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andrej-food · 5 years
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Era l’ormai lontano 2008 e usciva nelle sale cinematografiche un horror diretto a quattro mani da David Moreau e Xavier Palud. Stiamo parlando della pellicola The Eye che il portale webtv più seguito e amato del pianeta, Netflix, ha deciso di rilasciare in streaming da oggi 1 maggio.
Il film è stato scritto da Sebastian Gutierrez; lo sceneggiatore ha tratto ispirazione dal film omonimo di Hong Kong del 2002 (Titolo originale: Gin gwai) diretto e scritto da Danny Pang e Oxide Chun Pang. C’è da dire che il titolo originale ha sicuramente entusiasmato di più critica e pubblico del remake americano del 2008, infatti sarebbe interessante recuperarlo. Il film del 2002 è reperibile in abbonamento sul canale Infinity di Prime Video (clicca qui per 15 giorni di prova gratuiti).
THE EYE – IL CAST
Star indiscussa del film è, come detto, Jessica Alba accompagnata da Alessandro Nivola, Parker Posey, Rade Serbedzija, Fernanda Romero; Rachel Ticotin, Obba Babatundé, Danny Mora, Chloë Grace Moretz, Brett A. Haworth, Kevin Phan, Tamlyn Tomita; Esodie Geiger, Karen Elizabeth Austin, Ryan J. Pezdirc.
THE EYE – LA TRAMA
La violinista Sydney Wells è cieca da quando aveva cinque anni a causa di un incidente. Si sottopone a un intervento chirurgico di trapianto di cornea per recuperare la vista. Mentre si riprende dall’operazione, si rende conto di avere strane visioni. Con il supporto del dottor Paul Faulkner, Sidney scopre chi è il donatore dei suoi occhi e inizia un viaggio per scoprire la verità dietro le sue visioni.
I REGISTI
David Moreau è nato il 14 luglio 1976 a Boulogne-Billancourt, Hauts-de-Seine, in Francia. È uno scrittore e regista, noto per Them (2006), The Eye (2008) e Alone (2017).
Xavier Palud è un regista e scrittore, noto per Them (2006), Intrusion (2015) e The Eye (2008).
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mirsplaylist · 2 years
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When humanity falls - Daniel Pezdirc
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olivierdemangeon · 3 years
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THE WEEKEND AWAY (2022) ★★★☆☆
THE WEEKEND AWAY (2022) ★★★☆☆
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pangeanews · 5 years
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Santarcangelo Festival 2019: dalle “sirene” alla “bombastica” Pamela Anderson, passando per una performance sulle badanti ucraine. Oggi il teatro attraversa una cupa crisi di idee…
Merman Blix ha lasciato il segno. Nell’acqua. A due anni di distanza dalla performance del “sirenetto” Santarcangelo Festival torna a strizzare l’occhio (e i costumi) all’elemento liquido per antonomasia, qui ancora una volta “tavola materica investigativa” di una rappresentazione. “Dragon, rest your head on the seabed”, performance firmata dagli spagnoli Pablo Esbert Lilienfeld e Federico Vladimir Strate Pezdirc e portata in scena – o meglio, in piscina – il 5 e il 6 luglio al Multieventi di San Marino è la moltiplicazione (con tanto altro) dell’assolo di Blix, ed unisce l’arte della danza all’attività sportiva (forse più la seconda della prima).
Al di là della potenziale e inutile discussione sulla natura dello spettacolo – è teatro quindi “teatron” nell’accezione di “luogo dello sguardo” oppure, sic e sempliciter, disciplina sportiva? – “Dragon, rest your head on the seabed” è un mosaico di sei nuotatrici che vengono frantumate in sei “pezzi” e che solamente nell’acqua ritrovano l’unità scomposta. Ad un incipit penalizzato da una lentezza narrativa e da un palcoscenico che tende a disperdere la tensione – la piscina da 50 metri annacqua il pathos – segue, negli ultimi 25 minuti, un’accelerazione più visiva che semantica: le sei nuotatrici si ricompattano e ritmo di tunz tunz e ridanno vita al “Dragon” acquatico, una creatura in sospeso tra un “Nessie” di Lochness 4.0 e un omaggio alle fantasie oniriche del Sol Levante. Più sport che teatro, probabilmente, anche se non mancano i momenti d’impatto teatrale: il rumore del microfono sbattuto sull’acqua, l’utilizzo delle torce “waterproof” che illuminano e disegnano strade subacquee, gli arazzi delle gocce che schizzano in alto quando le gambe impattano sulla superficie. C’è un aspetto più squisitamente estetico, quella dell’alternatività. Se la buona norma apparente della scena richiede attori e attrici filiformi, freak o con fisici da lottatori di Sumo, la sensualità tonica delle sei nuotatrici forgiate in vasca diventa un messaggio di straordinaria bellezza, o di moderna frizione: si può essere attori anche unendo l’esercizio mentale a quello fisico senza necessariamente doversi agghindare con colori improbabili o con vestiti che odorano di muffa.
