Tumgik
#se poi mi perdo lungo la strada?
ahrisen · 2 years
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2 Febbraio 2023
.I
Una spiaggia al tramonto, ero con persone che conoscevo vagamente ma adulte. Una di queste aveva due gemelle, che si sono sedute sulle scale in pietra di una piattaforma del lido. Noi non eravamo parte del lido, quindi il “Direttore” guardava male le bambine.
Mi avvicino alla madre e glielo faccio presente. Lei dice di ignorarlo. Il direttore si avvicina alle bambine e le sgrida. Io li raggiungo e con sorriso sornione e il mio tipico modo di fare lo metto a suo posto e vado via con le bambine mano nella mano.
<<Possiamo fare il bagno?>> Chiedono.
È quasi sera. Il mare si agita all’improvviso. È verde scuro. Cielo sempre più nuvoloso.
/// Credo questa immagine sia stata presa e rielaborata su un ricordo. Anni fa feci il bagno in Calabria con nove metri di cavalloni durante il pieno di una tempesta. Pioggia. Nuvole. Fu bellissimo. È un bel ricordo. ///
Le bambine da sole nel mare e senza supervisione a priori non le manderei. Pondero di supervisionare io andando con loro in acqua e voglio andarci, nonostante le condizioni del mare. Tuttavia realizzo che sono senza costume. Il pezzo di sotto forse lo ho, ma non quello di sopra.
“Sti ca. Comunque non ho tette.”
Tuttavia ci sono persone lungo la spiaggia che mi guardano male mentre mi spoglio.
<<È femmina. Dovrebbe indossare il reggiseno.>> Sento qualcuno dire.
<<È maschio. Guarda il fisico è androgino.>>
<<Ma veramente che cos’è?>>
/// ndr. La mia identità di genere è non binaria. ///
Alla fine il bagno non lo faccio. Riaccompagno le gemelle dalla madre con il mio solito savoir-faire dalla madre senza farle prendere a male. Poi da qui succedono cose e lo scenario cambia.
.II
Sono con mia zia, mia madre, forse altra gente. Siamo su una strada in mezzo a un bosco. Da un lato, sinistra, il bosco sale. Dall’altro, a destra, il bosco scende.
Guardando meglio il bosco mentre passiamo su questa strada realizzo di riconoscerlo nel sogno
/// Irl non l’ho mai visto. ///
ed esclamo: <<Guardate! È il bosco dove vengo sempre a caccia!>>
Ma nessuno si volta e tutti sono disinteressati. Quindi aggiungo:
<<Lo conosco benissimo. So muovermi davvero come se fossi nel mio habitat quando vengo qui, sapete?>>
Ma ancora, sono ignorata. Gli altri tirano dritto ma io rallento perché vedo, sul lago sinistro in salita, un cervo. E lo riconosco.
Non è un Cervo normale ma somiglia al mio Indrik, una cavalcatura che ho su un gioco online. Dunque un cervo fantasy con manto cinereo e corna luminose. Solo che nel sogno, non è un Indrik giovane (Quello che di fatto possiedo) ma un Indrik evoluto. È bellissimo.
Lo raggiungo il interagisco con lui. Si lascia cavalcare e insieme proseguiamo sulla strada dove prima stavo camminando. La cavalcata è bellissima e mi da un senso di libertà, forza e controllo assurda. Mi piace.
Raggiungo gli altri, che nel mentre sono arrivati a un incrocio.
<<Guardate! È mio amico, mi ha accompagnato fin qui. È stato bellissimo cavalcare insieme!>>
<<Ah non avevamo capito che fossi rimasta indietro.>> Dice qualcuno, forse mia madre, con disinteresse mentre prosegua il discorso che stava intrattenendo con altre persone. Parlano di cose da fare, dove andare, e simili.
Mi sento un peso perché realizzo che non sono davvero inclusa, ma solo un di più. E nel sentirmi così ricordo che questa sensazione mi è familiare.
/// La provo basically ogni giorno? Duh. ///
E nel ricordare perché mi è familiare ricordo chi sono da sveglia e dunque che sto ora sognando.
Prendo il controllo e creo uno scenario diverso, poi mi ci immergo dentro e ne perdo il controllo tornando a sognare.
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rebyfab · 2 years
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Stiamo per chiudere definitivamente questo capitolo della nostra vita.
Stiamo per voltare pagina dividendo le nostre strade dopo un percorso tanto lungo quanto breve.
Non sono pronta, probabilmente non lo sarò mai, ma la mia mancata prontezza non basta per evitare che questo accada.
Posso solo sperare che la nostra storia abbia un ritorno, magari in futuro, magari in un’altro capitolo delle nostre vite.
Magari quando saremo entrambi nuovamente pronti ad investire completamente noi stessi in qualcosa che probabilmente ad oggi è troppo grande rispetto a noi.
Siamo cresciuti insieme ed è proprio per questo che non potrò mai dimenticarti né cercherò mai di farlo.
Devi scusarmi però, se cercando di andare avanti, lascerò qualche pezzo di me, di noi, lungo la strada.
Ad oggi io non perdo solo te.
Perdo un amico, un ragazzo, un sostegno, un papà , un complice, un amante e molto altro ancora.
Perdo i pranzi da tua nonna e le battute di tuo nonno.
Perdo i nomignoli di tuo padre e la gelosia delle tue cugine.
Perdo lo scodinzolio di Stricky ogni volta che mi vede da lontano e perdo la possibilità di essere la sua umana preferita dopo di te.
Perdo una casa, una camera, un letto e qualche cassetto della tua scrivania.
Perdo la possibilità di cucinare per due in quella cucina che troppo spesso ha assistito ai nostri litigi.
Perdo quella che per me è ed è sempre stata una seconda casa.
Perdo la possibilità di renderti e di vederti felice ma allo stesso tempo ti concedo il diritto di trovare la tua felicità al di fuori di me, perché la meriti.
In tutti questi anni mi hai dato e insegnato molto e sono sicura che tornerai a farlo.
Torneremo a crescere insieme quando la tua presenza non mi farà troppo male.
Quando il tuo starmi accanto non mi ricorderà più il vuoto che mi assale ogni volta che ti allontani da me.
Ho sbagliato tante cose in questi mesi, forse me ne sono resa conto troppo tardi o forse no, l’importante però è averlo capito.
Avrei voluto avere la possibilità di dimostrarti che potevo migliorare, potevo dimostrarti molto più di quanto non avessi già fatto però sono sicura di aver fatto del mio meglio, fino ad oggi.
Da domani le nostre vite saranno completamente diverse.
Dovrò imparare a convivere con la consapevolezza della nostra fine.
Questa notte però concedimi ancora un po’ di pace.
Questa notte permettimi di amarti come ho sempre fatto.
Lasciami piangere riguardando le nostre foto, i video, i messaggi e gli sguardi.
Perché alla fine sono quelli che fanno più male.
So per certo che i nostri occhi ne hanno sempre saputo e capito più di noi .
Sono sicura che almeno loro non smetteranno mai di guardarsi come fanno ora.
Sono sicura che se per caso, in una sera qualunque , dovessi incontrare il tuo sguardo tra la folla , mi guarderesti ancora come quel pomeriggio.
Quel pomeriggio freddo di febbraio che poi tanto freddo non era dentro casa tua.
Sono sicura che continuerai a gioire per ogni mio traguardo e a dispiacerti per ogni mio fallimento.
Sono sicura che ti chiederai ancora se ho mangiato o meno e io ti prometto che non salterò più nessun pasto, anche senza di te.
Ti prometto che riuscirò ad andare ad un ristorante senza dover chiedere a te cosa sarebbe meglio mangiare.
Ti prometto che riuscirò a completare un allenamento senza dover sentire il tuo “brava continua così”.
Ti prometto che non permetterò più a nessuno di amarmi come hai fatto tu, ed io da parte mia non riuscirò più ad amare nessuno come ho amato te, perché nessuno era mai riuscito a colpirmi così nel profondo , con nessuno ero stata così vulnerabile e non voglio più esserlo.
Ti prometto che cercherò di realizzare tutti i progetti che avevamo fatto insieme e se un giorno vorrai nuovamente condividerli con me, io ti aspetterò.
Ti aspetterò perché ad oggi, così come ormai più di un anno fa, io ho davanti a me quello che reputo l’amore della mia vita , il che è leggermente utopico per una ragazza di 17 anni, ma infondo lo sai che sono sempre stata una grande sognatrice.
Devo però mettermi da parte, per quanto male mi faccia, per permetterti di trovare quello che tu reputerai la tua metà, anche se non dovessi essere io a ricoprire questo ruolo.
Non dimenticarmi , non dimenticare ciò che abbiamo vissuto.
Ricordarmi come un bel capitolo della tua vita, perché io farò lo stesso.
Non rinnego nulla, nonostante il finale infelice, sono felice di aver vissuto tutto questo con te perché so che qualsiasi cosa accada non ci perderemo mai completamente.
In me ci sarà sempre una parte di te e spero che per te valga lo stesso.
Ricorda: mi troverai per sempre ad un passo da te, pronta a sostenerti.
Ricorda anche che i sassolini nel mondo non sono ancora finiti e che noi, prima o poi, riusciremo a riempire quel barattolo e dare finalmente un senso a quei due nomi scritti nella lettera del nostro primo mese insieme.
Sei speciale;
Per sempre tua.
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Il punto è che non riuscivo più ad aspettare. già da mesi preparavo questa spedizione. Avevo tentato di tutto per andarci con qualcuno ma nessuno mi aveva voluto seguire. Col senno di poi sono stato anche felice della cosa perché ho fatto degli errori tremendi.
Il piano era andare a vedere il luogo del ritrovamento di Otzi, a 3100 mt. sul ghiacciaio di Similaun, partendo in bici da Trento e usando un pò il treno e un po la bici.
13.00 partenza da Trento, 14,00 Bolzano, da Bolzano a dove devo arrivare sono solo 64 km, considerando che in media faccio 25km all'ora dovrei essere a Verlago massimo per le 6, e questo mi avrebbe dato tempo per trovare un posto dove dormire. Quanto mi sbagliavo.
In Alto adige le strade per le bici sono le ciclabili che letteralmente sono strade che non ci sono su google maps. Ma se entri è tutto chiaro solo che tocca trovarle e per trovarle si perde tempo. un 40 min per trovare la prima da Bolzano a Merano, appena la imbocco, via su un rettilineo liscio e tranquillo.
Vedo vecchi, Solo vecchi. Ho l'acqua sono riposato e tengo un bel passo. Lo sprint arriva quando vedo il culo di una ciclista e la seguo senza problemi con il mio metodo alla Hoffman per la respirazione e permettere anche al polmone simistro di dilatarsi ad un livello normale.
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Ci metto due ore ad arrivare a Merano. Non male. Mi mancano solo 34 Km per arrivare alla mia destinazione. Parto ma la ciclabile fuori città è in salita. Solo 45 gradi, ma costanti, senza pietà.
È la salita che porta al paese da cui parte il Passo dello Stelvio, che è vicino alla Val Senales, dove sono diretto.
Vado piano, perdo tempo, sudo un botto continuo. In 1h avrò fatto nemmeno 10 km. Troppo poco. Il telefono segna 2h all'arrivo, sono le 17.00, inizia ad essere tardi.
Finita la salita esco su una cicabile rettilinea, la via Claudia augusta che segue l'Adige. Da qui posso procedere dritto fino al valico. Imposto " Vernago" come destinazione, e mi accorgo che ad un certo punto devo svoltare.
Ovviamente passo il punto da svoltare, faccio 10 km in più, quando me ne accorgo, torno indietro, faccio una galleria di 1km con le macchine che sfrecciano, esco fuori, e trovo il cartello "Benvenuti in val Senales!". Il telefono muore, sono le 19.00
Sono al parcheggio degli autobus, all'imbocco della valle da lì partono tutte le corriere. "Bene penso, anche se dovessi passare la notte qui, domattina ci sarà un passaggio".Prima corriera di domenica 8.,42. 13 h di attesa. C'è un Hotel 3 stelle di fronte al parcheggio, chiuso e un ristorante in declino.
Ho due birre e mezzo kilo di taralli con me. Ceno con quelli. Passa un tre quarti d'ora e vedo la corriera che dovrei prendere sfrecciarmi davanti. Corro alla Fermata e so che mi ha visto perché sono l'unico essere umano nel parcheggio, ma no la corriera non si ferma, va avanti e imbocca una galleria, un'altra lunga 1km anche lei.
Che sia stata la birra o la poca voglia di vivere, mi sono caricato lo zaino su, ho raccattato le mie cose e mi sono messo a camminare con la bici in mano lungo il cordolo di emergenza della galleria per passare dall'altra parte, all'inseguimento di quella cazzo di corriera.
Uscito fuori, panico. Primo, ero consapevole che ero vivo solo per miracolo grazie al fatto che era sabato sera alle 8 e difficilmente un traffico esagerato sarebbe passato per quella galleria, ma io non l'avrei mai più rifatta. Secondo, di fronte a me strade di montagna con strada per auto, e roccia, e nient'altro, in salita e tornanti.
Il problema dei tornanti qui è che nessuno ti vede quando fai l'angolo. Puoi essere ben segnalato quanto ti pare ma se l'auto è sulla tua traiettoria non può cambiare finché non ti vede o non ti ha preso sotto. Preso dal panico inizio a salire.
Mi manca il fiato, ho mangiato, sono stanco. Ho fatto 60 km quel giorno e la salita è sfiancante. Seconda galleria. Provo a girarci intorno. Perdo tempo, la passo, esco fuori e al lato vedo un cantiere aperto.
Qualcuno stava tirando fuori i cavi dall'asfalto per cambiarli. L'asfalto spaccato in mezzo con i detriti ammonticchiati a destra e a sinistra su questa stradina laterale, rialzata dal bosco. in mezzo ad un passo di montagna.
Impedisco a me stesso di procedere. Anche se si vede da li in poi non so quanto a lungo la salita sarebbe durata. L'ultima cosa che il telefono aveva detto prima di morire era che ci volevano 2h per arrivare a destinazione e avevo fatto si e no 2-3 km da quando ero ripartito dietro la corriera.
Segue seconda parte, la notte
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io-pentesilea · 2 years
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(Quale ricordo di te porterò dentro di me?
Il mio primo sushi.
Sei appena tornato dalle vacanze e mi telefoni per invitarmi a pranzo.
'Sono alla Romanina. Se mi raggiungi pranziamo insieme'.
'Eh se non mi perdo...'
