Tumgik
#una bambina da non frequentare
turuin · 8 months
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Mi trovo in difficoltà.
La parrocchia locale ha "convocato" la famiglia per l'eventuale inizio del catechismo di Aurora, e ho saputo - io lavoravo, non sono andato all'incontro - che loro hanno un piano d'azione diverso dal consueto.
Normalmente, i bimbi seguono il catechismo preparatorio alla prima comunione, poi fanno la prima comunione, poi seguono il catechismo per la cresima e alla fine ricevono anche la cresima.
Questi no: visto che hanno notato un drastico tasso di abbandono dei fedeli tra l'uno e l'altro sacramento, hanno deciso che i bimbi fanno 4 anni di catechismo, alla fine dei quali vengono cresimati e ricevono la loro prima comunione.
Ora, piccolo background: io non sono mai stato un fervente cattolico e di sicuro non ho fatto sette anni di catechismo (mi hanno recuperato con due corsi ultra accelerati di 1 settimana il primo e 3 giorni l'altro) MA, post-cresima, ho suonato nel coro della chiesa di fatto frequentandone tutte le attività per SETTE anni. Quindi un po' d'esperienza sul campo ce l'ho.
Personalmente sono molto perplesso sul percorso proposto, per me non ha senso arrivare al sacramento della confermazione (la cresima) senza avere fatto i giusti passi - e la prima comunione, e la frequentazione "volontaria" da parte dei cresimandi, a indicare il preciso atto di volontà di confermarsi cattolici etc.
Il problema è che la bambina è interessata e vorrebbe frequentare il catechismo, molto probabilmente a causa degli insegnanti di religione della materna e della primaria. Per dire, una delle sue domande sull'argomento è stata "ma se vado in chiesa, Gesù è felice?"
Ora, Aurora è una bimba molto intelligente, razionale e sensibile. Io non riesco - è questa la mia grandissima difficoltà - a spiegarle la religione cattolica e il percorso che si trova davanti senza dirle come la penso in proposito ed affrontare i motivi per i quali me ne sono allontanato. E più penso a questo atteggiamento "di cattura" della parrocchia e più mi convinco che non sia la scelta migliore; ma, devo dire, è una scelta che sta manifestando di voler fare lei.
Ho provato a spiegarle un po' di cose sulle religioni, sul rispetto tra diverse culture e appartenenze, sul fatto che la religione non deve mai essere una tifoseria e che non esiste un dio migliore di un altro (e per alcuni non esiste, e vanno rispettati anche loro) ma devo ammettere che sento dentro di me un grande conflitto.
Un conflitto dovuto al fatto che si, io sono arrivato a determinate conclusioni, e ad abbracciare idealmente qualsiasi religione e appartenenza religiosa, e a ritenere che siano tutte originate da una stessa fonte, e a vivere bene senza dover per forza dare un nome, una storia, un corpus di precetti e tutta la compagnia a una entità di coesione universale che chiamo dio solo per mancanza di altri termini e in cui, alla fine della giornata, credo anche io.
Ma ci sono dovuto arrivare passandoci dal di dentro. E che diritto ho, io, di proiettare la mia esperienza personale su di lei? Non dovrei invece lasciarle fare le sue scelte e, casomai, rispondere alle domande che vorrà farmi? E però, non è giusto - da parte mia - avere perplessità su un percorso che questa parrocchia vuol fare in modo così alternativo e inconsueto per quello che dovrebbe essere un percorso cattolico "tradizionale" ?
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quartafuga · 1 year
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Oggi ho sognato R., che è stata una di quelle compagne di scuola che mi son portata dietro dalle elementari fino alle superiori. R. mi piaceva perché era sveglissima, i suoi occhi erano lepri sempre leste e pronte a seguire ogni cosa incrociasse il suo sguardo. Ma non era questo a rendermela simpatica, ciò che davvero adoravo di lei era il modo in cui si prendeva cura degli altri. Quando mi invitava a casa sua e studiavamo insieme o guardavano un film o giocavamo a The Sims ricordo che il tempo trascorreva sempre velocissimo e non avevo mai voglia di tornare a casa, cosa rarissima per una bambina timida ed introversa come me. Eppure con R. non parlavamo molto, ma c'intendevamo, ed era questo a farmela sentire casa. Ad esempio: quando mi offriva pane e nutella per merenda portava già due sandwich per entrambe perché sapeva che se ne avesse preparato solo uno avrei voluto ripetere e non avrei saputo come dirglielo. E sembrerà una piccolezza, ma dettagli come questi mi hanno sempre fatto pensare che R. fosse una persona da tenersi vicino, una persona preziosa. Così effettivamente è stato per diversi anni. Addirittura il liceo, io classico lei scientifico, abbiamo finito per frequentarlo nello stesso istituto. Così ogni giorno facevamo il percorso in autobus insieme e, una cuffietta per lei l'altra per me, ascoltavamo per tutto il tragitto Queen, Beatles, Kiss e tutto il rock che potesse passarci per la testa. Ecco, il ricordo più bello che ho con R. penso sia questo: io e lei in silenzio in un autobus sovraffollato di adolescenti che con gli occhi assonnati del mattino o stanchi del rientro da scuola ci sediamo una accanto all'altra, inseriamo le cuffiette e ascoltiamo la nostra musica preferita lasciandoci trasportare.
Cosa ne è stato poi di R.? Gli ultimi anni di liceo e i primissimi di università sono stati difficili. Suo papà, un omone gigante e buonissimo, è entrato in ospedale per una operazione di routine e non ne è più uscito. È stato un calvario lungo che tutti, in qualche modo, speravamo potesse concludersi al più presto. Ricordo ancora quando R. mi chiedeva se pensassi che sarebbe sopravvissuto, se il colore giallastro della sua pelle fosse un segnale certo di infezione oppure no. Mi fece tenerezza quella domanda perché chiaramente io non avevo le competenze mediche per risponderle. Eppure R. me la stava ponendo, nella speranza che ciò che i medici si rifiutavano di dirle per occultare il loro errore potessi restituirglielo io. In ogni caso la rassicurai, con le lacrime agli occhi, dicendole che le cose sarebbero andate per il meglio. Lei sorrise, cambiammo argomento e raggiungemmo le nostre amiche. Poi però la mia predizione non si rivelò vera. Suo papà morì da lì a qualche mese dopo un periodo d'agonia che portò tutti, R. compresa, a desiderare che la morte arrivasse ad alleviare le sue sofferenze. "Gli ho detto ti voglio bene attraverso un vetro perché era in terapia intensiva. C'era un microfono però, lui mi ascoltava. Ha sorriso, non lo faceva da un po', ha detto anche io." Mentre lo scrivo mi si stringe il cuore e piango, come piangemmo io e lei quando mi raccontò questa scena e poi il suo dolore. In realtà non ne parlammo così tanto, come sempre trovammo il modo migliore di starci accanto senza bisogno di troppe parole, e fu un sollievo per me, e fu un sollievo anche per lei, credo.