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Hanno messo quello che mancava, quello che oggi serve per capire: il suono. Ronin, solido gruppo musicale rock italiano attivo sulle scene da 20 anni, ha racconto e vinto la sfida, quella di creare un tessuto di note di accompagnamento al film muto “The Unknown” (1924) diretto da Tod Browning. Ed il risultato è stato piacevolmente sorprendente: arpeggiamenti incisivi e adiacenti ai dialoghi della pellicola. Peccato solo che la programmazione gratuita in piazza Ganganelli si limiti alla proiezione di alcuni film e non a qualche spettacolo di teatro vero, come è accaduto in passato: basterebbe anche un lavoro a sera per “far assaggiare” a un pubblico clementino – che per crescere numericamente si deve rinnovare – quello che viene proposto negli spazi chiusi del Festival. Eppure la piazza, in passato, ha ospitato, tra gli altri, anche Ascanio Celestini, Davide Enia, Pippo Delbono e Silvio Castiglioni. Come dimenticare il suo monologo del 2013 – quando al Festival si vedeva ancora il teatro di parola – dedicato Nino Pedretti, “L’uomo è un animale feroce”? Un lavoro che ha saputo contagiare il numeroso pubblico presente e interpretato con grinta e qualche imprò gradevole (a inizio spettacolo uno spettatore ha chiesto “voceee” e Silvio Castiglioni ha recitato per qualche secondo con un tono burrascoso e quasi urlato, tra le risate della platea).
Due pubblici quindi, quello del Festival e quello di chi sceglie la piazza per fare un giro con il cane o per degustare un gelato. Un peccato perché due gocce d’acqua, come insegna Tonino Guerra (che era di casa a Santarcangelo), potrebbe fare una goccia più grande.
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Gli spettacoli cosiddetti “belli” (e “Italia-Brasile 3 a 2” di Davide Enia ospitato in piazza Ganganelli – e quindi per tutti – in occasione del Festival 2003 è davvero un sublime viaggio nel Belpaese pallonaro) in realtà “non hanno tempo”. Perché, nella memoria collettiva dello Stivale, “il Mondiale” è sempre e ancora quella di Spagna, 1982, l’epopea di un’Italia che lasciava gli Anni ’70 per entrare nel nuovo decennio. Ci sono motivi sociologici, dietro, più tondi e pesanti di una sfera di cuoio. Lo spettacolo muove da un breve riepilogo dei fatti accaduti quell’anno: da Vasco Rossi a Sanremo all’omicidio La Torre, dal prezzo della benzina all’avvento del colore nella tv di casa. Proprio attorno ad un nuovo, e bellissimo, Sony Black Triniton quello storico 5 luglio 1982 si raccoglie la famiglia del protagonista: ognuno con i propri riti, con le proprie scaramanzie, con i propri gesti: il padre (vestiti mai lavati, per tutte le partite della squadra nazionale), la madre (accarezzava quasi tutto il tempo la testa di piccolo Enia), le nazionali dello zio, il caffè “che quando l’Italia ha segnato il suo primo gol ai mondiali in Spagna c’era chi stava bevendo un caffè”. La scaramanzia, i numeri del lotto (1-48-90) lì dove l’1 è l’Italia, il 48 “morto che parla” (Paolo Rossi) e 90 la paura, la grande paura. Il grande Brasile. Eder, Junior, Socrates, Falcao. E qui l’omaggio: Enia cambia nome e imitando Carmelo Bene, snocciola la definizione, Falcao “Il più grande giocatore al mondo… senza mondo” (lì dove il secondo “mondo” è il pallone). Si ride, ma con la mente, e con il cuore pieno, che quando la divagazione tocca le corde del cuore, le parole si fanno sasso, lama, martello e polveriera: Garrincha, il giocatore del Brasile Anni ’50 azzoppato da una malattia che gli aveva regalato una gamba più corta dell’altra, 6 cm 6, mica uno sputo, prova te a vivere e giocare a calcio con una gamba lunga e una corta. Il passerotto Garrincha morto, dimenticato e povero, mezzo alcolizzato nel 1983, che ha avuto giusto il tempo di vedere la partita, e piangere. O l’eroica fine della squadra del Dinamo Kiev, sterminata dai nazisti nel 1942: Tusevich, mica Dino Zoff e i suoi 40 anni, che viene fucilato. Un uomo avrebbe chiuso gli occhi. Lui – ed Enia – no: l’istinto è l’istinto, e non lo puoi fermare, e Tusevich si tuffa, e para il proiettile con il cuore. E lì dall’oltretomba, il sorriso, compiaciuto e denso di tabacco, del grande Gianni Brera…
