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#buio e luce tra cielo e terra. <
annalisalanci · 1 year
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La filosofia dell'esoterismo
La filosofia dell'esoterismo
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La filosofia dell'esoterismo
La psicologia esoterica, condivide gran parte del terreno della filosofia. Essa è un diverso progetto di verità che ritrova la sua peculiarità all'interno delle filosofie che hanno animato l'esoterismo, ma anche soprattutto vuole ricostruire un rapporto oltre che con il passato della filosofia, in cui il <<discorso>> sulla psiche era appunto di pertinenza filosofica e non scientifica, anche con il presente della filosofia. 
Tra le filosofie contemporanee in cui la psicologia esoterica può trovare il suo innesto, abbiamo quella particolare forma di esistenzialismo formulata da Heidegger e dai filosofi che hanno portato avanti il suo pensiero. Fu lo stesso Heidegger ad offrire un nuovo terreno di sviluppo alla metafisica e un senso nuovo alla filosofia come discorso sull'essere e sull'esistere relativo in particolare alla posizione dell'uomo rispetto all'uno e all'altro ambito. 
L'uomo come <<esserci>>, presenza nel mondo, diventa, infatti, la cosa unica, dove questa distinzione è annullata per realizzare il mistero umano in cui l'essere non può essere distinto dal suo <<ci>>. Nei vangeli della rivoluzione scientifica abbiamo inseguito il paradosso si un soggetto puro separato dal suo mondo che poteva diventare un oggetto di studio, un soggetto sopra e un mondo sotto. 
L'uomo esiste perchè partecipe dell'essere, ma esiste anche in quanto presente nel mondo e non possiamo immaginarci altrimenti. Essere e mondo diventano quindi nell'uomo cosa unica, l'esserci (il dasein). 
E' sotto questa luce che la psicologia esoterica trova il suo riferimento filosofico, poiché ogni scienza si propone di conoscere l'ente e niente altro, essa non si chiede che cosa sia questo niente altro, il niente. L'esperienza del niente non è però un'esperienza <<comprensibile>>, ma piuttosto emotiva dell'uomo percorso dall'angoscia: essa è un'emozione, un'esperienza psichica e per certi versi un'esperienza mistica di enso contrario quando si fa pura, quando cioè l'angoscia come esperienza del nulla si fa così profonda da non consentire all'ente di apparire e di significare, l'abisso contro l'assoluto, non coglibile razionalmente, ma solo attraverso il sentimento: l'anima ha però la capacità di illuminare l'ente, essa ha in sé la luce che rende possibile la rivelazione dell'ente dal niente in quanto ente per l'essere esistenziale dell'uomo. Il niente quindi è la condizione per cui l'ente si svela ad un essere aperto alle cose. Per vedere le cose occorre che siano illuminate, l'apertura dell'uomo alle cose è questa luce. 
La verità, in greco a-l'éteia (non-nascondimento), è manifestazione , svelatezza, tutta la Cabala è un'interpretazione simbolica di questo svelarsi del non manifesto (ain soph aur). Appare appunto lampante che se c'è un non-nascondimento esiste anche un <<nascondimento>> (léte) che sta dietro alla manifestazione. 
Alla verità come manifestazione si contrappone la non verità del nascondimento, cioè l'immanifesto, e la non verità come errore. 
Se la verità è non-nascondimento, il nascondimento appare essenziale alla verità, proprio come l'immanifesto alla manifestazione, nell'albero cabalistico. Esso è in realtà quell'orizzonte cui volgono lo sguardo il misticismo, la Cabala e la stessa magia che si riferiscono a questa fonte sotterranea, che come nascondimento precede ogni svelamento, il mistero che precede il disvelarsi del manifesto. 
Una psicologia esoterica che voglia dirsi tale deve riportare l'attenzione dell'anima sul mistero, senza tuttavia distoglierla completamente dall'ente manifesto, ma trovando invece un equilibrio ideale, come abbiamo visto per esempio parlando dell'ecospiritualità. Per fare questo l'anima come presenza nel mondo, ha bisogno innanzitutto di comprendersi e di conoscersi, prima di andare ad esplorare i rapporti con il circostante, e quindi necessita di un modello della psiche che sarà naturalmente esotericamente orientato. 
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frammenti--di--cuore · 3 months
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I noiosi bilanci che mi tocca fare ogni tanto (e che a voi tocca leggere)
La mia vita è cambiata così tanto nell'ultimo periodo e stava cambiando anche quando credevo di essere ferma, stava cambiando anche quando io mi sentivo sempre la stessa (inutile) persona di sempre, anche quando ho passato pomeriggi interi a cercare soluzioni e a non trovarne neanche una, anche quando ho fatto passi indietro, anche quando ero incazzata, schifata, delusa, anche quando dicevo di volermi fermare e non andare più avanti. La mia vita e già mi basta dire "la mia vita" per sentirmi le lacrime agli occhi...la mia vita è perfetta così, anche se non è perfetta e non è sempre come la vorrei e delle volte mi fa piangere, delle volte mi ferisce ma la mia vita...vedi, la mia vita mi regala emozioni, sensazioni forti sulla pelle, mi fa sentire il cuore leggero e pesante, mi fa toccare il cielo e mi fa precipitare per terra ed io in quei momenti sono felice e soffro e oggi mi sento finalmente grata per entrambe le cose. Oggi so che la vita è sentire che sei vivo e, per sentire che sei vivo, devi vivere e, vivere, è una cosa bella e brutta allo stesso tempo, è freddo e caldo, è buio e luce...e queste sono tutte cose di cui nessuno di noi può fare a meno, perché la vita è vita solo così.
Oggi sono qui a scrivere questo, tra qualche giorno potrei rileggere tutto ciò e pensare che sono tutte cazzate...e mi sta bene così.
Oggi non so ancora chi sono e mi sta bene così, perché significa che dovrò fare ancora infinite esperienze per scoprirlo e non vedo l'ora di viverle.
Oggi mi affaccio ad un nuovo anno e mi fa paura come mi fanno sempre paura i nuovi anni, ma oggi i miei occhi sono in grado di guardare indietro ed avanti e il mio cuore è in grado di essere grato per quello che mi lascio dietro e per quello che mi aspetta da adesso in poi.
Non ho solo un anno in più, ho mille esperienze in più dentro e sono più vicina ad altre mille esperienze che mi aspettano più avanti lì fuori.
zoe, sì sempre io
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missfreija · 1 year
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title: /// (mi rifiuto di dare un titolo lol)
fandom: vampire chronicles
pairing: armand/marius
romance, fluff, venice era
Il pennello intinto di nero scorreva veloce nello spazio della tela, stretto tra le dita sottili di Marius che, in piedi tra le pieghe del suo abito ampio, dipingeva la fine dell'umanità per mano del Dio cristiano. Le sue labbra si increspavano in un guizzo di nervosismo, mentre gli occhi, ombreggiati dai capelli biondi, gli conferivano un’ espressione assorta. Tra le mura del palazzo echeggiò un lontano rimbombo di passi. “Maestro, non dovrebbe affaticarsi troppo, è da più di una settimana che non stacca le mani da quel lavoro.” Gli occhi pensosi erano mutati in pozze colme di beatitudine non appena il giovane umano dai capelli ambrati ebbe varcato la soglia. “Dovresti sapere che non ti è permesso entrare in questa stanza senza il mio consenso, Amedeo" mormoró il vampiro, accennando un lieve sorriso indulgente. Amedeo si avvicinò alla composizione con curiosità, mentre Marius si accingeva a riprendere la sua meravigliosa opera, dopo aver ripulito frettolosamente le macchie di pittura disseminate sul pallido braccio. “Che concetto si cela alla base della vostra nuova creazione?” domandò il giovane. “È scaturito da un mio sogno.” Precisò. “Devi sapere, Amedeo, che ciò che per gli umani pare molto tempo, dal calar del sole al sorger della luna, per una qualsiasi divinità equivale a meno di un secondo. Così, il sole si abbassa sulla terra sfumando di rosa aranciato il cielo e le nuvole per poi scomparire, lasciando il palcoscenico alla luna ed accendendo le costellazioni davanti agli occhi di Dio. Rifulgono i bianchi marmi dei templi nella notte, colonne scanalate dai capitelli fioriti d'acanto sostengono fregi rappresentanti imprese eroiche e miti del passato. Bassorilievi muti fissano le tenebre della terra sovrastate dalle splendenti stelle accompagnate dal chiaro volto di Proserpina. E un soffio da oriente, vento ormai debole, adagia una corona intrecciata di fiori, in via di appassire, sulla gradinata di fronte all'alta ed imponente statua del Cristo. Io mi trovavo in questo scenario e piangevo, come morte, persone ancora in vita, guardando l'oro delle nuove città bagnarsi del sangue causato dalle guerre e i cadaveri dei morti venir risucchiati nel regno degli inferi, ove si nasconde il più profondo male dell'uomo, nutrimento demoniaco o forma del demonio stesso. Mi trovavo, in questa illusoria macchinazione febbrile, proprio nel cuore della strage, dove gli arcangeli sterminavano le creazioni dell’umanità. Desideravo scomparire, chiudere gli occhi e tornare a dipingere: illuminare il cielo nella raffigurazione per cancellare la notte che tentava invano di rammentarmi tele e dipinti passati, mai dimenticati nel mio cuore.” Il signore del palazzo veneziano sorrise amaramente, posò il pennello e premette una mano sulla schiena di Amedeo, attonito, in un invito a precederlo. Si avviarono lungo un buio porticato che si affacciava sul cortile. Gocce di pittura nera rigavano i volti di cento angeli nel cielo al tramonto.
Marius entrò nella stanza e i suoi occhi non ebbero bisogno di attendere qualche istante per abituarsi alla nuova atmosfera dalla scarsa luminosità. Il tenue bagliore sprigionato dalle poche candele sul tavolo era più che sufficiente per illuminare il suo mondo circostante. Pian piano andò notando la radiosa ed armoniosa figura che rimaneva semi sdraiata sull'ampio letto dai cuscini di prezioso velluto. Era abbastanza longilinea e sorrideva verso il vampiro, il ritratto della paziente attesa. La pelle chiara rifletteva la luce soffusa delle candele che sprigionavano profumi delicati di spezie e di sandalo, le gambe distese sui soffici cuscini erano leggermente piegate per dare una postura eretta al bacino. Marius mosse un passo verso l'oggetto del suo desiderio. Un sottile velo di seta, che copriva le spalle del giovane ucraino, era scivolato lentamente di lato nascondendo in parte i capezzoli che risaltavano più scuri nella sua trasparenza. Un braccio in tensione, il sinistro, reggeva il busto affondando la mano tra i cuscini mentre l'altro si scaricava rilassato su di un fianco mostrando l'avambraccio. Il giovane portava al dito un onice di piccole dimensioni. Lo sguardo limpido di Amedeo pareva ebbro di gioia, le sue palpebre inondate di una misteriosa polvere dorata che scuriva il contorno dell' occhio dando un' apparenza di intensa profondità. Le mani statuarie sul suo bacino fecero perdere l'equilibrio a quella postura precaria; il suo corpo si distese sui cuscini e la pelle fremette a quel contatto, bramando una connessione più penetrante e appagante. Il capo era reclinato sulla spalla sinistra, gli occhi ora semichiusi e ombreggiati dalle ciglia scure. ''Siete finalmente tornato, Maestro'' mormorò il cherubino. Quell'amore rendeva completa e significativa tutta la sua esistenza di giovane ragazzo umano, e Marius in qualche modo lo sapeva. Posó baci morbidi come petali sulle gote e sui capelli di Amedeo, con immensa gentilezza mentre il giovane si metteva a sedere e reclinava il capo in avanti per accogliere quel gesto, lottando contro le lacrime che minacciavano di rigargli le guance e contro l'emozione che gli serrava la gola. Le sue mani cercarono il petto ricoperto dalla tunica di Marius. Era troppo forte il desiderio di far scorrere le labbra sulla pelle marmorea del suo signore, in una scia di baci adoranti. Le labbra rosee si socchiusero in un respiro più profondo degli altri; il giovane alzò la testa con un movimento quasi felino, trascinante, e incontrò lo sguardo di Marius. Le iridi brune simili a granato parevano celare arcani antichi ed impenetrabili. Il potere insito in quello sguardo lo sopraffece. Armand serrò gli occhi al socchiudersi delle labbra fredde sulle proprie, baciando con trasporto il suo signore. Sotto il peso del corpo del vampiro, l'umano alzò involontariamente una gamba e la seta strusciò contro il suo fianco. La mano destra di Amedeo corse a sistemare una ciocca dei capelli chiari del maestro dietro l'orecchio; erano setosi e parevano vivi, sciogliendosi fino alle spalle in una morbida cascata color miele. Le sue labbra lasciarono intravedere visibili per un attimo i bianchi denti in un sorriso, la lingua rossa per un istante passò ad inumidire il labbro superiore, ma fu fermata, come animale intrappolato, tra canini aguzzi. Marius scoprì le parti nascoste di quel corpo che aveva imparato a conoscere; con adorazione, passò le dita tra i capelli profumati che giacevano sparsi sulla superficie morbida delle lenzuola. ''Esprimi i tuoi desideri, Amedeo''
Marius parlò con inflessione melodiosa, quasi vibrante, e con una punta di decisione nel tono, ma parve infinitamente dolce alle orecchie rapite di Amedeo. Gli attimi di felicità che aveva condiviso con lo scomparso Andrei gli restarono nei ricordi.