Ora, da quel periodo in poi ho solo ricordi sfumati. R. andò un anno in Erasmus, anche forse per aiutarsi a dimenticare. Ricordo che ne tornò contenta, con una nuova luce negli occhi, quella che aveva perso nell'ultimo periodo. Poi iniziammo a frequentare persone diverse perché vivevamo ambienti universitari distinti. E nulla, poco a poco i nostri contatti si sono diradati. Senza rimpianti né cattiveria, solo col tempo che come spesso accade allontana due vite fino ad un certo momento legatissime, apparentamente impossibili da slegare. Io poi mi sono trasferita in un'altra città, ho studiato e vissuto lì, fino a quando non ho deciso di partire per l'estero. R. invece so che ha finito gli studi vicino casa e poi si è trasferita per lavoro. Questo è tutto ciò che so di lei. Qualche cenno attraverso i social, anche se non ne ha mai fatto un grande uso (altro motivo di stima).
Perché tutto questo discorso su R.? Perché stanotte ho sognato che una mia amica mi diceva che si fosse sposata. Ed io, anche se mi sentivo strana all'idea di non poterle fare gli auguri senza provare un po' di vergogna o timidezza per il tempo trascorso, provavo una grande felicità. Pensavo: che bello, spero proprio sia innamorata e felice. E quindi mi sono svegliata ed ho pensato a tutto ciò che mi ha legato ad R. ed al fatto che anche se ora più nulla apparentemente ci lega per me è un ricordo felice tutto il tempo trascorso con lei e mi auguro e mi augurerò sempre che lei possa essere felice, vivere la migliore vita possibile, portare i suoi occhi-lepre in giro per il mondo e far sua ogni bellezza, ogni piccola gioia.
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pleaseanotherbook · 1 year
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Crying in H Mart di Michelle Zauner
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My parents wouldn't have known the names of authors I should read or foreign directors I should watch. I was not given an old edition of Catcher in the Rye as a preteen, copies of Rolling Stones records on vinyl, or any kind of instructional material from the past that might help give me a leg up to cultural maturity. But my parents were worldly in their own ways. They had seen much of the world and had tasted what it had to offer. What they lacked in high culture, they made up for by spending their hard-earned money on the finest of delicacies. My childhood was rich with flavor-blood sausage, fish intestines, caviar. They loved good food, to make it, to seek it, to share it, and I was an honorary guest at their table.
"Crying in H Mart" di Michelle Zauner edito in italiano da Mondadori, è entrato nelle mie cose da leggere perché quando si parla di cibo e Corea oramai il mio occhio e il mio cervello si attivano ed esplodono all'unisono con "lo voglio". La forma del mémoire ha iniziato anche ad essermi molto cara, nonostante il tema di fondo, quello della perdita e del lutto, mi devastano solo al pensiero, ma Michelle Z ha l'incredibile capacità di coinvolgere senza sensazionalismo e anche nei momenti più tragici conserva la compostezza di chi sta raccontando la sua storia e sa cosa ha provato.
Con struggente umorismo, Michelle Zauner racconta la propria esistenza a partire dall’infanzia, quando era una delle pochissime bambine di origine asiatica nella sua scuola di Eugene, in Oregon, e doveva soddisfare le aspettative di una madre esigentissima, fino alla sofferta adolescenza; e poi le estati passate nel minuscolo appartamento della nonna a Seul, dove, davanti ai piatti tipici della cucina coreana, il suo legame con la madre si fa sempre più forte. Michelle cresce, si trasferisce sulla East Coast per frequentare il college, inizia a muovere i primi passi nel mondo della musica e conosce l’uomo che diventerà suo marito. Sta costruendo la vita che vuole vivere, le radici coreane sembrano sempre più distanti. Fino a quando, a venticinque anni, la notizia che sua madre ha un cancro in fase terminale la spinge ad andare in cerca della propria identità culturale. E a riscattare il patrimonio di sapori, profumi, linguaggi e tradizioni che la donna le ha donato. Schietta e poetica, la voce di Michelle Zauner risuona luminosa sulla pagina come sul palco. Ricco di aneddoti personali e di foto di famiglia, Crying in H Mart è un libro da leggere, rileggere, amare e condividere.
Ci sono eventi che spezzano completamente la nostra vita e che rivoluzionano il percorso che stiamo tracciando e anche quando siamo capaci di ristabilire la presa, siamo inevitabilmente cambiati. In questo contesto la storia di Michelle si inserisce con una facilità che non mi sarei mai aspettata, con la descrizione a tratti ironica e a tratti molto dura della sua vita e della sua forza. Michelle è stata una bambina sensibile, una adolescente ribelle, una giovane adulta alla ricerca della sua strada, in un disperato tentativo di prendere in mano le redini della sua vita. Ma proprio quando sembra che le cose stiano iniziando ad ingranare ecco che una terribile sciagura si abbatte sulla sua famiglia: sua madre, la colonna portante di tutta la sua esistenza e di quella di suo padre, inizia a stare male e in breve deve iniziare a fare i conti con la malattia e la perdita. Tutto il volume ripercorre la sua intera esistenza in un susseguirsi di episodi e sentimenti conditi con dal suo disperato tentativo di non perdere le sue radici, il suo essere per metà coreana, l'eredità che sua madre ha cercato strenuamente di passarle, tenendo per sé un dieci percento, necessario per non lasciarsi sopraffare. Michelle racconta e nel frattempo regala al lettore uno scorcio ampissimo non solo della sua sfera privata ma soprattutto della cultura a cui è stata esposta. Sua madre infatti è una donna di Seoul che ha sposato un uomo americano con cui dopo aver attraversato vari paesi si è stabilita negli Stati Uniti, ad Eugene. Ma la Corea non ha mai lasciato la donna che applica tutti i giorni i passaggi della skin care spalmando sul viso ogni tipo di crema che trova a disposizione su QVC, sempre in ordine con vestiti perfettamente stirati, borse in condizioni eccellenti, la casa piena di suppellettili bellissime e delicate che basterebbe un colpo di vento per distruggere. Ma soprattutto i genitori di Michelle sono degli estimatori del buon cibo, ogni occasione è buona per festeggiare con piatti più o meno speciali, destinati a rimanere ancorati nei ricordi: zuppe tipiche, il kimchi un prodotto coreano il cui in principal modo il cavolo viene ricoperto di spezie varie e lasciato a fermentare in appositi contenitori, aragoste, noodles, carne marinata, affettata, arrostita, grigliata, amalgamata alle abitudini di una famiglia che rinuncia a molto ma non a uno dei piaceri della vita. Ogni cosa allora diventa un rito, con dei passi da ripercorrere e un modo per tenere insieme i pezzi che si dissolvono. Il cibo diventa anche il mezzo con cui prendersi cura delle persone che si amano, in un disperato tentativo di esserci anche contro tutto. Michelle da adolescente si è sentita soffocare dalle cure della madre che si è sempre concentrata su di lei per proteggerla e per ricordarle chi è, spazzolandole i capelli, comprandole vestiti e prodotti cosmetici, punzecchiandola per portarla ad eccellere in tutto quello che fa. Ma Michelle aveva un sogno, emergere nel mondo della musica, diventare una cantante, e fonda una band e inizia ad esibirsi nei locali che la ospitano nel tentativo di mantenersi con la sua passione. La madre non comprende questo desiderio di sfuggire dai tentacoli del suo amore e le rinfaccia il suo carattere scontroso e la sua necessità di non prendersi troppo sul serio, ma la donna continua ad esserci per lei. Quando torna a casa dal college prepara alla figlia i suoi piatti preferiti, quando va a trovarla in questo appartamento sgangherato disordinato e ammuffito non fa una piega e le lascia contenitori e contenitori di piatti già preparati solo da scaldare. Ed è questo rapporto tra madre e figlia che si nutre su così tanti aspetti che è impossibile incastrarlo in una scatola che rende quello che racconta Michelle molto interessante: il cibo, le gite annuali in Corea, le chiacchiere, i gesti insignificanti che accumulati modellano alla perfezione alla mancanza che senti quando non ce li hai più. Ogni pagina è ricalcata sulla madre dell'autrice, quando c'è e quando non c'è, quando non sa nulla di lei e quando diventa si rende conto di tutte le cose che non sapeva: la passione per la pittura, il dolore privato che non le ha mai mostrato, i non detti di ogni famiglia. C'è molto di Michelle la sua vita che si evolve ed elabora e c'è la sensazione angosciosa di non fare in tempo, di essere sempre in ritardo, di avere in qualche modo il tempo contato e diventa difficilissimo rimanere presenti a sé stessi. Il lutto è un mostro con molte teste che rischia di fagocitare tutto, ma da un qualcosa di terribile nasce la speranza e la possibilità di riscattarsi e di realizzare le proprie aspirazioni. La famiglia ha un ruolo di primo piano con le sue tradizioni e le sue specificità perché d'altronde "ogni famiglia infelice è infelice a modo suo". Un altro aspetto molto interessante che affronta l'autrice è il suo sentirsi sempre a metà spezzata tra due mondi e mai appartenente ad un'unica entità: i suoi tratti particolari che la rendono diversa dalla tipica ragazza americana e la mancanza della perfezione coreana che non la mimetizzano neanche per le strade della capitale sud coreana. Quella ricerca ossessiva di una identità e di una figura di riferimento che la rendono instabile tra i suoi coetanei. Questo senso spietato di smarrimento che non trova pace in nessun tipo di confronto se non nella musica, che vaga e cerca appigli anche quando sembrano non esserci. Che rimanere aggrappati a noi stessi passa anche dai nostri ricordi, dai gesti che hanno caratterizzato la nostra infanzia e soprattutto dai luoghi che meno ci aspettiamo.