'Ma no, hai waze. E comunque se mi chiami ti spiego la strada'.
Alla fine faccio di testa mia, seguo waze e... ovviamente mi perdo!
'Perché sei una capocciona!!! Se seguivi le mie indicazioni...'
Finalmente arrivo.
'Oggi sushi'.
'Sushi??? Non l'ho mai mangiato... vabbè dai, proviamo!'
Come prevedibile, non so usare le bacchette... così chiedi al cameriere, che mi guarda divertito, una forchetta.
'No no' mi infiammo 'io non mollo e uso le bacchette! Che ridano pure!'
Alla fine del pranzo mi porgi il pacchettino con le bacchette e 'Allenati a casa'.
Scoppio a ridere 'Va bene...'
La sera della degustazione.
'Sabato c'è una degustazione di vini in un hotel di via Veneto. Ti va di venire?'
'Certo che sì! Me lo chiedi?'
Poi però mi informi che tuo figlio di ha chiesto di accompagnarti.
'Mi dispiace...'
'Tranquillo, lo capisco... divertitevi dai, sarà per un'altra volta'.
Mi organizzo la serata a cena da P.
Stiamo quasi per metterci a tavola quando arriva il tuo messaggio.
'Mio figlio è tornato a casa. Ti va di raggiungermi?'
Tentenno, ti dico che sono a cena da P. e che non mi sembra cortese...
'Sì hai ragione, non fa niente'.
P. capisce dallo scambio di messaggi che si tratta di te.
'Ma che sei scema? Tu ci vai!!!'
'Ma no dai, stiamo per cenare, hai preparato...'
'Ma chissenefrega! Avete così poche occasioni!!! Vai sennò mi incazzo!'
Ti raggiungo. Mi aspetti fuori dall'albergo. Piuttosto... alticcio...
Ci baciamo a lungo contro il muro dell'albergo stesso, incuranti dei passanti.
Poi entriamo, e cominci a spiegarmi... mi fai assaggiare i vini, alcuni prodotti, mi fai fare un giro per le sale aperte al pubblico...
Mi chiedi di riaccompagnarti alla macchina.
E quando saliamo sulla mia, a via Sicilia... ubriaco, eccitato, facciamo sesso in pieno centro di Roma.
È notte, ma qualcuno passa vicino alla nostra macchina 'Ma chissenefrega...'
Mentre guido, con la radio a tutto volume, batti la musica sul cruscotto, sulle gambe 'Dai, supera! Vai più veloce!'
'Sei ubriaco... dio, mi piaci ubriaco' rido.
Quando ti lascio alla macchina ti chiedo se pensi di riuscire a guidare. Mi rispondi di stare tranquilla...
'Sicuro? Posso accompagnarti a casa se vuoi'.
'Ma no, avrò bevuto sì e no un paio di litri di vino' ridi.
Quale ricordo portare con me?
Barbara)
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i-am-a-polpetta · 4 years
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@squittire best creatrice di catene carine che mi fanno piangere come se non ci fosse un domani, ha dato vita a questa che dice di scrivere le cose belle che ci fanno emozionare. Considerato che io abbia la stessa stabilità emotiva di Britney Spears del 2007, ho scritto giusto due barra tre cose che non solo mi fanno emozionare ma mi fanno anche piangere male (a volte) e la pubblico oggi perché è una giornata un po' difficilina:
Condividere i tramonti, ascoltare le persone che raccontano storie, i bacini, le carezze e i cerchietti sulle guance. Quando dico "fai a modo" e mi rispondono "anche tu, mi raccomando" o "ti ho preso questa cosa perché so che ti piace". Quando piove, quando c'è il sole, quando piove con il sole, quando nevica e quando tira un vento che ti sussurra le cose. Rendere felici le persone, andare in stazione e prendere i treni, i sorrisi fatti con gli occhi, mia mamma che sta bene, un regalo inaspettato, un concerto che attendevo da tanto, asciugare gli occhi ad una persona che ha appena pianto, sdraiarmi sul pavimento, quando qualcuno mi racconta le sue fragilità, quando il mal di testa è più leggero del solito e riesco a respirare, quando mi sveglio e riesco a vedere anche con l'occhio sinistro, quando riesco a suonare una canzone intera senza sbagliare niente, quando animali giocano tra loro, quando facevo salire Martino sulle spalle e andavamo a fare i giri in bici insieme. Quando fuori c'è freddo e io sono in casa a preparare la cioccolata, guardare le luci dell'albero di Natale che si accendono e si spengono, la mia panchina prefe, l'anima delle persone, quando riesco a risparmiare qualche soldino e usarlo per viaggiare o per fare regali. Quando entro in casa e c'è profumo di torta o quando abbraccio fortissimo una persona, quando mi arrivano messaggi tipo "ti voglio bene kla" e io non me lo aspettavo o "se sei arrivata sai già cosa devi fare" o "scrivimi quando arrivi". I capelli profumati, mantenere le promesse, arrivare a destinazione dopo un lungo viaggio. Quando mi perdo a guardare una persona e trovo che sia davvero bella, quando aiuto qualcuno in difficoltà o quando qualcuno resta nonostante io sia una persona difficile da gestire. Quando viene dato valore alle cose che sembrano non valere niente, quando qualcuno cucina del cibo buonissimo o si ricorda le cose che racconto. Quando mi mandano una foto e mi dicono "ti ho pensata", quando sono capace di voler bene alla mia vita, quando ascolto la musica, quando il mio papà mi chiama con quel nome carino che usa solo ed esclusivamente lui. Quando mio fratello viene da me e mi chiede se è bello, quando mia sorella mi racconta le sue giornate, quando vedo dei ragazzi che suonano per strada, quando erry mi telefona solo per dirmi che gli manco o quando matteo prende un bel voto dopo che abbiamo studiato tanto. Quando la mia capa è felice e canta, quando d'estate mi sdraio sul prato a vedere le stelle. Quando guardo la fiamma traballante delle candele, cucinare per le persone a cui voglio bene, fare le sorprese, presentarmi sotto casa di qualcuno telefonargli e dire "vieni giù". Quando mi addormento ascoltando un cuore che batte tranquillo, quando associo dei profumi ad un determinato posto, quando vado al mare e lascio che i miei pensieri vengano portati via dalla onde, quando dico grazie e chiedo scusa. Quando riesco a rivivere i ricordi senza rimanerci intrappolata dentro, quando trovo un vinile che cercavo da una vita o quando mi aspettano per mandarmi la buonanotte. Le fusa dei micini, le coperte caldine, quando il profumo di qualcuno ti resta addosso per giorni. Fare colazione insieme e "litigare" per chi paga il conto, le canzoni in macchina e i discorsi nei parcheggi, le albe aspettate svegli, i gelati sul lungomare e i giri in barca lontani da tutti. Gli sguardi che parlano, le parole sussurrate di notte, aspettare qualcuno in stazione. Le felpine che solitamente ti metti tu e poi le regali, quando una persona dice che con me sta bene o quando si ascolta il silenzio insieme. Quando le mani si trovano e si stringono anche quando credevo che l'altra persona stesse dormendo, le casette sugli alberi, le letterine scritte a mano piene di sentimenti e credo anche l'amore, quello semplice, incondizionato e libero.
E tante, tantissime altre cose.
Raga voglio continuare a piangere perciò taggo:
@gubel-gabol @geometriche @vogliofarelafotografa @implosioni @giovaneanziano @problemino @mostri-ciattolo @sbrodolare @souvlakispac3station @arzigogolaando @saturnalia-luna @mortetempo @scrivoeavoltelanottedormo @givemeanorigami @brioschi (solo se vi va)
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paroleincroce · 4 years
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Se ho bisogno di sicurezza perché cazzo trovo solo persone insicure lungo la strada? Che poi mi tocca far da crocerossino e disintegrarmi in mille pezzi da incastrare nei piccoli spazi vuoti lasciati dai tuoi ex ragazzi. Che poi do ogni piccola parte di me, che diviene parte di te e mi perdo come una zolletta si dissolve nel the (non volevo finisse in rima ma vabe), porco schifo.
Non ho bisogno d'altra insicurezza.
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Aria grecanica
Un urlo lancinante attraversa l’ampia distesa di ghiaia. Nel silenzio e nella pace delle 8 di una domenica mattina, quel grido di dolore mi blocca in gola l’ennesimo pezzo di pane e marmellata che stavo golosamente buttando giù e manda in miseria l’ultima parte di quel momento sacro che è la colazione. “È appena iniziato ottobre, un po’ presto per ammazzare il maiale” mi dice il proprietario dell’agriturismo che mi ha ospitato la notte precedente, vedendomi turbato per quanto stava accadendo nelle vicinanze. Intanto i lamenti del povero animale continuano a risuonare. “Forse lo stanno castrando” si corregge. Butto giù un po’ di succo di bergamotto, mi alzo e cerco con lo sguardo di localizzare nella scarpata di fronte la provenienza esatta di quel guaito. “Forse era meglio se l’ammazzavano” conclude Ugo.
Inizia così la mia seconda giornata sulla fiumara Amendolea. L’appuntamento è alle 8:30 proprio qui all’agriturismo. Approfitto del ritardo degli altri per contemplare la Rocca del Lupo e la distesa di bergamotto che ho proprio sotto il naso. Sono arrivati. Siamo una “murra” (tanti). Briefing iniziale e si parte. “Quello di oggi è detto anche informalmente sentiero dei cancelli” dice Andrea. E capisco subito il perché: non facciamo altro che aprire e richiudere cancelli che servono evidentemente a contenere gli animali. Seguo Aria in testa al gruppo che mi porta proprio sui ciottoli dell’Amendolea. Scodinzola felice. Capisco che quello è il modo giusto con cui affrontare la giornata. La imito.
Si sale per un paio di ore lungo mulattiere. La fame mi porta a scuoiare fichi d’India, qui abbondantissimi. Incontriamo un pastore sulla sua vespa stargata. Gli chiedo una foto. Si concede. Gli dico di fare attenzione perché è sul ciglio del dirupo. Con un sorriso mi fa capire che non è il caso di preoccuparsi. Ci saluta e scompare dietro la curva sterrata. Ci siamo quasi. Ecco la strada asfaltata adesso. A lato una serie di casupole. Frigoriferi coricati e vasche da bagno fungono da abbeveratoi per gli animali. Capiamo che siamo arrivati davvero vedendo alcune bandiere: so’ greche.
Sono le 13 in punto. Aria arriva in città. Una lontana, piccola sagoma nera la mette all’erta. Si immobilizza per alcuni secondi. Parte il flauto de “Il buono, il brutto, il cattivo”. In breve decide di sferrare l’attacco. Il primo gatto se la svigna se la svigna arrampicandosi su un muro. Aria annusa per terra come fosse un segugio, sente altre prede nelle vicinanze. Si intrufola per le viuzze. La perdo di vista. Sento che sta seminando il panico. Dopo pochi secondi un gatto ci taglia la strada alla velocità della luce con Aria al seguito. I gatti più piccoli, i più indifesi, si sono rintanati su un balcone davanti ad un uscio di una casa, proprio nella piazza centrale. Aria abbaia. Ha vinto. Ha espugnato Gallicianò.
È l’ora del panino. Mi piazzo davanti al bar, sotto ad una piccola vecchia insegna del telefono. Roba vintage per davvero. Mi sdraio. Prego affinché il balcone malconcio sopra di me non renda eterno questo mio momentaneo riposo.Il bar così come anche la trattoria del paese sono aperti su richiesta. Chiedi e dopo un po’ arriva qualcuno ad alzare la serranda. Pochi minuti dopo l’apertura ecco anche il ragazzo in vespa di prima. Si gode una Peroni insieme ai viandanti forestieri.
Io mi perdo in cronache di maiali castrati ed inseguimenti canino-felini, ma se fossi una persona seria dovrei raccontare un’altra storia, dopo quelle di Roghudi e di Africo, a dir poco interessante.
Gallicianò è la vera roccaforte della grecità aspromontana. È un posto prezioso perché qui resistono le ultime tracce della cultura e tradizione grecanica. Infatti si parla ancora il greco di Calabria. Forse perché è stato uno degli ultimi posti ad essere raggiunto dall’asfalto. L’isolamento quasi totale ha avuto il risvolto positivo di proteggere nei secoli questa lingua antica risalente alla dominazione greca, non so quanti secoli prima di Cristo. Adesso qui il telefono mi segna tre tacche su quattro e una stradina, anche se malmessa, c’è. Quel poco di progresso ha messo a repentaglio le antiche tradizioni elleniche del posto. Il greco lo parlano principalmente gli anziani e morirà se i suoi 35 abitanti, prevalentemente pastori, non riusciranno a tramandarlo.
Mimmo, un gallicianoto DOC dalla grande cultura, nonché Cicerone del paese che meriterebbe un articolo a sé, ci conduce prima nel museo etnografico, poi alla chiesetta ortodossa. È tardi e dobbiamo iniziare a scendere. Mimmo ci saluta con un rincuorante “kalispéra”.
Passiamo dalla piazza dove un gruppetto di persone gioca a carte. Per fotografarli perdo di vista quasi il gruppo. Appena lasciato il paese una tarantella in lontananza pare volerci salutare. Si torna alla base ma da un percorso diverso dall’andata. Sempre aprendo e chiudendo inferriate, di tutti i tipi. Alcune staccionate fatte con le reti del materasso, risultano essere quasi delle opere di arte povera inconsapevoli che esprimono tutto il senso di precarietà, ma anche la capacità di arrangiarsi di queste persone. Ci imbattiamo in un Pandino 4x4, l’unico mezzo ammesso da queste parti. Dentro ci sta riposando qualcuno. Una carovana di trenta persone gli passa accanto senza svegliarlo.
Riecco l’Amendolea, questa volta da un punto di vista inedito. Da qui la fiumara è davvero suggestiva. È ampia, serpeggia tra le montagne in maniera sinuosa, la sua forma zigzagante mi fa intendere che la sua poca acqua non ha fretta di tornare al mare.
Arriviamo giù. Ci togliamo le scarpe e ci bagniamo i piedi nell’Amendolea per poi asciugarli con l’ultimo sole che queste montagne ci concedono. Io e Aria camminiamo da ore, la stanchezza si fa sentire e il cielo si è improvvisamente coperto. Meglio andare. Perché a breve, come diceva una canzone, “potrei evaporare e diventare nuvola, magari un temporale”.