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Quando in piazza a Santarcangelo si protestava. Pare ieri, ma sono già trascorsi 14 anni da quel meraviglioso rigurgito di anni Settanta. Piazza Ganganelli, un lunedì sera dell’anno di grazia 2005, era davvero gremita. La gente del teatro era incazzata nera per i tagli che ha subito il FUS, il Fondo Unico per lo Spettacolo. Dal 1985, ossia da quando è stato istituito, il Fondo non solo non era stato incrementato seguendo gli aumenti del costo della vita ma anche solo rimanendo costante, senza tagli, aveva perduto il 20 anni il 51% del suo valore.  Ancora più preoccupante era un altro aspetto: pur restando costante l’ammontare dell’economia del Fondo, il numero delle compagnie sovvenzionate era passato da 300 a 200. In parole povere, e per ragioni più o meno clientelari, si estendeva a dismisura l’area dei purètt, dei poveracci, costretti a spartirsi le briciole.
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Da sempre il teatro crea una “simulazione fisica di uno stato mentale”, come afferma Derrick de Kerkhove. In Italia il punto di partenza fu quella lontanissima Ivrea 1967 quando fu promosso – da personaggi di un certo spessore, tipo Carmelo Bene, Franco Quadri, Leo De Berardinis, Luca Ronconi e altri ancora – il “Convegno del Nuovo Teatro”, che sancì, di fatto, l’avvio di un’era di sperimentazioni. Nel “Manifesto” pubblicato nel novembre del 1966 sulla rivista “Sipario” si affermava che ci si deve “servire del teatro per insinuare dubbi, per rompere delle prospettive, per togliere delle maschere, per mettere in moto qualche pensiero”.
La situazione geopolitica e artistica però era molto differente da quella di oggi. In un teatro attuale che al 90% è morto, che è fatto di routine e abitudine e un certo snobismo (specie nella Provincia di Rimini, dove gli attori non vanno mai a vedere gli spettacoli dei colleghi), accanirsi a portare in luce i difetti (che senza dubbio esistono) dei pochi, pochissimi spettacoli “vivi” ancora in circolazione, di quegli spettacoli e di quegli artisti che hanno davvero qualcosa da dire e non salgono sul palco per moda, per noi, per benessere familiare (spesso i genitori foraggiano i figli) o per sentirsi fighi, significa appiattire il proprio sguardo e quello del pubblico.
Oggi il teatro attraversa una profonda crisi di idee. Una crisi dilagante. Nel teatro, e dentro il teatro. A parole, tutti sottoscriverebbero il principio che debba essere finanziato chi osa innovare. Ma quando il teatro di innovazione (o, come mi ha detto, bene, Mariangela Gualteri del Teatro Valdoca, “il teatro contemporaneo”) diventa una categoria burocratica e massonica in cui far rientrare ogni sorta di realtà non altrimenti catalogabile, le distinzioni si complicano enormemente. Persino il concetto di “gruppi giovani” è ambiguo e piuttosto precario: tutti si sentono teenager, nonostante qualche capello bianco. Oggi chiudono le fabbriche e i lavoratori vengono mandati a casa. Non c’è nulla di così profondamente drammatico se una compagnia abbassa le saracinesche: se saprà rimboccarsi le maniche e trovare finanziamenti in maniera autonoma, allora potrà proseguire nel personale percorso drammaturgico. Altrimenti si faccia altro: i mestieri sono tanti e infiniti, e uno buono lo si troverà di certo. Questa volta non si butti via il bambino con l’acqua sporca e con la sua culla: si tagli il cordone ombelicale che lega l’infante capriccioso alla mamma-cassa, e si inizi a camminare con le proprie gambe. Il teatro non è un obbligo. È, tutt’al più, una necessità.
