volcanic panorama, and by the gruesome tale of the atrocities  perpetrated by the people of Bronte during the 1820 Revolution (in their eyes, the manor was the symbol of oppression and abuse, and so they retaliated by beheadings and disembowellings the tyrant’s representatives), she swore she would “never came back to the Island unless there was a revolution in England, and even then would probably go elsewhere”.
The Barons Bridport kept relying on the Thovez family in the management of the property. Philip Thovez had administrated the Duchy on behalf of William Nelson since 1819. When Charlotte Mary inherited the title in 1835, she confirmed the older Thovez, who kept superintending until 1837 (he would die two years later), when he retired in favour  of his son William. With their masters so far away, the Thovezs acted like they were the true owners of the estate. They vexed the people of Bronte, closing the trazzere (rural roads that allowed access to the fields and allowed the cattle’s passage), imposing the payment of a toll and fencing woods and pastures, thus preventing poor people from collecting wood and fruits. Transgressors caught red-handed were whipped on the spot or denounced to the public authorities (conniving with the Duchy’s representatives), which condemned them to heavy fines or even imprisonment. The people of Bronte would keep living in a feudal world, even when, in 1841, the Bourbonic government ordered the transfer of a fifth of the many fiefs’ properties to the various surrounding towns so that it could be split to the destitutes. The Duchy refused to comply until 1846, when they were forced to cede to the town of Bronte ”metà delle terre boschive, un quarto delle terre aratorie e pascolabili e un terzo di quelle vulcaniche“ (half of the woodland, a quarter of the fields and pastures, and a third of the volcanic areas). The 1848 Revolution blocked the official distribution, but the same year indigent farmers occupied the vineyards and a part of the Duchy’s plots. William Thovez protested about the damage suffered and managed to obtain that a troop of the National Army came to Bronte to stop the squatters. Once the order was restored, the land division could be started, but the plots were given to the notables (nobles and bourgeoises) and not poor people as it should have been.
On May 11th 1860, Giuseppe Garibaldi and his troops landed in Marsala (western Sicily), starting the Expedition of the Thousands, which led to the conquest of the Kingdom of the Two Sicilies, ruled by the House of Bourbon Two-Sicilies. As temporary head of State of the newly conquered territories (Garibaldi acted as Dictator on behalf of Vittorio Emanuele II of Savoy, King of Sardinia), the Hero of The Two Worlds issued a series of statements, among them he urged the Sicilian picciotti (lit. guys) to fight the Bourbonic army; abolished the much hated tax on the mill, reformed the National Guard; crimes of homicide, theft, looting and destruction were to be judged by Councils of War and nobody could take the law into their own hand. On June 2nd, Garibaldi issued the decree which abolished the large estates, whose territories had to be shared among the needy and those who had fought for the liberation of Sicily. The Island was divided in 23 districts and new governors were elected for each district. Finally, on August 3rd, the Statuto Albertino (Kingdom of Sardinia’s consitution) was adopted also in Sicily.
The people of Bronte (like many thousands others) had put much faith in Garibaldi and his decrees. So it shouldn’t be a surprise they were very distresses to see that not only the Dukedom wasn’t abolished (nor was the tax on the mill) and its lands given to the town of Bronte, but Thovez had managed to convince the new Governorr of Catania to put up some posters on Bronte’s house walls which ordered the population to respect the Dukedom’s property. Moreover, even British General Consul for Sicily in Palermo, John Goodwin, had pressured Garibaldi to safeguard the Nelsons’ interest and “avvertire energicamente il Comitato di Bronte di rispettare e di far rispettare la proprietà della signora Nelson Bridport” (“energically warn the Bronte Committee to respect and ensure respect for the property of Mrs Nelson Bridport”). Garibaldi had responded that “che si son date oggi stesso [30 giugno] energiche disposizioni perché non avvenga il menomo inconveniente o abuso a pregiudizio della proprietà di Lady Nelson, Duchessa di Bronte” (“this same day, orders have been issued to prevent any inconvenience or abuse to the detriment of the property of Lady Nelson, Duchess of Bronte”)
Frustrated by the many broken promises, on August 2nd the people of Bronte rebelled. Popular hatred was directed agains the Dukedom’s officials. 15 people (mostly working for the Nelsons) were killed in the following two days. The mob burned down the theatre, the town archive and 46 notables’ houses.