(presso Fiumara Amendolea)
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sciatu · 5 years
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Alba sullo stretto
TRE DONNE : ADRIANA
Lo svegliò il telefono con il trillo che mandava quando arrivavano i messaggini. Aprì gli occhi e guardò nel buio la sveglia. Erano le cinque della notte. Mandò a ‘fanculo chiunque fosse stato a mandare il messaggio. Ora non si sarebbe più riaddormentato. Poi pensò che se qualcuno scriveva a quell’ora voleva dire che c’era un problema, cosi allungò la mano e cercò di capire chi era “Hai visto Adriana? È da ieri che nessuno sa dov’è” Chi scriveva era sua cugina Patrizia preoccupata per la pecora nera della famiglia, la loro cugina Adriana. “No, è una settimana che non la vedo” scrisse preoccupato “Ha litigato con sua madre ieri mattina e non l’abbiamo più vista” La velocità con cui sua cugina Patrizia aveva risposto voleva dire che era veramente preoccupata “Hai chiesto a Franco?” “Ha risposto che di lei non ne vuol più sentire parlare. Se ne sta andando a Milano a lavorare” Se Franco se ne andava voleva dire che lei era sola, e quando lei era sola allora il Male tornava a prenderla e lei faceva le sue solite stronzate. “Ora vedo” Rispose semplicemente e si alzò. La moglie mugugnò qualcosa avvolgendosi ancor di più nelle coperte. “Non trovano Adriana, vado a vedere” Fece lui mentre al buio cercava i vestiti. Lei mugugnò ancora qualcosa poi la sentì tornare a respirare regolarmente. Si mise il giubbotto pesante e il cappello di lana come quando usciva in barca di notte per pescare. Non era ancora l’alba e per fortuna il mare era ancora quieto. Le onde lunghe risalivano la spiaggia devastata dalle precedenti mareggiate e ricoprivano o riempivano le buche e gli squarci che la settimana prima avevano fatto lungo la costa. Uscì per la strada gelata sotto la luce gialla dei pochi lampioni, dalla strada Nazionale giungeva il frusciare lento delle macchine dirette a Messina. Al bar sulla piazzetta del municipio c’era una luce fioca e un buon odore di cornetti caldi mischiato con quello del caffè. Entrò e ordinò un cappuccio con doppio caffè. Si prese anche un cornetto alla ricotta per fronteggiare meglio la ricerca che poteva essere anche lunga. “Vidisti ad Adriana?” Chiese con indifferenza al barista che aveva ancora gli occhi rossi per la levataccia. “mi dissi Tonio ca visti camminari latu muntagna mentri mi stava puttannu i briosci. Era vicinu o Capu. A mumenti a nvistia cu fugguni, sa visti i frunti prima da cuvva o Capu” Lui fece un segno con la testa come a ringraziare per l’informazione ma non commentò Il barista si allontanò pulendo il bancone con una pezza come a sottolineare che a quell’ora del mattino, non voleva sapere ne come ne perché, di Adriana o altri. Mentre beveva ragionò. Se Tonio la stava investendo prima del promontorio mentre lui veniva dal paese dopo il Capo, voleva dire che Adriana stava andando proprio li dove la costa diventava un promontorio che divideva due grandi golfi. Era un posto pieno di anfratti e piccole baie rocciose nascoste, un ottimo posto per gli innamorati o per i disperati che volevano stare soli. Adriana andava spesso li quando il Male le scendeva dentro l’anima spegnendole ogni luce. Prese la macchina e si diresse verso il capo. Si fermò poco Prima che la strada diventasse una curva a gomito e da una baia si passava all’altra e parcheggiò in uno spiazzo scavato nella roccia alla cui base correva la strada. Scese quindi verso il mare percorrendo un sentiero costeggiato da cespugli di rovi ed oleandri, attraversò la ferrovia che a stento stava tra la montagna e il mare, raggiungendo la spiaggia ghiaiosa. S’incammino verso la punta del promontorio mentre la spiaggia incominciava a coprirsi di grandi massi che le mareggiate avevano arrotondato. Guardò attentamente tra le pietre scure. Non era ancora l’alba anche se dietro le Calabrie si vedeva l’aureola chiara del sole ed il cielo si stava colorando d’arancione. Davanti a sé percepì un movimento. Una sagoma scura si dondolava avanti e indietro. Era lei, ne era sicuro perché quando il Male la prendeva, lei si raggomitolava sempre in una posizione fetale dondolandosi come fanno i bambini quando non hanno nessuno che può cullarli dando loro quel calore che era amore. L’aveva già vista così molte volte. La prima volta quando a sei anni doveva tornare domenica pomeriggio nell’orfanotrofio dove sua madre l’aveva rinchiusa. Suo padre se ne era andato in Germania a lavorare, aveva detto per un mese, invece, non tornò più; non voleva che la moglie lo raggiungesse per vivere all’estero con lui, così sua madre, che non voleva crescere sua figlia da sola, l’aveva messa tra le orfanelle e se ne era andata a lavorare in città dove aveva conosciuto uno che era poco raccomandabile. Adriana passava il week end con loro o con sua cugina Patrizia, cercando quello che per tutti gli altri bambini era la normalità e la domenica tornava nell’orfanotrofio. Lei era attaccatissima a suo padre e la sua assenza, l’orfanotrofio, l’indifferenza con cui sua madre la trattava, quasi non fosse sua figlia, ma uno sbaglio che non poteva più cancellare, le avevano fatto nascere dentro il Male. Per quello che aveva fatto ad Adriana lui odiava quella sua madre che non era una madre, ed anche se era sua zia, lui non la chiamava mai così, perché se tu fai del male a tua figlia, non meriti neanche un nome. Sei una cosa, come una pietra o una bottiglia di plastica. Per anni aveva visto il Male divorare Adriana e per anni aveva odiato sua madre, di un odio che non confessava a nessuno ma che era sempre più forte e cattivo anche se ormai lei era vecchia e decrepita e avrebbe dovuto suscitare solo pietà. La odiava perché aveva donato ad Adriana la vita ed il suo opposto, il Male appunto, l’impossibilità di vivere quella vita che le aveva dato. Se si vuol vivere serenamente, non bisogna portare dentro di se contraddizioni, è così che si può vivere accettando tutto quello che il domani ci lascia. Ma se se invece uno ha l’ anima piena di contraddizioni come un vecchio mobile pieno di tarli, allora si diventa diavoli o poeti o folli ed Adriana riusciva ad essere tutto questo suo malgrado. Viveva i suoi giorni come una barca nella tempesta e mentre il vento e il mare, il Male e sua madre, la spingevano al largo lei cercava disperatamente di raggiungere una sicura e tranquilla riva, una sicura e normale quotidianità senza mai riuscirci. A volte lottava contro il suo Male e per mesi sembrava normale perché così voleva far credere o forse perché era lei a voler credere che la sua anima tradita da chi doveva amarla, si fosse data pace, dimenticando. Ma non era così. Non si dimentica l’infanzia che non si è mai avuta. La nostra infanzia è uno stampo che ci forma per sempre, ci dona i semi di quanto crescendo saremo. Cosi in lei la quotidiana normalità diventava presto esagerazione, un eccesso per cui finiva nei guai, quando si ubriacava, o la trovavano stordita dalle droghe o tradiva chi l’amava e che anche lei, maledettamente, amava perché alla fine non sapeva gestire il suo amore dato che nessuno glielo aveva insegnato, nessuno le aveva fatto provare il piacere e la sicurezza di amare naturalmente e semplicemente. Poi veniva il Male. I dottori la chiamavano depressione e la riempivano di pillole di tutte le forme e colore, ma tutte le pillole che le davano non potevano guarire la sua anima. Per quella, le pillole non servono. Lei gli aveva spiegato che era come se la vita diventasse una montagna e la schiacciasse ogni minuto sempre di più, negandole ogni forza, impedendole di credere che ci fosse un domani prosciugandole ogni amore e con esso ogni speranza in una vita diversa. Era un’inquietudine dolorosa, un non vedere e non sentire pur vedendo e ascoltando, era come andare al largo in una barca senza remi o essere chiusa in una bottiglia insabbiata nella spiaggia. Se ne era andata da casa e tra alti e bassi aveva vissuto come chi, pur innocente, doveva scontare un ergastolo. Sua madre poi era tornata, malata e cattiva, perché il suo uomo lo avevano trovato in un parcheggio con la testa colpita da un colpo di fucile e il cervello sparpagliato tra le macchine. Lei ora l’accudiva e la serviva, ed era trattata ora da serva, ora da figlia ritrovata, ma alla fine considerata meno del gatto di casa. Era per questo che il Male tornava ad assalirla quando sua madre era più acida del solito o quando chi in quel momento amava non sapeva capire i suoi silenzi, il suo spegnersi e perdersi, non aveva abbastanza amore da farle dimenticare quello a lei negato da sempre e che da sempre Adriana cercava per trovate la sua pace ed il suo senso nella vita. Spense la torcia del telefonico che aveva usato per orientarsi al buio e si avvicinò alla sagoma. Lei non gli fece caso dondolandosi e tremando per il freddo. Lui si levò il giaccone e la coprì stringendola e aspettando che lei parlasse. Quando era così era inutile parlarle, bisognava che tornasse nella realtà di tutti, uscendo da quella in cui si era rinchiusa. Aspettò qualche minuto, stringendole le mani fredde, mandando un breve messaggio alla cugina che l’aveva trovata poi lentamente apparve una piccola fetta di sole e lui osservò stupito il cielo diventare d’oro. “Hai visto, è l’alba” Le disse sperando di farla tornare alla vita. Lei continuò a dondolarsi mentre il sole, indifferente come tutta l’umanità al suo dolore di figlia rifiutata, continuò inesorabile a risplendere sempre di più. “Lo sai che è inutile piangere … lei è così … una stronza egoista! Non devi far caso a lei e a tutte le stronzate che dice: lei nella vita ha avuto un unico scopo: farsi odiare. Non ne vale la pena prendersela” Adriana singhiozzò e le uscì solo un filo di voce “ha detto che vuole andare in banca per cambiare il conto perché io le rubo i soldi. Capisci? Io le rubo i soldi dopo che perdo tutta la mia giornata con lei…” “tu dissi: è na rannissima strunza…” fece lui tagliando corto mentre la rabbia gli bolliva dentro Eppure non poteva solo sparare a zero su quella vecchia stronza “poi ormai è rincoglionita! Non è che puoi pretendere che ragioni come me o te. Lo sai che ad una certa età si perde il contatto con la realtà e non riusciamo più a capire dove finisce quello che tocchiamo e dove iniziano i nostri sogni o incubi. Devi lasciare perdere ed avere pazienza. Devi pensare a te stessa, dopo tutto lei in tutta la sua vita ha pensato solo a sé stessa” Pensò che le stava dicendo di fare quello che sua madre aveva fatto con lei, come se assomigliare al lupo potesse salvare l’agnello. Non avrebbe mai trovato le parole giuste da dirle per guarirla e forse non erano le parole che potevano guarirla. La strinse ancora di più per scaldarla e non solo nel corpo. Avrebbe preso il sole e glielo avrebbe messo in grembo se fosse servito a scaldarla e farle dimenticare tutto il freddo che sua madre e suo padre le avevano donato, l’indifferenza con cui l’avevano cresciuta, tutto quell'amore che non avevano saputo darle e di cui lei continuava a chiedersi il motivo, senza capirne la ragione, odiando sé stessa loro e tutto il mondo. Ma non era capace di darle quella pace che cercava, di regalarle quella notte d’agosto in cui il vento si calma e le stelle brillando sanno la risposta a tutti i dubbi e perché. Non ne era mai stato capace in tutti quegli anni che aveva cercato di proteggerla da sé stessa, capace solo di odiare i suoi senza saperla ascoltare, capire e alla fine salvare. Il sole ormai brillava nel cielo e ne accendeva l’azzurro intenso donandogli una bellezza immensa che dava vita al mondo. Restarono in silenzio. Le onde tornarono a crescere, il vento lentamente aumentò, delle barche dai colori sgargianti e dal motore scoppiettante passarono davanti a loro cacciando via il silenzio e i pensieri inutili che li ammutolivano. “Andiamo a prendere qualcosa? – chiese lei – ieri non ho mangiato” “Si anch’io ho bisogno di un altro caffè” Rispose lui, contento che lei tornasse a vivere. Si alzò e l’aiutò a fare altrettanto e stringendole la sua giacca sulle spalle le prese la mano e la porto via dalla sua oscura disperazione. Succedeva così anche da bambini; lui la prendeva per mano e la portava in giro parlandole di cose stupide, solo per non farla pensare o ricordare la sua solitudine. A pensare a loro due sulla spiaggia con lui che la portava ancora per mano ed il vento che le giocava con i suoi capelli, lui si disse che in fondo, anche se ormai non erano più ragazzi, erano rimasti gli stessi bambini di allora, come tutti quelli di cui la vita si dimentica.
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stanzadie · 4 years
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LEGAMI
La stoffa cede al terzo colpo. Lo strappo è molle ed estenuante.
Ti guardo stupita, gli occhi in fiamme.
Apro la bocca e rimane così, priva di suono.
"Giochiamo?" avevi detto.
Giochiamo.
Non era proprio questo che intendevo
Il mio slip è candido trofeo tra le tue dita, adesso.
Lo porti alle narici e ne aspiri l'umidore, ti strofini il tessuto sulle labbra, senza smettere di fissarmi. Diabolico.
"Adesso sistemiamo anche l'altra mano, mia cara"
Prima che tu riesca a prenderla, ti affondo le unghie nella guancia e un rivolo rossastro si fa strada sulla pelle.
Porti un dito sul varco sottile. Guardi un istante il sangue vivido che lo ricopre. Lo lecchi, sorridi nuovamente.
"Cattiva bambina, molto cattiva"
Un lampo di vittoria crudele mi colora le pupille.
Ti avvicini nuovamente, più cauto stavolta.
Tento di sferrare un nuovo attacco ma precedi il mio intento: mi afferri il polso e in un istante lo inchiodi alla sbarra in ottone, coi brandelli dello slip.
"Fa' la brava, abbiamo quasi finito"
Braccia e gambe divaricate. Annodate agli angoli del calorifero. Lo specchio rimanda l'immagine di una X palpitante e balorda. Sono io?
Sosti immobile al lato della tua opera incompiuta. Non sei soddisfatto.
Mi osservi con cura, la stanghetta degli occhiali sospesa tra le labbra, meditando sul da farsi. Quando poggi gli occhiali sul comodino capisco che hai deciso, te lo leggo nelle fessure luccicanti che accerchiano il naso regolare. L'attesa mi eccita dilatandomi ogni poro e annebbiandomi la testa.