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Nei giorni post mobilitazione, il Collettivo Aurora ha scritto una bella lettera. Tra le tante affermazioni contenute (e pienamente condivisibili), due meritano spazio. La prima è di carattere economico, la seconda di natura squisitamente artistica.
Il Collettivo, nella sua missiva, ha fatto due conti. “Su 803 mila euro di entrate previste per il 2005, 530 mila provengono da contributi pubblici; 141 mila dall’attività associativa; 132 mila da sponsor e simili. Queste le cifre ufficiali. Ci si chiede: Santarcangelo dei Teatri è un’associazione non lucrativa o una società? (…) Malgrado i tagli della Finanziaria, il Comune di Santarcangelo ha beneficiato di una discreta maggiorazione di fondi: +20 mila euro”.
Condivisibile financo la singola virgola le parole sugli spettacoli. “Lasciamo da parte i giudizi artistici: anche quelli benevoli, che d’altronde sembrano concentrarsi quasi esclusivamente nel gazzettino che gli organizzatori stessi fanno scrivere agli studenti del DAMS in cambio di appetitosi crediti formativi”.
Il Collettivo poi ha raccontato la giornata di mobilitazione. In punta di penna. “Giornata di mobilitazione nazionale: nientemeno. Scomodati istituto comizionale e Majakovskij. Che sinistra non riuscirebbe a commuoversi? Gran mossa: così i panni sporchi di casa Festival finiscono nella cesta degli orrori nazionali. Il buon Paolino (Rossi), convinto da cachet e dalle nobili intenzioni, se l’è bevuta come i santarcangiolesi e tutti gli altri. Riassumendo e rilanciando: rastrellamento aggressivo di fondi, disinteresse verso i partner, trasparenza zero, cariche, ruoli, impieghi blindati per consuetudine nepotistica e clientelare, arbitrarietà totale, impunità sulle scelte gestionali, buchi di bilancio. Anche questo è il festival”.
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Calviniano ma non calvinista, sociologicamente contemporaneo, ibrido nella sua forma scenica, “Lighter than Woman” di Kristina Norman non è assolutamente uno spettacolo teatrale ma una “performance-documentario” sul mondo delle badanti ucraine che vivono a Bologna e a Santarcangelo. “Calviniano”, questo lavoro, lo è soprattutto nell’ouverture: l’artista di Tallinn difatti dona al pubblico, accaldato e stipato nella saletta della Collegiata come pulcini nelle gabbie, la propria teoria sulla gravità e sulla pesantezza (chiaro e cristallino il riferimento a “Le lezioni americane” di Italo Calvino), mettendo a specchio Samantha Cristoforetti e le donne dell’est che lavorano in Italia. Storie di sofferenza, di potenziali abusi, di mancanza di diritti, di nostalgia – nell’accezione di nostos greco –, di lavori di fatica fisica e di difficoltà nel farsi accettare. I numeri snocciolati con un sorriso da Kristina raccontano di un fenomeno che ha la forma dell’iceberg: 2 milioni di donne pagate, la metà in nero, quindi un “sommerso chiuso nelle case delle persone anziane, senza garanzie e senza welfare.
Se poeticamente l’operazione si può dire indovinata (l’argomento comunque, va detto, è di facile presa sul pubblico), più di qualche dubbio si instilla sulla durata (novanta minuti) e sulla messa in scena, che alterna frammenti di comicità a passaggi che smorzano la tensione. Si chiamano le badanti dell’ex Unione Sovietica, rimarca l’attrice, “così le donne italiane possono dedicarsi pienamente alla vita professionale”. Come se fossero prive di sentimenti, come se un potpourri di cliché possa dare più veridicità al lavoro, crocifiggendo i sentimenti di chi ha un parente non più autosufficiente.