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO TERZO - di Gianpiero Menniti
L'IDEA IMPRECISA
La suggestione dell'idea come espressione della razionalità, come codice che fornisce identità comune alla comunità degli esseri umani, è molto antica. Il pensiero occidentale è debitore a Platone il quale seppe cogliere nel concetto di "anima" l'incontrovertibile della verità che viene in luce, in opposizione alla doxa delle sensazioni e delle espressioni soggettive: nell'anima, entità invisibile ma generatrice del pensiero, l'idea è "ἀλήθεια", svelamento, uscita dall'oblio, chiarezza, evidenza. Si comprende quale valore abbia la relazione tra luce e tenebre, non solo come metafora dell'incessante ricerca del significato: è la luce la condizione della "forma", del fenomeno, dell'apparire, del reale. "Ιδέαι" sono dunque le entità eterne costitutive della realtà, ne rappresentano l'essenza. Eppure, fuori dalle espressioni matematiche, dei numeri e delle forme geometriche, le idee circolano se fanno storia: si affermano qualora divengano una narrazione condivisa. Se con sant'Agostino l'anima platonica entra a pieno titolo nella dimensione teologica di una religione dei "corpi" - senza il concetto di corpo è impossibile capire il cristianesimo - il riflesso dell'idealismo primigenio che si porta dietro, induce a ritenere la razionalità delle idee il marchio della loro autenticità, del loro ancoraggio saldo alla verità. Così, il pensiero occidentale, da Platone in avanti, ha proseguito nel solco dell'idea come atto generativo, della creazione che ha un'origine rispetto al nulla. Il buio è il nulla. La luce è il primo atto. «In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte.» - Genesi, capitolo primo - Dunque, l'occidente crede nell'essere e nel nulla, nella creazione e nel significato. Ma l'occidente cristiano. Non quello greco. Che non a caso, dimenticando la lezione di Parmenide, ha espresso, magistralmente, l'inquietudine di trovarsi di fronte al baratro del "nulla" nella tragedia. Ecco perché noi siamo cristiani e non più greci: abbiamo risolto la terribile percezione di un'assenza del significato, nella fede in un atto di creazione che ogni essente ha tratto dalle tenebre. Non importa che quest'idea sia imprecisa, non trovi fondamento in un'evidenza: l'idea stessa del rimedio alla morte nel nulla, per quanto inesplicabile, indefinibile, inconsistente sul piano materiale, ha conquistato il mondo e costituito la sua direzione storica. Ecco perché Nietzsche definì questa concezione il "colpo di genio del cristianesimo". Idea imprecisa quanto contraddittoria: Dio non è luce, ma è ciò che non può essere mai svelato. Altrimenti, Dio diverrebbe un concetto, una "cosa" come le altre cose del mondo. Per questa ragione, l'occidente designa il malefico con il termine "Lucifero", colui che porta la luce, colui che vuole svelare, colui che vuole "reificare" il Dio creatore. Idea imprecisa, dunque. Perché la perfezione dell'idea possiede qualcosa di luciferino, in sé. Mentre il dubbio e la ricerca, contengono una tensione vitale che spesso si dimentica o volutamente si tralascia. L'esperienza del viaggio ha più valore della meta. Presunta. Forse inutile.
- Gaetano Previati (1852-1920): "La creazione della luce" - 1913 circa, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma - In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto" 1975, collezione privata
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gregor-samsung · 2 years
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“ Il paese s'era messo a vivere la sua curiosa vita invernale: le giornate e le notti si confondevano, l'ombra e il buio nascevano senza violento contrasto. Il mattino spruzzava un po' di chiaro nell'ombra con la pigrizia annoiata di un compito eterno: il paese pareva disabitato, radi i passanti, piú radi i capannelli dei contadini che avvolti nei mantelli, il viso sprofondato nei baveri, passavano ore, talvolta, a guardarsi taciturni, o ad ascoltare la narrazione di un fatto a cui nessuno credeva. Ma nell'interno delle case la vita acquistava un suo piacevole andamento; gli uomini attirati dal tepore del camino uscivano poco e si mischiavano con sempre maggiore intimità alla vita delle donne e dei ragazzi. Perciò, gente d'ordinario taciturna, non faceva che parlare, parlare; l'immobilità nello spazio trovava il suo correttivo nella mobilità della fantasia. Era il periodo dei racconti, delle favole, del ricordo di motti arguti, delle elencazioni delle genealogie. L'intreccio inestricabile delle parentele veniva dipanato dai piú vecchi che si compiacevano di questa funzione di cronisti e, senza volerlo, con quell'operazione naturale della mente che è volta a rendere armoniche le disarmonie del passato davano ai semplici fatti narrati un ritmo di favolosa invenzione. Gl'interventi delle persone venivano posti nelle congiunture che piú necessariamente li richiedevano: gl'incontri erano miracolosi e scioglievano agevolmente i contrasti. Il passato cosí inconsapevolmente composto e armonizzato si coloriva di bellezza. Il presente con le sue inquietudini appariva alla mente come provvisorio, come qualcosa che avendo termine doveva dar luogo al lontano ordine perduto. Le vicende locali passate li orientavano nei rapporti con gli altri membri della comunità che erano tutti caratterizzati con virtú e difetti che, a detta degli anziani, venivano loro da fonti lontane. Rimontando di generazione in generazione quelle virtú e quei difetti acquistavano coerenza e continuità. Nel vasto dramma che ognuno si veniva componendo nella mente gli attori erano disegnati a tutto rilievo e agivano secondo la necessità interna della tradizione. La terra intanto, sotto la pioggia e la nebbia, riposava quietamente; i contadini l'avevano abbandonata al suo riposo. Cosí, nera, fumigante di vapori, era misteriosa e diabolica. Il seme gettato nel suo grembo germinava segretamente secondo una legge che nessuno poteva comprendere. Solo quando le prime foglie tenerissime avevano compiuto il prodigio di aprirsi un varco tra le zolle tutto si faceva chiaro. Allora interveniva l'idea di Dio, il crescere, il verzicare avvenivano nella luce, nel regno delle cose evidenti che la ragione raggiungeva. Per le piante e il grano cresciuti si potevano invocare i santi, scongiurare con preghiere il fulmine e la grandine, ma la vita segreta della terra sfuggiva ai certi poteri del cielo: non si poteva influire su di lei come sul ventre gravido delle donne che con gesti di oscura magia. Ma la terra piú che il cielo aveva una legge ferrea, il grano nasceva sempre, Dio e il cielo potevano, talvolta, non mandare la spiga. “
Francesco Jovine, Signora Ava, Einaudi, 1958; pp. 102-104.
[1ª edizione originale: 1942]
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sophiaepsiche · 1 year
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Le profondità di San Charbel
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Il silenzio interiore era il suo regno, l’anello di congiunzione con Cristo.
La purificazione spirituale inizia senza una fine: dura finché l’anima non si riempie della divina sapienza.
Aveva sempre lo sguardo fisso per terra, non guardava, non parlava con nessuno se non quando richiesto.
Charbel in questo modo ha cercato di escludere le emozioni e di superarle, per fare di se stesso un’offerta a Dio con amore puro.
Di fronte alla fugacità del mondo sente il bisogno di raddoppiare lo spirito di abbandono di tutto per Dio.
Ogni cosa esterna scompare, rimane solo la grazia che gli permette di entrare nel mondo di Dio.
Padre Charbel vuole stare solo con il Solo.
Non proverà mai una consolazione umana ma solo quella proveniente da Dio.
Il suo desiderio di non distogliere lo ‘sguardo da Dio’ era la sua preoccupazione principale.
Lascia tutto per possedere il ‘Tutto’.
Charbel conosce tutta l’ambiguità interiore ed esteriore della sua mente.
Aspetta la luce di Dio mentre medita sulla natura umana. Sondando in profondità il suo animo.
Solo con il silenzio incondizionato Padre Charbel acquistava maggiore consapevolezza dell’amore reciproco tra lui e Dio, amore santificante con il quale interagire per essere trasfigurato interiormente
Charbel continuò il suo viaggio profondo immergendosi nel suo deserto interiore, necessario per l’ascesa verso Dio. 
Allontanarsi da se stesso, scoprirsi immensamente povero faceva sì che potesse avvicinarsi a Dio, riempirsi di Dio, diventando un tutt’uno con Lui.
In qualsiasi luogo si trovasse, stava in meditazione nel più assoluto silenzio. 
Solo così poteva raggiungere la pace interiore e quell’umiltà necessaria per avvicinarsi a Dio e comunicare con Lui.
L’atmosfera ascetica lo manteneva in unione con il Cielo, purificando continuamente e incessantemente il suo cuore e la sua mente.
Charbel lottò con il buio umano perché solo così sarebbe riuscito a purificarsi interiormente.
Qualsiasi preoccupazione, qualsiasi sbaglio, anche la più semplice disattenzione, lo incoraggiarono a proseguire e a cercare Dio nella sua pienezza.
Egli faticava a liberarsi totalmente di sé, né riusciva a vivere pienamente nella luce di Dio, ma si aggrappava a tutto ciò che gli permetteva di avvicinarsi ad essa.
Cercava continuamente di uscire dalle tenebre, proprie dell’uomo, non tanto per liberarsi dalla sofferenza interiore, quanto per trovare la pienezza interiore di Dio.
- citazioni sulla vita del monaco eremita San Charbel tratte da “San Charbel - Itinerario nelle profondità” di Padre Elias al Jamhoury
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mypickleoperapeanut · 6 months
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"Il faro di Punta Trak"
da Favole & dintorni
Questo è il racconto in prima persona di un marinaio di terra, atipico e anticonvenzionale, che pur non navigando per mare, tocca tanti porti.
Il grande faro di Punta Trak, così alto, imponente e con in cima, proprio sotto la sua lanterna, la stretta terrazza circolare, tutta delimitata da una robusta ringhiera di ferro, è il mio riferimento giornaliero, sulla strada che mi porta al lavoro, mi capita spesso di vederlo nelle fredde e umide mattine invernali, quando ancora il buio predomina e le prime luci dell’alba stentano non poco a farsi strada, molto spesso è quasi del tutto immerso nella nebbia, talmente fitta da non lasciar scorgere niente e nessuno alla sua base, dandomi così l’impressione che quella sua luce rotante sia sospesa nel cielo.
Il faro si lascia comunque scorgere facendo capolino fra le basse nuvole cariche di pioggia, sono le sue tre larghe fasce rosse orizzontali che si alternano al bianco, proprio in alto, a renderlo visibile e inconfondibile anche senza luce.
Punta Trak è una grande area alla periferia nord est della città, il faro che ne prende il nome è nella sua parte più estrema.
Una zona con tanti vecchi edifici, grandi capannoni, magazzini di stoccaggio, motrici di treni che spingono o trainano decine di carrozze merci, container, cisterne e un’infinità di enormi camion, sempre in arrivo o in partenza per le strade d’Europa, che caricano e scaricano senza pausa, pallet e merci di ogni genere.
C’è la dogana, la stazione degli autobus, un moderno centro commerciale ed un continuo brulicare di gente che viene e che va.
Ci sono vecchie costruzioni in disuso e nuovi stabili con tanti uffici, un insieme eterogeneo in cui degrado e sofisticate tecnologie creano forti contrasti che, in disarmonica continuità tra loro contribuiscono a creare quel tipico sapore, che identifica e contraddistingue, ma soprattutto accomuna tutte le vaste zone periferiche delle città destinate a grandi movimenti di genti e di merci.
Io lavoro nella zona del faro, tutti i giorni le mie narici avvertono fortemente quel suo inconfondibile acre profumo, sul mio viso e non solo su quello sento continuamente arrivare gli spruzzi d’acqua, la mia pelle è abbronzata come quella di un marinaio, perché proprio come un vero marinaio con la mia lancia, con qualunque tempo, sono sempre in mezzo all’acqua.
Ma Punta Trak non è come Punta Penna in Abruzzo o Punta Secca in Sicilia, non è un caratteristico lembo di terra che si spinge nel nostro bel mare mediterraneo, ma una piatta area, di Olomouc città al centro d’Europa, il cui vero nome è quello di area Csad, in questa area non ci sono né scogli né mare, né tanto meno navi o rimorchiatori.
Il grande faro di Punta Trak altri non è che una enorme ciminiera che vedo dal piazzale dove vengono a farsi lavare camion, autobus e quanto altro viaggi su ruote.
Questo improbabile porto senza banchine, senza transatlantici né passeggeri transoceanici non è che il lavaggio per automezzi pesanti dove lavoro.
Il forte profumo che avverto non è certamente il meraviglioso profumo di mare, ma è quell'insieme di fatto di gas di scarico dei motori, di fumo delle motrici dei treni, di legno delle traverse dei binari intrise di catrame, di carbone e gli schizzi d’acqua che mi bagnano, non solo il viso, spesso anche tutto il resto, non sono quelli delle onde che si infrangono sugli scogli, ma il getto d’acqua riciclata e maleodorante che fuoriuscendo a forte pressione dalla mia lancia, che non è la veloce imbarcazione che fa la spola tra le navi e la banchina del porto, ma l’attrezzo che spruzza con forza l’acqua che si infrange sulle ruote o sui teloni dei grandi automezzi.