As soon as the rebellion had started, William Thovez had informed the British Consuls in Catania and Messina, who related the information to Goodwin in Palermo, whom in turn informed the British Secretary of Foreign Affairs, Lord John Russell.
The British Government then decided to step in, pressuring (via Goodwin and the other consuls) Garibaldi and the Governor of Catania to “sopprimere l’insurrezione nella più sollecita ed effettiva maniera” (“suppress the insurrection in the most quick and effective way”).
As Garibaldi didn’t want to compromise his alliance with the British Government (they had supported his expedition), he obliged and sent to Bronte the loyal Nino Bixio. Despite Colonel Poulet, whom had been previously sent to stop the rebellion, assured Bixio that the violences had stopped and order had been restored (the majority of the most violent rioters had already fled the scene, fearing of being arrested), Garibaldi’s right hand decided the people of Bronte needed to be severely punished and the leaders executed. The population was heavily taxed and around 150 people were arrested. Nicolò Lombardo, a lawyer whom had been elected mayor following the start of the rebellion, together with 4 others was sentenced to death and expected to be executed by firing squad on August 10th. The sentence was executed, nonetheless, at dawn of that day, the soldiers refused to shoot at Nunzio Ciraldo Fraiese, a mentally-ill man, considered the village fool and who was guilty of having played a trumpet and shouted threats in directions of the much hated Bronte notables. Thinking he had been miracously saved by the Holy Virgin (while the firing squad had in fact volutarily missed him), Ciraldo Fraiese went to hug Bixio’s knees and pleaded for his life. Instead of pardon, the poor man received a bullet in his head.
In order to calm the spirits and meet the people of Bronte’s desires and necessities, on June 1861, Mary Charlotte Nelson agreed to stipulate a transaction with the town and ceded a good part of the Duchy’s territory to Bronte (although, it had to be noted that the Duchess kept the most fertile part and gave away a large part of the woodlands, barren lava deserts and only small portions of farmland).
In her lifetime, Charlotte Mary Nelson would make two more short trips to Bronte, one in 1864 and the other in 1868. Both times she was accompained by her son and heir Alexander, her daughter-in-law (Lady Mary Penelope Hill), and some of her grandchildren (among them Alexander Nelson, who fell in love with the place and inherited the title in 1904 despite not being the eldest son. The 5th Duke would be well-respected and liked by the population, spending half of the year in the Maniace estate and the rest in his villa in Taormina, where he hosted King George V in 1925).
The Duchess died on Janyuary 29th 1873, aged 85 at Cricket St. Thomas, Somerset. She was succeeded by her son Alexander, who inherited title (becoming the 4th Duke of Bronte) and properties.
Sources
- Charlotte Mary Nelson, Duchesa di Bronté, in The Peerage;
- COKAYNE, JOHN EDWARD, Bridport, Bridport of Cricket St. Thomas, and Bridport of Cricket St. Thomas and of Bronte, in Complete Peerage of England, Scotland, Ireland, Great Britain and the United Kingdom, ed. 1, vol. 2, p. 24;
- Earl Nelson v. Lord Bridport, in Reports of Cases in Chancery..., vol. 32, p. 527-574;
- GIANNINI, GIORGIO, I fatti di Bronte, Garibaldi e le responsabilità inglesi;
- Horatio Nelson, Primo Duca di Bronte;
- I sette duchi di Bronte (1799 – 1981);
- LAUGHTON, JOHN KNOX, Nelson, William (1757-1835) in Dictionary of National Biography, 1885-1900, vol. 40.
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‘800 - di Gianpiero Menniti 
LA NASCITA DI UNA NAZIONE
Una palla di cannone, espressione dei moti del 1848, durante l'effimera Repubblica Romana: tracce di memoria sullo scalone d'ingresso di Palazzo Colonna.