Gli aghi del pietismo si conficcano nelle guance di chi è in sala e ascolta le memorie delle badanti. Così la voce e il viso di una donna a cui sono state fatte proposte indecenti, così una signora in su con l’età che sogna di ritornare a casa, così una ragazza che ha perduto un figlio in grembo, così un gruppo di ucraine che si ritrova alla Montagnola di Bologna la domenica pomeriggio e che fatica a parlare italiano dopo lustri e lustri di vita nello Stivale. Così chi ricrea un’ambientazione primordiale della propria infanzia, una composizione floreale realizzata per ingentilire un luogo.
Non ingannino i tanti applausi che hanno salutato la chiusura dello spettacolo: non dicono assolutamente nulla. Sono solo, piuttosto, un “chiedere scusa” alle accuse lanciate dalla Norman verso chi era presente, o un rito aggregativo di partecipazione, come se dietro al biglietto fosse scritto, in una scrittura che si rivela solo agli spettatori, che è un gesto che si deve compiere sempre quando il buio torna in sala e decreta la chiusa della mise en scene.
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La bombastica Pamela Anderson? La gattosa Hally Berry? La gattina orientale Céline Tran? La lista delle bellezze feminine che negli anni Novanta hanno fatto battere il cuore a milioni di teenager è infinita e cambia da persona a persona. Marco D’Agostin – in scena al Lavatoio con “First love” – è poeticamente “anarchico” e decisamente controcorrente: per lui la prima infatuazione ha un nome, Stefania, e un cognome, Belmondo. È alla campionessa sportiva dello sci di fondo che ha deciso di dedicare i suoi 40 minuti di monologo, un assolo fatto di parole e di danza che, in scena, si traduce in una spoglia telecronaca della medaglia d’oro conquistata nella 15 km a tecnica libera ai XIXesimi Giochi Olimpici Invernali di Salt Lake City nel 2002. La “restituzione” delle emozioni provate dall’attore “Premio UBU 2018 come miglior performer under 35” alla Belmondo è poco altro: ottima davvero la sua voce, questo va sottolineato, specie quando sale e si fa concitata, ma complessivamente lo spettacolo – eccezion fatta per una bella chiusura con Marco che si siede ai margini del fondale mentre scende la neve e una luna si fa grande e luminosa – non brilla per incisività.
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Anticipato da una lunga didascalia in cui vengono rimarcati i problemi di censura incontrati dagli attori nei loro lavori precedenti, con “Domínio Público” – portato per la prima volta fuori dal Brasile – Elisabete Finger, Maikon K, Renata Carvalho e Wagner Schwartz focalizzano la propria indagine drammaturgica su “La Gioconda” di Leonardo da Vinci: dal furto “firmato” da Vincenzo Peruggia (che sottrasse la tela al museo del Louvre nel 1911) alla modella (o al modello) ritratto nel quadro – Lisa Gherardini o Gian Giacomo Caprotti detto “Salaì”? – alla postura delle mani, passando per la mancanza di gioielli e un po’ di gossip (pare che Leonardo se li fosse portati a letto), lo spettacolo a quattro voci si riduce a una lezione di storia dell’arte. Certo, importante, ma nulla di più. Sarebbe curioso avere l’opinione di Vittorio Sgarbi…
Alessandro Carli
*In copertina: immagine tratta dallo spettacolo “Dragon, rest your head on the seabed” (photo Enrique Escorza); nel servizio immagini dal progetto di Marco D’Agostin e di Kristina Norman
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hkpeng · 2 years
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inhale exhale 9 – 30 September 2022 Opening: 9 September at 7 pm Artists: Boštjan Kavčič, Lučka Koščak, Tejka Pezdirc, Luka Širok, Iva Tratnik, Jaka Vatovec, Sonja Vulpes, Leon Zuodar Curator: Mojca Grmek The exhibition entitled inhale exhale was conceived by curator Mojca Grmek, who invited the selected artists to interpret the term 'inhale exhale'. She wanted to know: Could it be understood as a metaphor for the brevity and transience of life? As a simple notation of its beginning and end? Or as everything that happens in between? Even though the term is interpreted differently by the participating artists, certain connections between them can be discerned. The work of Boštjan Kavčič springs from the awareness that the universe is a whole in which everything is in dynamic balance with each other. Accordingly, he understands his sculptures as ORGanisms that are created by releasing energies from stone and, once completed, harmonise the energies in the space in which they are located. The work