Il particolare da non dimenticare? Una zuppa di pinoli...
Un mémoire che racchiude il potere curativo del cibo e la sua forza unificatrice, il mondo interiore dell'autrice e il suo modo di affrontare la vita e la perdita, gli insuccessi e le vittorie, la famiglia e la società, sul palco o nel mezzo di un H-Mart che magari con davanti il tuo piatto preferito davanti un po' di consolazione arriva.
Buona lettura guys!
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lucrezia00 · 2 years
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Mi sento così distante da tutti. Questo pensiero mi tormenta. Vedere che gli altri riescono a costruire dei legami e a fare esperienze mentre io mi sento così estranea a me stessa. Non saprei dire chi sono, non ne ho idea. Potrei parlare di me solo attraverso le etichette che mi hanno affibbiato. È da anni che non sento più la complicità in un rapporto di amicizia, il desiderio di conoscere un’altra persona, lo stare bene con quella stessa persona. Ho avuto delle esperienze schifose. Da quando mi dicevano che un giorno sarei rimasta sola, a 12 anni. Una bambina di 12 anni cosa mai ha potuto fare di male per sentirsi dire che un giorno non avrà più amiche. Da quando una ragazza, sempre a quell’età, mi disse che si vergognava ad uscire con me, che non ero alla sua altezza perché ancora immatura, solo perché non avevo ancora imparato a vestirmi bene e ad aggiustare i capelli. “Mi raccomando vestiti bene e non farmi fare brutta figura”, “non ci posso pensare che hai quella borsa”, “ma che capelli hai”, solo perché non ho mai avuto i capelli completamente lisci e la piastra a 12 anni ancora non ero solita usarla. Cattiveria gratuita dalla maggior parte delle persone che ho frequentato quando ero ancora piccola e non ero in grado di capire chi fosse giusto frequentare e chi no. E inevitabilmente questo meccanismo disfunzionale me lo porto ancora dietro, perché tendo sempre a basare la mia autostima sul giudizio di persone che so che non mi vogliono, che mi ignorano completamente non degnandoli neanche di uno sguardo. E ora dimmi sto accorgendo di quanto dia per scontate quelle persone che, invece, hanno provato a cercarmi ma che io ho rifiutato, perché ho intravisto nella loro considerazione per me una condizione ben peggiore della mia. Mi cercano persone più insicure di me, e mai quelle che desidero io, sempre troppo diverse da me, una distanza che non riuscirò mai a colmare. E mi ritrovo qui, da sola, con anni passati a farmi andare bene delle persone di cui non me ne fregava niente, di cui non parlavo di niente e che non erano in grado di ascoltarmi. E sono stanca, non ho più voglia di cercare, sono stanca dei continui rifiuti, di questa continua lotta con me stessa per soddisfare le aspettative altrui
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carmenvicinanza · 2 months
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Valerie Solanas
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«Per bene che ci vada, la vita in questa società è una noia sconfinata. E poiché non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne, alle femmine dotate di spirito civico, responsabili e avventurose non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione completa e distruggere il sesso maschile».
Incipit di SCUM Manifesto di Valerie Solanas, controversa scrittrice protagonista della controcultura statunitense degli anni Sessanta. 
È stata una donna e un’artista scomoda, che ha prodotto uno dei testi più iconoclasti, incendiari e parodistici del femminismo.
Con un’operazione inedita e potente, escludendo qualsiasi atteggiamento vittimistico, ha usato l’umorismo e la satira per denunciare gli sbilanciati rapporti di potere basati sul sesso.
Marginalità e scrittura sono state dimensioni inscindibili nella sua vita costellata di violenza fisica ed economica, discriminazione, dinieghi e reclusioni.
Nata il 9 aprile 1936 a Ventnor City, nel New Jersey, per tutta l’infanzia era stata abusata sessualmente dal padre. Dopo il divorzio dei genitori, sua madre si era risposata e poiché anche il patrigno non era propriamente una brava persona, l’aveva spedita in collegio. A quindici anni aveva già partorito una bambina che venne cresciuta come una sorella. Successivamente era rimasta incinta di un uomo sposato e molto più grande di lei, che le aveva imposto di dare in adozione il bambino a una coppia che, in cambio, aveva finanziato i suoi studi universitari.
Nonostante i traumi della sua giovane esistenza, nel 1958, si era laureata in psicologia nel Maryland e iniziato a frequentare un master di psicologia evolutiva all’università del Minnesota, ma dopo un anno aveva abbandonato, denunciandone il sistema di selezione fortemente sessista.
Vivendo di espedienti, aveva cominciato a vagabondare per il paese. Arrivata a New York, si era fatta conoscere negli ambienti underground come scrittrice e femminista radicale, dichiaratamente lesbica e per questo boicottata dagli uomini che, anche nella controcultura, detenevano il potere.
Nel 1966 ha scritto il racconto autobiografico Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle, in cui la protagonista vive di accattonaggio e taccheggio, per contribuire alla “causa socialista”, mettendo alla berlina il variegato mondo di maschi che incontra.