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Orso Teobaldo Felice Orsini, 1819-1858
«Sino a che l’Italia non sarà indipendente, la tranquillità dell’Europa e quella Vostra non saranno che una chimera. Vostra Maestà non respinga il voto supremo d’un patriota sulla via del patibolo: liberi la mia patria e le benedizioni di 25 milioni di cittadini la seguiranno dovunque e per sempre.» O.T.F. Orsini
Orsini nacque nel 1819 a Meldola, figlio di Giacomo Andrea Orsini e Francesca Ricci in giovane età venne affidato alle cure dello zio paterno Orso Orsini, a Imola; all'età di sedici anni Felice si rese responsabile dell’uccisione del cuoco di famiglia a cui era stata affidata la sua sorveglianza, fuggì immediatamente dopo il fatto e venne accusato di omicidio. Grazie all'amicizia dello zio con il vescovo di Imola Mastai Ferretti (futuro Papa Pio IX) i giudici che inizialmente lo accusarono di aver sparato volontariamente al cuoco, credettero alla versione di un colpo di pistola partito accidentalmente, fu così che il reato venne derubricato in omicidio colposo con una condanna a sei mesi di carcere. Riuscì a evitare la detenzione entrando in seminario, presso il convento degli Agostiniani di Ravenna ma Felice Orsini poco incline alla vita in seminario abbandonò il convento per trasferirsi temporaneamente dal padre a Bologna.
Nell'agosto del 1843 si trovò coinvolto nei moti di Romagna, la scoperta della sua società segreta “Congiura Italiana dei Figli della Morte” gli costò l’ergastolo presso la fortezza pontificia di Civita Castellana, da cui uscì nel 1846 grazie all'amnistia concessa da Pio IX. Nuovamente in libertà Felice Orsini si stabilì a Firenze, città d’origine della madre dove continuò a dedicarsi alla cospirazione, nel 1848 partecipò alla Prima Guerra di Indipendenza e una volta tornato a Firenze si sposò con Assunta Laurenzi. Orsini, convinto seguace di Mazzini continuò la sua attività rivoluzionaria nei territori dello Stato Pontificio e del Granducato di Toscana, nel 1849 prese parte all'esperienza della Repubblica Romana come deputato dell’Assemblea Costituente nel collegio della provincia di Forlì ma l’intervento dell’esercito francese a supporto del Papa costrinse Orsini a fuggire nuovamente.
Nel 1850 si stabilì a Nizza, qui fondò la ditta “Monti & Orsini”, impegnata nella vendita della canapa prodotta dallo zio Orso. Orsini pur avendo la possibilità di vivere una vita tranquilla, nel settembre del 1853 decise di guidare un tentativo insurrezionale tra Sarzana e Massa ma l’azione fallì sul nascere. Dopo l’ultimo disfatta decise di trasferirsi a Londra, nel 1854 organizzò altre due insurrezioni rispettivamente in Lunigiana e in Valtellina anch'esse fallite, ma fu durante un viaggio clandestino nell'Impero Asburgico che Orsini venne notato dalle autorità e arrestato il 17 dicembre del 1854, rinchiuso nelle prigioni del Castello di San Giorgio a Mantova, tra la notte del 29 e 30 marzo del 1856, grazie all'aiuto dell’amica Emma Siegmund, conosciuta anni prima a Nizza riuscì a corrompere le guardie e fuggire a Genova dove poté imbarcarsi verso l’Inghilterra.
L’evasione di Felice Orsini fece molto scalpore e la notizia della sua rocambolesca fuga trovò ampio spazio sui giornali di mezza Europa, tornato in Inghilterra accettò l’offerta di un editore per scrivere le sue memorie.
Nel 1857 conobbe il chirurgo francese Simon François Bernard, cospiratore e fanatico, fuggito dalla Francia per evitare l’arresto, riuscì ad affascinare con le sue idee Orsini, il quale si convinse della necessità di eliminare Napoleone III, la sua morte avrebbe fatto venir meno la protezione della Francia allo Stato Pontificio, facilitando così il processo di unificazione nazionale.
Felice Orsini dopo aver per anni supportato Mazzini giudicando la sua strategia “fallimentare” decise che l’attentato a Napoleone III fosse un atto giusto e indispensabile, l’assassinio di Napoleone III avrebbe provocato un’insurrezione in Francia che secondo i piani di Orsini avrebbe dovuto estendersi fino all’Italia. Fu così che Orsini ideò e realizzò cinque bombe a mano con innesco a fulminato di mercurio, riempite di chiodi e frammenti di ferro per aumentarne il potere distruttivo, ordigni rudimentali ma incredibilmente efficaci tanto da essere riutilizzati in altri attentati e passati alla storia come “Bombe all’Orsini”. Giunto a Parigi, Orsini reclutò altri tre congiurati: Giovanni Andrea Pieri, Carlo di Rudio e Antonio Gomez, giunse la sera del 14 gennaio del 1858 e intorno alle 20.30 il gruppo guidato da Felici Orsini scaglia le bombe contro la carrozza dell’Imperatore in procinto di raggiungere l’ Opéra lirica di rue Le Peletier per assistere alla rappresentazione del Guglielmo Tell di Gioachino Rossini.