presented in the exhibition consists of two ORGanisms, Core as spirit and Roll as matter, which together form Unity – a new life. Similarly, sculptor Lučka Koščak (1957–2022) always believed that her human-angel figures create balance, not in the universe as a whole, but in ourselves. The work in the exhibition – a posthumous book composed of original materials from the artist's 2013 solo exhibition at Hiša kulture entitled Breath – stands out starkly at first glance in the artist's oeuvre, but also seeks to encourage one of the most natural yet almost forgotten forms of communication – connecting with oneself through breath. The relationship to oneself and to others is also a theme that Luka Širok deals with in the work Faceless in Smoke. The series of three paintings shows "portraits" that appear and disappear from seemingly random strokes of colour on a predominantly grey background, looking different each time, depending on the mood, will and imagination of the viewer. On a basic level, then, the paintings speak of the fluidity of identity, of the creation of identity through the eyes of the other, of anonymity, impersonality, but we can also see in them an artistic metaphor for the randomness of (non-)existence – something that is here this moment and gone the next. Sculptor Tejka Pezdirc is also interested in the theme of simultaneous presence and absence. Her work entitled No small talk is the largest and at the same time the last in the series, in which she uses bones as a central motif. Bones have a kind of ambivalence, on the one hand, they bear witness to the decay and disappearance of the body; on the other hand, they are the only part that has survived this process, so paradoxically they are also a sign of the obstinacy of existence as such. The artist tries to emphasise this moment even more in her works in order to allow the viewer to see in the inevitability of decay the beauty of the emergence of something new. The connection between Eros and Thanatos is expressed in its own way in Leon Zuodar's painting entitled Red LP. The painting, similar to the artist's recent works, was created by recycling remnants of old (painted) canvases, which the artist assembled using a sewing machine into new backgrounds and hand-embroidered motifs to create new stories. However, it is not only the process of creation that embodies the interaction between the aforementioned forces, but also the central motif of the open mouth that appears both attractive and threatening, which is further emphasised by the ambiguous symbolism of the colour red. The reciprocity between Eros and Thanatos, albeit on a more subtle level, also characterises the diptych Butterfleyes by printmaker Sonja Vulpes. Although her works usually show the dark side, this time it is the other way round. If the positive atmosphere, the playful body of the woman and the butterflies in her eyes have not yet convinced us, we are finally seduced by the inscription Must be love. It is about love, about falling in love, about total surrender and immersion in the Eros that takes hold of us and carries us away – even at the cost of losing ourselves. Jaka Vatovec also reflects on the connection between the mortality of a single organism and the indestructible power of life in the painter's diptych entitled Seedless Apple. The diptych shows in both parts a more or less abstracted form of an apple with a chain surrounding it, whereby the apple appears stronger and more distinct in the first part, the chain in the second. The artist is thus trying to depict a process that, through its association with genetic engineering, makes us think about the meaning of death in the context of evolution. The meaningful arc of the exhibition closes with the work Like Tears by Iva Tratnik. The painting, like most others from her oeuvre, shows a vision of a posthuman world inhabited by insects and plants, while man is only present through his remains – the objects he once produced and used – as a thing among things. One of these remnants is also artificial intelligence, which has long forgotten its creator and, unlike him, has come to life as a "creature" of this world. It is quite fitting to end the exhibition with the message that even without man, life in the world remains and continues to evolve. Regardless of how the participating artists interpret the term 'inhale exhale', the main aim of the curator of the exhibition is to remind all participants, including the viewers, of what it simply means – to be.