Nel 1967 ha redatto la prima edizione dello SCUM Manifesto, frutto di due anni di lavoro, che attacca in maniera feroce il patriarcato e la figura maschile. Vendeva le copie per strada, a 25 centesimi alle donne e a un dollaro agli uomini. SCUM letteralmente significa feccia e si riferiva a coloro che, come lei, vivevano di accattonaggio e prostituzione, sperimentando il peggio della vita. Queste donne, considerate il rifiuto della umanità, dovevano essere artefici della rivoluzione per cambiare il mondo, eliminando i maschi, responsabili della costruzione di un modello economico e sociale che porta verso la distruzione.
In quegli anni orbitava, anche se mai accettata davvero, intorno alla Factory di Andy Warhol. All’artista aveva consegnato l’unica copia del suo dramma Up Your Ass che lui aveva promesso di far pubblicare per poi cambiare idea ritenendolo troppo scurrile, rifiutandosi di restituirgliela. Successivamente le aveva offerto il ruolo di comparsa in I, A Man e utilizzato sue frasi senza mai citarla in una serie di film da lui prodotti (in particolare Women in Revolt) nonostante lei gli avesse chiesto più volte di non farlo.
Il 3 giugno 1968, nauseata da quel mondo e da come veniva trattata, ha compiuto il gesto che, più del suo lavoro, l’ha consegnata alla storia, ha sparato a Andy Warhol, riducendolo in punto di morte. 
Al processo si era difesa da sola sostenendo che Warhol esercitava un eccessivo controllo su di lei con l’intento di rubarle il lavoro. Giudicata colpevole, era stata condannava a tre anni. Gli esami psichiatrici diagnosticarono che il suo gesto era stata una reazione schizofrenica di tipo paranoico con un’accentuata depressione. Venne, così, rinchiusa nell’ospedale psichiatrico femminile di Matteawan, noto per gli abusi perpetrati sulle prigioniere; trasferita nella divisione psichiatrica di Bellevue, era stata sottoposta a isterectomia.
Della risonanza mediatica della sparatoria ne aveva approfittato l’editore Maurice Girodias, dell’Olympia Press (con cui Valerie Solanas aveva già firmato un contratto per la pubblicazione di un romanzo) che, nell’agosto del 1968, aveva pubblicato il Manifesto trasformando SCUM nell’acronimo S.C.U.M., ovvero Manifesto per l’Eliminazione Fisica dei Maschi, manipolando il testo senza il consenso dell’autrice.
Negli anni successivi è entrata e uscita da varie istituzioni psichiatriche, continuando a combattere strenuamente per l’integrità e il controllo delle sue opere e il riconoscimento dei diritti d’autrice, per i quali non ha mai percepito compensi.
Tra un ricovero e un altro, ha vissuto a Washington in una comune per sole donne, poi a New York, è stata trovata senza vita e in avanzato stato di decomposizione, il 25 aprile 1988, nel Bristol Hotel di San Francisco. I suoi effetti personali, compresi gli scritti, sono stati bruciati con lei, per volere di sua madre.
Dileggiata in vita, si è teso a cancellarne il ricordo da morta, solo dopo molti decenni dalla sua dipartita, si è cominciato a rileggere la sua opera con uno sguardo diverso.
Il suo femminismo violento e radicale ha attribuito al potere maschile ogni cosa negativa sulla terra. Per prima ha attaccato Freud sull’invidia del pene, ribaltandone il punto di vista.
Ha auspicato l’eliminazione degli uomini per rimettere in senso la società e ridisegnare le città, convinta di poter risolvere i più grandi problemi esistenziali.
Nell’atto unico Up Your Ass, messo in scena per la prima volta solo dopo trentacinque anni, l’ironia è la cifra dominante di una commedia esilarante che non risparmia niente e nessuno.
Nonostante siano passati più di cinquant’anni, i testi di Valerie Solanas sono ancora perturbanti, e colpiscono, oltre che per l’assenza di qualsiasi forma di vittimismo, per la lucidità e la lungimiranza di questa donna controversa, a cui va riconosciuto il merito di mettersi in gioco fino in fondo, in una spietata coerenza tra idee e vita che ha pagato a caro prezzo.
La sua figura è talmente potente e la sua opera così divisiva che è stata a lungo cancellata in quanto facilmente strumentalizzabile come stereotipo della lesbica pazza e della femminista che odia gli uomini.
Il suo nome, ancora oggi, segna il limite di rispettabilità e ragionevolezza che il femminismo deve osservare per essere tollerato, la lettura delle sue opere è ancora un atto eversivo.
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sognosacro · 3 months
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C'è una cosa, che devo dire, ma che forse non piacerà a nessuno.
Perchè si tratta di un punto oscuro dentro di me.
Mio padre un giorno se nè amdato di casa, con mio fratello.
Senza dir nulla è scomparso.
L'ho trovato un giorno in un monolocale con il cane e mio fatello che dormiva su un materasso per terra (Un materasso figo), insieme al cane.
Non era bello, sapere della sua scomparsa e della sua apparizione in un luogo squallido.
"D'avvero preferisci stare qui che con me, la tua famiglia? E tu L* non sei felice.."
Sentivo una forte depressione in lui L*, mio fratello. E un grosso fardello in mio padre. Una rabbia e lui che tentava di tener in piedi qualcosa ormai a pezzi.
Sono rimasti poco in quella casa e si sono spostati in un luogo appena più grande, per poi tornare nella casa d'origine, da cui io e mia madre e l'altro mio fratello, ci siamo spostati.
Il punto è che mio padre è scomparso e ho percepito "mio padre non mi ama e mio fratello ha tradito"
C'è stato un periodo in cui io dimeticavo di avere un padre.
Una bambina alle medie parlava di suo padre e io sentivo una triatezza assoluta, come se mio padre fosse morto, me ne sono resa conto e mi sono magicamente detta "ah già che ho un padre". Quella cosa mi ha più o meno distrutta.
Dover ricostruire un rapporto, io, non lui, io, era più doloroso di accettare la sua inesistenza.
Lui si è limitato a dare la colpa a mia madre. Mio fratello a fare il fantasma.
Un giorno ho iniziato a scrivere lettere stupide a mio fratello, era una cosa che facevo ogni tanto e gli mandavo dei disegni e mi rispondeva. Poi credo si sia stufato e ha iniziato a farlo mio parde, però volevo parlare con mio fratello, visto che mi mancava.
"ho perso un fratello, perchè tu non mi ami e ora mi privi dell'unica possibilità che ho di" "stare" con lui"
Perciò mi è passata la voglia.
Poi man mano le cose sono peggiorate a casa con mia madre e mi sono ritrovata a chiedere a mio padre (che avevo iniziato a frequentare il giovedì sera e qualche weekand) di andare a vivere con lui.
Io stavo chiedendo a uno sconosciuto che non mi ama, di andare a viverci insieme.
Così poi sono entrata all'origine del mio dolore tanto ignorato e assopito nel fondale della mia esistenza e tutto è andato a rotoli.
Le mie relazioni riflettevano mio padre e il nostro rapporto.
Forse anche mia madre.
Rabbiose, possessive, di controllo, prive di interesse profondo, lontane e scarse in tutto quello che si chiama amore.
"io non sono amata dai miei genitori"
Perciò i miei amici erano un sottoprodotto di tale circostanza e le relazioni idem.
Non potevo essere me stessa, perchè nessuno mi amava, nessuno mi capiva.
Perciò tutto quello che potevo fare era chiudere me stessa in un cassetto e diventare qualcun altro, dimenticandomi della mia vera essenza.
