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#Mozambico
anchesetuttinoino · 4 months
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Il Mozambico nelle mani delle multinazionali fossili europee e statunitensi.
Interessante articolo pubblicato da Altraeconomia. Il Mozambico si è consegnato alle multinazionali straniere ed ha rinunciato alla sua sovranità; ora non ha il potere di modificare le normative ambientali che possono limitare l’estrazione di combustibili fossili, né di cambiare le leggi sui diritti dei lavoratori o richiedere un aumento delle tariffe per lo sfruttamento dei giacimenti. In caso…
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giommarresi · 2 years
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My table at Thoughtbubble 2022 <3
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archivio-disattivato · 11 months
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La retorica del Governo Meloni ricalca in buona sostanza quella riproposta in questi anni da una figura chiave per la politica italiana: il numero uno di Eni, Claudio Descalzi. Omettendo qualsiasi analisi critica degli effetti delle campagne fossili. Dal Mozambico alla Tunisia, passando per la Nigeria.
Mancano ancora i dettagli ma le intenzioni del famigerato “Piano Mattei” sembrano piuttosto chiare: far arrivare dall’Africa più gas e molti meno migranti. Le parole della presidente del Consiglio Giorgia Meloni lo prefigurano: “Oggi abbiamo un problema di approvvigionamento energetico in Europa e l’Africa, è un produttore enorme di energia […] se aiutiamo l’Africa a produrre energia per portarla in Europa possiamo risolvere insieme molti problemi”, ovvero quello delle migrazioni, da un lato, e quello della sicurezza energetica europea, dall’altro.
Un discorso che ricalca in buona sostanza la retorica utilizzata in questi anni da un’altra figura chiave per la politica italiana, il numero uno di Eni, Claudio Descalzi, che non a caso ha spesso accompagnato le missioni della presidente del Consiglio. “We don’t have energy, they have energy” (loro hanno energia, noi no) ha dichiarato l’amministratore delegato intervistato dal Financial Times, “dobbiamo aprirci all’Africa, dobbiamo essere i loro compagni di viaggio e aiutarli a svilupparsi”, ha rimarcato sempre Descalzi durante un convegno. L’altro aspetto su cui i due sembrano essere in totale sintonia è che l’approccio dell’Italia nel continente debba basarsi sul rispetto e sulla reciprocità, lontano da atteggiamenti predatori.
Sia la presidente del Consiglio sia il manager evitano però di considerare un aspetto fondamentale, ovvero che l’Italia è già tra i Paesi che hanno maggiormente investito nel continente africano, specialmente attraverso la sua principale azienda. Proprio Descalzi ha dato nuova spinta alla campagna africana di Eni, mettendo a segno alcune delle più importanti scoperte di gas al mondo, in Egitto e in Mozambico, fino a diventare il secondo produttore di idrocarburi della regione.
Tuttavia, l’ormai arcinota retorica degli investimenti per lo sviluppo si scontra con la realtà di molti territori, dove l’operato di Eni ha avuto risvolti ben diversi da quelli sperati da Meloni e Descalzi. Uno dei fiori all’occhiello della gestione Descalzi è rappresentato, come già detto, dalle immense scoperte di gas realizzate in Mozambico, che hanno trasformato il Paese nell’ultima grande frontiera estrattiva del continente africano. Si stima che i bacini possano contenere oltre duemila miliardi di metri cubi di gas, facendo del Mozambico il terzo Paese in Africa per riserve. “Siamo l’unica società che invece di produrre per esportare come tutti fanno perché si guadagna molto di più, produciamo anche per la parte domestica. Lo faremo in Mozambico”, affermava Descalzi nel maggio del 2015. Pochi mesi dopo, Eni siglava un accordo con British petroleum (Bp) che prevedeva la vendita per i prossimi 20 anni dell’intero ammontare della produzione dell’impianto Coral South alla multinazionale britannica.