Sono gli autisti, i loro camion e le rispettive merci, gli unici a partire e tornare in questo porto senza mare.
Per noi che siamo qui, ma soprattutto per me, la stanzialità in questo luogo, con un lavoro sempre uguale fatto dagli stessi movimenti, dalle stesse operazioni che si susseguono quotidianamente con una ripetitività e una ovvietà sconcertante, è molto pesante da accettare, molto duro, faticoso e stancante da fare.
Mentre sono qui che lavo e rilavo decine di camion, autobus, cisterne, immagino che la ciminiera sia un faro ed io un viaggiatore di mare che torna da un lungo viaggio pieno di avventure ed esperienze fantastiche, come peraltro fantastica è la mia vita.
Tornare nei luoghi natii, tornare a casa, tornare dove c’è chi ti aspetta è sicuramente il desiderio più grande per un viaggiatore, ma ancor più affascinante per un esploratore di professione come me è il partire, il ripartire per un nuovo viaggio, una nuova avventura, una nuova impresa che appaghi totalmente la mia voglia di nuovo, il mio desiderio di scoprire cose sconosciute e percorrere nuove strade, fantasticare, progettare un futuro fatto di spazi dove la mia mente possa, senza limiti, liberare i suoi pensieri.
Nel frattempo resto qui nel piazzale del lavaggio, mentre le luci artificiali soppiantano lentamente la luce del giorno, io continuo a lavare tutto quello che c’è da lavare e guardo il mio faro e immagino di ripartire presto per uno dei miei viaggi che mi porterà lontano verso una nuova destinazione e mi farà vivere nuove esperienze, nuove avventure, nuove emozioni.
Il faro di Punta Trak Olomouc Česká republika 2011
Favole & dintorni
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ALBERI SACRI
"Gli indiani Hidatsa del Nord America credono che ogni oggetto naturale abbia il suo spirito o, meglio, la sua ombra. A queste ombre si deve una certa considerazione, o rispetto. Si crede che alcuni grandi alberi abbiano un'intelligenza che, se convenientemente avvicinata, può aiutare in varie imprese.
L'abbattere questi giganti è considerata una cattiva azione, e quando c'era bisogno di grandi travi, usavano soltanto gli alberi già caduti. I più anziani dicevano che molte disgrazie del loro popolo erano causate dalla moderna mancanza di rispetto per i diritti dei grandi alberi.
Anche gli Irochesi credono che ogni specie di alberi, piante ed erbe abbiano il loro spirito. Era costume rendere grazie a questi spiriti.
Fra gli abitanti di lingua ewe della Costa degli Schiavi (Africa) il dio Huntin dimora in alcuni alberi giganti della foresta. Gli alberi in cui egli abita vengono circondati da una cintura di foglie di palma, e ad esso vengono offerti sacrifici di galline, e a volte anche di esseri umani, che vengono legati al tronco o deposti ai piedi dell'albero.  Anche gli alberi che non contengono la dimora di un Huntin non possono essere tagliati senza che il boscaiolo offra un sacrificio per purificarsi dal sacrilegio che stà commettendo. Omettere il sacrificio è un'offesa che può essere punita anche con la morte.
Tempo fa tra i monti Kangra del  Punjab si soleva sacrificare una fanciulla a un vecchio cedro, e le famiglie del villaggio fornivano a turno la vittima.
Quando si abbatte una quercia, essa emette delle strida o dei lamenti, che si possono udire lontano un miglio, come se il genio della quercia si lamentasse. Alcuni stregoni affermano di aver udito il pianto degli alberi sotto la scure. Alberi che sanguinano o emettono grida di dolore o d'indignazione quando sono colpiti dall'ascia o bruciati, si incontrano spesso nei libri o nei racconti, in tutte le culture."
- da Magia e culto degli alberi di J.G.Frazer -
Anche senza offrire alcun sacrificio umano, e neppure di galline, portiamo rispetto a queste magnifiche creature, spiriti viventi che mettono in comunicazione la Terra con il Cielo, il Buio con la Luce, lo Spirito con la Materia. Gli antichi hanno saputo coglierne l'essenza, la maggior parte di noi invece passano distratti e veloci senza nemmeno accorgersi di essi. Solo qualche tempo incontrai una signora nel bosco che si soffermava davanti ad ogni grande albero, lo toccava e recitava una breve preghiera. Io rimango sempre affascinato da queste creature meravigliose e a volte stravaganti, ogni volta che entro nel bosco, mi sembra di entrare in una fiaba. 
Questa bellimma queerca campeggia all'ingresso dell'abitato di Viazzano, sulla strada che costeggia il fiume Ceno tra Fornovo e Varano Melegari.
.......
"The Hidatsa Indians of North America believe that every natural object has its own spirit or, rather, its shadow. To these shadows we owe some consideration, or respect. Some large trees are believed to have intelligence which, when conveniently approached, can aid in various feats.
Cutting down these giants is considered a bad deed, and when large beams were needed, they only used trees that had already fallen. The elders said that many of their people's misfortunes were caused by modern disrespect for the rights of large trees.
The Iroquois also believe that every species of trees, plants and herbs have their own spirit. It was customary to give thanks to these spirits.
Among the Ewe-speaking inhabitants of the Slave Coast (Africa) the god Huntin dwells in some giant trees of the forest. The trees in which he lives are surrounded by a belt of palm leaves, and sacrifices are offered to him from hens, and sometimes even human beings, who are tied to the trunk or placed at the foot of the tree. Even trees that do not contain a Huntin's abode cannot be cut down without the lumberjack offering a sacrifice to purge himself of the sacrilege he is committing. Omitting the sacrifice is an offense that can also be punished with death.
Long ago in the Kangra Mountains of Punjab it was customary to sacrifice a girl to an old cedar, and the families of the village took turns providing the victim.
When an oak is felled, it makes screams or moans, which can be heard a mile away, as if the genius of the oak were complaining. Some sorcerers claim to have heard the weeping of the trees under the ax. Trees that bleed or cry out in pain or indignation when struck by the ax or burned are often encountered in books or stories, in all cultures."
- from Magic and Tree Cult by J.G.Frazer -
Even without offering any human sacrifice, or even chickens, we respect these magnificent creatures, living spirits who put the Earth in communication with Heaven, Dark with Light, Spirit with Matter. The ancients were able to grasp its essence, but most of us pass by distracted and fast without even noticing them. Only some time I met a lady in the woods who pausing in front of every big tree, she touched it and said a short prayer. I am always fascinated by these wonderful and sometimes extravagant creatures, every time I enter the woods, it seems to me to enter a fairy tale.
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CAPITOLO # 1
Eccoci qui, come state? Spero bene. Io sono abbastanza stanco, sono appena uscito da un turno al lavoro. Stavo spulciando la mia galleria sul telefono e mi sono imbattuto in questa foto. L'ho scattata a Pian paradiso in provincia di Viterbo. È l'alba del giorno in cui siamo andati, con il campo della cmt, ad Assisi.
L'alba a me affascina molto di più del tramonto. L'alba è simbolo di inizio. Di un nuovo giorno, che si le scelte le parole e i gesti che abbiamo fatto il giorno prima...possono influenzare questo nuovo giorno. Ma comunque la mettiamo... è sempre un nuovo giorno. Ho sempre visto la vita come una sfida a scacchi tra noi ( persone) e il destino.
A volte siamo cechi e pensiamo che le cose fatte nel passato, si ripercuoteranno nel presente e nel futuro. È vero. Ma come in ogni partita a scacchi che si rispetti....se sbagli una mossa il tuo avversario se ne approfitta ( ovvio si chiama competizione), ma non dobbiamo mai dimenticare che poi TOCCA A NOI. La mossa dopo quella del nostro avversario, può sistemare il problema ( affrontando il problema) o può essere passato in secondo piano....perché tanto se ho fatto un torto ad un mio amico " non mi riguarda". Quante volte ci prendiamo gioco delle persone che ci amano, si fidano e ci vogliono bene? Quante?. Succede sempre volontariamente o involontariamente.
Ma quello che voglio dirvi è che la natura ci insegna a vivere. Il TRAMONTO: ci si sta avvicinando alla notte, la stella che illumina tutta la nostra galassia, scende e scompare lasciando spazio ad una luna che non risplende come il sole. Un celo buio, la notte....per alcuni vuol dire pace, serenità e silenzio....per altri inizia veramente la sofferenza. Ma poi arriva lei L'ALBA la luce dopo l'oscurità. Un bagliore che squarcia l'oscurità dando luce...e si sa....senza luce non c'è vita. Per ogni periodo brutto che passiamo ci sarà sempre prima o poi un raggio di sole che ci dà speranza. Citando un film "non può piovere per sempre".
Ma vi chiederete...come faccio a vedere la luce se sono seduto in un tunnel buio? È questo il problema SEI SEDUTO. Alzati cammina, corri, striscia....perché la soluzione, la felicità e l'amore non cadono dal cielo in una 24 ore. No devi combattere e creare l'habitat per far si che queste cose accadono....e non succederà mai stando fermi immobili.
E se ti senti senza forza, intrappolato al terreno e impossibilitato a muoverti....urla CHIEDI AIUTO, a volte le persone sono delle stronze, ed è vero anche io vivo questo pensiero tutti i giorni. Ma poi trovi delle persone con occhi dolci, voci gentili e gesti veri. Non disperare perché troverai anche tu tutto questo. Perché nella vita non c'è una scadenza fissa in cui le cose arrivano. Come ho detto prima...devi lottare per far si che certe cose accadano...i romani dicevano sempre "si vis pacem, para bellum". Perché si a volte devi combattere una guerra eterna per trovare la pace.
Vi lascio con due domande, potete anche non rispondermi...basta che veramente accendete quel cervello che tutti noi abbiamo e che questa società ci ha bloccato, TU DOVE SEI, NEL TRAMONTO? NELLA NOTTE? NELL'ALBA?. COSA TI STA TENENDO IN PIEDI NEL COMBATTERE? COSA TI STA BUTTANDO A TERRA E TI IMPEDISCE DI STARE UP?
Auguro a tutti voi buona notte
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annalisalanci · 1 year
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Ragnatele nvisibili
Ragnatele kinvisibili
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Annalisa Lanci
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Demone giapponese
Ragnatele invisibili. "In vari testi esoterici, la negatività, che assorbe la nostra energia vitale, viene descritta, come larve psichiche, le quali, sviluppandosi, costruiscono ragnatele che si nutrono del nostro spirito e della nostra mente… è evidente, che le lacune sono alla base dell'esistenza umana; la loro causa, non sono altro che i costruttori di queste strutture invisibili, i quali si nascondono come ragni nei buchi." Invisibile cobwebs. "In various esoteric texts, negatività, which absords our vital energy, is describeb as psychic larvae, which as they develop, construct cobwebs that feed on our spirit and our mind… It Is evident that gaps are at the basis of human existence: their cause, are none other than the builders of these invisibile structures, who hide like spiders in holes."
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lestreghedifenix · 1 year
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Festività Pagane
18 maggio festa di Aradia
Tutto ebbe inizio.
Milioni di anni fa.....
In principio, l'universo era vuoto, una grande manto nero.
Le uniche creature esistenti erano, il Padre e la Madre, i Fondatori.
Un giorno, questi Fondatori, decisero di creare i pianeti.
Il primo pianeta creato fu la Terra.
Non come la conosciamo noi, inizialmente era una grande massa di roccia, come un grande sasso.
Poi si misero a modellare questa roccia, come un'opera d'arte,
iniziarono col creare il cielo e il mare.
Crearono le montagne, i prati, gli alberi e tante altre cose, come se stessero dipingendo un quadro.
Finito il lavoro, crearono i primi esseri viventi, gli animali.
Ne crearono di molti tipi, e di diverse misure, li misero nel mare, nelle montagne, nei prati e persino in cielo.
Finiti gli animali, pensarono di creare 4 spiriti,
per proteggere il loro creato ed aiutare gli esseri viventi.
Questi 4 spiriti erano il fuoco, l'acqua, la terra e l'aria, che sono ancora in mezzo a noi ,ma i Fondatori, gli hanno dato il potere di essere invisibili.
Poi crearono la prima Dea, Diana, aveva il compito di gestire il funzionamento dei mari, della terra, dei prati e di tutto il creato.
Per riuscire a controllare al meglio la Terra, decisero che lei non doveva abitarci, quindi crearono un pianeta dove farla vivere, la Luna.
La Madre guardò la loro opera, ormai la Terra era finita e Diana controllava tutto ,ma mancava ancora qualcosa, la luce.
Così i Fondatori decisero di creare un Dio, Lucifero, il portatore di luce.
Aveva il compito di illuminare la Terra e di riscaldare i suoi abitanti, crearono un pianeta dove farlo vivere, il Sole.
I fondatori decisero di fare l'ultimo ritocco al loro capolavoro e crearono gli esseri umani, che dovevano procreare e vivere in pace e armonia con la natura e gli animali.
Diana e Lucifero erano come fratelli, lavoravano insieme per dare la luce e l'oscurità alla terra,
per far cambiare il tempo e aiutare la natura e tutti gli esseri viventi.
Lei era molto attratta dalla luce di lui e un giorno decise di andare a trovarlo, spostò la Luna verso il Sole e quel giorno ci fu la prima eclissi.