Nulla poteva diventare bello così, tutto era un sottoprodotto del mio ego, della distorsione in questo rapporto famigliare.
Non ero altro che orfana, abbandonata a me stessa nel mondo pieno di misteri e cattivi.
Poi ho riallacciato i rapporti con mia madre, circa.
E le mie emozioni facevano un sacco male, il serbatoio di tutte quelle brutte storie era ormai pieno e il caos non rimane docile se trattenuto.
Per quanto io cercassi di vivere meglio, non succedeva mai.
(La ragione è qualcosa a cui sto lavorando ora, centra una strega cattiva, una maledizione e il libro che sto scrivendo è collegato con questo)
Ma in genere riguarda il silenzio e l'incapacità di dire e sentire nel profondo me stessa.
Magari ricevere qualcosa di poco gradito, sentirlo, ma non dire nulla, perchè non esce la voce e la mente si annebbia.
E poi fare qualcosa di poco gradito e sentirmi dire tutto quello che io non ho detto, ma sentirmelo dire male e violentemente.
Avere persone che parlano male di me e mi fanno brutte cose (nemici) e non avere la capacità di far uscire la voce, perchè la mente si annebbia e non sento nulla.
Quindi non avere il pieno potere di me stessa.
Del mio successo.
Perchè ogni passo fa schifo, nessuno mi ama e nessuno mi capisce, mio padre mi ha abbandonato e non gli interessa di me.
Lei è cattiva e non mi vuole bene, fa finta e fa la doppiogiochista.
Lui invece fa le brutte cose con le altre e poi arriva a dirmi che sono la più bella e poi sparisce.
Lei invece ci fa vedere le cose che fa e nessuno le vuole, perchè fa schifo e nessuno la ama.
Quindi niente.
È un caos e voglio piangere per questa ragione.
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seinatarosanonspina · 6 months
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Avevo un grande amore un tempo,ed io l’ho abbandonato per avidità.
Ci siamo conosciuti in un periodo oscuro della mia vita,in un periodo dove non credevo più nell’amore ,nelle persone.
In un periodo dove ero fermamente convinta che indossare una maschera ed essere perfidi era l’unico modo per farcela.
Per troppi anni ho subito ingiustizie. Per troppi anni sono stata umiliata per mio aspetto fisico “è troppo grassa” era l’appellativo che subivo di continuo. Questo appellativo mi ha distrutta ma nessuno se ne accorgeva. I ragazzi si avvicinavano a me solamente perché ero l’amica di qualcuna più bella. Ed io ero troppo buona,troppo sciocca per rendermene conto.
In quegli anni vivevo in un mondo tutto mio,sorridevo sempre per nascondere tutto il dolore che provavo. Ogni giorno a scuola era un inferno perché dovevo difendermi in continuazione,quando tornavo a casa poi era un altra lotta,vedevo mio padre e mia madre litigare e finiva sempre con una valigia e mio padre che chiudeva la porta per andarsene e lei che si ubriacava. Io chiudevo la porta della mia cameretta e mi rifugiavo nelle serie tv , la notte quando nessuno se ne accorgeva,piangevo.
Quando mio padre è morto avevo sedici anni,li tutto è cambiato.
Ho iniziato a frequentare cattive compagnie,ho iniziato a far uso di sostanze stupefacenti perché volevo essere notata. La prima volta che sognavo fosse speciale l’ho sprecata con qualcuno che neanche conoscevo mentre ero ubriaca solo perché volevo essere come tutte le altre ragazze.
Solo perché mi sentivo diversa. Non considerate perché ero grassa.
Sono stata ferita,umiliata,sfruttata è sono cambiata.
Non ero più la Valentina troppo sensibile.
Non ero più la Valentina dolcissima che aveva sempre una parola dolce per tutti.
Non ero più la bambina grassa che si nascondeva dietro i maglioni giganti.
Ero diventata bella.
Ma questa bellezza mi ha aperto gli occhi, mi ha fatto vedere per la prima volta che la cattiveria della gente non erano i loro insulti ma la loro avidità. Improvvisamente tutti si avvicinavano a me,le ragazze volevano essere mie amiche e i ragazzi volevano essere i miei fidanzati.
Tutto ciò che per anni sognavo si stava realizzando solo che questa volta,non erano loro a non volere me,ero io a non volerveli.
La loro cattiveria mi aveva schiacciata,mi aveva fatta diventare spina.
Una spina più affilata di quella con cui loro mi pungevano.
Una spina che provocava dolore.
Ferire per non essere ferita mai più.
Mi ero ripromessa.
Nessuno sarebbe mai più stato in grado di vedermi dentro,nessuno mi avrebbe mai conosciuta davvero.
Finché un giorno,ero ad una discoteca a ballare,mi stavo divertendo e avevo la mia sigaretta in bocca,
Si avvicina un ragazzo con un accendino in mano mi guarda e mi dice “credo proprio che tu abbia bisogno di questo” gli sorrido,accendo la mia sigaretta e me ne vado. Qualche giorno dopo ricevo una richiesta d’amicizia,lo accetto senza neanche farci caso. Mi arriva un messaggio in chat “ehi ti ricordi di me? Dopo tantissimi tentativi finalmente ti ho trovata” da quel messaggio siamo diventati amici,inseparabili. Ci sentivamo ogni giorno,mi chiamava ogni giorno. Veniva a trovarmi quando uscivo da scuola,guardavamo i film più belli insieme,andavamo al mare insieme. La sua storia familiare era molto simile alla mia. Suo padre se ne andato di casa con un altra donna lasciando sua madre con quattro figli da crescere e di conseguenza lui è cresciuto più del dovuto.
Era un ragazzo d’oro,un ragazzo che si incontra solo una volta nella vita ed io l’ho ferito.
Ricordo molte cose di quegli anni insieme ma c’è una cosa da quando me ne sono andata da lui che continuo a non ricordare,il nostro primo bacio.
Non so se sia la mia mente a non ricordare o il mio cuore a non volerlo fare.
Ricordo che dopo due anni d’amicizia lui mi ha confessato a punta di piedi il suo amore. Sapeva che ero diventata una donna fredda,sapeva che non sarebbe stato facile entrare nel mio cuore così l’ah fatto senza dirlo.
Amavo il suo modo di abbracciarmi dopo una discussione,il suo modo di esserci sempre,costantemente per me,nonostante le sue difficoltà economiche faceva qualsiasi cosa pur di vedermi. Finalmente ero sua ma io non lo vedevo.
Una mattina eravamo a casa sua,lui non aveva idea di quello che stavo facendo,avevamo appena fatto l’amore. In realtà credo che quella sia stata la mia vera prima volta perché nessuno mi aveva mai toccata in quel modo. Nessuno mi aveva mai baciata in quel modo. Nessuno mi aveva mai guardata in quel modo.
Eravamo sdraiati su quel letto disfatto,lui mi teneva stretta e mi accarezzava il viso mi fa la sua solita battuta “le tette dove sono?” Iniziamo a ridere,io mi alzo lui mi tira a se “sei sempre bella ma non sei mai stata bella come in questo momento” prende il suo telefono e mi scatta una foto io lo guardo,sorrido “cosa stai facendo?” Lui sospira,mi guarda “sto fotografando una ragazza bellissima vicino alla mia finestra” non sapeva che quella ragazza gli avrebbe spezzato il cuore,ancora una volta.