Il primo ordigno venne scagliato da Gomez, seguirono quello Di Rudio e il terzo di Felici Orsini, Carlo di Pieri non riuscì a partecipare all'attentato in quanto venne riconosciuto durante un controllo di Polizia come clandestino. La deflagrazione delle bombe fu devastante, l’attentato provocò letteralmente una carneficina tra la folla in attesa dell’arrivo di Napoleone III, la blindatura della carrozza riuscì a proteggere la vita dell’Imperatore che ne uscì illeso. Felici Orsini e gli altri congiurati si diedero alla fuga riuscendo a scappare dal luogo dell’attentato ma vennero fermati dalla polizia poche ore dopo. Antonio Gomez fu il primo ad essere arrestato, il suo comportamento nervoso e agitato non passò inosservato e una volta sottoposto a interrogatorio cedette quasi subito confessando i nomi degli altri attentatori, Orsini ferito ad una guancia si liberò della bomba rimanente e della pistola, dopo aver ricevuto una medicazione in una farmacia non molto distante dal luogo dell’attentato si recò nella sua abitazione dove venne arrestato poco dopo dalla polizia.
Orsini fallì l’attentato contro Napoleone III, il suo atto provocò la morte di 12 persone e il ferimento di altre 156, l’orrore della carneficina suscitò sgomento e rabbia nell'opinione pubblica francese.
Orsini e gli altri vennero portati difronte ai giudici, il processo fu breve e nulla valse la difesa dell’avvocato Jules Favre che cercò di non fa passare Orsini come criminale e assassino ma piuttosto un patriota che combatteva per liberare il suo paese dall'oppressione e dalla tirannide. Felice Orsini e Giovanni Andrea Pieri vennero condannati a morte, gli altri due cospiratori vennero condannati all'ergastolo, da scontare attraverso i lavori forzati nell'infernale prigione della Caienna nella Guyana francese.
Fallito l’attentato, Orsini affrontò coraggiosamente il processo e la morte avvenuta il 13 marzo del 1858. Le sue ultime parole prima di essere ghigliottinato gridate con fierezza e decisione furono: “Viva l’Italia! Viva la Francia!”
«Poo po po po po pooo po!» Anonimo, 2006
Prima che fosse condannato a morte, dalla prigione scrisse una lettera a Napoleone III […] che lesse la lettera a lui indirizzata, le parole di Orsini lo colpirono e inaspettatamente acconsentì alla pubblicazione sui giornali.
L’attentato di Felice Orsini e la sua condanna a morte indirettamente, accelerarono il processo di avvicinamento fra la Francia e il Piemonte culminato con gli accordi di Plombières siglati da Camillo Benso Conte di Cavour, il 21 luglio del 1858.  [Living History]
 Di Rudio fu anche al centro di un mistero che non è ancora stato completamente svelato e riguarda i nomi di tutti i componenti dell’attentato. Difatti allo storico Paolo Mastri, che gli scrisse nel 1908 poco prima della morte chiedendogli precisazioni, Di Rudio rispose di aver visto personalmente Felice Orsini consegnare una delle sue bombe nientemeno che a Francesco Crispi. Inoltre Di Rudio sostenne che sarebbe stato proprio Crispi e non Orsini a lanciare la terza ed ultima bomba contro il corteo imperiale. L'esplosiva rivelazione scatenò una furiosa polemica internazionale, che dall'Italia fu ripresa anche dai giornali francesi.