Secondo un’analisi condotta dall’Ong francese Friends of the Earth, il 90% della produzione di gas mozambicana è stata già destinata all’export attraverso accordi di lungo termine con operatori asiatici ed europei. Questi investimenti avranno dunque un impatto minimo per i quasi 20 milioni di mozambicani che ancora oggi non hanno accesso all’energia. E non è neppure detto che i progetti di Eni in Mozambico serviranno a garantire l’approvvigionamento energetico dell’Italia, nonostante le garanzie da oltre 1,5 miliardi di euro poste dal ministero dell’Economia attraverso Sace, giustificate proprio dal contributo che questi investimenti avrebbero dovuto apportare alla sicurezza energetica del nostro Paese. Sarà infatti l’inglese Bp a decidere dove esportare i carichi di Gas “naturale” liquefatto (Gnl), naturalmente in funzione dei prezzi nei vari mercati. Dei primi dieci carichi partiti dal terminal di Coral South, infatti, solamente due sono giunti in Italia, mentre gli altri sono andati verso India, Giappone, Corea del Sud e così via.
Il contributo dell’industria del gas per l’economia mozambicana sarà inoltre molto più ridotto di quanto promesso. Secondo alcune analisi indipendenti, realizzate da OpenOil e da Oxfam America, Maputo incasserà meno della metà dei ricavi previsti dalle vendite di gas e la gran parte solamente a partire dal 2040. Situazione ulteriormente aggravata da meccanismi fiscali che permettono alle aziende e alle multinazionali (fossili e non) di non pagare le loro tasse nel Paese (il nostro approfondimento sul numero di giugno di Altreconomia).
Dal punto di vista sociale, poi, l’espansione dell’industria del gas si è tradotta in una vera e propria maledizione per la Regione di Cabo Delgado, dove sono concentrate le operazioni. Migliaia di persone sono state costrette a lasciare i propri villaggi e le loro terre per far spazio alle infrastrutture dell’industria, mentre ampi tratti di mare sono stati dichiarati off-limits, privando intere comunità dei loro mezzi di sussistenza. In un contesto del genere, il risentimento verso il governo di Maputo e le multinazionali occidentali è cresciuto a dismisura, creando terreno fertile per l’avanzata del gruppo di miliziani d’ispirazione jihadista, al-Shabaab. Il risultato è stato l’avvio di un conflitto, tutt’ora in corso, che nella regione ha scatenato l’inferno, causando in pochi anni cinquemila morti e un milione di sfollati. Attualmente, Capo Delgado è occupata militarmente dall’esercito mozambicano e da quello ruandese, ma è presente anche un contingente delle forze armate europee. Ciò nonostante gli attacchi continuano e la popolazione è costretta a spostarsi continuamente per sfuggire alle incursioni dei miliziani.
Finora la Tunisia è stato il Paese su cui si sono maggiormente concentrate le iniziative di Meloni a Sud del Mediterraneo. Ed è anche uno dei Paesi dove Eni opera da più tempo, fin dal 1961. Sebbene la produzione petrolifera del Paese sia molto ridotta rispetto a quella dei suoi vicini, la Tunisia riveste comunque un ruolo fondamentale nello scacchiere energetico del Mediterraneo. Il suo territorio è infatti attraversato dal Transmed, il gasdotto costruito e gestito da Eni, che trasporta il gas algerino fino in Italia. La presenza di Eni in Tunisia si concentra soprattutto nella Regione di Tataouine, nell’estremo Sud del Paese. Un triangolo desertico che delimita il confine con Algeria e Libia, sotto cui si trova la metà delle riserve di petrolio e gas tunisine.
Nonostante ciò, Tataouine è una delle regioni più marginalizzate della Tunisia, con tassi di povertà e disoccupazione giovanile tra i più alti del Paese. A partire dal 2017, la popolazione della Regione è insorta contro le compagnie petrolifere, Eni in primis, arrivando persino a bloccare la produzione per diverse settimane. Il movimento di El Kamour rivendicava posti di lavoro per le comunità locali e che una parte dei proventi dell’industria fosse destinata a un fondo per lo sviluppo della regione, che ancora oggi è affetta da gravissime carenze infrastrutturali e di servizi. Malgrado gli accordi e le promesse da parte delle compagnie petrolifere, la situazione a Tataouine non è mai migliorata, e la principale risposta da parte del governo tunisino è stata la militarizzazione dell’area, che ha reso ancor più difficile la vita dei suoi abitanti.