Nei giorni a seguire lui fece l’errore di mostrarmi sempre di più l’amore che per anni aveva represso per non perdermi .Lo chiamo errore perché per una donna fredda come me l’amore non era permesso. Così lo tradì in un modo spregevole,nell unico modo che il mio passato mi aveva insegnato.
Lui mi stava guardando dentro ed io questo non potevo permetterlo. Stavo iniziando a provare gelosia per la prima volta dopo tanti anni.
Stavo iniziando a sentire qualcosa. Quando lui mi chiamava io sorridevo,non era un bene. Così iniziai a pensare che se avrebbe continuato a scavare avrebbe visto la vera me e ne sarebbe stato inghiottito.
Non potevo permetterlo così mi feci scoprire.
Ma la sua reazione non era quella che pensavo. Quella notte mi chiamó
- “ci hai fatto l’amore?”
- “si”
Sospira…
- “smetterai di vederlo?”
- “no”
Sospira ancora…
- “farò finta che tu non mi abbia detto niente “
- “perché lo fai?”
- “non lo sai?”
- “non voglio saperlo”
Lui sapeva che mi stava perdendo. Sapeva che sarebbe finita.
- “lui non è quello che sembra e un giorno te ne renderai conto. Non so in cosa io abbia sbagliato”
Non risposi più.
Ora potrei dire che se avrebbe lottato non sarebbe finita in quel modo.
La realtà invece è un altra.
Ero troppo giovane,troppo stupida per rendermi conto che avevo tra le mani l’amore della mia vita e l ho abbandonato solo perché avevo paura.
Non volevo essere fragile hai suoi occhi.
Ma alla fine credo mi abbia odiata.
Sono passati otto lunghi anni da quando non lo vedo. Ho avuto due figli e un matrimonio infelice e di recente ho scoperto che lui a realizzato da solo il nostro sogno. Vive in Francia e lavora come cameriere in una pizzeria.
Ricordo come se fosse ieri noi due sdraiati sulla sabbia lui che mi mette la sua collana preferita al collo e mi dice
- “qual è il tuo sogno? “
- “il mio sogno è vivere in Francia e fare la cameriera “
- “che sogno bizzarro “
- “lo so ma è il mio sogno”
- “allora facciamolo insieme”
Ad oggi vorrei dirgli.
“Tu non leggerai mai tutto questo,non saprai mai la verità. E va bene così,perché una sola scelta sbagliata ci cambia la vita per sempre. Sono così felice che almeno uno di noi due abbia realizzato quel sogno. Oggi penso che se ti avrei aperto il mio cuore se non avrei avuto paura magari chi lo sa a quest’ora sarei venuta alla pizzeria perché hai finito il tuo solito turno,ci saremo abbracciati e ce ne saremo andati nella nostra piccola cosa e poco importava che i soldi erano pochi ma eravamo insieme. Sei sempre stato un ragazzo d’oro e ti ho amato per questo. E credo che un giorno se tu sei il mio destino verrai a cercarmi.
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drheinreichvolmer · 9 months
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Capitolo 3
Olga si recò in sala, trovando Hans seduto su una delle poltrone. L'uomo dai capelli biondi stava sorseggiando un bicchierino di Wiensbaden, un alcolico tedesco simile al cognac.
<< È un po' presto per farsi un cicchetto, non ti pare Hans? >> domandò quasi polemica lei.
<< Oh, non iniziare! È stata una mattinata pesante, e poi un bicchierino prima di pranzo non uccide nessuno. >> rispose Hans, facendo girare il ghiaccio all'interno del bicchierino.
<< Beh, sì immagino.. d'accordo, per questa volta ti do ragione e mi unisco a te addirittura. >> ribatte Olga versandosi un po' di Wiensbaden a sua volta.
<< Olga? Da quando ti bevi alcolici prima di pranzo?! >> chiese l'uomo quasi sconvolto.
<< Non sei certo l'unico ad aver avuto un mattino frenetico. A proposito, non mi hai ancora raccontato dell'incontro col signor Werner. >> ribatté Olga continuando a bere, assaporando bene il gusto del suo Wiensbaden. Hans cominciò a narrare, partendo con l'incontro fra il Dottor Volmer e il signor Werner, come il medico aveva torturato il paziente, e infine di come lo aveva tolto di mezzo. Durante il racconto, Olga ascoltava, e man mano nel suo sguardo iniziò a notarsi una certa preoccupazione.
<< Olga, mi stai ascoltando? Ti vedo un po' assente, stai bene? >> domandò l'uomo cominciando a preoccuparsi.
<< Sì, certo. Scusami, stavo solo pensando tra me e me al futuro non facile che ci attende. >> rispose Olga.
<< A cosa ti riferisci, scusa? >> ribatté Hans confuso.
Olga spiegò al biondo le sue paure. Secondo lei, fino a quel momento era stato semplice coordinare tutto, questo perchè Hanna era piccola. Tenerla all'oscuro della questione e assicurarsi che non le accadesse nulla non era particolarmente difficoltoso. Ciò che adesso iniziava a farla preoccupare, era che Hanna era ormai diventata una donna. E sicuramente, presto, la gabbia dorata dove il padre l’aveva custodita per anni, avrebbe iniziato a starle stretta.
Hans finì di bere il suo bicchierino di Wiensbaden, rassicurando la donna che ciò fosse molto improbabile. Questo perchè Hanna viveva per suo padre: senza di lui, lei non esisteva. Di conseguenza, era impossibile che da un giorno all'altro potesse scegliere di andarsene.
Olga però non era troppo convinta della teoria del suo collega. Prima o poi la ragazza non si sarebbe più accontentata di guardare il mondo da una finestra; e quando ciò sarebbe accaduto, la vita di tutti sarebbe cambiata drasticamente.
La donna terminò a sua volta di bere il suo cicchetto, senza
però smettere di rimuginare sulla sua preoccupazione.
Hanna non aveva avuto né un infanzia, né una adolescenza normale. Da bambina non le fu permesso frequentare la scuola, poiché suo padre non si fidava ad affidarla a persone estranee. Ovviamente, la bambina avrebbe comunque dovuto avere una buona formazione.
All'epoca dei fatti Hanna aveva sei anni, l'età nella quale ciascun bambino impara le basi della propria istruzione. Fu questo il compito assegnato al signor Schuster, un maestro privato assunto appositamente per lei. L'uomo proveniva da Zurigo, e si vantava molto dalla sua straordinaria capacità del poter insegnare praticamente a chiunque. Quella mattina il maestro arrivò al castello, e venne accompagnato dalla signorina Keller nella stanza da letto di Hanna. La bambina dai capelli biondi sedeva timorosa alla sua scrivania, quando l'uomo di una cinquantina d'anni entrò nella sua camera assieme ad Olga.
<< Lei è Hanna Chiara Volmer Von Reichmerl. Come sua tutrice, qualora ci fossero domande o necessità di qualunque genere non esiti a chiamarmi. >> disse la bionda, per poi lasciare la stanza chiudendosi la porta alle spalle.
Nel corridoio c'era la camerista Frea, la donna aveva appena terminato di sistemare la camera del barone, e rivolse un sorriso alla caposala salutandola cortesemente.
<< Buona giornata Olga! >> disse la camerista, mentre stava per allontanarsi.
<< Frea, aspetta! >> scattò la caposala afferrando il braccio sinistro della donna.