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chez-mimich · 4 years
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MISS MARX
Speravo che il film di Susanna Nicchiarelli fosse qualcosa di diverso dalla copia di “Downton Abbey” di Michael Engler (che era già brutto di suo), o de “Piccole donne” di Greta Gerwig, meno brutto, ma prevedibile come la morte, con tutti i bei cigolii dei parquet, coi rumori della bacinella per la toilette e tutto il repertorio di “artifizi” cinematografici che troviamo in quasi tutti i film ambientati nell’Ottocento, salvo rarissime eccezioni. E la speranza era ben riposta, non tanto per la vicenda di Eleanor “Tussy” Marx, che, figlia di cotanto padre, altro non avrebbe potuto fare che la rivoluzionaria “in seconda” nella squadra dei comunisti di fine Ottocento, ma per un motivo del tutto formale e, solitamente, di secondaria importanza in un film, la colonna sonora. Vi chiederete se questo è un film sia un film che debba essere visto per la colonna sonora; la risposta è sì. Il resto ve lo racconto io in due parole: Eleanor Marx, detta “Tussy” (interpretata da Romola Garai), dopo la morte del padre Karl, conduce una vita piatta colorita solo dalla rivelazione di Friedrich Engels morente di avere un fratellastro, frutto di un scappatella del padre del Comunismo (del resto lo stesso Engles aveva detto peste e corna oltre che del capitalismo, anche della famiglia). La vita di Eleanor ha un solo sussulto quando si innamora di Edward, uno spendaccione senza né arte né parte, che pensa solo alla letteratura e a gettare il denaro dalla finestra. Per fortuna nella vita di Tussy c’è anche dell’altro e questo “altro” sono i diritti degli sfruttati, lavoratori sottopagati vittime della seconda Rivoluzione Industriale, donne e bambini. Insomma il famoso “spettro che si aggira per l’Europa” di cui aveva scritto papà Karl. Fine del film. A questo punto si potrebbe tranquillamente parlare del solito film, invece no, perché Susanna Nicchiarelli estrae il classico coniglio dal cilindro, una colonna sonora punk-rock che sembra sparare sventagliate di salvifiche raffiche musicali che evitano così allo spettatore di addormentarsi sulla poltrona. Inserti di fotografie originali dei moti del 1848 e della Comune di Parigi inframezzati da dilanianti “break” musicali che infrangono volutamente, nei momenti topici del film, una narrazione cinematograficamente tradizionale e volutamente priva di sussulti. Menzione speciale quindi per questi due gruppi musicali che rispondono al nome di “Gatto ciliegia contro il grande freddo” e “Downtown Boys”. Da vedere e da ascoltare.
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love-nessuno · 5 years
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Il Tricolore
Il tricolore italiano quale bandiera nazionale nasce a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, quando il Parlamento della Repubblica Cispadana, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, decreta "che si renda universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di Tre Colori Verde, Bianco, e Rosso, e che questi tre Colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti". Ma perché proprio questi tre colori? Nell'Italia del 1796, attraversata dalle vittoriose armate napoleoniche, le numerose repubbliche di ispirazione giacobina che avevano soppiantato gli antichi Stati assoluti adottarono quasi tutte, con varianti di colore, bandiere caratterizzate da tre fasce di uguali dimensioni, chiaramente ispirate al modello francese del 1790.
E anche i reparti militari "italiani", costituiti all'epoca per affiancare l'esercito di Bonaparte, ebbero stendardi che riproponevano la medesima foggia. In particolare, i vessilli reggimentali della Legione Lombarda presentavano, appunto, i colori bianco, rosso e verde, fortemente radicati nel patrimonio collettivo di quella regione:: il bianco e il rosso, infatti, comparivano nell'antichissimo stemma comunale di Milano (croce rossa su campo bianco), mentre verdi erano, fin dal 1782, le uniformi della Guardia civica milanese. Gli stessi colori, poi, furono adottati anche negli stendardi della Legione Italiana, che raccoglieva i soldati delle terre dell'Emilia e della Romagna, e fu probabilmente questo il motivo che spinse la Repubblica Cispadana a confermarli nella propria bandiera. Al centro della fascia bianca, lo stemma della Repubblica, un turcasso contenente quattro frecce, circondato da un serto di alloro e ornato da un trofeo di armi.
L'epoca napoleonica
La prima campagna d'Italia, che Napoleone conduce tra il 1796 e il 1799, sgretola l'antico sistema di Stati in cui era divisa la penisola. Al loro posto sorgono numerose repubbliche giacobine, di chiara impronta democratica: la Repubblica Ligure, la Repubblica Romana, la Repubblica Partenopea, la Repubblica Anconitana.
La maggior parte non sopravvisse alla controffensiva austro-russa del 1799, altre confluirono, dopo la seconda campagna d'Italia, nel Regno Italico, che sarebbe durato fino al 1814. Tuttavia, esse rappresentano la prima espressione di quegli ideali di indipendenza che alimentarono il nostro Risorgimento. E fu proprio in quegli anni che la bandiera venne avvertita non più come segno dinastico o militare, ma come simbolo del popolo, delle libertà conquistate e, dunque, della nazione stessa.