Quando Diana si incontrò con Lucifero, fu amore a prima vista, restarono assieme solo poco tempo, per non creare difficoltà sulla Terra.
Prima di andarsene la Dea diede un bacio al Dio, si udì una grossa esplosione, un evento mai visto prima: come dei fuochi d'artificio, si crearono dei puntini luminosi in tutto l'universo, le stelle.
Da quel giorno Diana e Lucifero hanno continuato a fare i loro brevi incontri e li fanno tutt'ora.
In uno di questi incontri i due Dei si sono uniti, tra il buio dell'eclissi si poté vedere un grande bagliore in cielo, una stella con una scia di luce, che attraversò tutta la Terra, era una Cometa, annunciava l'arrivo della loro figlia, Aradia.
Passarono anni e anni, la Terra era ormai già popolata da tantissimi esseri viventi, tanti uomini, che col passare del tempo iniziarono a sfruttare la natura e gli animali per le loro comodità.
Gli umani infine si misero anche a sfruttare i loro simili, i più ricchi e benestanti, opprimevano i poveri e le donne.
Il Dio e la Dea decisero di chiamare i Fondatori, li aggiornarono sulla situazione e gli chiesero il permesso di mandare Aradia sulla Terra, per mettere a posto la situazione.
I Fondatori decisero che era la cosa migliore da fare, mandarono Aradia sulla terra, una immortale in mezzo ai mortali, con il compito di assoldare degli umani a cui insegnare la magia per poter migliorare la loro situazione.
Aradia così fece, arrivò sulla Terra, iniziò a parlare con delle contadine, oppresse dagli umani di sesso maschile, raccontando loro chi era e quale fosse la sua missione.
Cominciarono quindi ad incontrarsi nei boschi di notte, per non farsi scoprire, si radunavano formando un cerchio e tenendosi per mano.
Aradia era in mezzo a loro e con il suo aiuto, riuscivano a contattare il Dio e la Dea, successivamente, riuscirono a farlo anche senza il suo aiuto.
Le contadine impararono ad usare la magia e a fare pozioni e medicine con le erbe, e con queste a
proteggersi dai soprusi.
In seguito Aradia ha continuato a contattare altre persone per diffondere la sua sapienza, le sue seguaci erano sempre più numerose anche se rimanevano nascoste.
La figlia degli Dei aveva il potere di distruggere tutti gli oppressori e i potenti sfruttatori, ma non lo fece, preferì mettere i poveri e gli oppressi in condizione di difendersi e vivere per il meglio le loro vite.
Aradia fu così chiamata, la prima Strega, le sue discepole, le streghe, si riunivano in coven ed erano sempre più numerose.
Curavano le malattie, parlavano con gli Dei e facevano incantesimi e pozioni per migliorare il proprio stile di vita.
Tutt'ora ci sono ancora tante Streghe in giro per il mondo, si riuniscono per celebrare le feste Pagane
e per i vari rituali.
La leggenda di Aradia è ancora viva nei loro pensieri, colei che scese sulla Terra per difendere gli oppressi e i poveri.
Quando guardate in cielo, ricordatevi degli Dei che ci guardano da lassù e di Aradia
che veglia su di noi.
#streghedifenixwitchcraft
#lestreghedifenixtarot
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espritbleutee · 1 year
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scarsa visibilità, poca percezione.
non riesco a ritrovare la strada,
credo di essermi persa
tra sentieri, colline, montagne.
sono molto stanca, le gambe cedono.
interrompo la scalata,
ho bisogno di riposarmi.
la paura scorre nelle mie vene.
è notte fonda, non c’è anima viva qui
e neanche io lo sono.
esistere o sopravvivere?
improvvisare.
siedo a terra, poggiandomi ad un albero.
mi guardo intorno, oscurità.
mi guardo dentro, stessa cosa.
una voce pronuncia flebilmente il mio nome;
sento i battiti del mio cuore aumentare.
chi sei? che cosa vuoi?
silenzio.
chi vuoi che io sia?
non ho il coraggio di rispondere.
sono ciò che sarai, ciò che sei e ciò che eri
sono tutto e sono niente
sono i pensieri, i sentimenti e le parole di ieri
sono il tuo cuore e la tua mente
sono il mostro da cui provi a scappare
la tua interiorità frammentata
sono ciò che ti può consolare
o un’emozione dimenticata
dove mi trovo? ti chiederai
non son fuori, io sto dentro
ascolta bene e capirai
è arrivato ora il momento
c’era una volta una bambina
spensierata e assai felice
poi di colpo è ragazzina
permanente cicatrice
ciò che dimentichi sono io
nulla è mai perduto e vive in me
catalogo ogni saluto ed ogni addio
come nelle librerie di un antico caffè
il mondo gira, il tempo passa
sopra di noi le vecchie arpie
e in fondo il cuore è solo una cassa
in cui riecheggiano le melodie
di pensieri e vecchi amori
di bellezze e novità
di speranze e di dolori
che tu sempre dovrai affrontar
vedo grigio e poi anche blu
la mia bussola è impazzita
sono io e sei anche tu
riprendi in mano questa vita
guarda bene, sì, con attenzione
lo strapiombo è uno scalino
non sei intrappolata nell’afflizione
la via d’uscita è lì vicino
alza la testa, osserva il cielo
liberati dalle catene che ti trattengono
non ti ha mica uccisa quel veleno
perché le mie mani ancor ti tengono
cosa sono? cosa voglio?
ero, sono e sarò te
starai bene, è solo un sogno
ogni cosa ha il suo perché
mi ritrovo come pietrificata,
riesco a muovere solo le pupille.
osservo freneticamente il buio che mi avvolge,
ma niente,
non c’è niente,
non c’è nessuno.
d’improvviso, sorge il sole,
irradiando la sua luce ovunque.
chiudo gli occhi e li riapro,
sono senza parole.
dove sono? dove mi trovo? cos’è successo?
sono io, distesa su un letto,
tra il calore delle coperte.
confusa, ruoto il mio sguardo
tentando di assimilare il luogo in cui mi trovo,
che poi è la mia camera,
la mia casa.
respiro affannoso, tachicardia,
timore ingiustificato.
una vecchia foto sul cassettone
richiama la mia attenzione.
ritrae me da bambina.
eppure quella foto la ricordavo diversa,
appare cambiata.
la vecchia me sembra sorridere, adesso,
e proprio in mia direzione.
guardo fuori dalla finestra,
sono le sette del mattino.
il cielo è di un bell’azzurro chiaro,
gli uccellini cinguettano.
sento il profumo dei fiori che sbocciano,
che addolcisce ogni mio sentimento negativo.
chi ero, chi sono e chi sarò?
cosa mi fa male e cosa no?
questo non lo so, ma non fa niente.
l’importante è essere consapevoli
e ricordarsi che
dopo ogni inverno
verrà sempre una primavera.
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PER TESS
Scritto da:
Matteo Ducceschi
Liberamente tratta dalla poesia:
Per Tess – Raymond Carver (1999)
INT. APPARTAMENTO UOMO GIORNO
In un appartamento asettico e minimale, un uomo (40) seduto sulla sua scrivania riflette. Osserva fuori dalla finestra alla sua destra. Scruta la città dall’alto. Immensi grattacieli si ergono imponenti fino ad arrivare al grigio cielo. La pioggia picchia contro la finestra, e nel silenzio si fanno avanti i suoni vivi della città.
La malinconia di quello che vede fuori dalla finestra si manifesta a poco a poco sul suo volto, come se si sentisse soffocato dalla solitudine.
Con grande frenesia, prende in mano il suo telefono cellulare. E con una minuziosa attenzione scorre tra i suoi contatti cercandone uno in particolare. Lo trova. Dopo aver dato un ultimo sguardo fuori dalla finestra, comicia a registare un audio a questo contatto.
UOMO (V.O.) Giù nello Stretto le onde schiumano
come dicono qui. Il mare è mosso e meno male che non sono uscito.
Nel granitico volto dell’uomo, si scolpisce un leggero sorriso.
EXT. PONTE SULLA - SPIAGGIA GIORNO
L’uomo è seduto su un piccolo ponte di legno vicino ad una spiaggia, con le gambe immerse nell’acqua. Osserva il mare, accanto a sé a una canna da pesca.
UOMO (V.O.) Sono contento d’aver pescato tutto
il giorno a Morse Creek, trascinando avanti e indietro un Daradevil rosso. Non ho preso niente. Neanche un morso. Ma mi sta bene così. È stato bello!
L’uomo si alza portando con sé la canna da pesca.
EXT. SPIAGGIA GIORNO
Lo sguardo dell’uomo punta in basso, per poi lentamente guardarsi alle spalle e vedere delle piccole orme sulla sabbia.
UOMO (V.O.) Avevo con me il temperino di tuo
padre e sono stato seguito per un po’ da una cagnetta che i padroni chiamavano Dixie.
L’uomo continua il suo cammnino fino a giungere in un prato pieno d’erba, per ripararsi dal sole sotto un albero, al confine con la spiaggia.
EXT. PRATO GIORNO
L’uomo si distende e osserva corci di cielo attraverso gli albero che ha davanti.
UOMO (V.O.) A volte mi sentivo così felice che
dovevo smettere di pescare. A un certo punto mi sono sdraiato sulla sponda e ho chiuso gli occhi per ascoltare il rumore che faceva l’acqua e il vento che fischiava sulla cima degli alberi.
L’uomo chiude delicatamente gli occhi.
UOMO (V.O.) Lo stesso vento che soffia giù
nello Stretto, eppure è diverso.
INT. STANZA BUIA NOTTE
L’uomo riapre gli occhi. Si accorge di essere circondato dal nulla. Tutto è nero intorno a lui. Non c’è più nessun rumore. L’uomo è bloccato a terra e non riesce a muoversi. Ha delle radici nere che lo legano a terra.
UOMO (V.O.) Per un po’ mi son lasciato
immaginare che ero morto e mi stava bene anche quello, almeno per un paio di minuti, finché non me ne sono ben reso conto: Morto.
Un bagliore bianco appare. Una lampada si accende. Seduta su un tavolo con una lampada accesa c’è una donna (35).
UOMO (V.O.) Mentre me ne stavo lì sdraiato a
occhi chiusi, dopo essermi immaginato come sarebbe stato
(MORE)
2.
UOMO (V.O.) (CONT'D) se non avessi davvero potuto più
rialzarmi, ho pensato a te.
L’uomo con una ritrovata forza sovraumana, spezza con una mano la radice che la bloccava. Poi quella che bloccava l’altra mano. Quella delle gambe e infine quella del collo.
UOMO (V.O.) Ho aperto gli occhi e mi sono
alzato subito e son ritornato a esser contento.
L’uomo corre nel buio, verso la lampada accesa, mentre avanza la luce si fa sempre più accecante, fino a divorare l’intera stanza buia e non mostrare più niente.
INT. APPARTAMENTO UOMO GIORNO L’uomo riapre gli occhi. È nel suo appartamento.
UOMO (V.O.) È che te ne sono grato, capisci. E
te lo volevo dire.
L’uomo invia il messaggio vocale. Poi blocca il telefono. Guarda fuori dalla finestra, vede che il cielo si sta diradando. Sorride.
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO TERZO - di Gianpiero Menniti 
L'IDEA IMPRECISA 
La suggestione dell'idea come espressione della razionalità, come codice che fornisce identità comune alla comunità degli esseri umani, è molto antica.  Il pensiero occidentale è debitore a Platone il quale seppe cogliere nel concetto di "anima" l'incontrovertibile della verità che viene in luce, in opposizione alla doxa delle sensazioni e delle espressioni soggettive: nell'anima, entità invisibile ma generatrice del pensiero, l'idea è "ἀλήθεια", svelamento, uscita dall'oblio, chiarezza, evidenza. Si comprende quale valore abbia la relazione tra luce e tenebre, non solo come metafora dell'incessante ricerca del significato: è la luce la condizione della "forma", del fenomeno, dell'apparire, del reale.  "Ιδέαι" sono dunque le entità eterne costitutive della realtà, ne rappresentano l'essenza.  Eppure, fuori dalle espressioni matematiche, dei numeri e delle forme geometriche, le idee circolano se fanno storia: si affermano qualora divengano una narrazione condivisa.  Se con sant'Agostino l'anima platonica entra a pieno titolo nella dimensione teologica di una religione dei "corpi" - senza il concetto di corpo è impossibile capire il cristianesimo - il riflesso dell'idealismo primigenio che si porta dietro, induce a ritenere la razionalità delle idee il marchio della loro autenticità, del loro ancoraggio saldo alla verità.  Così, il pensiero occidentale, da Platone in avanti, ha proseguito nel solco dell'idea come atto generativo, della creazione che ha un'origine rispetto al nulla. Il buio è il nulla.  La luce è il primo atto. 
«In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte.» Genesi, capitolo primo. 