<< Cosa succede? >> domandò Frea preoccupata per l'improvviso scatto.
<< Voglio che tu resti qui fuori, è arrivato il maestro privato di Hanna e io non sono troppo tranquilla a lasciarla insorvegliata. Ma la mia presenza è richiesta alla clinica. >> rispose la bionda.
Frea fece un cenno con la testa, a prova che aveva compreso il compito assegnatole. La camerista salutò in modo definitivo la caposala e si piazzò fuori dalla porta di Hanna, spiando la bambina e il maestro dal buco della serratura.
<< Allora, ti vuoi presentare o no come si deve? Non ti hanno insegnato nemmeno a parlare? D'accordo, non importa. Cominceremo subito con l'alfabeto! >> annunciò il maestro puntando l'indice contro Hanna.
La bambina ripeteva, quasi sussurrando, le lettere insieme al suo insegnante, ma ogni tanto l'ansia le faceva perdere il filo, confondendola.
Il signor Schuster era un uomo molto severo, e non esitò a colpire con una riga la mano della bambina. Hanna strinse la sua manina, trattenendo le lacrime.
<< Mi ha fatto male! >> piagnucolò guardando il dorso della sua mano.
<< Osi anche rispondere?! >> esclamò il maestro alzando il tono e colpendo nuovamente la bambina, questa volta sulla testa.
Hanna si nascose sotto alla scrivania, coprendosi la testa con le sue mani e iniziando a tremare in preda al panico. Frea, nel mentre, sgranò gli occhi e corse a chiamare la signorina Keller, raccontandole la scena a cui aveva appena assistito. Olga non aspettò un secondo e corse verso la stanza di Hanna. Spalancata la porta, notò immediatamente la piccola nascosta sotto alla scrivania, e domandò al maestro cosa fosse successo.
<< Signora mia, questa bambina è una causa persa…non mi meraviglio se è così indietro. Sicuramente la colpa è del padre che non le ha dato la giusta educazione >> rispose l'uomo sollevando le spalle.
<< Si riferisce al mio titolare? >> domandò un po' irritata la donna.
<< Sì, esatto! >> ribatté il maestro.
<< Le proibisco di parlare di mio padre in questo modo..! >> pianse Hanna, senza uscire dal tavolo.
<< Silenzio! Non parlarmi con quel tono, sai. >> replicò l'uomo sempre più arrabbiato.
Nel frattempo la signorina Keller non disse nulla, si limitò ad avvicinarsi alla finestra e ad aprirla. Il maestro persistette a gettare commenti inopportuni sul medico e sulla figlia, fin quando la donna non lo afferrò per la camicia e lo scaraventò fuori dalla finestra.
<< Adesso basta, se ne vada subito! >> urlò la donna furiosa mentre lo defenestrava.
Fortunatamente per lui, l’uomo atterrò illeso su una delle grandi siepi del giardino all'interno del castello.
<< Comincio a pensare che se la bambina è in questo modo, è anche colpa sua, signora mia! >> le urlò il maestro coperto di foglie ed erba.
<< Che cosa ha detto?! >> replicò la bionda saltando giù dalla finestra armata di scopa, per poi darsi all'inseguimento dell'uomo per tutto il giardino del maniero.
La signora Frea che aveva assistito alla scena era senza parole, non si aspettava un simile temperamento dalla capo sala. Questo perchè la signora Frea, così come molti altri membri dello staff, ignoravano che Olga in passato era stata una formidabile campionessa di judo.
<< Il pranzo è in tavola! >> la voce di Klaus fece tornare Olga tra loro.
La donna scosse la testa, cercando di non pensare più alle sue preoccupazioni e raggiunse gli altri nella sala da pranzo.
Nel grande salone erano presenti numerosi ampi tavoli, in ogni tavolo erano seduti quattro ospiti dell'istituto Volmer. Al centro del salone c'era una grande tavola rotonda, e lì sedeva il medico assieme alla sua famiglia: Heinreich era seduto a capo tavola, e alla sua destra e sinistra sedevano rispettivamente Hanna e Olga. Di fianco ad Olga si trovava Edith, e accanto a lei c'era Klaus. Hans era dall'altro lato del tavolo, faccia a faccia con il barone. Sedersi a tavola tutti insieme era il momento della giornata che Heinreich preferiva. Tutti i membri della famiglia erano costantemente impegnati nel loro quotidiano, quindi l'ora di pranzo e di cena permettevano di passare un po' di tempo tra di loro.
Poco dopo i camerieri uscirono dalla cucina, iniziando prima a servire gli ospiti dell'istituto Volmer, questo perchè il barone voleva che i suoi invitati fossero privilegiati. Mentre aspettava che i camerieri servissero lui e la sua famiglia, il medico si rivolse ai presenti seduti al tavolo.
<< Allora.. non avete nulla da dire alla nostra Olga? >> disse con un sorriso di autocompiacimento. Gli sguardi di tutti si posarono sulla donna, dalle loro espressioni era chiaro un momento di confusione.
<< Questa mattina Heinreich mi ha tagliato i capelli. >> spiegò la donna scuotendo la testa, ci teneva che l'uomo si sentisse apprezzato.
Hanna, Edith e Klaus cominciarono subito a riempire di complimenti Olga, che sorrise cortesemente ringraziandoli di cuore. Heinreich, invece, stava per vantarsi del suo operato, quando Hans si pronunciò al riguardo.
<< A me sembra identica a prima. >> dichiarò l'uomo sistemandosi gli occhiali.
<< Scherzi?! >> replicò all'istante il barone salendo sulla sedia, attirando l'attenzione di tutti i suoi ospiti.
<< Ma se sono ben 0,3 centimetri più corti ai lati! >> aggiunse afferrando una delle ciocche di Olga. Quest’ultima provò imbarazzo a sentirsi gli occhi di tutti addosso, mentre Klaus invece se la rideva tra sé e sé, domandandosi se suo zio si sarebbe o meno steso davanti a tutti.
Edith si trattenne dal ridere, le reazioni esagerate dello zio erano sempre memorabili. Poi però si alzò, facendolo tornare seduto composto.
<< Certo che tu sai sempre cosa dire eh, vero zio Hans? >> disse Edith dando una pacca sulla spalla al biondo, prima di tornare al suo posto, giusto in tempo per l'arrivo del cameriere. Quel giorno il menù del pranzo prevedeva: carbonara, roast-beef con patate arrosto, insalata mista e cheesecake con ricotta e cioccolato per dessert. Dato che Hanna era vegana dai suoi quindici anni, per lei veniva preparato un menù a parte. Al contrario, suo padre odiava con tutto il cuore la carbonara, si trovò quindi a fissare il piatto con disgusto. Il cameriere, notando la sua espressione, si avvicinò chiedendo quale fosse il problema.
<< Il problema è che sono ventidue anni che vi dico che mi fa schifo questa cosa qui. Ti prego, portami qualcos’altro, anche solo olio e formaggio va bene. Basta che non sia carbonara! >> incalzò l'uomo allontanando il piatto da sé. Hans allungò le mani e prese il piatto di Heinreich, rovesciando il contenuto nel proprio piatto.
<< Non c'è problema, la mangio io. Come fa a non piacerti la carbonara, diamine! >> disse Hans quasi sconvolto.
Heinreich incrociò le braccia sbuffando, poco dopo il cameriere tornò con un piatto di spaghetti cacio e pepe.