Il Risorgimento
Nei tre decenni che seguirono il Congresso di Vienna, il vessillo tricolore fu soffocato dalla Restaurazione, ma continuò ad essere innalzato, quale emblema di libertà, nei moti del 1831, nelle rivolte mazziniane, nella disperata impresa dei fratelli Bandiera, nelle sollevazioni negli Stati della Chiesa.
Dovunque in Italia, il bianco, il rosso e il verde esprimono una comune speranza, che accende gli entusiasmi e ispira i poeti: "Raccolgaci un'unica bandiera, una speme", scrive, nel 1847, Goffredo Mameli nel suo Canto degli Italiani.
E quando si dischiuse la stagione del '48 e della concessione delle Costituzioni, quella bandiera divenne il simbolo di una riscossa ormai nazionale, da Milano a Venezia, da Roma a Palermo. Il 23 marzo 1848 Carlo Alberto rivolge alle popolazioni del Lombardo Veneto il famoso proclama che annuncia la prima guerra d'indipendenza e che termina con queste parole:"(…) per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana vogliamo che le Nostre Truppe(…) portino lo Scudo di Savoia sovrapposto alla Bandiera tricolore italiana."
Allo stemma dinastico fu aggiunta una bordatura di azzurro, per evitare che la croce e il campo dello scudo si confondessero con il bianco e il rosso delle bande del vessillo.
Dall'unità ai nostri giorni
Il 17 marzo 1861 venne proclamato il Regno d'Italia e la sua bandiera continuò ad essere, per consuetudine, quella della prima guerra d'indipendenza. Ma la mancanza di una apposita legge al riguardo - emanata soltanto per gli stendardi militari - portò alla realizzazione di vessilli di foggia diversa dall'originaria, spesso addirittura arbitrarie.
Soltanto nel 1925 si definirono, per legge, i modelli della bandiera nazionale e della bandiera di Stato. Quest'ultima (da usarsi nelle residenze dei sovrani, nelle sedi parlamentari, negli uffici e nelle rappresentanze diplomatiche) avrebbe aggiunto allo stemma la corona reale.
Dopo la nascita della Repubblica, un decreto legislativo presidenziale del 19 giugno 1946 stabilì la foggia provvisoria della nuova bandiera, confermata dall'Assemblea Costituente nella seduta del 24 marzo 1947 e inserita all'articolo 12 della nostra Carta Costituzionale. E perfino dall'arido linguaggio del verbale possiamo cogliere tutta l'emozione di quel momento. PRESIDENTE [Ruini] - Pongo ai voti la nuova formula proposta dalla Commissione: "La bandiera della repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a bande verticali e di eguali dimensioni". (E' approvata. L'Assemblea e il pubblico delle tribune si levano in piedi. Vivissimi, generali, prolungati applausi.)
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gregor-samsung · 7 years
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Parecchie volte era stato sul punto di far intendere a Mauro che a Gerlando Laurentano suo padre non era mai passata per il capo l’idea dell’unità italiana, e che il Parlamento siciliano del 1848, nel quale suo padre era stato per alcuni mesi ministro della guerra, non aveva mai proposto né confederazione italiana né annessione all’Italia, ma un chiuso regno di Sicilia, con un re di Sicilia e basta. Questa l’aspirazione di tutti i buoni vecchi Siciliani d’allora; la quale, se di qualche punto, all’ultimo, s’era spinta più in là, non era stato mai oltre una specie di federazione, in cui ciascuno stato dovesse conservare la propria autonomia.
Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani, 1ª pubblicazione 1913
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jacopocioni · 2 years
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La boccaccia dei fiorentini, uno su tutti il Lachera.