Dunque, l'occidente crede nell'essere e nel nulla, nella creazione e nel significato.  Ma l'occidente cristiano.  Non quello greco.  Che non a caso, dimenticando la lezione di Parmenide, ha espresso, magistralmente, l'inquietudine di trovarsi di fronte al baratro del "nulla" nella tragedia.  Ecco perché noi siamo cristiani e non più greci: abbiamo risolto la terribile percezione di un'assenza del significato, nella fede in un atto di creazione che ogni essente ha tratto dalle tenebre.  Non importa che quest'idea sia imprecisa, non trovi fondamento in un'evidenza: l'idea stessa del rimedio alla morte nel nulla, per quanto inesplicabile, indefinibile, inconsistente sul piano materiale, ha conquistato il mondo e costituito la sua direzione storica.  Ecco perché Nietzsche definì questa concezione il "colpo di genio del cristianesimo".  Idea imprecisa quanto contraddittoria: Dio non è luce, ma è ciò che non può essere mai svelato.  Altrimenti, Dio diverrebbe un concetto, una "cosa" come le altre cose del mondo. Per questa ragione, l'occidente designa il malefico con il termine "Lucifero", colui che porta la luce, colui che vuole svelare, colui che vuole "reificare" il Dio creatore.  Idea imprecisa, dunque.  Perché la perfezione dell'idea possiede qualcosa di luciferino, in sé.  Mentre il dubbio e la ricerca, contengono una tensione vitale che spesso si dimentica o volutamente si tralascia.  L'esperienza del viaggio ha più valore della meta.  Presunta.  Forse inutile. 
Gaetano Previati (1852-1920): "La creazione della luce" - 1913 circa, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma
In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto" 1975, collezione privata
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sciatu · 3 years
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UNA BALERA SUL MARE
“Qui va bene, grazie” Guardò il numero dell’ombrellone e vide che era il 104. “Il dieci di aprile, quando è nato mio figlio” Pensò felice della coincidenza perciò ripeté a Bruco, il bagnino del bagno Maracaibo un rassicurante. “Va bene qui, mi piace” Bruco, senza commentare appoggiò la sua borsa su una sdraietta e aprì l’ombrellone, più per abitudine che per necessità. Il giorno prima aveva piovuto e il cielo era ancora incerto con grandi nuvole che passavano veloci e un sole spento, tipico di fine estate. Bruco se ne andò con la sua andatura dondolante e lei si allungò sulla sdraietta, stringendosi il giaccone per proteggersi dal vento e tenendo gli occhiali scuri anche se aveva chiuso gli occhi per godersi il debole tepore del sole. Aveva sonno. Finito di lavorare al ristorante era rientrata nel suo piccolo appartamento il più tardi possibile perché da quando lui se ne era andato, non riusciva più a dormire. Le prendeva l’ansia e l’inquietudine come se il buio la soffocasse, schiacciandola tra le lenzuola quasi fosse la terra che ricopriva la bara di carne dentro cui la sua anima era rinchiusa. Restava così finchè non si alzava e fumava una sigaretta sul balcone osservando l’orizzonte sbiancarsi per la prossima alba, per poi tornare a letto e addormentarsi di colpo come se il suo corpo non ce la facesse più a sopportare quel suo non aver pace e, distrutto dalla stanchezza, si spegnesse lasciando la testa a ripensare continuamente, alla assenza di lui, al vuoto che la circondava, al buio che l’opprimeva facendola sfogare in sogni senza capo ne coda, in cui non vi era ne luce ne gioia. Anche quando c’era lui aveva queste sensazioni di soffocamento ma bastava abbracciarsi al suo corpo e il suo calore scioglieva le sue gelide ansie, avanzi di vite precedenti che non avrebbe voluto vivere ma che aveva subito a torto o a ragione. Ma ora, non poteva far altro che stringere un cuscino freddo come la sua anima e tutto quello che aveva spinto nel buio della sua coscienza tornava a galla, come relitti di altri naufragi e la soffocavano. Per questo, appena sveglia era uscita di casa, girando per il paese fino a trovare Bruco che aveva aperto lo stabilimento balneare più per abitudine e per sistemare quelle cose che durante l’estate si erano rotte, piuttosto che per i rari turisti che erano rimasti sulla riviera. Stava pensando che magari avrebbe bevuto qualcosa, così avrebbe affrontato la giornata un po’ più swing, più rilassata e serena. Ultimamente però beveva troppo. Se ne era accorta anche lei che dove era era, le serviva sempre un po’ alcool per andare avanti ed accettare il mondo con il suo freddo e la sua indifferenza. Avrebbe bevuto dopo. Ora doveva riposare se no la sera sarebbe stata una minchia morta e l’unica giornata in cui lavorava solo la sera l’avrebbe passata rincoglionita di fronte la tivù. “Piano, piano, di qua, vieni avanti Maestro, ecco qui, mettiti qui, a lato c’è una signora, così parlate un po’ e vi fate compagnia”. Aprì un occhio per vedere con chi stava parlando Bruco e lo vide che stava facendo sedere un ragazzo con degli occhiali da sole scurissimi e un bastone bianco in mano con cui toccava il bordo della sdraietta mentre si sedeva. “Grazie Pizzigalli, grazie mille” Ripeteva il ragazzo mentre si sedeva mettendo le sue cose sul piccolo tavolo che circondava il bastone dell’ombrellone. “un cieco – pensò seccata – sarà uno di quelli che attacca bottone e non la finisce più.” Pensò di alzarsi ed andarsene ma ormai Bruco gli aveva già detto che era li. Magari, se stava zitta, lui non l’avrebbe disturbata. Chiuse gli occhi e tornò in quella zona neutra in cui dormiva anche se era sveglia. “buongiorno - sentì la voce di lui gridare nella sua direzione. - Buongiorno, io mi chiamo Mario e lei?” “Io no – penso lei seccata perchè aveva già incominciato a rompere e a voce alta continuò – Buongiorno, mi scusi mi ero appisolata” “Oh scusi, non volevo disturbarla” “Non si preoccupi, ormai sono sveglia. Mi chiamo Ludovica” “Ah piacere, è un bel nome il suo. -  restò qualche secondo zitto e poi continuò -  non volevo disturbarla, ma lei ha un buon profumo e le persone con un buon profumo sono sempre buone” Lei si sorprese. Alzò il braccio per sentire se era vero o se la giacca avesse preso la puzza di naftalina dell’armadio. No, era vero, aveva un buon profumo. Come aveva fatto a sentirlo così distante?” “il vento! Il vento me lo sta portando ed è proprio un buon profumo - continuò lui sorridendo -  mi scusi se l’ho disturbata, ma volevo chiederle di che colore è  il mare” “E’ blu” rispose subito lei seccata ma lui restò ancora con la testa un po’ alzata come se aspettasse di sentire qualche cos’altro. “E’ blù in fondo, dove c’è l’orizzonte. Qui davanti, dove finisce la spiaggia, è un color fango da cui di tanto in tanto appaiono delle alghe nere che fanno impressione.” Lui abbassò la testa quasi deluso dalla descrizione. “Il cielo invece verso San Marino è scuro, quasi nero poi verso il mare è di un blu intensissimo, mi ricorda gli zaffiri blu poi, verso l’orizzonte il blu si addolcisce e diventa color Blu Hawaiian  -  si fermò un secondo a pensare – lo ha mai assaggiato il Blue Hawaiian??” “No, veramente no” “è la versione azzurra della pina colada” “Si questa l’ho assaggiata ma non sapevo che c’era la versione azzurra” “Si è un azzurro lieve e delicato come è il cielo adesso” “Lei è un barman?” “No lavoro nei ristoranti o nei bar o nelle discoteche, dove serve qualcuno che serva gli altri mentre si divertono” “Deve essere bello allora, far felici gli altri” Lo guardò come se lo vedesse per la prima volta. Se fosse stato una persona come gli altri avrebbe pensato che la prendeva per il culo, ma a sentire il tono e a vederlo guardare lontano, dove il cielo diventava Blu Hawaiian, gli sembrò di sentire una nota di tristezza, come se lui, per come era, non avrebbe mai potuto far felice qualcuno. “ Anch’io lavoro nei bar – disse Mario tornando a sorridere felice –  suono in una specie di balera sulla spiaggia. Quando è successo – disse tornando a guardare la sabbia su cui faceva rimbalzare il suo bastone – mi sono trovato con molto tempo libero, allora ho deciso di usarlo per fare quello che non avevo mai fatto prima e ho imparato il pianoforte. Ora insegno musica nelle scuole, organizzo le loro recite e la sera suono dove capita” Lei sorrise “anche mio figlio studia pianoforte!” “Sarà sicuramente bravo, lei è così felice per questo” “Si è vero – disse contenta – mi ha dato sempre tante soddisfazioni” “E anche lui suona da qualche parte?” “ Si quando capita” “Se vuole le presento il mio agente, lui troverebbe lavoro anche ad un cane, senza nessun riferimento a suo figlio” Lei sorrise. “ ora deve studiare, però mi ricorderò di lei quando finisce la scuola” “ Ci conti. Ah me la musica ha salvato la vita e sarò felice di aiutare qualcuno” Si sentì felice. Suo figlio sarebbe stato contento di incontrare un vero musicista. “Dove ha detto che suona?” Ma Mario non rispose, alzò gli occhi verso il cielo e improvvisamente lei sentì in testa una grossa goccia d’acqua arrivarle in testa. Alzò gli occhi e vide una nuvola nera scivolare verso il mare dal lato monte, guardò intorno a lei e vide la sabbia punteggiata di punti scuri. Si alzò di scatto, andò verso l’uomo facendolo alzare bruscamente “Venga” Gli ordinò decisa prendendolo e raccogliendo le sue cose e avviandosi verso il bar del Bagno. Contemporaneamente incominciò una pioggia intensa con gocce che potevano riempire un bicchiere tanto sembravano grosse e fitte. Lei se lo tirò dietro mentre lui si teneva stretta contro il petto la maglietta e le cose che si era portato in spiaggia. Lungo la strada incontrarono Bruco con la metà di sotto di un ombrellone e velocemente si diressero verso il bar già pieno di bagnanti. Bruco fece strada e li fece sedere in un angolo ad un tavolo vuoto. “ Vi prendo due tovaglie per asciugarvi” Lei vide che Mario era come disorientato e il volto tutto bagnato con gocce che scendevano lungo il volto come se piangesse. Notò anche che tremava per il freddo. Si tolse il giaccone e glielo mise sulle spalle e lui ringraziando se lo strinse addosso Arrivò Bruco con due tovaglie “portaci qualcosa di caldo … due thè … nel mio mettici un po’ di rum” Gli disse Ludovica. Bruco vedendo Mario tremare, andò subito verso la macchina del caffè e si mise ad armeggiare per preparare la bevanda calda. Lei prese una delle tovaglie portate da Bruco ed incominciò ad asciugargli i capelli “ ci siamo bagnati tutti – si sentì un fragore assordante tanto che Mario si portò le mani sulle orecchie – questo è caduto vicino! L’estate è proprio finita!” “Grazie, grazie mille – fece Mario sorridendo – la pioggia mi  fa perdere ogni riferimento, ogni suono, ogni profumo: sono come una foglia rubata dal vento” “immagino “ rispose lei  mentre finiva di asciugargli gli occhiali Lui restò in silenzio pochi secondi mentre offriva il volto alla tovaglia con cui lei lo asciugava “ hai delle mani grandi … forti” “ Quando devi portare una fila di piatti a mano, le dita ti diventano come quelle di un muratore. “eppure hai una voce gentile, delicata, non è quella di un muratore” “ Devi sentirmi quando mi arrabbio, allora si, che faccio esplodere i vetri delle finestre.” Sorrise e in quel mentre arrivò Bruco con tue tazze e una grande teiera. “ Ecco qua ragasuoli, un bel the caldo  vi scalderà per bene.- poi rivolgendosi a Mario – Maestro ti ho messo un po’ di miele così la voce non se ne andrà” Lei bevve un sorso bollente e sentì forte il sapore del rum. Bevve un altro sorso e a sentire i vapori di alcool che le riempivano la bocca si sentì già meglio. “ci voleva - Si disse contenta e poi indicando Bruco continuò – certo che ti tratta meglio di come tratta suo figlio” Mario sorrise “È uno dei miei fan più sfegatati alla balera, suono sempre quello che gli piace” “Davvero? Non riesco a immaginarlo la sera che invita le vecchiette a fare un lento” “A lui piacciono i balli brasiliani, li si scatena! Il suo sogno era andare a vivere in Brasile….” “Hai capito Bruco …..! - Fece lei stupita - Io ho lavorato un estate in questo bar e non mi ha mai detto di questa cosa” Mario alzò le spalle. “Tutti nascondiamo qualcosa di noi…” Lei bevve un lungo sorso. Fuori c’era una pioggia insistente che stava lentamente scemando; ormai la mattinata era persa, tanto valeva starsene nel bar a finire il thè e a parlar di nulla “ dimmi una cosa, come hai trovato l’Agente? Con internet o il passaparola…” Lui sorrise “No, è un mio ex compagno di classe che lavora qui come rappresentante di vini e super alcoolici. Quando ha saputo che ero qui mi ha voluto vedere e, saputo che suonavo il piano, mi ha organizzato un audizione con il padrone di un bar e da li ho incominciato. Ora lui quando visita bar e ristoranti cerca sempre di piazzarmi qualche serata. Lo fa per farmi uscire di casa perché qui sono solo e non avendo nessuno con cui andare in giro resterei sempre a casa” “Ma non avevi qualcuno che poteva venire con te? I tuoi genitori….