Intingi un dito nella pittura umana che ti ho fatto versare, disegni due cerchi rossi attorno ai capezzoli.
Lo sfregio mi rende furiosa, il corpo reagisce strattonandosi, vorrei rimuovere i legacci e fare nuovo scempio di te con le unghie affilate.
Ma il dito è fresco pennello, i capezzoli si inturgidiscono all'istante. Ne prendi uno tra il pollice e l'indice. Lo avviti, lo temperi come l'ultima delle tue matite. Lo sollevi verso l'alto e lo lasci ricadere senza troppa grazia incurante delle mie proteste. Piuttosto flebili.
Avvolgi l'altro con la bocca calda: lo succhi, con cura, metodico. Ti stacchi di colpo e soffi sulla chiazza umida, un brivido s'inerpica per la mia schiena.
"Il gioco ti piace, mia cara?"
Nuda. Annodata a un calorifero bollente. Di fronte alla finestra di un ufficio brulicante di manichini annoiati.
Piace si.
Il buio ed una tenda proteggono da occhi estranei la densa viscosità che scorre nella nostra stanza dei giochi.
Giro appena lo sguardo sugli esseri intenti in altre manovre: fotocopie, telefoni, pc, tuttoè lontano anni luce dal senso che si consuma qui, a pochi respiri di distanza.
Torno a te.
Sei tu il fulcro della mia attenzione in questo macroscopico istante: torpido ti spogli, con maestria, come se non avessi fatto altro nella vita. Scivola la cravatta, si dilegua la camicia. La luce scura che intravedo nelle pupille mentre sfili la cintura in pelle quasi mi spaventa. Ignorare le intenzioni altrui è cosa nuova, mi rende elettrica. Il tuo corpo lucido riaffiora dalla pozza dei vestiti d'ordinanza, quelli da uomo distinto, e mi dedica una decisa erezione. D'improvviso l'impotenza della mia prigionia mi fiacca, sono preda braccata dalle mie stesse voglie: slegami, prego. Devo morderti quel centimetro quadrato alla base della nuca, ne ho bisogno: sentirne la consistenza, il sapore. Dolce. Salato? Aiutami, prego.
Ancora più lento ti avvicini, mi esplode il cuore e scandisce il percorso inarrestabile del mio languore: sgorga sotto lo sterno e mi riaffiora tra le gambe strabordando ogni argine.
Scivoli nello spazio che mi divide dalla finestra, e mi stringi da dietro. Ogni centimetro della tua carne aderisce alla mia, ogni incavo della mia forma si riempie della tua presenza, siamo un unico grumo indefinito al centro dell'inutile universo che ci ignora.
Metallo rovente preme le mie natiche, terribile agonia, farei qualsiasi cosa per potermi muovere adesso.
Mi sciogli dall'abbraccio senza preavviso, e il freddo della brusca assenza della tua carne è pugno nello stomaco. Ho il sangue al cervello quando i tuoi occhi eccitati mi sono di fronte. Mi tendo come un arco, la carne dei polsi sfrigola sotto i legacci, ma brucia meno della voglia della tua bocca. Me ne approprio, con violenza. La lingua ti aggancia, ti riavvicini finalmente. Esploro le storture dei tuoi denti, indugio, delicata, poi no, con forza. Ti lascio e poi ti mordo, lambisco le gengive, succhio le tue labbra, a turno, sotto, sopra, assaggio la tua saliva fin quando il mio sapore si mescola al tuo.
Aspiro il tuo odore di bimbo perverso, mi sciolgo al vapore lieve del tuo sudore. Mi accordo alla profondità del tuo respiro.
"Slegami" ti supplico.
Mi ignori. Ti odio . Mi odio, per avertelo chiesto. Afferri il volto con delicatezza, lo tieni ben fermo di fronte al tuo. Vuoi che ti guardi mentre la mano scivola lenta lungo i nervi doloranti del collo, sul fianco abbronzato. Devia improvvisa al ginocchio, si allarga, risale la morbidezza dell'interno coscia lasciando lividi indelebili che domani conterò. Si sofferma in un punto esatto. La curva in cui la consistenza vellutata dell'arto cede spazio ad altri luoghi.
Ho il pube rasato da poco. Non era per te, ma adesso lo è. Le tenebre te lo avevano nascosto, e la sorpresa ti si stampa sulla faccia annientando il sorriso sfrontato.
Tratteggi numeri primi immaginari sulla pelle liscia e rigonfia del mio sesso, ma il respiro corto ti tradisce dandomi l'illusione di essere padrona del gioco.
Un dito guizza nella mia morbida ferita, strappandomi un gridolino soffocato. Lo rigiri a fondo, gli imprimi una pressione che mi stringe il cervello in una bolla incandescente. In un attimo sono lava tra le tue mani, tremo per lo sforzo di non piegare le ginocchia prive di volontà, potresti chiedermi qualunque cosa, ora, e la sapresti. Per fortuna non lo fai. Una mano tra le cosce ed ecco la fine della guerra, signori e signore! Arma biologica sublime.
Una lacrima scende giù dall'angolo del mio occhio destro. Non è dolore, è rabbia per la sconfitta imminente.
Lasci il volto imprigionato
"Smettila." dici
Abbasso lo sguardo per l'imbarazzo.
Sciogli i lacci, prendi i polsi tra le tue mani e li baci a lungo, lì, dove la pelle è rigonfia e dolente. Poggi le labbra sugli occhi liquidi, uno ad uno. Con la lingua morbida rimuovi le tracce del mio orgoglio violato, e mi tieni così, stretta, avvinghiata.
Ti ho impietosito, infine. Hai frainteso l'orgoglio del guerriero oltraggiato e concedi una tregua. Da brava amazzone approfitto del vantaggio concesso meditando la punizione che ti spetta.
Mi accingo all'azione.
Invece no. Non l'hai bevuta.
Mi sollevi di peso.
Mi sbatti sugli elementi del termosifone divaricandomi a forza le gambe. La sorpresa mi immobilizza facendomi gemere di piacere. Non sento la pelle ustionarsi all'alta temperatura, non c'è un briciolo, di me, che non reclami quello che sta per compiersi in quel preciso spazio, qualunque, qualunque cosa sia. Mi entri dentro furioso, le mani annodate alle tende, vibrando una prima scudisciata incandescente. Chiudo gli occhi all'istante, mi aggrappo alle tue spalle temendo che tu decida di andar via. Non andar via. Perdo ulteriore percezione di me: non so come accada, mi rivolti come un guanto ed ora ti sono di schiena, la faccia all'ufficio di fronte, ad angolo retto sul davanzale su cui faccio leva con le braccia tentando di non smuovere la tenda che ci nasconde. Sono una straccio informe e palpitante, una leonessa che agogna la monta del suo capobranco. Sento le mani forzare l’ingresso del mio corpo, con precisione chirurgica, e in un istante mi squarci aggrappandoti ai seni. E' di dolore, stavolta, che gemo. E piacere. La pressione comprime muscoli celati e le fitte si propagano concentriche nella mia testa fino al punto del non ritorno. Non basta a impietosirti.
Neanche lo vorrei.
Continua.
Prego.
Continua.
Di fronte un omino stempiato si avvicina al vetro. Rivolge uno sguardo distratto nella nostra direzione soffiando sul caffè.
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larrystylynson28 · 4 years
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Adore you (capitolo 1)
Il suono insistente e fastidioso della sveglia si fa strada tra i cuscini, fino a raggiungere il suo obbiettivo. Schiudo gli occhi e mi metto a sedere sul letto. Odio la scuola, no l'ho mai sopportata. Un pò a causa della mia negazione per lo studio, un po' per il cibo, un po' per i professori e un po' per le sedie ultra scomode su cui sono costretto a stare per cinque ore. Ma soprattutto odio la scuola per quello stronzo di Louis Tomlinson e dei suoi amici. Da quando ho messo piede in quella scuola, tre anni fa, non hanno fatto altro che causarmi problemi. Fortunatamente questo è l'ultimo anno che dovrò sopportarlo, poi se ne andrà al college e non lo rivedrò mai più. Sospiro, mi alzo dal letto ed apro le finestre. La luce del sole invade la stanza, illuminandola e riscaldandola. Vado in bagno e prima di entrare nella doccia mi guardo allo specchio: ho le occhiaie e i miei capelli sono fuori controllo. Alcune ciocche ricce mi cadono sulla fronte, ma non ci faccio caso, e dopo essermele scostate dalla fronte entro in doccia. L'acqua calda mi rilassa immediatamente e mi fornisce calma e tranquillità, elementi importanti per superare una giornata dentro quella scuola. Gli unici amici che sono riuscito a farmi in tre anni sono Liam e Niall. Loro sono fantastici. Sono i classici ragazzi che tutti vorrebbero come amici e che le madri vorrebbero per le proprie figlie. Sono educati, gentili, simpatici e sempre molto protettivi. A volte mi chiedo come farei senza di loro. Con questi pensieri esco dalla doccia e mi avvolgo un asciugamano intorno alla vita. Prendo il telefono e chiamo mamma, che al secondo squillo risponde con voce felice e squillante.
<Tesoro finalmente mi hai chiamata! Ero così in pensiero....non ti sei fatto sentire per tre giorni>
<Hai ragione, scusami. Sono stato impegnato e non ho trovato il momento di chiamare. Come sta Gemma?> chiedo cambiando argomento.
<Sta benissimo! Lei e Jake stanno organizzando tutti i preparativi per il matrimonio e sono così felici> sento che si sta per commuovere, quindi la saluto e dopo avermi detto tre volte di fila che gli manco si decide ad attaccare.
Ultimamente non l'ho chiamata molto e mi sento veramente in colpa. Ricordo che qualche settimana fa, quando ho annunciato che sarei andato a vivere da solo per seguire meglio le lezioni e non arrivare sempre tardi, mamma é scoppiata a piangere e non la smetteva più. Per mia fortuna Gemma é riuscita a calmarla e a farle capire che era la cosa migliore se non voleva che perdessi l'anno. Dopo aver indossato un paio di boxer neri, tiro fuori dall'armadio una t-shirt grigia e dei jeans neri attillati. Prima di uscire tento di sistemare invano i capelli. "Dovrei tagliarli" penso tra me e me, mentre chiudo a chiave la porta di casa. Essendo Settembre ancora fa molto caldo e molte ragazze sullo scuolabus indossano pantaloncini e mini gonne. Noto che una ragazza mi fissa e quando mi giro per guardarla distoglie lo sguardo imbarazzata. Quando arriviamo davanti scuola, o meglio inferno, mi catapulto da Liam e Niall, che sono appoggiati al muretto davanti all'entrata.
<Ciao ragazzi che fate?> chiedo avvicinandomi.
<Niall mi stava raccontando della ragazza con cui é uscito ieri>
<Non dovevi uscirci domani?> chiedo confuso.
<Si. Ieri lei é riuscita a staccare prima dal lavoro e siamo andati a cena insieme. É stato bello! É una ragazza molto intelligente e molto simpatica. Sono sicuro che se la conosceste ci diventereste amici>
Annuisco per circa venti minuti mentre Niall continua a raccontarci del suo, testuali parole "incredibile, magico, speciale e perfetto" appuntamento. Quando finisce di raccontare ha un sorriso idiota sulle labbra e Liam scoppia a ridere. Non avevo mai visto Niall così preso da una ragazza e sono felice che lei lo renda così spensierato. Il suono della campanella ci distrae, ma prima di riuscire ad entrare una voce profonda e fin troppo familiare ci blocca. Ci voltiamo e subito i mio occhi entrano i contato con quelli blu di Louis. La sua bocca si apre in un sorriso perfido e pian piano avanza verso di me. Sento una leggera stretta alla stomaco e non capisco per quale motivo. Forse ho solo paura che possa picchiarmi o deridermi davanti a tutta la scuola. Abbasso lo sguardo e inizio a percepire le mani sudate.
<Come va frocietto? Hai succhiato molto durante l'estate?> dice ridendo.
I suoi amici ridono sonoramente in coro con lui, fatte eccezione per il ragazzo dai capelli neri, gli occhi dorati e la pelle ambrata. Lui resta in silenzio e guarda, apparentemente privo di emozioni, Louis. Non so perché pensi che io sia gay, insomma mi piacciono le ragazze. Credo. No, anzi ne sono sicuro. In passato ho avuto alcune ragazze e anche se con nessuna di loro é successo qualcosa di eclatante qualche bacio ce lo siamo scambiato. Inizio ad avvertire il peso degli occhi di Louis ne miei e distolgo lo sguardo mordendomi il labbro inferiore. Se possibile il suo sorriso perfido si allarga ancora di più. Si ferma a pochi centimetri da me e ridendo dice <oggi sei fortunato. Non ho voglia di farti niente, solo...evita di guardarmi in modo innamorato per i corridoi, oppure penseranno che anche io sia un finocchio> e se ne va con i suoi amici. Resto immobile qualche secondo, a fare dei respiri profondi e a calmarmi un pò. La strana sensazione alla bocca dello stomaco se n'é andata, così come il groppo in gola. Odio l'effetto che mi fa tutte le volte. Quando mi guarda con quegli occhi blu cielo non riesco più a parlare.È come se le parole mi morissero in gola.
<Harry dobbiamo entrare. Alla professoressa di matematica non piace attendere> dice Niall interrompendo i miei pensieri.
Annuisco e li seguo dentro l'edificio che odio di più al mondo. Raggiungiamo l'aula di matematica e la professoressa ci guarda storto mentre prendiamo posto. Liam e Niall si sono seduti insieme davanti a me. Io invece mi siedo accanto una ragazza con i capelli neri e gi occhi marroni. Noto che é arrossita e subito la riconosco: é la ragazza che mi fissava sullo scuolabus. Sembra molto tesa e spero che non sia a causa mia. Non mi piace fare questo effetto alle persone, specialmente se non le conosco. Le rivolgo un sorriso cordiale e lei arrossisce ancora di più. La professoressa si schiarisce la voce e tutti le prestiamo attenzione.
<Prima di cominciare con la lezione, vorrei informavi che al nostro corso si é aggiunta una ragazza, che sono sicura si voglia presentare>
La ragazza accanto a me si agita sulla sedia. Guarda in tutte le direzioni e fa un respiro profondo prima di alzarsi e presentarsi <sono Kendall Jenner e mi sono trasferita qui qualche giorno fa. Non c'é molto da sapere su di me> esita un momento e poi con garbo si risiede. Sembra una ragazza molto timida ed educata, niente a che vedere con le ragazze che ci sono qui a scuola.