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Lacheri detto Lachera E' indubbio che i fiorentini son di battuta veloce, spesso improvvisata, qualche volta studiata, ma in un caso o nell'altro è sempre tagliente come un rasoio. Molte volte queste battute sono applicate alla politica, al potente di turno, al potere rappresentato da omuncoli valletti che a sua volta credano di detenere il potere ma fanno solo quello che gli vien detto di fare. Guarda tu, mi è uscita una condizione ripetitiva adattabile anche all'oggi, vogliamo negare che si applica benissimo? Gentucola che sembra che governi ed invece amministra il potere altrui. :) Uno più di tanti è ricordato (poco) per questa caratteristica, un signore vissuto fra il 1811 e il 1864, data in cui la sua boccaccia tacque per sempre. Si tratta di Giuseppe Lacheri detto il Lachera e ne fa testimonianza una targa affissa in Piazza del Mercato Nuovo nel 2005, proprio sotto la targa del nome della piazza. La lapide marmorea riporta queste parole: "IN QUESTA ANTICA PIAZZA DIVENNE POPOLARE GIUSEPPE LACHERI (1811-1864) DETTO IL LACHERA FACETO VENDITORE AMBULANTE NOTO PER IL SUO VERACE BRIO SARCASTICO FIORENTINO RAMMENTATO ANCHE DAL COLLODI A RICORDO "GIULLARI", 28 MAGGIO 2005"
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Targa alla Piazza del Mercato Nuovo Questo Lachera era un venditore ambulante, sempre molto pulito con camicia e grembiule candidi di lavanderia, grassoccio e con berretto sempre calato in testa. Lo si ritrovava al davanti delle scuole o per i giardini pubblici o al mercato, piazzava il sua banchetto e vendeva secondo stagione. Talvolta vendeva i' castagnaccio, le pere cotte, i' pan di ramerino, la pattona, le ciambelle o ancora la sdiacciata con l'uva, ma soprattutto dispensava parole. Non si fermava mai, parlava di continuo, proprio come un venditore ambulante deve fare per farsi notare e vendere il suo prodotto. Alcune sue frasi gridate con voce potente, son rimaste famose. Quando vendeva i' pan di ramerino, era solito gridare " Via donne, e ce l'ho con l'olio...". Una frase ancora oggi conosciuta a Firenze in quanto tutti i venditori ambulanti dell'epoca la adottarono. Divenne famosa anche la risposta ad uno di questi venditori che tutte le mattine alle 5 cominciava a gridare "...e ce l'ho con l'olio...".  Questo fiorentino, stufo di essere svegliato tutte le mattine alle 5, si affacciò alla finestra e gridò "...e io ce l'ho con la maiala di tu ma' che ti manda fuori a quest'ora". Quando il Lachera vendeva i castagnaccio famosa era la sua frase: "La venga sposa, la prenda questo coso caldo in bocca, se la non si spiccia non gliene tocca" oppure al passaggio dei bimbi " bambini piangete che la mamma ve le compra..." una frase che ancora oggi si sente alle fiere e ai mercati. Il Lachera era sagace e seguiva gli avvenimenti dell'epoca tanto da dar sfogo alla sua boccaccia al momento opportuno. Riusciva ad esternare il suo pensiero come estrapolato dal pensiero popolare e quindi lo stesso popolo si rispecchiava e in men che non si dica la battuta del Lachera faceva il giro di Firenze. Sagace verso la politica e con il Nuovo Regno d'Italia, ecco alcune sue battute. Proprio in riferimento alla sua frase gridata quando vendeva il pan di ramerino " Via donne, e ce l'ho con l'olio..." veniva modificata opportunamente al passaggio dei Granduchi e il grido diveniva: " Via donne, e ce l'ho co' babbalocchi...". Babbalocchi è una parola che unisce assieme babbeo ed allocco ed evidentemente era fortemente allusiva.