“ “loro sono vecchi, non volevo stravolgere la loro vita di paese, poi per loro il nord è sempre stato un posto invivibile. Per questo invece di Milano o Torino hanno insistito che venissi qui in riviera” “e la tua ragazza?” “ Che vuoi, una cosa è stare con il primo della classe bello e divertente, un'altra cosa è dover servire un handicappato, con mille problemi e nessun avvenire. Alla fine l’ho lasciata: essere cieco mi ha portato a vivere dell’essenziale, ad esempio a sentire meglio i toni della voce e a sentire quando qualcuno dice le cose perché le sente o perché semplicemente le deve dire come quando si recita” “ O mamma mia allora devo stare attenta a come parlo” “No – fece lui sorridendo – tu sei sincera e si capisce se sei scocciata o preoccupata o quello che provi dentro.” Lei rimase un attimo imbarazzata “ E’ che oggi è una giornata nata così e ci metto un nanosecondo a mandare affanculo le persone” “l’ho capito. Ma preferisco una come te che è sempre sincera a chi ti fa il sorrisino di circostanza e dentro di se ti manda a quel paese. E tu cosa fai? come mai non sei con le altre massaie a casa a preparare il pranzo domenicale?” Lo disse sorridendo, tra un sorso e l’altro di thè “perché io non sono mai stata una massaia. Ho sempre dovuto lavorare fuoricasa per tirare avanti” “scusa, non volevo farmi i cavoli tuoi” “Tu non mi conosci e non puoi sapere. Ho avuto un figlio quando ero alle superiori e da allora tanti morosi che come la tua ragazza dicevano solo cose di circostanza. L’ultimo se ne è andato qualche giorno fa dicendo che lui era uno spirito libero e che doveva vivere “la sua vita” – bevve l’ultimo sorso di te dove il rum era ormai quasi tutto evaporato – peccato che “la sua vita” era una polacca che per l’età che ha può essere sua figlia” Lui sorrise “Allora anche tu cercati la tua vita no?” “Io la mia vita l’ho già vissuta – rispose lei seccata – e alla fine ho sempre scoperto che non era la mia vita che vivevo ma quella di qualchedun altro!” “Siamo tutti la vita di qualchedun altro – sottolineò lui con il suo sorriso da bambino – ma insieme a questo qualchedun altro siamo la nostra vita”. Lei l’osservò “ Stai dicendo una cosa troppa complicata per me.” “ non è vero, hai capito cosa volevo dire – le restituì la giacca – tieni, per un attimo mi sono sentito come se una donna mi stesse abbracciando con tutto il suo profumo” Le disse alzandosi e dandole la giacca “ Deve essere rimasto quando con il mio ex siamo andati ad una festa” “ Stai andando?’ Chiese Bruco apparso dal nulla “Si vado a casa, ormai la mia giornata al mare è finita” “Lulù perché non lo accompagni? Ancora la strada per casa sua mica l’ha capita: ieri l’ho trovato che girava intorno al parco…!” “ Stavo studiando la strada …” “ vhè vhè che ti eri perso…..” “ Dai ti accompagno, così torno a casa e faccio qualcosa” Gli chiese dove abitava e lo prese sottobraccio uscendo dal locale. Bruco era così contento che lei se ne occupasse che non gi fece pagare neanche il thè Dopo la prima curva lui insistette “ Mi puoi lasciare qui che la so la strada per casa” “ Sei matto, qui c’ è il fosso se mi cadi dentro Bruco mi viene a cercare a casa” “ Bruco è esagerato: non ho bisogno di nessuno” “detto da un cieco in un paese che non conosce mi sembra una minchiata bella grossa” “ Va bhè a me non piace dipendere  da qualcuno: per favore lasciami!” disse seccato liberandosi dalla stretta del suo braccio. Lei pensò che era capriccioso più di suo figlio. Si vide davanti i tavolini di una pasticceria e si sentì dentro un buco nello stomaco che il rhum aveva inacidito. “ Va bene, ci sediamo qui un minuto così ti calmi e poi te ne vai dove vuoi” Lo fece sedere in un tavolo della pasticceria ed entrò dentro prendendo due bomboloni alle crema Tornando gli mise davanti un bombolone, gli prese una mano e glielo fece toccare “ Mangialo, questo è il bombolone più buono della riviera” Ed afferrato il suo gli diede un morso enorme. Lui prese il dolce e dopo averlo annusato diffidente gli diede un morso, incominciando a masticarlo con sempre maggiore soddisfazione. Lo finì prima di lei e pulendosi le labbra disse semplicemente “buono! Molto buono” “Te l’ho detto” “Ma al paese mio li fanno meglio” “e perché non fe ne sei stato lì?” “ Perché tutti mi trattavano da handicappato “ Lei lo guardò tutta seria “ ma tu hai un handicap” “ e non ho bisogno che tutti me lo ricordino! Si vede che ho problemi, non c’è bisogno che tutti me lo sottolineino con la loro gentilezza di circostanza e pietà di facciata” Lei si pulì la bocca “ Il tuo problema non è che non vedi, è che non accetti che gli altri ti vogliono aiutare!!!” “non lo fanno per me, lo fanno perché si deve fare, come toccare ferro quando vedono una cassa da morto, o toccarsi le palle quando un gatto nero attraversa la strada. Mi aiutano perché è una cosa che si fa, come la stai facendo tu, ma di me, di quello che provo e sento, non gliene frega niente a nessuno!!!Servo solo a farsi sentire buoni e a mettersi a posto con la coscienza! Ecco perché me ne sono andato dal mio paese: non volevo essere la scorciatoia per il paradiso per i miei compaesani, farli sentire a posto con la coscienza solo perché mi facevano attraversare la strada. Poi se stavo bene o male non gliene fregava niente. Io ero pieno di angosce e paure e tutti a chiedermi se dovevo andare in bagno, se dovevo attraversare la strada. Nessuno sapeva leggere dentro di me, nessuno era interessato se volevo un bacio o fare l’amore” Fece tutto il discorso arrabbiato, tutto di un fiato e concluse “ tu ad esempio mi tratti come un bambino, ma tu avresti mai il coraggio di fare l’amore con un handicappato?” “e tu faresti l’amore con una con le tette cadenti e che nella vita è stata sempre usata e  lasciata? - Rispose lei di botta con la sua stessa veemenza - ognuno di noi ha i suoi problemi, le sue paure, siamo tutti andicappati, chi nell’anima, chi nelle amicizie, chi nel vivere!” Restò un secondo in silenzio stupita da quanto diceva e continuò “Tu hai avuto coraggio a cambiare città, hai sfidato la vita, ma nessuno sopravvive da solo, anche tu hai bisogno di qualcuno, come ne ho bisogno io che divento vecchia e lo divento da sola, senza nessuno a cui abbracciarmi per vincere la paura del domani o con cui parlare per capire me stessa!” Restarono qualche secondo in silenzio, lui ragionando su quello che lei aveva detto, lei pensando che aveva detto anche troppo di se e che aveva bisogno di bere per non pensarci “Ho freddo – disse lui ad un certo punto – mi accompagni a casa?” “Andiamo, disse lei quasi seccata, fra un po’ devo andare a lavorare e non ho fatto ancora niente” Lo prese sottobraccio e lentamente si avviarono “ Stasera suono alla capannina sulla spiaggia  a Valverde, perché non vieni?” “ Non lo so finisco tardi al ristorante” “Noi andiamo avanti fino alle due, hai tempo. Vieni, beviamo qualcosa, mi insegni a ballare, parliamo un po’: io di notte non riesco a dormire” Lei restò in silenzio per qualche secondo. “ va bene, provo a fare un salto” Disse alla fine “Ci conto” “Ma non farti strane idee, io da sola ci sto bene” “Anch’io ci sto bene, ma hai appena detto che non è una cosa naturale” “Non lo è se stai da solo come ci siamo finiti noi, come le alghe strappate dal mare e buttate sulla spiaggia. Ma se hai qualcuno da ascoltare o con cui parlare, allora puoi essere sola a letto, ma hai sempre qualcuno” Aveva bisogno di bere; tutta la discussione l’aveva fatta innervosire, perché aveva detto la verità: e che dentro e fuori dal letto, a parte suo figlio, lei non aveva nessuno. Ed era questo quello che la tormentava: camminare da sola nel deserto della sua vita e non aver nessuno a cui mostrare l’anima, con cui fare sesso per fare sesso e non perché aveva paura che scomparisse. Doveva bere, se beveva questi pensieri li perdeva e tutti le sembravano meno indifferenti e più simpatici. Camminarono in silenzio per qualche isolato poi d’improvviso lui si fermò “ma dimmi una cosa, solo per curiosità, ma tu faresti l’amore con me: sii sincera” “ma ti sembra che sono cose da chiedere ad una signora che hai incontrato due ore fa?” “Io con te lo farei” Disse lui sorridendo “Certo che lo faresti, sei cieco, se ci vedessi poco poco, non avresti il coraggio di chiedermelo. E poi si vede che come tutti i giovani sei solo ormoni e che faresti l’amore anche con il tuo bastone” Lui sorrise rumorosamente e lei sentì che la stringeva più forte come se avesse paura che lei se ne andasse e la cosa le fece passare il bisogno di bere.
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chiamatemefla · 3 years
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wip 2021 pt. 2
C’è una strada in discesa di fronte alla scuola elementare, un lungo nastro di asfalto che si srotola giù per un fianco della collina, costeggiato da palazzi anni Settanta, squadracciati e non particolarmente alti, tra le quali si incastrano viuzze che salgono verso questo o quel cancello.
Gli hanno una volta rivelato che una larga parte di quei cancelli è solo decorativa, che la maggior parte delle persone che abitano in quella zona la usa come vezzo più che come deterrente dall’altrui compagnia: un cancello fa status, denota qualcosa da proteggere e delimitare, anche se questo qualcosa è un appartamente piuttosto stretto in un vecchio condominio dai muri dipinti di un arancione scuro ora cotto dal sole.
C’è una curva in quella strada, ed un palazzo che sembra un po’ più alto degli altri perché affonda le sue radici nella strada sottostante e guarda, con interesse, verso la parete scoscesa su cui il centro storico poggia, impassibile, come un gatto perennemente in bilico sul bordo di una credenza.
Proprio ai piedi di quel palazzo stranamente alto c’è un’officina, e ci sono due ragazzi, un motorino, una macchina parcheggiata in attesa del suo turno che osserva un’altra venir smontata e rimontata con cura, e il sole che bacia solo metà del piazzale oblungo. È bello quel posto, non è buio eppure la luce non lo bagna mai del tutto, c’è sempre una piccola pozza d’ombra in cui nascondersi quando l’estate si fa bollente ed anche lavorare dentro al garage diventa un’esperienza piuttosto asfittica.
Antonio non ha ancora vissuto un’intera estate lassù, e dubita fortemente che possa essere calda quanto gli altri dicono, eppure in quel pomeriggio di fine febbraio può forse capire cosa i più intendono, perché si lamentano: il sole è strano quando si è lontani dal mare, colpisce in modo diverso perché non te l’aspetti.
Ciò non toglie che stia tentando di prenderselo tutto in faccia, respirarlo quanto più possibile, lavarsi via dalla testa tutta la pioggia delle settimane precedenti.
Poi d’improvviso il rumore di qualcosa che cade a terra, probabilmente una chiave inglese lanciata, ed un’imprecazione piuttosto colorita, forse sono davvero fortunati che non ci sia nessun altro lì davanti a parte loro due.
«’Sto motorino ha fatto l’Unità d’Italia.»
Giacomo si passa le mani sui jeans con veemenza, li sporca di grasso e qualsiasi altra cosa ci sia dietro alla scocca del suo bolide, continuando a guardarlo con la stessa aria di sfida con cui lo fissa da quando, circa un’ora prima, è arrivato in officina trascinandoselo dietro come una bicicletta particolarmente pesante su per i sali e scendi del paese.
«Dottore, mi dica, si riprenderà?»
Giacomo storce il naso, non scolla gli occhi dalla scocca blu abbandonata a terra; a volte vorrebbe sapere cosa vede in quell’ammasso di ferraglia che a lui sfugge, cosa sta leggendo tra i tubi a vista di un motorino che ha avuto giorni migliori. Giacomo concentrato è qualcosa di nuovo a cui un po’ tutti faticano ad abituarsi, una sfumatura diversa di quel ragazzo sempre un po’ assente che è stato fino a qualche mese prima.
«A riprendere si riprende, per carità, ma secondo me è meglio se ti fai un asino: va sicuramente meglio di questo coso e consuma meno. Quanto ci spendi per st’accrocco? Tra manutenzione e benzina già t’eri fatto una macchina, arrivato a questo punto.»
«Certo, poi parcheggio me lo cerchi tu.»
«Tanto il motoschifo sta sempre parcheggiato qua da me, non è che cambierebbe un granché e te potresti muoverti.»
Glielo ha già ripetuto almeno tre volte, l’ha quasi pregato di buttare quel motorino che non ha certo visto l’unità d’Italia ma sicuramente ha vissuto il diploma di sua madre, e Antonio sa perfettamente che potrebbe farlo ma, al contempo, la sola idea di rottamare quel cimelio che sta già cercando di rottamarsi da solo, gli crea un senso di disagio, una paura strisciante che lo fa desistere ogni volta.
Paura di cosa non lo sa, sa solo che non vuole lasciar andare il macinino anche se dovrebbe.