<Bene Kendall, sono sicura che ti farei molti amici, partendo dal signor Styles. Ora é meglio se non mi perdo in chicchere e inizio la lezione> dice in un sospiro.
La lezione sembra non finire più e quando finalmente suono la campanella l'aula si vuota in pochi secondi. Kendall raccimola tutte le sue cose e fa per uscire, ma la chiamo per fermarla. É una ragazza molta timida, e non conosce nessuno. Con Eleanor e le sue amiche non durerà a lungo. Mi rivolge un sorriso timido e quando i nostri occhi si incontrano abbassa lo sguardo. Sorrido e le faccio cenno di seguirmi.
<Come mai ti sei trasferita a Londra?> chiedo spezzando il silenzio.
<Mio padre ha accettato il trasferimento che gli hanno offerto a lavoro, e siamo passati da New York a Londra con due settimane di preavviso>
<Ti piace qui?>
Scuote la testa, ma quando si ricorda di aver detto a un londinese che Londra non le piace si scusa e arrossisce. È molto carina nei modi di fare e la trovo una cosa molto intrigante. Le ragazze con cui sono uscito in passato erano molto sfacciate e questa cosa mi metteva molto in soggezione. Mentre penso a quanto sia gentile mi ricordo di non essermi ancora presentato.
<Comunque io sono Harry. Harry Styles>
Allungo la mano con un sorriso e lei la stringe ricambiandolo. L'accompagno all'armadietto, poco distante dal mio, e aspetto mentre prende i libri per la lezione successiva. Man mano che ci parlo noto che si rilassa, fin quando non é completamente tranquilla. Scopro che frequentiamo gli stessi corsi perciò andiamo insieme verso l'aula di letteratura e ci sediamo vicini. Le ore corrono ed io e Kendall parliamo ogni volta che ne abbiamo l'occasione. A pranzo si é seduta con me e i ragazzi e subito ci ha fatto amicizia. Fortunatamente Louis non mi ha calcolato, tralasciando qualche occhiataccia, e Eleanor non sembra essere infastidita dalla presenza di Kendall. Al termine delle lezioni suo padre la viene a prendere, e quando rimango solo con gli altri loro mi scompigliano i capelli e mi danno delle pacche sulle spalle.
<É carina Harry. Hai fatto bene a mettere gli occhi su di lei> constata Liam con un sorriso.
Niall non si esprime più di tanto, si limita a dire che é molto gentile e simpatica, e subito dopo chiama la sua ragazza. Credo che si stia innamorando e sono molto contento per lui. Faccio per parlare a Liam, ma quando vedo che fissa una ragazza in lontananza chiudo la bocca. La ragazza in questione é molto carina: ha dei capelli molto lunghi color nocciola, gli occhi azzurri ed é leggermente più bassa di lui. La ragazza vien verso di noi e si ferma davanti a Liam, ignorando totalmente me e Niall.
<Ciao. Andiamo?>
Liam annuisce e prima di andarsene ci guarda. Io e Niall restiamo scioccati a fissare la scena. Non ne avevo idea che Liam stesse uscendo con una ragazza. Stamattina e pochi minuti fa, quando abbiamo parlato di ragazze non ci ha detto niente.
<Ne sapevi qualcosa?> chiedo confuso.
<Assolutamente no. Comunque ora devo andare. Ci vediamo domani>
Ci salutiamo e poi sparisce in mezzo alla folla. Mi avvicino alla fermata dello scuolabus e quando vedo Louis seduto ad aspettarlo sono quasi tentato di camminare quattro isolati a piedi. Faccio un respiro profondo, cercando tutto il coraggio possibile. Torna sempre con i suoi amici o con la sua macchina, perché oggi deve prendere lo scuolabus? Quando mi vede sento subito il peso del suo sguardo su di me, e non posso fare a meno di guardarlo. Sento che il cuore batte all'impazzata e il respiro si fa irregolare. Odio l'effetto che mi fa. Si sposta una ciocca di capelli castani dalla fronte e poi si alza. Spero che chiami un taxi o che qualcuno lo sia venuto a prendere, invece viene verso di me. Inizio a torturarmi le unghie e mordo il labbro inferiore.
<Styles sei diventato etero? Stamattina ti ho visto con la ragazza nuova. Non pensavo fosse il tuo tipo. Pensavo che il tuo tipo fosse un ragazzo>
Senza rifletterci rispondo, con il tono di voce più sicuro di quanto non lo sia in realtà <pensavi male. Forse sei così fissato con il fatto che io si gay perché in verità è a te che piacciono i ragazzi>
Non faccio in tempo a finire di parlare. In pochi secondi mi ritrovo con un labbro spaccato e il sangue che esce dal naso. Intorno a noi si é riunito un gruppo di persone che guardano impauriti Louis. A lui non sembra importare molto, dato che continua a fissarmi in cagnesco. <Oggi avevo deciso di lasciarti in pace, ma a quanto pare te le cerchi. Forse ti piace essere picchiato> dice con disprezzo. Se ne va senza aggiungere altro. Immediatamente il gruppo che prima si era creato intorno a noi si dissolve e sale sullo scuolabus. Faccio cenno all'autista di aspettare a partire e fortunatamente lo fa, beccandosi qualche imprecazione dai ragazzi seduti nei sedili posteriori.
Quando arrivo a casa metto il ghiaccio sul naso e accendo la tv. Faccio zapping, ma nessun programma mi interessa particolarmente. Prendo il telefono e cerco Kendall su Instagram, che rintraccio al primo tentativo. Le scrivo un messaggio, e la sua risposta non tarda ad arrivare. Continuiamo a scriverci per il resto del pomeriggio e ci organizziamo per uscire l'indomani. Guardo l'orologio appeso alla parete e spalanco gli occhi per la sorpresa: è ora di cena. Mi alzo e vado in cucina, apro il frigo e impreco ad alta voce. Il frigorifero è vuoto ed io sto morendo di fame. A pranzo ho mangiato il riso e non ho toccato cibo per tutto il pomeriggio. Decido di ordinare una pizza e per ingannare l'attesa riordino il salone. Quando finalmente arriva la pizza sono veramente affamato, perciò la finisco molto in fretta. La sera corre velocemente e verso le undici vado a dormire. Mentre tento di addormentarmi la mia testa viene invasa da due occhi blu. Per quale motivo sto pensando a quello stronzo di Tomlinson? Non fa altro che deridermi e prendermi a pugni, eppure non riesco a fare a meno di pensarlo. Sono tre anni che mi tortura però é come se lo facesse per un secondo fine e non perché gli sto antipatico. Vorrei entrare nella sua testa e scoprire cosa pensa. La cosa più frustante di questa situazione é che non so per quale motivo mi interessi tanto sapere cosa gli passi per la testa. "Forse perché ti piace" aggiunge la vocina nella mia testa. Scaccio quel pensiero, chiedendomi se non sia veramente così. In pochi minuti cado tra le braccia di Morfeo.
Sento la sua mano toccarmi i fianchi, poi la pancia e poi spostarsi in mezzo alle mie gambe. Tento di respingerlo ma é inutile. É più grande e più forte di me. Mentre mi sfila con violenza la tuta mi bacia. Con tutte le mie forze provo a impedirgli l'accesso alla mia bocca, ma quando mi da un pizzico sul fianco faccio un verso di dolore, e schiudo le labbra tanto basta per lasciarlo impadronirsi della mia bocca. Sfila i miei boxer e tenendomi fermi i polsi inizia a baciarmi il collo, scendendo sempre di più. <No, lasciami! Per favore aiuto!>
Apro gli occhi di scatto e qualche istante dopo capisco che era solo un'incubo. Sono completamente sudato e alcuni ricci ribelli sono appiccicati alla fronte. Tiro un sospiro di sollievo e affondo la testa nel cuscino. Era qualche giorno che non avevo più incubi e pensavo che stessero passando, ma a quanto pare non é così. Mi alzo e vado a farmi una doccia che dura più del necessario. Indosso una tuta ed esco di casa. Lo scuolabus passa tra più di mezz'ora, quindi decido di prendere l'autobus. Odio dormire male e se c'é una cosa che odio ancora di più sono i miei stupidi incubi. Arrivo a scuola circa un'ora prima e mi dirigo in caffetteria. Prendo un caffè doppio e lo bevo per i corridoi isolati e silenziosi. Camminando verso l'armadietto non incontro nessuno, e quando il telefono mi vibra in tasca lo tiro fuori. Sul display appare il nome di Liam, ma prima che possa rispondere vado addosso ad una persona, e tutto il caffè si deposita sulla mia maglietta. Impreco sottovoce e quando alzo gli occhi mi manca il respiro. Davanti a me c'é Louis, con un sorriso divertito e gli occhi che vegano su tutto il mio corpo. Sento le guance andarmi a fuoco e il respiro diventare più irregolare. Faccio per alzarmi e lui mi coglie totalmente alla sprovvista: mi afferra la mano e con forza mi tira in piedi. Per un momento rischio di inciampargli addosso però riesco a mantenere l'equilibrio e prendo le distanze. Louis continua ad avvicinarsi ed io continuo ad indietreggiare, finché non finisco con le spalle appoggiate agli armadietti. Lui si fa sempre più vicino, fino ad arrivare a pochi centimetri dal mio viso. Sento le guance andarmi in fiamme, le gambe molli e una stretta allo stomaco. Il cuore batte all'impazzata, talmente forte che sono sicuro se ne sia accorto. Sulla sue labbra rosse e sottili spunta un sorriso, privo di divertimento o cattiveria. Solamente un sorriso.
<Ricciolino...cosa ci fai a scuola così presto?> chiede in un sussurro.
<N-non l-lo so. M-mi sono svegliato p-presto e ho preso l'autobus> mento. Ho la voce incrinata e credo sia molto stridula. Ho fatto una fatica immensa per rispondergli. É come se mi si fosse chiusa la gola.
<Mmm, capisco> alza la mano e con delicatezza insolita sposta un riccio che mi ricade sulla fronte. Da un momento all'altro potrebbe venire qualcuno, vederci così vicini e pensare male. Vorrei spostarlo, anzi no, non vorrei farlo, però vorrei quantomeno riprendere a respirare. I suoi occhi non mollano nemmeno un'istante i miei ed io mi mordo il labbro.
<Mi dispiace per la tua maglietta. Se vuoi te ne presto una io> dice allontanandosi da me.
Annuisco e lui si distacca immediatamente. Finalmente sento l'aria tornare a scorrere nei polmoni. Non posso credere che Louis Tomlinson si stia comportando amichevolmente con me. Lo seguo restando in silenzio. In bagno lui mi porge una maglietta, che prendo e sostituisco con quella sporca. Per tutto il tempo, mentre indossavo la maglietta, ho percepito il suo sguardo attento su di me. É stato sia imbarazzante che eccitante. Non so perché mi piaccia tanto avere i suoi occhi su di me, e non mi interessa scoprirlo. Forse é vero, un pò mi piace. Ma qual é il problema? Molte persone sono attratte da persone dello stesso e del sesso opposto. Forse mi piace sia Louis che Kendall, e mi va bene così.
<Ehy ricciolino mi hai sentito?> chiede, interrompendo i miei pensieri.
Scuoto la testa e lui sbuffa. <La maglietta puoi anche tenerla, non devi ridarmela>
Annuisco e sorrido. Lui ricambia il sorriso e senza aggiungere altro esce dal bagno e mi lascia da solo, con mille pensieri e domande che mi frullano per la testa.
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astra-zioni · 4 years
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Sulla giustizia
Da piccola se c'era qualcosa che sapevo fare bene era darmi la colpa. All'epoca mi era dato di credere in Dio, e sebbene di tali questioni abbia sempre capito poco quando ero ancora meno disillusa di ora mi sembrava che Dio avesse qualcosa a che fare con la giustizia, e dunque col giusto ed il buono. Oggi che son cresciuta mi rendo conto che la giustizia e Dio c'entrino poco o niente l'una con l'altro, ma si vede che il motivo di Dio che è buono e giusto e della colpa insita nel cristianesimo m'è rimasta negli anni, pure da atea.
Sin da bambina dunque - e successivamente quando mi son accorta che la messa domenicale per me era motivo di grande sofferenza e poca partecipazione -, ho cercato di incarnare un immaginario di Dio che in realtà non ho mai avuto troppo chiaro, ma che ho creduto di dover emulare a sua immagine e somiglianza, per l'appunto. Il risultato è stato un senso del giusto troppo alto per le mie braccia umane e la frustrazione nel capire che no, non ero Dio, e che nemmeno Dio sarebbe stato come lui.
Col tempo io e la mia natura umana abbiamo imparato a convivere pacificamente, della giustizia non ne ho mai visto l'ombra ed io stessa son stata più ingiusta che giusta; nel frattempo ho perdonato pure Dio o chi per lui perché non deve essere facile campare con il peso delle aspettative altrui. Talvolta il senso di colpa mi soffoca ancora e perdo pezzi interi di me lungo la strada, poi mi riconsolo pensando che almeno a me non prega nessuno.
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Ho una figlia di sedici anni che ha un neo sulla clavicola, proprio come me, e quando parla gesticola allo stesso modo in cui gesticolo io.
Quando cammina rivedo me nei suoi passi, quando ero giovane come lei, insicuro come lei, pieno di sogni, proprio come lei.
Mia figlia ieri si é seduta accanto a me. Stavo leggendo un libro nel portico, mentre il sole si scioglieva nel cielo scuro della notte, e mi colse di sorpresa.
«Papà» mi chiamò «Posso chiederti una cosa?» i suoi occhi brillavano anche se fuori era calata l'oscurità.
«Certo tesoro» le risposi, mentre chiudevo il libro, lasciando in mezzo alle pagine la matita per non perdere il segno.
Si sedette accanto a me, si guardò le mani incrociate sul grembo, poi i suoi piedini scalzi ed infine parlò col tipico tono di voce che ha quando vuole chiedere qualcosa ma non ne é sicura.
«Papà, cosa ricordi degli anni del liceo?»
La sua domanda mi spiazzò e per un attimo restai in silenzio.
«Ricordo che quando andavo al liceo ero un ragazzo molto solo.» non so in quale meandro del mio cuore avevo sepolto quelle parole, ma quando le sputai fuori mi sentii subito più leggero.
Sentivo lo sguardo di mia figlia sulle spalle. I suoi occhioni color nocciola erano spalancati e le sue labbra rosa formavano una linea sottile.