Spostandosi in Nigeria, altro Paese in cui Eni opera dagli anni Sessanta, a maggio di quest’anno la Commissione ambientale dello Stato di Bayelsa, dove Eni gestisce il terminal di esportazione del petrolio, ha quantificato in 12 miliardi di dollari i danni causati dall’estrazione petrolifera. Secondo lo studio, almeno 110mila barili di petrolio sono stati versati nei fiumi, paludi e foreste, il 90% dei quali proveniente da impianti di proprietà di sole cinque compagnie petrolifere, tra cui Eni.
Se davvero l’Italia vuole “guardare all’Africa con occhi africani” come dichiarato dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, sarebbe bene che iniziasse con l’ascoltare le voci di chi vive in territori sacrificati in nome del petrolio e del gas. “La soluzione è liberare l’Africa da certi europei” diceva Enrico Mattei. Di quegli europei, oggi, potremmo far parte anche noi.
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fabriziosbardella · 2 years
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Il Ciclone Freddy negli ultimi giorni ha colpito in Africa Australe tra Mozambico, Madagascar e Malawi e ha ucciso oltre 400 persone. #ciclonefreddy #africaaustrale #mozambico #madagascar #malawi #percorsoadanello #fabriziosbardella
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diceriadelluntore · 5 months
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Bei Fior
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Questo 25 Aprile è ancora più importante: perchè siamo al culmine di una strisciante strategia di revisionismo, dai tratti sbracati e ingenui (per questo spesso di presa) che continua ad ammiccare, a nascondersi, a non affrontare il problema. Lo fa nonostante sia classe dirigente, lo fa con atteggiamenti antistorici, propagandistici. Lo fa manipolando.
E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno. Scattò il capo e acuì lo sguardo come a vedere più lontano e più profondo, la brama della città e la repugnanza delle colline l’afferrarono insieme e insieme lo squassarono, ma era come radicato per i piedi alle colline. – I’ll go on to the end. I’ll never give up.
Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny
Questo 25 Aprile è anche importante per un altro anniversario.
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50 anni fa una rivoluzione pacifica mise fine ad un regime che credeva fosse meglio vivere non nel presente, ma cento anni nel passato. Un regime che vigeva dal 1926: con il colpo di Stato del generale Carmona, Antonio de Oliveira Salazar è nominato Ministro delle Finanze con pieni poteri nel 1928 e nel 1932 Salazar si trasforma nel dittatore che, attraverso il suo Estado Novo, controllerà per 35 anni ogni aspetto della società portoghese. Nel 1968 una trombosi cerebrale, causata da un incidente domestico, lo allontana per sempre dal potere. Viene quasi subito sostituito da Marcelo Caetano, ma fino al giorno della sua morte nel 1970 rimane convinto di essere ancora il Primo Ministro. Pare che nessuno ebbe mai il coraggio di dirgli la verità. Dopo decenni di oscurantismo, censura, mancate libertà personali, l'ossessivo controllo della PIDE (poi DGS) la polizia politica, istruita dalla Gestapo e dalla CIA, che controlla l'intera popolazione in patria e nelle colonie, dove sin dagli anni '60 ribollono istanze di indipendenza (Angola, Mozambico, Guinea-Bissau). E In Portogallo furono i militari, tramite il Movimento das Forças Armadas, che organizzarono prima un movimento clandestino, poi un effettivo golpe incruento volto a far cadere il Governo Caetano.