«Capirai, le traversate oceaniche mi ci faccio: da casa mia alla stazione, da casa mia a casa di Flavio, da casa di Flavio alla stazione...potrei pure comprarmi una bicicletta.»
«Ah, ma Flavio è ancora vivo?»
«Dipende da cosa intendi per vivo: respira ancora? Sì. Fa qualcos'altro? Non saprei.»
«L’altro giorno ho visto suo nonno, m’ha detto che non esce di casa da tipo Capodanno, che poi è l'ultima volta che l'ho visto, e che non lo sopportano più.»  
«Due gennaio», si ritrova a rispondere di getto, lo corregge come ha corretto anche i nonni di Flavio, come si ripete ora che non ha più la pioggia e il cielo tetro come scusa per quel comportamento.
Tutto è solo quel che sembra, però se lo chiedi a chiunque giri loro intorno la risposta sarà sempre la stessa: no, non è vero, non funziona così, è solo un po’ di stanchezza.
Risultato: ora sono stanchi in due, in modi diversi, per motivi diversi, e comunque nessuno li ascolta.
Giacomo fischia e tira fuori una chiave inglese troppo lunga per essere davvero entrata nella tasca sinistra dei suoi jeans. Antonio però non si fa domande, lo osserva passarsela tra le dita come fosse una matita durante una lezione particolarmente noiosa mentre ammira una chiazza una a tre passi da lui. Si ritrova stranamente in apprensione per l’espressione impensierita che è sempre meno da Giacomo e sempre più da qualsiasi cosa questi diventerà in futuro, un mistero avvolto in quelle rughette che si formano sulla fronte quando corruccia le sopracciglia.      
«Eh, cazzo, è il ventisette di febbraio magari il naso fuori dovrebbe metterlo. Neanche risponde ai messaggi, Gabriele quasi chiama Chi L’Ha Visto, poi fortuna gli hai scritto tu e l’hai tranquillizzato.»
«Gabriele sta tutto ansiato, s’ha da calmà arrivati a sto punto.»
Prova a pulire la macchia che Giacomo sta guardando, grattarla via col piede, e alla fine si sporca solo la gomma bianca delle scarpe e il grasso rimane lì, viscido e scuro.
«E comunque Flavio aveva detto che oggi mi avrebbe accompagnato, poi si è ricordato di non so che cosa che doveva rivedere e l’ho lasciato sui libri. Che poi fosse quello…è che probabilmente lo ritroverò sui libri ora che torno, ancor più probabilmente sulla stessa pagina.»
Un’altra generosa manata unta si aggiunge accanto alle altre sulla gamba destra dei pantaloni di Giacomo che ora guarda lui, alza il braccio per grattarsi il naso con il polso, e sembra tentennare.
«Vabbè, se non altro avete fatto pace.»
«Non è una questione di fare pace.» *
Gli piaceva di più quando al piano di sotto abitava ancora Lucrezia, che era sorridente e simpatica e metteva sempre la musica la domenica mattina, e soprattutto gli piaceva di più quando c’erano ancora i suoi panni stesi sulla via e lei lo salutava sempre affacciandosi alla finestra quando lo vedeva passare.
Ora, se guarda in basso dal minuscolo balconcino della cucina, vede solo delle persiane ostinatamente chiuse e il cartello verde fosforescente con su scritto “AFFITTASI”.
Lucrezia è trasferita perché la casa era piccola, un tempo intesa solo per il vecchio portiere di quel minuscolo palazzo, e la strada era scomoda, e trascinarsi una carrozzina con due gemelli dentro su per le infinite scalinate che dal parcheggio più vicino portano al palazzo sarebbe stato troppo difficile.
Quand’era piccolo lui era più comodo, sosteneva sua nonna, soprattutto perché non avevano ancora chiuso la stradina appena duecento metri più in là, una delle poche vie che non contemplavano il salire o scendere dei gradini per raggiungere la propria destinazione.
O forse no, non è vero che gli piaceva di più quando c’era Lucrezia, ché quando lo salutava dalle finestre credeva sempre di doverle delle spiegazioni, ché salutava sempre Francesca con un sorriso troppo largo quando li vedeva salire sapendo che in casa sarebbero stati soli e, si dice, forse oggi quel peso non l’avrebbe sopportato.
Dare spiegazioni non gli piace particolarmente, mal sopporta il doversi giustificare, e vivendo lui per primo nella beata convinzione che chi si fa i cazzi propri campa cent’anni non riesce a comprendere come, e soprattutto perché, sia possibile che il mondo intero non sia addivenuto alla stessa conclusione.
Lucrezia non era, ed è convinto che ancora non lo sia, una cattiva persona ma questo non significa che, per quanto possa mancargli ascoltare l’intera compilation di Battisti rigorosamente in vinile ogni domenica che Dio manda su questa terra, una parte di lui non stia gioendo nel sapere che una persona in meno ha visto il ragazzo davanti alla porta salire le scale con uno zaino particolarmente pieno sulle spalle.
Lo stesso ragazzo che lo aspetta sul pianerottolo con le mani in tasca e lo sguardo di chi non si aspetta davvero di vedere quella tavola di legno spostarsi quel tanto che basta da permettergli di entrare — e gli dispiace davvero, quell’espressione è colpa sua e non sa proprio come riuscire a non vederla mai più, a cancellarla, a togliergli ogni dubbio.
La meccanica del corpo umano, si ritrova a pensare, è una cosa bizzarra, così perfetta da non permetterti dubitare neanche per un attimo che la corazza di pelle ed ossa che abiti continuerà a funzionare perfettamente per tutta la tua vita, senza mai perdere un colpo, in un silenzioso insieme di ingranaggi fino alla fine dei tempi.
Ed è proprio questa illusione di perfezione che ti inchioda a letto in una mattina qualsiasi, quando tutto sembra funzionare nel modo giusto a parte il fatto che, no, non funziona affatto e il ronzio nelle orecchie lo senti solo tu, e le fusa del tuo gatto ti sembrano ingestibili perché quasi ti perforano il cervello.
A casa non c’è nessuno, i suoi sono partiti presto direzione Veroli per il funerale di un cugino del nonno, un tipo smilzo e storto che Flavio ha visto forse due volte in tutta la sua vita e che si era trasferito laggiù per nessun motivo, spinto da un irrefrenabile bisogno di spostarsi dalla Capitale alla ricerca di chissà cosa. C’erano voluti vent’anni di vita solitaria prima che incontrasse quella che poi sarebbe diventata sua moglie, una signora alta ed imponente che non amava particolarmente fare le scale e che, un paio di sere prima, aveva chiamato per annunciare che il cugino del nonno s’era incamminato sull’unica scalinata in cui non avrebbe potuto seguirlo.
Una pentola con le arance cotte riposa sul piano cottura della cucina, piena di qualcosa che non è ancora marmellata ma non è più frutta, le serrande sono alzate solo a metà e tutto sembra rallentato ed imbevuto dell’odore stucchevole degli agrumi cotti che si stanno pian piano caramellando.
Sua nonna non è una persona molto affettuosa, non nel senso stretto del termine, e il suo amore lo dimostra con gesti rari e parole fraintendibili però gli prepara sempre la marmellata e tenta di farla bollire quando non è in casa perché sa che odia gli odori troppo dolci, proprio come suo nonno.
E soprattutto sa che, proprio come suo nonno, ha bisogno di sentirsi in qualche modo rassicurato circa il proprio status affettivo all'interno della famiglia.
La marmellata è uno di questi rari gesti e Flavio sa che, se non fosse dovuta partire, avrebbe finito la sua opera facendolo uscire con una scusa qualsiasi come mettere la benzina alla macchina col serbatoio ancora mezzo pieno, o andare a fare la spesa nel supermercato più lontano solo per prendere quella specifica cosa che esiste proprio lì.
E invece la marmellata non è marmellata, è solo una pentola contenente una poltiglia gelatinosa di un arancione scuro che assomiglia un po’ a come sente ora il suo cervello: sciolto e pronto ad uscire dalle orecchie.
E Antonio aspetta sulla porta, ancora con le mani ben affondate nelle tasche del giaccone, ancora con la stessa espressione mentre butta un’occhiata verso l’interno.
«I tuoi si sono portati via la belva?» chiede, mentre Flavio si fa da parte quel che serve per farlo entrare e chiudersi la porta alle spalle con un sospiro che gli scioglie la tensione all'altezza del collo ma non il nodo doloroso che gli stringe lo stomaco in una morsa da ormai tre settimane.
Lo zaino dell'altro viene appoggiato con cura, ed un sospetto rumore di vetri, a terra proprio sotto all'attaccapanni, può sentire quel paio d'occhi azzurri fargli domande che la bocca non pronuncia e che vanno ben oltre la presunta assenza del padrone di casa, ovvero Cicerone, tra quelle quattro mura.
«La belva dorme sul mio letto.»
«Aspetto il giorno in cui mi dirai che tu sei andato a dormire sul divano per non svegliarlo.»    
Flavio sorride e si sporge quel che basta per poterlo salutare per bene, lascia che si avvicini per poterlo baciare e sentire le labbra dell’altro rilassarsi contro le sue. Gli piace che quello sia ormai un gesto automatico, gli piace il fatto che la reazione di Antonio sia sempre la stessa e, soprattutto, gli piace che anche oggi il suo ragazzo abbia voglia baciarlo.
Non era scontato, così come non era assolutamente sicuro che l'altro si sarebbe presentato a casa sua, eppure eccoli lì, con la tuta per stare comodo, con un gran sorriso stampato in faccia perché ama quando i suoi piani vanno a buon fine, soprattutto quando danno come risultato il riuscire a stare insieme un po’ più del solito.
Vorrebbe evitare di sorprendersi ancora, dopo due anni sarebbe forse ora di acquisire un po' più di sicurezza in quel frangente, eppure si scopre totalmente incapace di farlo.
«Dici che ricominci a respirare o devo far valere il mio corso da bagnino?» domanda Antonio, accarezzandogli piano uno zigomo con la punta delle dita, proprio lì dove ieri ha sbattuto contro lo spigolo della finestra, nel disperato tentativo di separare Cicerone da un povero pettirosso che si era avventurato sul balcone, e dove si sta formando un alone violaceo.
Così sembra ancora più pesto, eppure Antonio lo guarda come se fosse qualcosa che vale la pena osservare.
«Sto respirando» replica, con poca forza, e le labbra di Antonio si stirano in un sorriso pallido, cauto, mentre sbottona il cappotto e sfila la sciarpa.
Improvvisamente è come se ogni tensione fosse sparita, ci sono solo loro due e la prospettiva di una serata ed una notte insieme, un risveglio che non implichi Giacomo o Gabriele che entrano in camera loro con una scusa qualsiasi e li trascinano fuori non appena aperti gli occhi. Chissà dov’è il problema, chissà se hanno davvero paura che il loro stare insieme possa in qualche modo minare la loro amicizia, lasciarli soli possa in qualche modo minare l’unità di un gruppo che già inizia a smembrarsi per le vicissitudini della vita.
«Peccato, niente respirazione bocca a bocca allora. Potevi anche fare finta.»
Scuote la testa, Antonio, e si allontana per appendere cappotto e sciarpa, aprire lo zaino per frugarci dentro probabilmente alla ricerca degli occhiali che ultimamente ha iniziato ad indossare quando ha mal di testa.      
Dopotutto devono studiare, non tutto il pomeriggio perché ha promesso che non sarebbe stato così, però devono se non altro provarci.
«Perché, mi serve una scusa?»
«Magari serve a me, che ne sai?» *
«Dopodomani sono esattamente due anni che devo smettere di fumare.»
La risata di Flavio è calda contro il suo orecchio, un’inaspettata ondata di tepore in quella serata altrimenti gelida in cui l’aria di febbraio rende la luce dei lampioni sulla via un po’ più aranciata e brillante, luminosa nel gelo che gli intirizzisce la punta del naso ed il dorso delle mani.
Della casa di Flavio gli piace particolarmente quell’apertura nel muro della cucina, piccola e quadrata e proprio all’altezza giusta per appoggiarci i gomiti, che si affaccia sul balconcino: c’è la porta finestra, lunga e sottile e con delle tendine arancioni, e poi subito accanto c’è quella finestrella da cui l’altro si affaccia per fargli compagnia quando Antonio viene spedito fuori a fumare.
Si appoggia con la schiena contro la persiana, facendo bene attenzione che il fumo non entri in casa, costringendo l’altro a sporgersi un po’ di più sul davanzale di marmo che, al momento, deve essere la seconda cosa più fredda e rigida dopo le sue dita.
Se resta fuori più di cinque minuti ha paura di vederle cadere.
Le osserva nella luce calda, le nocche un po’ arrossate, la sigaretta girata un po’ storta che, incastrata tra indice e medio, si sta consumando mentre lo ascolta pensare ad alta voce.
«Ah sì?»
Si decide a prendere una boccata, mandando al diavolo tutta l’opera di convincimento fatta fino ad allora, chiedendosi se vale davvero la pena buttare via una sigaretta ormai fumata a metà. Il danno è fatto, dopotutto, potrebbe smettere con la prossima o potrebbe essere l’ennesimo Zeno Cosini ma senza la grazia di un qualche tipo di supporto psicoterapeutico.
«Eh, sì.»
Un altro tiro, il fumo soffiato via che si alza e si confonde con la condensa del respiro contro il freddo della sera.