«Parlavo poco e non avevo pressoché nessun amico, perciò passavo le ricreazioni a mangiare da solo, seduto in cortile.
Amavo il cortile, quella piccola illusione di libertà per dieci minuti, lontano dal chiasso dei miei compagni e dagli strilli delle professoresse.
Ricordo che quando arrivava l'inverno, pur di respirare un po' di aria fresca, portavo l'ombrello e uscivo comunque.
Certo, gli altri mi classificavano come "quello strano", ma era più forte di me, avevo bisogno del mio spazio» spiegai.
«una mattina di novembre, lo ricordo perché avevo compiuto da poco diciassette anni, al posto che guardare la strada dalle sbarre del pesante cancello di ferro, stavo guardando il corridoio dalle finestre che si affacciavano sul mio adorato cortile.
E, per puro caso, proprio in quel momento, passò una ragazza che non avevo mai visto.
Sai tesoro, quando non hai nessuno con cui parlare o con cui trascorrere il tempo, tendi ad analizzare tutto ciò che ti circonda, a osservare con scrupolosa attenzione l'ambiente in cui ti trovi e le persone che ci vivono.
Sapevo che il piano superiore dal piano terra distava 30 gradini, perché li avevo contati.
Sapevo che il ragazzo più scontroso della classe veniva picchiato da suo padre ogni venerdì sera, perché il sabato mattina, nello spogliatoio, aveva dei segni rossi sulla schiena, sapevo che la ragazza in prima fila mentiva riguardo la sua nuova dieta, in quanto non mangiava mai all'intervallo e più di una volta l'avevo vista piangere mentre correva in bagno.
Vedi, spesso si conosce meglio qualcuno osservandolo al posto che parlarci.
In ogni caso, perdonami se talvolta mi perdo fra i miei ricordi... cosa stavo dicendo? Ah si, quella ragazza.
Ecco, io non l'avevo mai vista.
Camminava lungo il corridoio schiacciata contro la parete, nel tentativo di farsi ancora più piccola e invisibile di quanto, probabilmente, si sentiva.
Passai quel giorno a pensare a lei, fino alla sera, quando mi sdraiai nel letto e chiusi gli occhi, e quella scena fu l'ultima cosa che vidi prima di sprofondare nel sonno»
Restai in silenzio. Una parte del mio cuore si stava risvegliando, facendo nuovamente sgorgare nelle mie vene emozioni e sensazioni passate... che fecero correre brividi lungo la mia spina dorsale.
«Da allora, ogni ricreazione la passavo guardando attraverso le finestre del corridoio che davano sul cortile nella speranza di rivederla.
C'era qualcosa nei suoi occhi, nel modo in cui tentava di essere invisibile, che mi ricordava me, e mi faceva sentire meno solo.»
Mia figlia era così presa dal mio racconto che per non disturbarmi respirava piano, e con la coda dell'occhio vedevo che stava immaginando un me un po' più giovane.
«Fu una mattina di gennaio.
Aveva piovuto tutta la notte precedente e perciò fui costretto a non sedermi a terra come al solito ma ad appoggiarmi contro la parete. Non vedevo le finestre da quella posizione, ma una parte di me si era arresa.
Ero solo, lì fuori, col vento freddo che sferzava i miei capelli e mi graffiava le guance.
Mi strinsi nel mio giubbotto.
Sentii, ad un certo punto, dei passi che scricchiolavano sopra la ghiaia.
Era lei. Lo sguardo spaesato, il volto pallido proprio come il sole d'inverno, nascosta in una sciarpa che le cadeva lungo il busto, mentre i lunghi capelli le ricoprivano le sue esili spalle.
Le sue ciglia brillavano in un modo strano, come se fossero cosparse di lacrime.
Vedi tesoro, io ero molto timido allora. Stavo sempre solo e mi ero abituato al silenzio, ad ignorare gli altri, e non avevo idea di come si iniziasse a conversare con una ragazza.
Perciò, tutto quello che riuscii a fare fu smettere di mangiare il mio panino, sorriderle con la bocca ancora mezza piena, e guardarla, sperando che riuscisse a sentire ciò che i miei occhi stavano gridando, ovvero "non lasciarmi solo anche te".
Lo so, sarò sembrato un perfetto svitato, coi capelli arruffati e le guance piene di cibo, ma riuscii a farla sorridere.
Ci riuscii da solo. »
Mi accorsi che stavo sorridendo come un ebete mentre raccontavo e un rossore bollente infiammò le mie guance, ma solo per pochi secondi.
«Ricordo che mi chiese come mai stavo lì in cortile, tutto solo.
"Preferisco stare solo qui fuori, al posto che sentirmi solo lì dentro."
Nel suo volto leggevo comprensione.
"Anche io mi sento molto sola."
Si appoggiò alla parete, di fianco a me.
Restammo in silenzio, a guardare il cielo scuro, fino a quando la campanella suono la fine della ricreazione.
Ricordo che ci guardammo e sorridemmo d'impulso, certo in parte era per l'imbarazzo, ma anche perché dentro noi sapevamo che stavamo iniziando qualcosa di grande.
Quando condividi il tuo silenzio con qualcun altro, inizi sempre qualcosa di grande.
La mattina seguente, all'intervallo, era già li, appoggiata alla parete del cortile.
La successiva, pure.
Iniziammo a parlarci con più scioltezza, ad abbassare mono frequentemente lo sguardo, a tremarmi meno le mani quando lei si avvicinava.
"È come se dentro me ci fosse un vuoto che risucchiasse ogni emozione.
Ogni cosa ha perso interesse e mi sento inutile." Mi disse un giorno, alla fine di marzo.
"Tu, per me, sei importante" le risposi, accarezzandola nel modo più tenero possibile con lo sguardo, in quanto ero troppo timido anche solo per sfiorala.
"Per quale motivo?" Abbozzò un sorriso, ma il suo tono di voce era velato di incredulità e tristezza, quel genere di tristezza che sentono le persone che si sono arrese, arrese al fatto che certe cose non cambieranno mai e dovranno soffrirle per sempre.
"Perché, ecco... vedi.." farfugliai imbarazzato. Quelle parole pesavano tanto e mi ci volle molta forza per riuscirle a pronunciare "mi sono sempre sentito come se fossi troppo diverso per poter piacere agli altri e avere degli amici. Mi sono sempre sentito come se il mio posto fosse quello dell'ultimo banco, dell'ultimo in fila, del posto in bus col sedile affianco perennemente vuoto, perché ero io ed era normale. Ero invisibile. Ero il ragazzino che tutti prendevano in giro alle elementari, che canzonavano con parole cattive alle medie e ignoravano alle superiori.
E mi ero abituato. Mi ero convinto che il mio dolore mi avrebbe pervaso per sempre, perché sapevo di non poter cambiare e che nessuno mi avrebbe anche solo notato per chi ero davvero". Ricordo che stavo per scoppiare a piangere "ma poi... poi... sei arrivata tu... che mi guardi come se le mie stranezze non sono un ostacolo insormontabile per starmi accanto... che mi aspetti ogni mattina qui, solo per trascorrere 10 minuti con me... che mi parli e mi ascolti e mi fai sentire... non lo so... non saprei descriverlo.... " la guardai negli occhi, perché fino a quel momento avevo lo sguardo puntato a terra "tu non sei riuscita ad aggiustarmi, perché so come sono fatto. Ma sei riuscita a fare molto di più; sei riuscita a farmi sentire bene con me stesso, nonostante sia rotto".
Lei scoppiò a piangere, accasciandosi contro il mio petto e per la prima volta la strinsi fra le braccia e ricordo che mi sentivo come se il mio cuore stesse Per esplodermi in petto. Tremavo come una foglia.
Lei si scostò leggermente da me, alzò le maniche della maglia e mi guardò:"anche io sono rotta". Lunghi filamenti rossi le solcavano i polsi. Si leggeva odio. Rabbia. Delusione. Silenzio. Solitudine.
Appoggiai il mento sui suoi capelli, che erano soffici e profumavano come le rose, stringendola nuovamente fra le braccia e le sussurrai "ti prometto che riuscirò a farti sentire esattamente come tu sei riuscita a farmi sentire".
E i giorni continuavano a passare, sempre più veloci, e mentre le rose iniziavano a sfiorire, noi continuavamo a germogliare.»
Mi sentivo come se fossi tornato ragazzo, come se fossi ancora lì con lei.
Mia figlia, con la bocca spalancata e gli occhi lucidi, mi chiese «papà ma chi è questa ragazza? Che fine ha fatto? La conosci ancora? » e ad un certo punto, un'ombra le travolse il volto... «non dormi che... che...»
Adesso ero io che piangevo «Si, era la mamma. Tu e lei siete state gli unici amori della mia vita.
Se penso al liceo, l'unica cosa che mi ricordo fu come incontrai tua madre, perché iniziai a vivere da quel momento. Lei mi aveva regalato un nuovo inizio. Ed io l'amavo con ogni atomo, ogni fibra, ogni cellula del mio corpo. Il tempo lo trascorrevamo sempre assieme, io le dicevo che con me non doveva tenere di indossare le magliette a mezza manica, che io continuavo a vederla bellissima, che i suoi difetti ai miei occhi erano solo un pretesto per amarla ancora di più. E lei aveva iniziato a sorridere più spesso. Aveva iniziato a raccogliersi i capelli, a camminare senza schiacciarsi alle pareti, ad abbracciarmi più a lungo, a parlare per ore.
Tesoro, l'amore salva le persone. Assieme, ceravamo salvati. »
«Papà e poi? E poi cosa é successo? Dove é ora la mamma?» mia figlia stava piangendo, le lunghe ciglia scure erano imperlate di lacrime.
«ti sei mai domandata il motivo per cui non festeggio mai il mio compleanno?» le domandai e lei scosse il capo «Perché quel giorno, quel maledetto giorno, era il mio compleanno. Era novembre, e il freddo aveva già reso le strade una lastrica di ghiaccio. Avevo appena finito di scrivere la promessa di matrimonio a a tua madre. Qualche tempo prima, avevo ritrovato un figlio in cui aveva appuntato tutto ciò che odiava di se stessa. Ed io, quella mattina, avevo aggiunto "lo so che, se ti dico che per me sei perfetta, tu non mi credi, perché nel tuo cuore sai di non esserlo.
Perciò ti dico che nonostante i tuoi difetti, io ti amo, e continuerò a scioglierti ogni giorno, fino alla fine. "
Ci saremmo sposati a gennaio, perché fu proprio in quel periodo che noi ci conoscemmo. »
La voce iniziò a tremarmi. Mi girava la testa. «Tu eri nata da pochi mesi. Ricordo ancora che ti avevo letto la mia promessa e tu avevi sorriso. Tesoro... poi accadde quel che accadde... la strada ghiacciata, le auto che sfrecciavano veloci per strada e poi... l'incidente. »
Mia figlia mi getto le braccia al collo e iniziammo silenziosamente a piangere assieme.
«giorni dopo avevo trovato la sua promessa.» dissi singhiozzando «Aveva scritto: ti ricordi quel giorno, quando mi dicesti che tu eri rotto ed io dissi che anche io ero rotta? Ecco, volevo dirti che da quando tu mi avevi stretta fra le tue braccia, mi ero resa conto che la mia testa si incastrava perfettamente tra il tuo collo e la sua spalla, e il mio corpo aderiva perfettamente al tuo, e che i nostri cuori battevano allo stesso ritmo. Fra le tue braccia non solo mi sentivo al riparo; mi sentivo anche riparata. Tu mi avevi già aggiustato. »
-Alessia Alpi, scritta da me.
(Volevoimparareavolare on Tumblr)
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Heroes - pt 2
PROMPT: So che non accetti più prompt però io provo comunque a lasciartene uno, non si sa mai. Incrocio le dita! Pensavo a una scena in cui qualcuno tenta di far del male a Ermal (magari un tentativo di aggressione fisica o sessuale), ma Fabrizio in versione BAMF lo salva (Fabrizio protettivo e supereroe fa qualcosa ai miei ormoni…) (possiamo prenderci due minuti per sbavare su Fabrizio versione eroe?) (Che caldo che fa!!). Loro due possono già stare insieme oppure no, come vuoi. Incrocio le dita!!
Trovate la parte uno qui.
Finalmente, con l’idoneità sulle spalle, posso riprendere a scrivere senza dannarmi l’anima. Lo so che è tardi, ma hey. Enjoy! 
La strada verso casa di Fabrizio era stata davvero lunga, decisamente più del previsto, per Ermal.
Tra la testa che gli girava vorticosamente, le gambe molli, la nausea che gli attanagliava lo stomaco e le fitte ad ogni respiro, non era stata di certo una passeggiata piacevole quella che gli era toccata.
Oltretutto, aveva freddo. La pioggia continuava a cadere più fitta e fredda di prima e lui era zuppo, intirizzito fin nelle ossa già doloranti per le percosse.
Si era fermato più di una volta, cercando di riprendere fiato, ma le occhiate preoccupate che Fabrizio lanciava attorno a sé ad ogni sosta non erano rassicuranti: probabilmente si aspettava di veder apparire, da un buio vicolo qualsiasi, i ragazzi dal quale l’aveva salvato o, in ogni caso, qualche malintenzionato
Non era un tipo di molte parole, Fabrizio
Per la maggior parte del tempo era rimasto in silenzio, lanciandogli solo qualche beve occhiata inquisitrice ogni qualvolta sentisse il bisogno di controllare il suo stato di salute.
Solo quando l’aveva visto impallidire ancor di più aveva chiesto “stai bene?” in un roco sussurro a cui Ermal aveva avuto la forza di rispondere di no solo scuotendo appena la testa dolorante. Temeva che, aprendo bocca, si sarebbe rigurgitato sui piedi altro sangue
“Devi vomitare?” gli aveva chiesto l’altro e al suo cenno d’assenso l’aveva preso e aiutato a sporgersi in avanti, perché non lo facesse sulle proprie scarpe, accarezzandogli la schiena mentre il suo corpo veniva scosso dai conati, per calmare la nausea.