La sera del 24 Aprile poco prima di Mezzanotte, il segnale fu lanciato: per la radio di Stato passò una canzone, Grândola vila morena del cantautore e attivista politico José Afonso, da sempre bandita. In poche ore un corteo pacifico di mezzi corazzati entra nel centro di Lisbona. Caetano prima si rifugia nel Palazzo della Guardia Civil, poi si arrende. Il 25 Aprile, sparsa la notizia, la gente si riversa in piazza, e una fioraia, felicissima, inizia a distribuire garofani rossi ai soldati, che li infilano nei loro fucili. È il simbolo della Rinascita: il 1° Maggio 1974 il Portogallo festeggia la Festa dei Lavoratori dopo 46 anni. La Transizione sarà lunga e difficile, ma i Militari mantengono le promesse: indipendenza alle colonie, libere elezioni, un progressivo ammodernamento del Paese.
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giovaneanziano · 3 months
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Sto guardando la partita Mozambico - Eswatini e so che sarà una partita migliore di Svizzera - Italia nonostante sembra di vedere Lumezzane VS Levico Terme
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gianluigicapucci · 5 months
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MOZAMBICO 2024
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gregor-samsung · 2 years
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“ Diceva Eschilo che «la prima vittima della guerra è la verità». Ma la seconda è la logica. Putin affermava di voler «denazificare l’Ucraina», ma usava le bombe e i carri armati, cioè gli stessi metodi con cui Hitler nazificava l’Europa. Gli atlantisti ribattevano che «non si tratta col nemico»: semmai si tratta con l’amico, ma su cosa? Boh. Joe Biden dava del «macellaio» e del «genocida» a Putin, epiteti decisamente appropriati, soprattutto il primo. Ma un tantino indeboliti dal pulpito da cui provenivano: quello del padrone della macelleria (che ha fatto molte più guerre e molti più morti di Putin e al massimo potrebbe assumerlo come garzone). Bill Clinton coglieva l’occasione della guerra di Putin per vantarsi di aver allargato la Nato a Est «pur consapevole che i rapporti con la Russia potevano tornare conflittuali», perché «l’invasione russa dell’Ucraina dimostra che era necessario». Che è un po’ come dire: l’ho preso a calci in culo e lui mi ha spaccato la faccia, quindi avevo ragione io a prenderlo a calci in culo. I trombettieri delle Sturmtruppen ripetevano due mantra. 1. «La Nato è un’alleanza difensiva» (ma non spiegavano come mai nella sua storia abbia aggredito mezzo mondo). 2. «La Nato difende i valori della democrazia» (ma non spiegavano perché vanti tra i suoi soci la Turchia di Erdoğan e abbia appena fomentato un golpettino in Pakistan per cacciare un premier non gradito). Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky intimava all’Ue di rinunciare al gas russo «sporco di sangue», «finanziando il genocidio»: lui però continuava ad acquistarlo tramite Paesi vicini e società svizzere, pagandolo profumatamente, «finanziando il genocidio» e per di più incassando da Putin 1,4 miliardi l’anno «sporchi di sangue» per i diritti di transito del gasdotto russo sotto il suolo ucraino.