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Granduca Leopoldo II di Asburgo Lorena Nel 1849 alle Logge del Mercato Nuovo fu ripulito e restaurato il porcellino e Lachera approfittò della coincidenza con il ritorno a Firenze del Granduca Leopoldo II di Asburgo Lorena, dopo la partenza per i moti del 1848 e a braccetto con gli austriaci. Lachera si piazzò vicino al noto bronzo per vendere le sue prelibatezze e contemporaneamente gridare "...e  l'hanno ripulito, ma gli è sempre un porco...", ovviamente con il ben evidente doppio senso. Il Granduca Leopoldo II non gli stava proprio simpatico a Lachera infatti quando a aprile 1859 terminò il suo regno il Lachera nel grido per la vendita della pattona cominciò a gridare  "Gente, come la bolle... Gente, questa volta bolle davvero...". Il suo spirito anche con i tricolori sventolanti alle finestre non cessa di opporsi al potere in quanto tale e cambia di nuovo le sue leccornie sul banchetto, stavolta sceglie i cenci e grida per le strade "Donne, e c'è i cenci..." indicando i tricolori alle finestre. L'avvento del Nuovo Regno d'Italia doveva portare ad un periodo ricco ma il Lachera (e i toscani in genere) pensava tutt'altro e infatti gridava"e s'avea a notar nell'oro, e s'avea... ...e invece gli è tutto rame... Lo dicean figliacci di puttane... ma per loro" mentre con la mano nella tasca del suo grembiule faceva tintinnare le monetine come ad evidenziare che invece che oro si affogava nel rame il metallo usato per il conio delle monete da 5 e 10 centesimi. Insomma Giuseppe Lacheri detto il Lachera è stato forse il venditore di strada più famoso di Firenze, sicuramente una delle voci più irriverenti tanto da essere conosciuto e apprezzato anche dal Collodi che lo rammenta in un suo scritto: "Il Lachera non era nemmeno un tipo: era piuttosto la facezia arguta e frizzante fatta uomo; era il vero brio sarcastico fiorentino, travestito da venditore di pere cotte o di torta coll'uva, a secondo della stagione. Il Lachera, morendo, portò via con sè molta parte di quel riso geniale, che fa buon sangue e che usava al tempo dei vostri vecchi, che sapevano ridere tanto bene.". Lo spirito fiorentino aleggiava forte un tempo, oggi forse meno, ma non è del tutto scomparso, frequentando i luoghi giusti come i mercati o le vie del centro qualche "voce" ancora si ascolta anche se sempre più mescolata a stranieri idiomi che occupano luoghi che prima erano il tempio dell'irriverenza.
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aki1975 · 6 years
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Guarino Guarini - Racconigi - Castello Reale - 1684 Carlo Alberto di Savoia-Carignano nacque nel 1798 e crebbe nella Francia napoleonica: con la Restaurazione divenne re di Sardegna a causa dell’assenza di eredi dello zio Carlo Felice nel 1831. Nel 1821 aveva sostenuto i moti sorti ad Alessandria e promossi da Santorre di Santarosa perché il sovrano di allora - Carlo Emanuele IV - concedesse la Costituzione e gestì, insieme a Cesare Balbo, la trattativa con i rivoltosi. Il re si dimise e fu sostituito da Carlo Felice: essendo però quest’ultimo a Modena, la reggenza venne affidata a Carlo Alberto. Carlo Alberto proclamò la Costituzione, ma venne in seguito smentito da Carlo Felice che lo esiliò a Novara e poi in Toscana. Seppe riabilitarsi nel 1824 grazie ad una spedizione militare di successo in Spagna e rientrò a Torino risiedendo al castello di Racconigi dove studiò letteratura ed economia e, nel 1831, salì al trono. Coerentemente con i suoi ideali neoguelfi - riformisti, ma ostili agli eccessi repubblicani di Mazzini e Garibaldi - nel 1848 concesse lo Statuto, nominò Cesare Balbo Primo Ministro e indisse la Prima Guerra d’Indipendenza dopo essere entrato nella Milano protagonista delle Cinque Giornate. Abbandonato però da Pio IX e da Ferdinando II di Borbone, perse a Custoza contro il Radetsky e dovette rassegnate le conseguenti dimissioni a favore del figlio Vittorio Emanuele II terminando la propria vita in esilio in Portogallo.
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blogstefanocentonze · 4 years
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[Insegna mio padre...] “Han giurato: non fia che quest’onda scorra più fra due rive straniere; non fia loco ove sorgan barriere tra l’italia e l’italia, mai più.” A. Manzoni, Marzo 1821, versi 6-9 Con questa ode, dedicata al poeta-soldato tedesco Teodoro Körner, Manzoni immagina quello che è accaduto sulle rive sabbiose del Ticino, prima che l’esercito piemontese liberasse il Lombardo-Veneto e l’Italia dagli Austriaci. Sono i soldati che, immagina il poeta, volgendosi indetto per un istante, giurano che in Italia non ci sarebbero più state né barriere né divisioni. Ma questo, dato il fallimento del moti del 1821, è un destino che si compirà solo nel 1848, con le Cinque Giornate di Milano che diedero inizio alle Guerre d’Indipendenza. https://www.instagram.com/p/CCNWh12K_wM/?igshid=peogh46rwbge
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