Per tutto il tempo l’aveva guardato con preoccupazione e quando l’aveva aiutato a rimettersi dritto aveva fatto una smorfia “Nun me piace molto sta cosa. T’hanno preso alla testa e anche sul ventre, forse hanno fatto più danni del previsto” aveva osservato, continuando però a trascinarlo verso casa
Ermal era rabbrividito a quelle parole, pensando a quello che avrebbero potuto significare
Forse stava morendo e nemmeno lo sapeva
Forse si sarebbe accasciato lì, sui vicoletti umidi e sporchi, senza vita, semplicemente, come un burattino a cui hanno tagliato i fili
Quando si ritrova davanti a un palazzone dal portone sgangherato di cui Fabrizio ha le chiavi, un po’ si consola: almeno è sicuro di essere arrivato vivo a casa sua
Fare le scale è una tortura ancor peggiore che camminare. Per farne due soli piani, Ermal impiega anche fin troppo minuti e quando giunge al secondo pianerottolo è sudato fradicio, oltre che zuppo di pioggia, tremante e ansimante e con le orecchie che fischiano.
Fabrizio lo guarda, mordendosi il labbro inferiore, in cerca di una soluzione che non sia quella di fargli salire altre tre rampe da solo
“Forse è meglio se ti porto in braccio” osserva infine dopo un attimo di silenzio, cosa che fa arrossire Ermal “prima che tu svenga”
“non c’è bisogno” risponde lui, intestardito: non si farò portare in braccio solo perché sta iniziando a vedere tutto nero, nossignore. Che vergogna. 
“ora mi riprendo un attimo e ce la faccio” lo rassicura, ma Fabrizio, da come lo guarda, non sembra molto convinto di questa cosa.
Alla fine, dopo qualche attimo di discussione, Ermal riconosce e acconsente al fatto che quella sia la cosa migliore e si lascia sollevare dall’altro, anche se non senza una certa vergogna. Fabrizio si premura di avvicinarsi a lui e di passargli un braccio dietro la schiena lentamente. “Dimmi se ti faccio male” gli dice, prima di tirarlo su. Ermal sussulta per il dolore che gli attraversa il petto a quel gesto, ma non è niente in confronto a quanto si sente sollevato dal non dover più sorreggere il peso del proprio corpo.
In fondo, era davvero la soluzione migliore.
Per fortuna, il viaggio è breve. 
Un altro paio di piani e poi entrano nell'appartamento di Fabrizio, più simile a un buco con le pareti che a una casa da tanto è piccolo, ma Ermal non se ne lamenterebbe mai, anche perché lui di certo non vive in una reggia e in quel momento quel minuscolo spazio vitale è la cosa più calda e sicura dove stare, anche se non c’è propriamente caldo lì
Fa freddo, anzi, e non appena Fabrizio lo posa sul divano inizia a tremare ancor più forte, battendo i denti, stringendosi su se stesso
Fabrizio lo osserva, preoccupato, chinandosi davanti a lui per mettergli una mano sulla fronte, cosa che lo fa sussultare appena e poi rabbrividire visto che il palmo di Fabrizio sembra al contempo caldo e fresco contro la sua pelle
“Mi sa che ti sta a venire la febbre” dice, scuotendo appena il capo “Mo’ ti faccio lavare, così poi ti dò dei vestiti puliti, va bene? Però prima dobbiamo sistemare questa” dice indicandogli la ferita sull’occhio “Perché qua ti ci vogliono dei punti”
Ermal annuisce, sentendo però la testa girare al gesto, tanto che si accascia appena sul divano sfondato e impolverato, cosa che lo fa starnutire appena e fa posare le mani altrui sulle sue spalle
“Piano” mormora Fabrizio, aiutandolo a mettersi giù “Stenditi un attimo se ti va, mh? Ti vado a prendere i vestiti e i punti, forse è meglio se non ti muovi troppo” gli dice, scappando poi via lungo uno stretto corridoio, non senza prima avergli rivolto un’occhiata preoccupata 
Ermal chiude gli occhi, deglutendo, sentendo la testa pulsare e in bocca ancora il sapore amaro e acre della bile. E’ solo quando Fabrizio torna che osa mormorare un “posso avere dell’acqua?” che l’altro si premura di dargli subito
Fabrizio lo aiuta a bere, sostenendolo piano mentre accompagna il suo capo pesante e le sue labbra secche verso il bicchiere d’acqua che svuota anche abbastanza in fretta
“Ecco qua” mormora l’altro, lentamente, prima di dire “senti... io non mi fido a farti andare di là quindi... famo che ti medico, ti spogli qui, ti pulisco un po’ il sangue di dosso e poi ti lavi domani eh? così ti cambi”
Ad Ermal non sembra una delle migliori idee nella vita ma, rendendosi conto dello stato in cui versa, annuisce, lentamente tirandosi su meglio con un gemito, le mani calde e ruvide di fabrizio, grandi ma non troppo, che corrono sulla sua schiena e davanti a lui, per aiutarlo a non ricadere indietro e per bloccarlo se dovesse sbilanciarsi in avanti.
Quando si trova così, Ermal impiega un attimo a riprendere fiato, il petto che ancora gli fa male e sembra dargli una stilettata ad ogni respiro, gli occhi chiusi nella concentrazione
Avverte la presenza di Fabrizio accanto a sé e normalmente guarderebbe lui e i dintorni ma non ha la forza di farlo, tremando appena mentre cerca di reggersi stabilmente
“Ci sei?” chiede l’altro dopo un istante e al suo cenno di assenso che arriva dopo qualche secondo annuisce, schiarendosi appena la gola 
“Bene” mormora Fabrizio piano “allora” dice, prendendo una garza che ha imbevuto di disinfettante e avvicinandosi a lui “questo potrebbe fare un po’ male” dice, premendogliela delicatamente sul sopracciglio ferito
“Scusa” mormora quando lo sente sibilare dal dolore ma ermal scuote appena la testa “non fa niente. Vai pure avanti” mormora, gli occhi chiusi, pallido e tremante.
Dopo un istante che ha pulito la ferita, Fabrizio tira via la garza, prendendo i punti “Mo io non è che so’ bravo eh” mormora “però un po’ ho imparato quindi... dovrei riuscire a fare abbastanza bene” 
“Chissà perché questo non mi rassicura molto” replica Ermal, rivolgendogli un’occhiata preoccupata e insomma poverino già si vede orbo da un occhio 
“Non ti preoccupare, davvero” insiste Fabrizio
“Invece sì che mi preoccupo, è il mio occhio quello” ribatte lui
“Si si” mormora fabrizio concentrato, sedendosi sul divano e posizionandosi meglio “però mo stai fermo o faccio un casino” 
Fa male
Per tutto il breve tempo che ci vuole, Ermal stringe i denti e le mani al bordo del lacerto divano, sibilando per il dolore e cercando di rimanere immobile anche se qualche sussulto lo coglie
Per fortuna che, dopo qualche minuto di agonia, fabrizio si tira indietro, soddisfatto 
“Llllà. Aggiustato!” dice contento, soddisfatto, come se avesse fatto il lavoro migliore della sua vita “e pensare che avevo ricucito solo Andrea dopo che quel cazzo di poliziotto fascista gli aveva sparato”
Ermal lo osserva, incredulo, sbattendo le palpebre
“Ti rendi conto che eri a POCHI MILLIMETRI dal mio occhio, vero?” dice, anche se non ha la forza per arrabbiarsi davvero “Se lo perdo, ti vengo a cercare”
“E mo’ se lo perdo... non fare il melodrammatico dai, t’ho sistemato. E comunque è sempre meglio di quello che avresti fatto da solo” replica l’altro, mettendo via il tutto
“allora... adesso  ti aiuto a levarti i vestiti di dosso va bene?”aggiunge poi
Quelle parole fanno tornare un vago colore sul volto di Ermal, perché nonostante sappia di averne bisogno, è così strano pensare di farsi spogliare da un estraneo in quella situazione.
Non da meno, annuisce di nuovo, conscio che la stoffa bagnata gli sta solo facendo sentire ancor più freddo 
“Va bene” ripete Fabrizio, annuendo, mentre lo guarda e porta piano le mani sulla sua giacca che, lentamente, gli sfila. Poi, passa delicatamente alla camicia, che gli slaccia, osservandolo perplesso
“Ma non c’hai freddo a star fuori vestito così?” gli chiede, ignorando il rossore che sempre di più si spande sul suo viso all’idea che stia venendo spogliato da fabrizio
Fabrizio che pure coperto dai vestiti si vede avere un bel fisico e si chiede cosa ne pensi di lui, rachitico com’è
Lentamente, allunga le braccia indietro con un sospiro sofferente per lasciargli sfilare la stoffa bagnata di dosso ed è quando si ritrova a torso nudo che fabrizio fa un sibilo che sembra dire “accidenti”
Abbassa lo sguardo, osservando il proprio petto e il proprio ventre, ricoperti di lividi scuri che si stanno formando e da altri invece giallastri e verdognoli che sono chiaramente più vecchi e in via di guarigione
Rabbrividisce appena quando Fabrizio vi passa la mano, girando il capo dall’altro lato per non guardarlo
“Certo che t’hanno bastonato per bene quei bastardi... però questi so vecchi” dice dopo un istante di silenzio, indicando le macchie gialle sulle sue braccia e sul lato del tronco, cosa a cui Ermal risponde solo con una scrollata leggerissima di spalle perché non sa cosa dire 
E anche se lo sapesse, come potrebbe farselo uscire di bocca?
Fabrizio sembra valutare per un secondo i danni
“Mo’ fai una cosa” gli dice “Espira e Inspira e poi trattieni il respiro. Se ci riesci dovresti sta a posto”
Ermal lo guarda un attimo, deglutendo, mentre respira e borbotta un flebile “Mi.. Fa male” cosa a cui Fabrizio risponde annuendo piano, grevemente “lo so. Però ti devi sforzare”
E insomma, come puo’ controbattere? Per cui fa come gli ha detto nonostante il dolore, trattenendo il respiro e quando lo rilascia lo guarda, l’altro che lo studia più criticamente di prima.
“Allora?” chiede ermal un po’ in ansia “Verdetto?”
E Fabrizio poverino vuole fare il simpatico per cui dice “Niente, sei già morto” 
Solo che ermal poverino ora come ora si sta riprendendo e oltre al dolore gli sta salendo lo spavento che ha preso e la consapevolezza che poteva esserlo davvero, morto, per cui sente gli occhi farsi sempre più lucidi mentre tira su con il naso che pure gli fa un male boia, e sente le lacrime iniziare a scorrere lungo le guance
E si vergogna, di piangere davanti a lui, ma che ci deve fare?
Al che Fabrizio un po’ si softa
Perché Ermal sembra tanto piccolo e smunto e spaventato che non riesce a non fargli una carezza leggera sulla schiena e a dire “scherzo, va tutto bene. Sei un po’ pesto, ma niente che non si possa sistemare, te lo garantisco”
Ermal tira su con il naso, annuendo appena
“Non... non mi era mai successo prima” ammette, con un filo di voce, perché è vero, gli insulti sono sempre piovuti, ma mai gli era capitato di essere pestato a quel modo. Non da degli sconosciuti almeno.
Al che fabrizio annuisce, continuando a consolarlo e per scherzare dice piano “Ecco, ora sei un vero comunista, hai visto?” cosa che fa ridere ermal tra le lacrime mentre mormora un “Che stupidaggine”
Allora fabrizio gli prende piano il viso tra le mani, asciugandogli le lacrime “Dai, mo basta piangere, che se ti si riapre la ferita devo ricucirti di nuovo” dice, lasciando andare solo quando si calma un attimo e sorridendogli appena prima di aiutarlo a infilarsi una maglia pulita che ha posto accanto a sé con uno sbuffo “Non sei sporco lì quindi ti faccio rivestire almeno ti scaldi” gli spiega
Per poi aiutarlo a spogliarsi anche i pantaloni, gesto al quale il viso di Ermal va in fiamme.
Fabrizio osserva le sue ginocchia livide per l’impatto, appena graffiate, sfiorandole delicatamente “Ghiaccio” borbotta tra sé e sé “ti servirebbe del ghiaccio”
Ermal intanto cerca di non fare pensieri impuri che, data la situazione, non sono né necessari né voluti dal suo cervello. Ma dopotutto, una parte di lui non riesce a restare del tutto indifferente a Fabrizio che gli sfiora le gambe in quel modo gentile mentre lo aiuta a mettersi i pantaloni puliti che gli ha portato, troppo grandi per lui, che gli vanno morbidi e che avvolgono le sue gambe gelide piacevolmente
Dopo aver fatto quello, Fabrizio prende una vecchia coperta posata sul divano, buttandogliela sulle gambe doppia, tirandogliela su fin sul petto, annuendo
“Sei gelido” osserva, alzandosi per andare a recuperare un catino pieno d’acqua tiepida e un asciugamano pulito. Si porta accanto a lui, sedendosi sul pavimento accanto al divano ed inumidisce la stoffa nella ciotola prima di iniziare delicatamente a passargliene un lembo sul viso, pulendo via il sangue e la sporcizia con perizia e pazienza.
“E quindi” dice Fabrizio dopo un attimo “Tu sei uno di quelli dei volantini” e Ermal si chiede se la leggera nota di presa in giro nella sua voce sia reale o se se la stia immaginando 
“Si” risponde, osservandolo “perché?” pigola, mentre l’altro continua a pulirlo
E Fabrizio sospira, scrollando appena le spalle “Chiedevo”
Al che Ermal è troppo stanco per non farsi uscire un acido “Fammi indovinare, tu sei uno di quelli di cui si legge sull’Unità vero? Uno di quelli che spara agli imprenditori o rapisce i politici e pensa che quello sia il metodo giusto per cambiare le cose” e c’è amarezza nella sua voce mentre parla tanto che Fabrizio alza lo sguardo su di lui 
“Perché, tu hai soluzioni migliori?” gli domanda, osservandolo “Se ne hai altre che non siano dare in giro pezzi di carta che la gente butterà appena voltato l’angolo o pensare che basti solo un’idea a cambiare il mondo, so tutto orecchi” 
Ermal sospira, troppo stanco per pensare, la testa che gli scoppia e la stanchezza che gli pesa addosso
“E tu non lo conosci, un metodo migliore del rapire e uccidere?” chiede stancamente, guardandolo 
Per un istante, Fabrizio lo fissa, imperscrutabile ed Ermal pensa che lo getterà fuori da casa sua ma, pochi istanti dopo, lo vede scrollare le spalle di rimando, come se la domanda non avesse importanza
“adesso non è il momento di fare questi discorsi” dice Fabrizio, coprendolo meglio e buttando l’asciugamano intriso di sangue nel catino dall’acqua ormai fredda “sei troppo stanco e devi riposare. Ne parleremo quando ti sentirai meglio” replica, scostandogli un ricciolo dal viso
“Il mio divano fa un po’ schifo” ammette poi “Ma è meglio di niente, no? E puoi restare quanto vuoi. In fondo, anche se abbiamo idee diverse, sempre uno contro al fascismo rimani” gli dice, sorridendogli appena “Quindi... riposa, ora” mormora “Ti metto un po’ di musica, vuoi?” dice poi alzandosi e andando vicino a un giradischi
Ermal si contorce appena, annuendo, ascoltando la musica che si spande in sottofondo qualche istante dopo e cercando una posizione comoda sul divano sfondato
“Mi fa male tutto” borbotta, lamentandosi quando Fabrizio si riavvicina, guardandolo annuire
“Lo immagino. Ma passerà anche quello. Dormi un po’ ora, chiudi gli occhi” lo rassicura
Pochi minuti dopo, Ermal, senza nemmeno accorgersene, sprofonda nel sonno, ancora ostinatamente pensando che sì, dovranno proprio farlo un bel discorsetto politico loro due.