L’Onu espelleva la Russia dal Consiglio per i Diritti Umani, presieduto dall’Arabia Saudita (nota culla dei diritti umani, apprezzata da Matteo Renzi, ma soprattutto da Jamal Khashoggi, da ottanta giustiziati nel mese di marzo, nonché dai 370mila morti e dai venti milioni di affamati nello Yemen). Per non dipendere dal gas e dal petrolio dell’autocrate Putin, Draghi firmava contratti per far dipendere l’Italia dall’autocrate algerino Abdelmadjid Tebboune (che reprime partiti di opposizione e sindacati, fa arrestare attivisti per i diritti umani ed è fra i migliori partner militari di Mosca) e di altri regimi autocratici che hanno rifiutato di condannare la Russia all’Onu: Qatar, Egitto (vedi alle voci Regeni e Zaki), Congo (vedi alla voce Attanasio), Angola e Mozambico. E continuava a vendere armi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti (i macellai dello Yemen), all’Egitto e al Qatar. A supporto del ribaltamento della logica, si provvedeva a ribaltare anche il vocabolario, secondo i dettami del ministero della Verità in 1984 di George Orwell: «La guerra è pace», «La libertà è schiavitù», «L’ignoranza è forza». Putin vietava di parlare di «guerra» perché la sua era solo un’«operazione militare speciale». E chi diceva il contrario finiva in galera. Ma in passato anche i buoni occidentali, quando aggredivano militarmente questo e quello, la guerra non la nominavano mai: meglio “missione umanitaria”, “esportazione della democrazia”, “peacekeeping”. A ogni strage di civili – regolarmente attribuita ai russi, anche nei casi in cui era opera delle truppe ucraine o dei loro fiancheggiatori neonazisti del Battaglione “Azov” – si ricorreva a termini impropri come “genocidio” (distruzione sistematica di un popolo, di un’etnia, di un gruppo religioso) e a paragoni blasfemi con l’Olocausto, la Shoah, la Soluzione Finale (termini finora usati da tutti, fuorché dai negazionisti, esclusivamente per quell’unicum storico che fu lo sterminio nazista degli ebrei). Ma bastava leggere i libri di Gino Strada per sapere che le stragi di civili sono una costante di ogni conflitto e si chiamano precisamente “guerra”, visto che in ciascuna il rapporto fra vittime civili e militari è invariabilmente di 9 a 1. E quella in Ucraina purtroppo non faceva eccezione, malgrado l’indignazione selettiva dei fanatici atlantisti che – per bloccare sul nascere qualunque tentativo di portare Putin al tavolo del negoziato – si affannavano a dipingere quel conflitto come diverso da tutti gli altri per le vittime civili, le fosse comuni, le torture, le violenze gratuite e le armi proibite (anch’esse caratteristiche costanti di tutti i conflitti, inclusi quelli scatenati dai “buoni”). “
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Dalla prefazione di Marco Travaglio a:
Franco Cardini, Fabio Mini, Ucraina. La guerra e la storia, Paper First, Maggio 2022 [Libro elettronico]
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abr · 1 year
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Negli anni ‘80 le mummie del Cremlino usavano il contingente cubano e i loro «consiglieri» per appoggiare regimi amici in Africa. Oggi Vladimir Putin dispone della compagnia di sicurezza Wagner, impegnata da tempo in un grande «safari». (...) Mosca – sottolineano le indiscrezioni (dal Foggy Bottom del Pentagono e del Deep State di Washington) rilanciate dal (loro house organ) Washington Post – si è mossa per piazzare sue basi, ha dato il suo supporto ad eserciti africani, ha manovrato per (difendere e incrementare i regimi) anti-occidentali. Un obiettivo ampliato dopo l’invasione dell’Ucraina, con missioni a ripetizione, (intelligente) ricerca di sponde diplomatiche (contrariamente al più brutale alleato cinese, che lavora coi soldi) – vedi il Sudafrica – promesse e aiuti. Sono una dozzina i Paesi dove (...) agiscono (...) con presenze di consistenza diversa. Hanno messo radici in Libia al fianco del generale Haftar, «signore» della Cirenaica, zona diventata un avamposto formidabile, utile per proiezioni oltre i confini libici (btw, grazie a Francia, UK e Obama per averci tolto il controllo di quel Paese, per regalarlo al loro nemico giurato).
Sono corsi in Mozambico, però le hanno «buscate» con perdite. È andata meglio in Mali e Centrafrica, due Paesi dove la «ditta» ha conquistato posizioni sfruttando gli errori e il risentimento verso l'ex colonialista francese (ex? Ndr) e la grave situazione socio-economica. I russi hanno cavalcato alla grande (gli investimenti dei cinesi, gli errori occidentali tipo eliminazione di Gheddafi e quelli nei confronti dei vicini, come l'ostilità di Biden verso Israele e i Paesi arabi ricchi) (...).