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hisakulturepivka · 2 years
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vdih izdih 9. – 30. september 2022 otvoritev: 9. september ob 19. uri Sodelujejo: Boštjan Kavčič, Lučka Koščak, Tejka Pezdirc, Luka Širok, Iva Tratnik, Jaka Vatovec, Sonja Vulpes, Leon Zuodar Kustosinja razstave: Mojca Grmek Razstavo z naslovom vdih izdih je zasnovala kustosinja Mojca Grmek, ki je izbrane umetnice in umetnike povabila k interpretaciji sintagme vdih izdih. Pri tem jo je zanimalo, ali jo je mogoče razumeti kot metaforo za kratkost in minljivost življenja? Kot preprosto zaznambo njegovega začetka in konca? Ali vsega, kar se zgodi vmes? Sodelujoči na razstavi sintagmo interpretirajo različno, kljub temu pa je med njimi opaziti določene povezave. Boštjan Kavčič pri ustvarjanju izhaja iz zavedanja, da je univerzum celota, kjer je vse v dinamičnem ravnovesju med seboj. V skladu s tem svoje skulpture pojmuje kot ORGanizme, ki nastajajo z osvobajanjem energij iz kamna, ko so zaključene, pa harmonizirajo energije v prostoru, kjer se nahajajo. Delo, ki ga predstavlja na razstavi, sestavljata dva ORGanizma, Jedro kot duh in Svitek kot materija, ki skupaj  tvorita Enost – novo življenje. Tudi kiparka Lučka Koščak (1957–2022) je vseskozi verjela, da njene figure ljudi-angelov vzpostavljajo ravnovesja, vendar ne v celotnem univerzumu, pač pa znotraj nas samih. Delo na razstavi – gre za knjigo, ki je nastala posthumno iz originalnih materialov z umetničine samostojne razstave v Hiši kulture z naslovom Dih iz leta 2013 – je na prvi pogled povsem drugačno od ostalih iz njenega opusa, vendar prav tako skuša spodbuditi eno od najbolj naravnih, a skoraj pozabljenih oblik komunikacije – ustvarjanje vezi s samim seboj skozi dih. Odnos do samega sebe in do drugih je tudi tema, s katero se Luka Širok ukvarja v delu z naslovom Brez obrazi v dimu. Serija treh slik predstavlja »portrete«, ki se prikazujejo in izginjajo iz navidez naključnih barvnih nanosov na pretežno sivem ozadju in so vsakokrat drugačni, odvisno pač od razpoloženja, volje in domišljije gledalca. Na osnovni ravni slike torej govorijo o fluidnosti identitete, o ustvarjanju identitete skozi pogled drugega, o anonimnosti, brezosebnosti ali brezobzirnosti, lahko pa v njih vidimo tudi likovno metaforo za naključnost (ne)obstoja – zdaj nekaj je, že naslednji hip ni več. Tematika hkratne prisotnosti in odsotnosti zanima tudi kiparko Tejko Pezdirc. Njeno delo z naslovom No small talk je največje in hkrati zadnje v seriji, kjer kot osrednji motiv uporablja kost. Kosti imajo v sebi nekakšno ambivalenco, na eni strani pričajo o propadanju in izginjanju telesa, obenem pa so njegov edini del, ki je ta proces preživel, zato so paradoksalno tudi znak trdovratnosti obstoja kot takšnega. Ta moment skuša umetnica v svojih delih še dodatno poudariti in na ta način omogočiti gledalcu, da v neizogibnosti minevanja uzre lepoto nastajanja nečesa novega. Povezavo med erosom in tanatosom na svoj način izraža tudi slika Leona Zuodarja z naslovom Red LP. Slika je nastala, podobno kot umetnikova zadnja dela, z reciklažo ostankov starih (poslikanih) platen, ki jih umetnik s pomočjo šivalnega stroja sestavlja v nova ozadja in z ročno izvezenimi motivi v nove zgodbe. Vendar ni samo proces nastanka tisti, ki uteleša recipročnost med omenjenima silnicama, ampak tudi osrednji motiv razprtih ust, ki delujejo hkrati privlačno in grozeče, to pa še dodatno poudarja večpomenska simbolika rdeče barve. Recipročnost med erosom in tanatosom, vendar na bolj subtilni ravni, zaznamuje tudi diptih Butterfleyes grafične umetnice Sonje Vulpes. Čeprav se njena dela navadno nagibajo na temnejšo stran, je tokrat ravno obratno. Če nas ne prepriča pozitivno vzdušje, žensko telo v igrivem položaju in metulji v njenih očeh, nas dokončno zapelje napis Must be love. Za ljubezen gre, za zaljubljenost, za popolno prepustitev in potopitev v eros, ki nas prevzame in ponese s seboj – tudi za ceno izgube samega sebe. O povezavi med smrtnostjo posameznega organizma in neuničljivo silo življenja razmišlja tudi Jaka Vatovec v slikarskem diptihu z naslovom Seedless Apple. Diptih na obeh delih prikazuje bolj ali manj abstrahirano formo jabolka, ovito z verigo; na prvem je močnejše in jasnejše jabolko, na drugem veriga. Umetnik torej skuša prikazati nek proces, ki nas preko asociacije na genski inženiring usmerja v razmišljanje o smiselnosti smrti v povezavi z evolucijo. Pomenski lok razstave zaključuje delo Ive Tratnik z naslovom Like Tears. Slika, podobno kot večina drugih iz njenega opusa, prikazuje vizijo postčloveškega sveta, ki ga naseljujejo žuželke in rastline, medtem ko je človek prisoten zgolj prek svojih ostankov – predmetov, ki jih je nekoč proizvajal in uporabljal – kot stvar med stvarmi. Eden od teh ostankov je tudi umetna inteligenca, ki je že zdavnaj pozabila na svojega stvarnika in v nasprotju z njim zaživela kot »bitje« tega sveta. Povsem na mestu je zaokrožiti razstavo s sporočilom, da bo tudi brez človeka življenje na svetu obstalo in se razvijalo dalje. Ne glede na to, kako sodelujoči umetniki in umetnice interpretirajo sintagmo vdih izdih, je namreč osnovni namen kustosinje razstave, da vse sodelujoče, vključno z gledalci in gledalkami, povabi k razmisleku, kaj pomeni preprosto – biti.