Anche se, il suo ultimo pensiero è che Fabrizio, in fondo, è stato davvero gentile con lui e quindi, sotto sotto, non può davvero essere una così cattiva persona
(Si ringrazia @camilleisback per l’aiuto storico in questa cosa, diversi dialoghi e cose sono presi da un nostro vecchio plot. Tvb mi manchi piccina)
E niente, spero che vi sia piaciuto! Fatemi sapere se volete il seguito o meno!
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ladyklein · 5 years
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14 giugno 2019
Alle 14 ho preso il pullman per Nuoro, dormo dai genitori della mia collega Francesca. Non ho fatto molti piani, se non l'idea di andare a casa di Grazia (Deledda), salutare le pietre di Costantino (Nivola) in piazza Satta, andare al Manca Spazio e vedere qualcosa di Maria (Lai). Sono partita col nuovo vestito blu e bianco, quello lungo comprato alla festha manna di Porto Torres, i sandaletti rossi regalati da mamma lo scorso anno, macchina fotografica e poco più. La Luna piena è vicina, probabilmente mi verrà il ciclo proprio durante questo breve viaggio. Sassari si allontana, nelle gallerie di Chighizzu mi metto due fazzoletti negli slip (le ovaie ai fanno sentire, approfitto del buio e del vestito lungo), passano i monti e le valli, dormo. Mi addormento per una buona mezz'ora, e poi la pianura. Lunghe distese di campi verdi, gialli, sugherete, pirastri, , colline, la mesa, i graniti.. I nuraghi, le pietre. Tutto parla, tutto tace. Mentre il cielo ambiguo sa di deserto, e il mio umore di pioggia. L'arrivo a Nuoro sa di casa, solo l'anno scorso sono andata due volte. Viale Sardegna coi corvi, le vie con i fiori e le foglie sui lati. Non sembra esser cambiato nulla qui. Sono a metà strada quando la mamma di Francesca mi viene a prendere con la macchina. Saliamo, in casa, metto il giubbottino, il pigiama, e scendo. Piove. Tuona. Sì: anche questa volta faccio piovere. E sono felice di poter camminare sotto la pioggia, ma ora diluvia, la mamma mi da un ombrello. Grazia aspettami. Arrivo sotto casa di Grazia (Deledda) e smette di piovere. Suono, entro. Pago. Vago. Continuo a commuovermi, vedo cosa poteva vivere, il suo giardino, le piante, il suo letto, la sua scrivania, il suo orinale, il pozzo, sa batza, l'inchiostro, lo specchio, le scale... Dalla finestra dell'ultimo piano le sculture di Nivola con piazza Satta. Nuoro è la culla dei poeti si sa, e la Sardegna è la culla della magia. Esco, mi siedo vicina alle statue, raggiungo il Manca Spazio e.. La Poesia Visiva, Maria Lai, e tanti altri artisti di cui ora non ricordo il nome. Parlo con Federica, la ragazza che aiuta la curatrice dello spazio. Le parlo di come l'arte sia la mia vita, come sia tornata alla scrittura, al fare arte grazie al ritorno alla natura, mi dice di mandare una mia mail a Chiara presentando qualche lavoro. Incrocio le dita e saluto questo mondo a me caro, fatto di libri cuciti, parole di flussi di coscienza diventate quadri. Tele scarabocchiate in nome dell'effimero. E mi dirigo verso il Duomo. Rimango fuori ad ammirare Ortobene e Corrasi: i monti. Sento il richiamo, ho bisogno di andare al museo etnografico che non so dove sia. Quasi mi perdo ma poi... Trovo l'inaugurazione di una mostra quasi penosa, c'è Sgarbi che presenta, affossando l'effimero dell'arte contemporanea, mentre ciò che presenta (nei miei gusti) è pura decorazione. Aspetto che venga inaugurata e come una ladra mi muovo negli spazi delle maschere. Mamuthones, Merdules, Boes, Issohadores, Filonzana, Thurpos, Bundu, Erittos... Gli strumenti musicali.. Continuo, vago, mentre sento fremere le lacrime agli occhi. Telai, tappeti, arazzi, bisacce, i costumi, gli attrezzi da contadino.. Dal pastore. Il pane. Il pane è l'alimento sacro alla nostra terra, la prima alchimia. I pani nunziali, i pani.. Piango. Trovo ciò che non conoscevo, ciò che non sapevo: i pani del mio luogo. Campanedda (Santa Maria a Torres). I pani nunziali, i pani rituali. Ho trovato ciò che non sapevo stessi cercando. I pani di Santa Rita per i malati, i pani di San Marco... I pani di tutta la Sardegna, l'alchimia, la vita. Ora c'è troppa gente. Torno domani. Lasciatemi trovare ciò che sono, chi sono. La Sardegna non è mai stata così bella, ai miei occhi.
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corvidcantina · 6 years
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Place your heart here
Allora, questa fic è gentilmente offerta da @bluebandit16 che mi ricorda i MetaMoro quando non dovrebbe (scherzo ily💓) e da questo post
Ordunque
Siamo nella Londra dei primi anni duemila
Perché a Londra?
Perché se trovassi un messaggio del genere in Italia, beh, probabilmente ci metteresti due giorni prima che qualcuno si appoggi
E cento su cento sarebbe una vecchietta pettegola e/o stanca con la busta della spesa in mano
Invece a Londra il peggio che può capitarti è non sapere cosa dica la scritta e appoggiare la mano prima di chiedere spiegazioni perché "ehi guarda 'n po', scommetto che 'a mia è più grossa"
E venire sparaflashato dalle macchine fotografiche usa e getta
Perché ehi, a quanto pare questo è - anche se ancora non lo sai, tu romano trapiantato nella vecchia Inghilterra per cinque giorni per una vacanza con gli amici - l'antenato degli esperimenti sociali che nel 2018 piaceranno tanto agli YouTubers
E quindi quando provi a spostarti - dato che non ti è mai piaciuto stare al centro dell'attenzione - ti guardano come se gli avessi ucciso il gatto
Non ce stai a capì 'na mazza ma a scanso di equivoci ti riappoggi
E i tuoi amici - che l'inglese lo masticano giusto un po' più di te - finalmente si segnano di spiegarti cosa succede
Perché tutte a te? ti chiedi, una volta compreso di cosa si tratta
Praticamente ci sono due manine dipinte sul muro e devi stare lì finché un estraneo non poggia la sua mano accanto alla tua e vi potete staccare quando non siete più estranei
Carino, eh, ma voi dovreste essere a Buckingham Palace per vedere il cambio della guarda tra, tipo, venti minuti
Però sei letteralmente circondato e quindi devi fare buon viso a cattivo gioco
Mentre ti danni per essere così impulsivo, non ti accorgi che c'è qualcuno accanto a te
Finché non senti un colpo di tosse palesemente finto provenire dalla tua sinistra
"Ehy mate, you seem a bit lost here... I could help you out" dice lo sconosciuto sorridendo
Ma sei troppo occupato a metabolizzare la sua faccia per anche solo tentare di capire cosa ti ha detto
"Sorry... I don't speak English" rispondi, perso nei tuoi pensieri
"Français? Español? Italiano?" prova lui, sparando le parole come una mitragliatrice
E poi all'ultima ti si illumina lo sguardo
"Sì, sì, parlo italiano!"
"Oh ma tu guarda il caso!" ride lo sconosciuto
E
Speri davvero che abbia intenzione di non rimanere uno sconosciuto a lungo
Insomma, sei già sotto mille treni
Ma con quel sorriso, chi potrebbe darti torto?
E quindi iniziate a parlare
("Cosa ci fai qui a Londra senza parlare inglese?" "Mhhh. Me perdo pe' strada. Te invece le sai veramente tutte quelle lingue o me stavi a di' 'na calla?")
E continuate
Finché non siete più degli sconosciuti
I tuoi amici si sono praticamente addormentati appoggiati al muro
(Un po' come Tori Vega & co sul pulmino)
(Erano loro? O iCarly? Boh)
Ma voi andate avanti imperterriti
E siccome siete tutti e due interessati alla fine vi scambiate il numero di telefono
Perché tu ad una certa devi tornare in hotel
E lui deve tornare in università
(Addirittura studia all'estero)
(Te li sai scegliere bene eh)
E quindi vi separate dopo una stretta di mano e una promessa di rivedervi il giorno dopo perché vi mostri i suoi posti preferiti
È solo quando arrivi in albergo che ti dai una manata in fronte e "Merda, non gli ho nemmeno chiesto come se chiama!"
Inutile dire che ti arrivano i cuscini lanciati dai tuoi amici stanchi morti
E anche un paio di vaffanculo
Bella raga, lo so che è corta cortissima, ma c'è una seconda parte tra un po'. Non so dove andrà a parare ma tra poco c'è il ponte e posso scrivere quindi conto di finire altre storie in sospeso!
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rores · 6 years
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il tempo è andato così in fretta ultimamente che non mi sono resa conto che il cerchio si stesse per chiudere. è stato un lungo eterno anno, un anno per abbandonarti, un anno per abbandonarmi e forse me ne serviranno altri mille per riprendermi, per tornare a prendermi. è un po' che non mi trovo più, non mi ritrovo e non mi riconosco nei gesti quotidiani, non mi sento a casa con me stessa, mi guardo allo specchio e non vedo niente, forse un'ombra che non riesco più a riacciuffare, a cui non riesco a segnare i contorni. è un'immagine che mi sfugge sempre, la mia. ho attraversato una fase in cui per non perdermi mi sono amata e guardata tanto ma non ce l'ho fatta a farla durare, ora mi rincorro di nuovo e mi perdo sempre, ma forse a tratti non mi voglio più. a tratti io non voglio più, non voglio nulla. mi è parso che il cibo non abbia avuto più lo stesso sapore dopo te e che i cieli erano sì terribili e meravigliosi ma mai tanto quanto prima, mai miei fino in fondo. tutto mi sfugge dalla mani ed io non ho più la capacità di trattenere le cose, soprattutto l'amore. i sorrisi, le infanzie, le cortesie, i gesti che do e ricevo senza mai sentirne il peso. invece con te io sentivo tutto, il bello e il brutto, l'orrore e la paura del futuro come una lama che ci passava di fianco e da cui mi sarei lasciata tranquillamente trafiggere. purché resistesse quel vago senso di me e te. io non sento più, non ho più la capacità di toccare con la pelle la pelle del mondo, di sfiorare con le dita la più vivida realtà, ma semplicemente mi astengo, mi tengo sempre un passo indietro a tutto. cammino come con gli occhi bendati, ciò che mi spinge e mi conduce è a volte solo l'inerzia, solo quel folle meccanismo di dover mettere un piede davanti all'altro, nulla di più. eppure non riesco a rimpiangere la volontà, quel vivo sentire che avevo e che mi spingeva come molla ad essere ovunque, ad essere tutto. questa lunga striscia di dolore che mi hai lasciato non rende giustizia nemmeno ai ricordi, appanna tutto e tutto fa sbiadire, tutto violenta. perché è violenza quello che ho provato e che mi hai procurato, violenza ai ricordi, violenza al tempo, violenza al nocciolo più segreto di me.                                      all'inizio pensavo non sarebbe mai stato possibile uscirne, non sentire più dolore e tutto il mondo era strazio, tutto era diventato il mio dolore. ma poi ho capito, ho semplicemente intuito ad un tratto che per uscirne bastava solo lasciarmi andare, scorrere via, aprire il palmo della mano e gettare tutto nello spazio tra le dita. ho scelto la strada più semplice ed ora eccomi qui, sempre al punto di partenza, in perenne corsa verso di me. ogni tanto il respiro mi manca e allora mi volto indietro a vedere quanta strada ho fatto, ma non riesco mai, un senso di nausea mi dice che non ha senso guardarsi le spalle. eppure io riesco appena a scorgerti lì, quando mi consolavi piano con le dita e mi rimettevi al mondo, mi riportavi alla luce dal ventre della terra, dall'antro in cui ero ripiombata. e ridere era così facile. annusavo e mangiavo tutto, perché ascoltare e toccare non mi bastava, io ti volevo con tutti e cinque i sensi, o anche di più se possibile. ero solo una piccola lanterna a cui tu provvedevi l'ossigeno, mi piaceva brillare di poco, per poco. la cosa che mi fa più male oggi è sapere e avere la consapevolezza da un po', (senza aver mai il coraggio di ammetterlo), che tu non mi abbia mai capita. mai. quando era per me il regalo più grande che mi avessi fatto, darmi la comprensione che il mondo non mi aveva mai concesso. il mio riscatto avveniva con te, attraverso te. e oggi che mi devo far giustizia da sola, non mi va più. non ne voglio più fraintendimenti. ti sei portato via la mia comprensione, la comprensione del mondo (di me, per me).                                  mi fa solo un po' sorridere pensare che un po' esisteremo per sempre, che la mia mano si chiuderà sempre nella tua in quel passato che ci siamo lasciati alle spalle ma che continuerà ad esistere finché ci saremo io e te (il noi mi sembra un atto ormai troppo grande, un'intenzione da non ripetere più).                         grazie di essere esistito in me, di esistere nel mio passato, grazie per avermi fatto esistere e vivere (almeno per un po').                                                           non sapevo di doverti dire tutte queste cose, non oggi, non ora. non so se ho altre cose da dirti, oggi, ora, o più in là. per il momento allontano la mano dal cuore, chiudo gli occhi, respiro. (tutti  gesti che ho imparato a compiere senza di te, gesti banali che mi sono costati però ogni eterno secondo di questi ultimi trecentosessantacinque giorni) 
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