In Sudan (i russi) hanno stretto un buon rapporto con le milizie del generale Mohamed Dagalo, però hanno anche preservato i rapporti con il potere centrale incarnato dal generale Abdel Fattah Al Burhan. La Russia punta ad ottenere una base sul Mar Rosso – c’è un accordo di principio – ed è interessata al traffico d’oro gestito proprio da Dagalo, appoggiato a sua volta dagli Emirati Arabi (...). Secondo gli osservatori i russi sono piuttosto cauti (...), non vogliono sbilanciarsi più di tanto e bruciare i ponti. L’Africa non è facile neppure per loro. (...) In Centrafrica, (...) dove traggono vantaggi dalle miniere, la «compagnia» ha spinto indietro i ribelli, tuttavia restano i pericoli documentati dalla strage di tecnici cinesi.Washington (...) da tempo ha dato vita ad una contro-strategia (esercitando) pressioni, sollecitando la cooperazione di vecchi partner (...), specie in chiave anti-terrorismo con droni, ricognitori e commandos. Hanno il Comando Africa basato però a Stoccarda perché nessuno Stato lo ha voluto ospitare (in realtà gli americani preferiscono starsene al sicuro, mandando sul campo solo droni e commandos). (Specializzazione Usa, la "guerra sporca":) in un’occasione – sempre secondo le carte top secret – ha organizzato un’operazione coperta per distruggere un velivolo della Wagner in Libia. Più in generale gli investimenti statunitensi e l’attenzione sono diventati inferiori rispetto a quelli dei concorrenti, cinesi in particolare. (Stessa cosa succede ai loro "Alleati": UK è fuori da un pezzo, conta meno dell'Italia; il Sudafrica che ai tempi combatté i cubani in Angola, post apartheid ha girato le spalle agli Usa, mentre) Parigi, dopo aver dominato per decenni, è in ripiegamento. Lasciato il Mali, è stata messa alla porta in Burkina Faso, altro «attore» corteggiato dai russi. Adesso teme per il Ciad e, stando alle carte riservate, è pronta a colpire se il pendolo dovesse spostarsi in favore di Mosca. Girano voci di rischio golpe (cme sempe "spintaneo"). Da buoni opportunisti a Mosca aspettano. La nuova guerra fredda passa per le terre calde.
dal corrierone bel pezzo di Marinelli e G.Olimpio, basta depurarlo dalla propaganda e arricchrirlo di memoria storica (fatto: la realtà trapela anche quando viene "vestita"). https://www.corriere.it/esteri/23_aprile_24/wagner-sudan-48ba15c0-e200-11ed-a60a-9823b7efe925.shtml
Siamo di nuovo in pieno BIG GAME geopolitico. Solo che stavolta non vi dicono che arranchiamo e come ai vecchi bei tempi ci affidiamo alle operazioni speciali (tipo North Stream) e ai golpe della CIa coi suoi Pinochet.
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fucktheglorydays · 2 years
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DOCUMENTARY | PUNK IN AFRICA
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La storia del movimento clandestino punk sudafricano a partire dagli anni ‘70 in poi. In un’epoca in cui in Sudafrica l’apartheid fu messa in discussione con violente ripercussioni, la guerra civile esplodeva in Mozambico e in Zimbabwe avvenivano massacri, ci fu una generazione di ragazzi, che cercò di sovvertire il conservatorismo e l’apartheid, ispirati da ideali politici, dalla cultura giovanile, da visioni antisistema e dalle sonorità tipiche delle band americane ed inglesi. Diretto da Keith Jones, ‘Punk In Africa’ esplora le origini della scena punk multirazziale sudafricana, mostrando in quali condizioni si trovava il panorama culturale del paese, dopo tre decenni di apartheid e segregazione razziale, quando formare una band con bianchi e neri era una scelta rischiosa e totalmente fuorilegge. Il film è un meraviglioso montaggio di filmati, poster, flyer DIY e interviste ai membri di band come i like National Wake, Wild Youth, Safari Suits, Power Age, Screaming Foetus, Gay Marines, The Rudimentals e tanti altri. Non finisce qui, perché il documentario mostra anche quello che verrà dopo: la seconda ondata di musica influenzata dal punk, dagli anni ‘90 fino ad oggi. Uguaglianza, pace e anarchia - buona visione.