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zekaem · 6 years
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[Season 2017/2018] TITUS ADRONICUS directed by Igor Vuk Torbica @Zagreb Youth Theatre
Wouldn’t it be nice to sit back comfortably in the auditorium of the Istra Hall of the Zagreb Youth Theatre and watch Titus Andronicus as if it were a fairy tale of carnage from the times long, long gone?
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What a wonderful world it would be! A world rid of the ambition for power, of rigid adherence to rules long obsolete, of violence, sexism, racism, and all other kinds of discrimination and poverty. A world glued together not by public displays of patriotism and hatred of the other, but by the pervasive sense of one-and-the-sameness. A world in which the male and female principles complement instead of exclude each other.
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This is the first of the ten Shakespeare’s tragedies, allegedly dating from 1592, or a little earlier, depending on the sources. It immediately follows his historical tetralogy (Henry VI and Richard III). Some say that it provoked the most controversial interpretations on stage of all his plays. Originally, it was received with acclaim and played for long before its audience. Then came four centuries of complete silence, save for the vile offences of his critics and literary scholars, who even denied Shakespeare the authorship of the piece at some point.
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Titus Andronicus was branded as the bloodiest of all Shakespeare’s plays – quite mistakenly, as the body count is greater in Richard III – as if the hypocritical West wanted to renounce its bloodthirsty nature, at least in art, even though it was nurturing and advancing it at every step of its historical path.
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The play premiered on Mrch 23rd 2018 and is directed by Igor Vuk Torbica and played by Sreten Mokrović, Katarina Bistrović Darvaš, Rakan Rushaidat, Mia Biondić, Petar Leventić, Adrian Pezdirc, Dado Ćosić, Vedran Živolić, Frano Mašković, Jasmin Telalović, Robert Budak and Milivoj Beader.
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jigokuhime · 8 years
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#projectmoscow no #MAC da #Coruña #recomendar Un diario de deriva nunha cidade inédita e inhóspita. Iso é basicamente a base artelladora de…
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riccardoschiavon · 7 years
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Federico Vladimir Strate Pezdirc #acoruña #contemporaryart (presso MAC, Museo de Arte Contemporáneo)
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andrej-food · 5 years
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andrej-food · 5 years
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andrej-food · 5 years
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andrej-food · 5 years
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Njami Bi ali ne bi😉🙄🙄🤔🤔 Drip Drip 🗣️🗣️🗣️🗣️🗣️ #gostilna #pezdirc #gostilnapezdirc #belakrajina #dessert #foods #semic #sladica #domacejedomace #domace #igbelakrajina #igslovenija (at Gostilna Pezdirc v Beli krajini) https://www.instagram.com/p/B47aEjmgC0Y/?igshid=k6wnvxsxbtpj
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andrej-food · 5 years
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Local smoked trout😉😜😉🥰😜💥😉🥰 · · · · · · · · · · · · · · · #foodporn #food #foodie #foodstagram #instafood #foodphotography #foodgasm #foodlover #yummy #foodblogger #gostilnapezdirc #semic #belakrajina #kolpa #pezdirc #fishmarket #trout #smoked#party #friends (at Gostilna Pezdirc v Beli krajini) https://www.instagram.com/p/By8FUVigs9s/?igshid=19j5gwrorjad6
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andrej-food · 3 years
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