Può vedere con la coda dell’occhio Flavio fissarlo in attesa di una spiegazione più articolata, sul viso l’espressione appena divertita di chi non aspetta altro che avere una nuova verità da assaporare.
«Sto cercando di trovare un modo poco imbarazzante per dirlo, datti pace.»
«La fase dell’imbarazzante l’abbiamo già passata da un bel po’. Insomma, il pigiama del Napoli...»
«Non quel tipo di...Senti, non eri te quello che “parlare dei sentimenti è imbarazzante”?»
«Eh, appunto, sono io mica te.»        
Stavolta tocca a lui ridere piano, mentre fa precipitare un po’ di cenere giù dalla ringhiera.
«Quando t’ho baciato davanti al portone del comune tornando dal compleanno di Stefania, no? Avevo detto “se ci sta smetto di fumare”, anche perché so che ti dà fastidio.»
Si decide a rinunciare a quella sigaretta, la schiaccia dentro ad un posacenere di fortuna, uno di quelli che Flavio ripesca solo per lui dal fondo di una credenza in cui sua nonna stipa le chincaglierie figlie di viaggi vari ed eventuali.
Il souvenir dimenticato di oggi è gentilmente offerto da un viaggio che il fantomatico zio di Flavio ha fatto a Berlino durante l’ultimo anno del liceo, una roba di plastica trasparente un po’ sbeccata sul cui fondo si stagliano le silhouettes nere su fondo bianco di alcune attrazioni turistiche.
«Non avevi fumato tutta la sera.»
«Sì, vabbuò, è che magari...così non ti scansavi, no?»
«Tre mesi che aspettavo e secondo te me scansavo pure?»
Due anni prima era convinto che lo avrebbe fatto, che si sarebbe scansato, perché in quel periodo era tutto strano e leggere male i messaggi dell’altro era solo la degna conclusione di un nuovo capitolo della sua vita che sembrava non andare da nessuna parte da dodici lunghi mesi.
Era sicuro che l’avrebbe piantato in mezzo alla via, nascosto da quella curva che i palazzi fanno prima di aprirsi in un’altra piccola piazza abitata solo da una fontanella di pietra, con le labbra ancora calde di un bacio corrisposto ma non desiderato - perché succede quando si viene baciati, no? Il primo istinto è contraccambiare, poi si può decidere.
C’aveva pensato per una serata intera, giocando con il pacchetto di sigarette, cercando di resistere all’urgenza di accendersene una e continuando a ripetere come un mantra quella promessa a chissà chi: se la serata fosse andata bene lui avrebbe smesso di fumare.
Il giorno dopo, un Flavio piuttosto nervoso ed assonnato lo aveva chiamato per chiedergli se avesse voglia di farsi un giro, una chiacchierata, e ad Antonio era servito tutto l'autocontrollo di cui disponeva per rispondere un solo "A che ora?" a cui non aveva ricevuto una vera risposta.
Flavio era passato sotto casa sua appena dopo pranzo, insieme avevano comprato i biglietti dal tabaccaio ed avevano aspettato sotto alla pensilina rovinata l'arrivo del Cotral.
Avevano passato l'intero viaggio in autobus a far finta di pensare ad altro e si erano ritrovati a camminare lungo l'argine del fiume, l'acqua torbida, la stradina sterrata appiccicosa d'umidità sotto alle suole delle scarpe.
«Alle elementari ci portavano qui almeno una volta all'anno per fare birdwatching. Dicono che ci sono gli aironi ma io non li ho mai visti», aveva detto Flavio, riponendo il suo immancabile, quanto in quel momento inutile, paio di occhiali da sole nella tasca della giacca.
Poi non avevano più parlato, non davvero, c'erano state chiacchiere vuote e aneddoti idioti per riempire l'aria e il silenzio.
Si erano seduti sulle assi bagnaticce di uno dei moletti disseminati lungo l’argine, in quel nulla palustre solo loro, due barche tirate a secco e qualche uccello che sguazzava ignaro tra le acque del Tevere.
Flavio aveva sospirato, storcendo il naso come se fosse pensieroso e scontento della direzione che le sue riflessioni stavano prendendo. Una frazione di secondo dopo, lo stesso Flavio lo stava baciando con un trasporto che non avrebbe saputo cucirgli addosso, con le mani che si aggrappavano alle sue braccia e il viso bollente.
Non avevano fatto molto altro per l'ora seguente, ed avevano dovuto correre per prendere l'autobus prima che facesse buio, infreddoliti e con le guance accese, con gli occhi quasi febbricitanti.
Del viaggio di ritorno ricorda solo le risate sommesse, il modo in cui la mano dell'altro cercava la sua nella penombra di quel Cotral semivuoto mentre tentavano di toccarsi con ogni parte del corpo.
Flavio che si sporge e gli dice, come se fosse una sciocchezza, che spera di poter un giorno baciarlo su al Belvedere, davanti a tutti, sotto al sole o durante le feste, senza doversi nascondere.
Ché non ha senso nascondersi, ripeteva, ché non capisce dove sia il problema eppure deve far finta che sia così.
C'era voluto quasi un anno per fare avverare quella promessa, altri sei mesi perché diventassero uno parte della famiglia dell'altro in quel modo sottile e traballante e chiaro solo a loro che dà la stessa sensazione che precede un temporale.
E così la famiglia di Flavio lo tratta come hanno sempre trattato Gabriele, e così la sua famiglia tratta Flavio come tutt’ora farebbero con Vito se solo non abitasse a qualche centinaio di chilometri da lì - se qualcuno di loro ha capito qualcosa non è dato saperlo, quel che sanno è che per ora non piove e va bene così, anche se a volte pesa.
Anche se Antonio è costretto a dire una bugia, convincendo sua madre e sua sorella che in questo momento è a casa di Giacomo insieme a Flavio stesso, certo, ma anche a qualche altro amico per passare un sabato notte come tanti altri, qualche birra, una maratona di film.
Una mano tiepida si sporge dalla finestra per spostare una ciocca di capelli, un movimento leggero e delicato, e si volta quel che basta per poter guardare negli occhi il suo ragazzo e la cucina dietro di lui appena illuminata dalla luce sopra al lavello, il resto della casa avvolto nella stessa penombra che riveste la via silenziosa.
Che strana sensazione.
Che bella sensazione.
«Rientri?»
«Non lo so, forse voglio fare Capitan America.»
«Emblema di un paese capitalista e guerrafondaio?»
«Pensavo più figo e intirizzito. Calma il comizio, Lenin.»   *
La prima volta che hanno dormito insieme non erano quasi neanche amici, ché per diventare amici c’hanno messo un bel po’ e la colpa è di entrambi.
Si sono ritrovati a condividere un letto dopo una trasferta romana, quando Antonio era solo il ragazzo nuovo che andava in classe con Giacomo ed era bravo a calcetto, e lui era uno che era stato appena mollato dalla ragazza e  voleva solo una scusa per schifare chiunque. Ospiti a casa del cugino di Gabriele, un appartamento per studenti piuttosto stretto ma con un numero di letti improvvisati da far invidia ad un ospedale da campo, si era ritrovato a condividere un sottile materassino da campeggio con Antonio.
Schiena contro schiena, come consuetudine ed etichetta vuole quando due maschi sopra ai dieci anni condividono un giaciglio, e tentando di non toccarsi anche se lo spazio era quello che era e la coperta non permetteva loro di allontanarsi troppo, avevano trascorso le ultime ore della notte prima dell’arrivo di un’alba che li aveva colti quasi tutti svegli e veramente poco preparati.
Il telefono di Antonio non aveva fatto altro che vibrare, da qualche parte per terra, un ronzio profondo che era presto diventato un rumore bianco come quello delle macchine sotto alle finestre o del russare di Gabriele in corridoio. Lo aveva chiaramente sentito muoversi per prenderlo almeno un paio di volte, la luce fredda del display che per qualche istante illuminava la stanza prima di essere riposto di nuovo in compagnia di profondi sospiri e tentativi di trovare una posizione comoda per dormire.
E succede molte altre volte di dormire insieme, sempre per un motivo diverso, ed ogni volta rispondono entrambi con una scrollata di spalle perché ci sta, perché è plausibile, perché nessuno di loro è particolarmente infastidito dalla presenza dell’altro nello stesso letto. Flavio, inoltre, si è quasi abituato al fatto che spesso e volentieri Antonio si alza nel cuore della notte per andare a parlottare con qualcuno, con un tono di voce appena percettibile, prima di tornare a coricarsi e far finta di dormire per il tempo che resta.
A volte ripensa al coraggio che gli ci era voluto per sussurrargli, in uno di quei viaggi in solitaria verso l’angolo più recondito di qualsiasi spazio si trovassero a condividere, che il suo sonno valeva tanto quanto il bisogno dell’altra persona di sentirsi in diritto di chiamare a qualsiasi ora. E ricorda il modo in cui Antonio aveva risposto solo che c’era abituato, che comunque dorme poco di suo e alla fine ormai gli sembra quella la normalità.
C’erano voluti mesi per scoprire che, no, non è vero che Antonio dorme poco e, anzi, ama particolarmente poter evitare di mettere la sveglia quando possibile e che era Edoardo, che spesso e volentieri lavorava di notte, quello per cui il sonno arrivava con difficoltà e solo quando ormai era giorno.
Ma ormai quel capitolo è chiuso e Antonio ha imparato a mettere il telefono in modalità silenziosa quando finalmente si infila sotto alle coperte.
E va bene così.
Lo sente sbadigliare e stiracchiarsi al suo fianco, poi un braccio gli cinge il petto e può sentire il viso dell’altro appoggiarsi contro la sua clavicola, caldo e morbido come solo il sonno riesce a rendere i corpi delle persone.
Quella è la prima mattina in cui si svegliano completamente soli, nella luce soffusa che penetra dalle persiane serrate della sua camera, stretti nel letto in cui da vent’anni si sveglia ogni mattina e, si ritrova a pensare, sarà veramente difficile domani aprire gli occhi e doversi alzare completamente da solo.
Non che sia sicuro di volersi alzare in generale, ora come ora, deve ammettere.
«Flavio...»
«Mh?»
«Sei sveglio?»
«Insomma.»
Antonio posa un bacio sul suo petto, in un punto a caso da sopra alla maglietta, si stringe un po' di più a lui e, ancora una volta, Flavio si ritrova a pensare all'assurdità di quella situazione.
Un'assurdità bella, eh, solo piuttosto lontana da qualsiasi idea abbia mai avuto circa il suo futuro – e di idee balzane a proposito ne ha avute parecchie, tutte ovviamente mai rivelate ad anima viva, eppure nessuna prevedeva anche solo un momento di così pura e totale tranquillità.
«Volevo fare la colazione ma non so dove tieni la roba. Poi cominciavo ad aprire tutto e facevo casino.»
Nello strascinare delle parole ancora assonnate, inframmezzate da uno sbadiglio lungo e sonoro, Flavio può sentire una punta di quell'accento che Antonio cerca sempre, se non proprio di camuffare, almeno di tenere a bada.
Spesso esce fuori quando litigano, quando non pensa a quel che dice e vuole solo svuotarsi il cuore e lo stomaco, e spesso si chiede quanto gli costi tentare di essere un'altra faccia di se stesso ogni dì per tante, troppe ore al giorno.
E invece ora è solo Antonio che tenta di scoprirsi il meno possibile perché di mattina ha sempre freddo, non si stanno urlando contro come avevano fatto solo dieci giorni prima, e sente un fortissimo bisogno di iniziare a baciarlo in quel preciso istante per smettere forse tra due giorni.
Ma per baciarlo dovrebbe alzarsi e lavarsi i denti e non ne ha voglia, vuole restare in quella bolla di penombra e calore almeno un altro po'.
«Dammi cinque minuti per svegliarmi.»
«Ma pure di più, io non voglio alzarmi.»
«I termosifoni sono accesi.»
«So' contento per loro, fa comunque freddo.»
Con la coda dell'occhio può vedere Cicerone entrare in camera sua con non poca fatica, cercando di fare entrare il suo corpicino grassoccio nella stretta fessura lasciata aperta durante la notte.  Segue con gli occhi quella macchia arancione che si muove per la stanza con circospezione, bene attento a non avvicinarsi al letto, prima di salire con un tonfo sonoro sulla sua scrivania, spostando fogli e facendo cadere penne, per poi fermarsi, immobile come una statua, a fissarli.
Antonio sospira, lui ride, Cicerone per tutta risposta fa cadere un'altra penna.
Sarà un piacere riordinare la stanza più tardi, chissà se ritroverà metà della sua cancelleria o se dovrà, come al solito, comprarne di nuova.
Si sposta per lasciare un bacio appena sotto l'orecchio dell'altro, spostando i capelli con la punta del naso, mormorando un «Credo Cicerone ci stia osservando».
«Vorrà la colazione pure lui. Quel gatto pesa come un bambino.»
«O forse vuole noi per colazione.»
«Facesse di me quel che vuole, basta che fa da sé.»
«Mi mancherai quando diventerai trippa per gatti.»
«Il mio fantasma farà in modo di infestare i tuoi sogni.»
«Sei così premuroso.»
«Oh, pensavo si sapesse già! Ti porto pure i sassolini belli come fanno non mi ricordo quali uccelli. Sono un ragazzo da sposare, altro che premuroso.»
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