This is the striking story of the hidden, underground and banned punk movement in Southern Africa from the 70s onward. During an era in which apartheid was being challenged in South Africa with violent repercussions, civil war burned across Mozambique and massacres occurred in Zimbabwe, a vibrant, progressive generation looked to subvert conservatism and apartheid, galvanized by politics, youth culture, anti-establishment themes and the sounds of American and British punk bands. Directed by Keith Jones, ‘Punk In Africa’ examines the beginnings of the multiracial South African punk scene, aiming to show what the country’s cultural landscape was like after three decades under apartheid and segregation, when starting a mixed race band was totally illegal and a risky proposition. The film is an amazing montage of show footage, DIY fliers and interviews to members of bands likeNational Wake, Wild Youth, Safari Suits, Power Age, Screaming Foetus, Gay Marines, The Rudimentals and many more. This isn’t over, because it also documents what came after: a second wave of punk-influenced music in the 1990s that continues today. Equality, peace and anarchy - enjoy it.
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ninocom5786 · 2 years
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Il fenomeno migratorio, nei secoli, è servito sempre ai potenti per depotenziare gli oppressi, incentivato con atti di pura violenza o persuasione.
La solidarietà internazionale non consiste nell'attrarre le nostre genti altrove, ma nel creare condizioni di lotta per rendere vivibile e autonoma questa terra.
Gli occidentali ci dicono: "La tua terra è feccia, povera, vai via!" nel mentre loro ci saccheggiano risorse e dignità e schiavizzano lo straniero nei loro paesi.
L'immigrazione era prima un'arma dei coloni, oggi lo è del capitalismo coloniale.
Con in testa il mito dell'emigrazione la nostra lotta non sarebbe mai nata, ne avvenuta.
L'emigrazione, l'abbandono della propria terra, è il primo ostacolo alla rivoluzione. L'ultimo passaggio dell'imperialismo. (Samora Machel, leader del FRELIMO e primo Presidente del Mozambico)
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manuelbozzi · 2 years
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nicodemolarosa · 2 years
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Pemba (Mozambico) A Praia do Wimbe
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petello993 · 2 years
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Mentre tutti guardano la partita Russia - Ucraina in Tv e sui giornali...
L’Africa è – o meglio, le Afriche sono – il continente più martoriato, in cui a volte è anche difficile definire i confini dei vari conflitti e isolarli gli uni dagli altri. Il 2021, poi, riporta Nigrizia, è stato un anno particolarmente tumultuoso: pochi i conflitti che si sono conclusi, molti si sono intensificati, altri rischiano di scoppiare. Ci sono almeno una ventina di principali “aree di crisi” nelle Afriche. Sempre secondo Acled sono 12 i paesi che dal 1° gennaio 2021 all’8 aprile marzo 2022 hanno superato la soglia dei mille morti per le violenze armate: Nigeria (10.584), Etiopia (8.786), Rd Congo (5.725), Somalia (3.523), Burkina Faso (2.943), Mali (2.344), Sud Sudan (2.160), Repubblica Centrafricana (1.801), Sudan (1.342), Niger (1.324), Mozambico (1.276), Camerun (1.141).
Complessivamente, nel continente ci sono state oltre 46 mila le vittime di conflitti di varia natura e decine di milioni i profughi. Inoltre un rapporto dell’Istituto per l’economia e la pace afferma che il Medioriente e il Nordafrica hanno rappresentato il 39% delle morti legate al terrorismo in tutto il mondo tra il 2007 e il 2021. E il Sahel sta diventando il nuovo epicentro del terrorismo.
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gdsradio7 · 26 days
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Arrivano pesanti condanne per i trafficanti di corni di rinoceronte
La condanna in Mozambico a 27 anni di carcere per Simon Valoi, noto anche come “Navara”, e a 24 anni per Paulo Zucula è una vittoria significativa contro il traffico di corni di rinoceronte. I due famigerati trafficantiillegali di corni di rinoceronte erano stati arrestati nel luglio 2022 da parte del Serviço Nacional de Investigação Criminal (SERNIC) con il supporto della Wildlife Justice…
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diceriadelluntore · 5 months
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Cravos
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Ho ricevuto moltissimi messaggi circa la storia della canzone segnale della Rivoluzione dei Garofani, in portoghese Cravos. E ringraziando, racconto una storia al riguardo.
Il 24 aprile 1974, alle ore 22,55, Radio Clube Português trasmette una canzone, che è il presegnale: Depois de Adeus (E dopo l'addio) di Paulo de Carvalho. Questa era una canzone d'amore che ebbe una certa notorietà perchè partecipò all'Eurovision dello stesso anno. È una dolce canzone d'amore. Pochi minuti prima della mezzanotte, altre fonti dicono alle 00:29 del 25 Aprile, dalle onde radio della Stazione ultracattolica di Radio Renascença passano le note di Grândola vila morena, autore Josè "Zeca" Afonso. Afonso era nato nelle colonie, crebbe in Angola e poi insegnò Storia in Mozambico, ma fu allontanato dall'insegnamento per le sue idee politiche. Ritorna in patria e gira il Paese, a testimoniare le angherie della Dittatura salazarista: a metà anni '60, facendosi promotore di una Riforma Agraria, scrive dei contadini di una splendida regione portoghese, l'Alentejo. Nel 1964, Afonso compone il poema Grândola Vila Morena in omaggio alle tradizioni di solidarietà di un villaggio dell’Alentejo dove era stato invitato a cantare. Nel 1971, mette in musica questo poema, facendone una canzone. La canzone non è "sovversiva", ma siccome l'autore era tenuto sotto massima osservazione dalla Polizia del Regime, finì bandita.
Un unico giornale sopravvisse alla controllo editoriale di Salazar: si chiamava Republica, fondato nel 1911 da António José de Almeida, che fu in seguito Presidente della Repubblica Portoghese. Fu espressione del pensiero laico e borghese progressista e nel 1974 fu il primo giornale a dare la notizia della caduta del Regime. Chiuse in maniera tumultuosa nel 1976, tanto che si parla nella storia culturale portoghese di un Caso Republica. Nello stesso anno della sua chiusura, Eugenio Scalfari si ispirò a questo giornale per chiamare quello che allora fu un giornale rivoluzionario nel panorama editoriale italiano, e non solo: la Repubblica.
Terra da fraternidade – Terra di fraternità O povo é quem mais ordena – solo il popolo comanda Dentro de ti, ó cidade – tra le tue mura, o mia città
Dentro de ti, ó cidade – tra le tue mura, o mia città O povo é quem mais ordena – solo il popolo comanda Terra da fraternidade - terre di fraternità Grândola, vila morena - Grândola, città bruna
Em cada esquina um amigo – A ogni angolo di strada un amico Em cada rosto igualdade – Su ogni volto l’uguaglianza Grândola, vila morena - Grândola, città bruna Terra da fraternidade – Terra di fraternità
Terra da fraternidade – Terra di fraternità Grândola, vila morena - Grândola, città bruna Em cada rosto igualdade – Su ogni volto l’uguaglianza O povo é quem mais ordena – Solo il popolo comanda
À sombra duma azinheira – All’ombra di un leccio Que já não sabia a idade- che non ricordava più la sua età Jurei ter por companheira – Ho giurato di avere per compagna Grândola a tua vontade - Grândola, la tua volontà
Grândola a tua vontade - Grândola la tua volontà Jurei ter por companheira – Ho giurato di avere per compagna À sombra duma azinheira – All’ombra di un leccio Que já não sabia a idade – Che non ricordava più la sua età
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