<< Oh, adesso si ragiona. >> dichiarò il barone iniziando finalmente a mangiare a sua volta.
<< Sei sempre il solito.. >> replicò Olga mettendosi una mano sulla faccia.
La famiglia stava pranzando in armonia, la signorina Keller però celava il più possibile la sua preoccupazione. Sapeva che il medico si sarebbe potuto facilmente accorgere della situazione e non voleva far preoccupare nessuno.
Durante il turno dei secondi, Heinreich si rivolse ai suoi familiari.
<< Vorrei un secondo la vostra attenzione. Come sapete tutti, tra due giorni sarà il compleanno di Hanna e conto su voi quattro per renderlo il giorno meraviglioso che si merita. >> disse il medico incontrando uno ad uno lo sguardo dei suoi stretti collaboratori.
<< Ma.. papà non serve, una semplice festa in famiglia è più che sufficiente. >> ribatté la giovane figlia imbarazzata.
<< Niente ma, ogni anno abbiamo sempre dato il massimo e continueremo a farlo. E poi.. voglio che tu abbia tutti i meravigliosi compleanni che io non ho avuto la fortuna di ricevere. >> replicò il padre della ragazza.
Hanna rimase muta e al tavolo calò un silenzio quasi imbarazzante. Ognuno dei presenti era a conoscenza della triste e insoddisfacente infanzia del medico. Heinreich però sollevò il bicchiere di vino rosso che aveva in mano, e rivolse uno sguardo ai presenti seduti con lui.
<< ..almeno fino al vostro arrivo. Vi amo immensamente. >> aggiunse con un sorriso cordiale.
Gli altri, compresa Hanna ripresero a mangiare le loro portate.
<< Beh, vorrà dire che venerdì io e Klaus ci prenderemo la giornata libera!>> dichiarò Edith con un mega sorriso.
<< Giornata libera? Che storia sarebbe? >> obiettò Hans, mentre sorseggiava a sua volta del vino rosso.
<< Ci sarà bisogno di fare acquisti per la festa, ci vorrà un team giovane e dinamico. >> replicò Edith girandosi per dare il cinque a Klaus.
<< Certo, perchè noi tre qui siamo delle salme eh.. >> disse Hans guardando Heinreich e Olga. La bionda ridacchiò, quella battuta di orgoglio ferito era riuscita a farle tornare il buon umore.
<< Scherzi a parte, sono d'accordo. Vorrà dire che resteremo noi povere salme polverose a lavorare. >> incalzò Olga ridendo in faccia ad Hans.
<< Splendido, ne potremo approfittare per fare un po' di shopping, cugina. >> disse Hanna battendo le mani entusiasta.
<< Ovvio, ti pare che non ti porto a cercare un bel vestito per il tuo mega party! Sarei una brutta persona, eh. >> rispose Edith mettendosi la mano sul petto.
<< Signore, ti prego abbi pietà della mia anima! >> replicò Klaus battendo la testa sul tavolo. Il pensiero di ore interminabili per i negozi di moda femminile stavano già facendo venire malessere al povero infermiere.
<< Ma non eri ateo, Klaus? >> ribatté confuso il barone.
Hanna, Edith, Hans ed Olga scoppiarono a ridere per l'affermazione di Heinreich, mentre il povero Klaus non si era ancora psicologicamente ripreso.
Al termine del pranzo ognuno di loro tornò alle proprie attività. Hans si mise ad occuparsi della contabilità per le spese del castello e della clinica, Heinreich si fidava più di lui che del suo stesso commercialista. Olga stava controllando i pazienti che entravano ed uscivano dalla sauna, Edith era tornata al bancone della reception e stava già rispondendo a numerose prenotazioni per il prossimo mese. Il giovane Klaus invece si trovava in giardino, a fare yoga con un gruppo di anziani di una casa di riposo. Uno di loro, a seguito di un movimento era rimasto bloccato e l'infermiere doveva intervenire. Con un colpo secco riuscì a sbloccare il povero anziano, fortunatamente senza romperlo del tutto.
Nel frattempo, il dottor Volmer era nel suo studio. Seduto alla scrivania, stava osservando i cassetti in basso ad essa. Aprì il secondo cassetto e prese il block notes dove teneva segnati i nomi delle sue prossime vittime. Con la dipartita del signor Werner, restavano ancora sessantacinque persone da sistemare. Al contrario di Olga, il medico era ciecamente convinto che sarebbe riuscito a tenere Hanna nella sua gabbia dorata per sempre. Fissò quella lista di nomi, rievocando davanti ai suoi occhi l'immagine di sua sorella che bruciava; e nella sua mente udiva quelle strazianti urla. Stava rammentando il senso di impotenza che lo aveva travolto quella notte, quando sentì crescere un dolore al petto e il suo respiro iniziò a diventare affannato.
<< Heinreich! Heinreich, guardami!! >> le grida di Hans si sentivano persino da fuori dello studio del medico. Heinreich tornò lucido e vide il biondo che lo stava scuotendo forte.
<< Hans, amico mio, sei tu.. >> il medico si appoggiò alla spalliera della sedia girevole, riprendendo fiato.
<< Stavi nuovamente pensando a quella notte, vero? Eri in preda al panico e sei ancora sudato. >> rispose l'uomo sospirando. Vedere il barone in quello stato e ripensare al passato era una coltellata al petto, ogni volta.
<< Hans.. >> disse il medico riponendo il block notes nuovamente nel cassetto della scrivania.
<< Sì, dimmi Heinreich. >> rispose Hans osservando la scena.
<< Stasera usciamo, amico mio. >> aggiunse il medico.
Hans osservò il medico, era confuso dalla sua improvvisa proposta.
<< Andiamo a caccia. >> dichiarò Heinreich mentre sul suo viso comparve un sorriso perverso. Il collega tornò serio, fece un cenno con la testa in segno di totale comprensione. Hans sapeva perfettamente di che tipo di caccia parlava il suo datore di lavoro e amico.
Hanna nel contempo si trovava in giardino, seduta sulla sua altalena di legno, e si dondolava tenendosi saldamente alle corde ricoperte di glicine viola.
Quell'altalena l'aveva costruita suo zio Hans ed era lì da molto prima di lei, la baronessa infatti passava intere giornate seduta su di essa a disegnare. Ogni tanto guardava Klaus lavorare e pensava al fatto che sia lui che Edith erano sempre lontani dai loro genitori, mentre lei non si era mai staccata un singolo giorno da suo padre. Hanna infatti detestava anche solo il pensiero di essere lontana dall'uomo, tollerava giusto i momenti in cui lui era preso dal suo lavoro. Anche soltanto dormire separata dal padre la spaventava, figuriamoci dormire da sola fuori e lontana da casa. Questi comportamenti che molti avrebbero giudicato come problematici, a lei non davano alcuna preoccupazione. L'unica cosa importante era avere suo padre accanto; era sicura che i due sarebbero stati per sempre insieme. Poco dopo scese dalla sua altalena e andò a sedersi ai piedi di un salice a leggere un buon libro. Sedeva cercando di non sporcare il suo abito corto di colore bianco, con le gambe incrociate, con il libro appoggiato su di esse. In quel periodo aveva da poco iniziato a leggere il terzo libro della saga di “Shadowhunters”, in assoluto la sua saga fantasy preferita insieme ad Harry Potter. Nonostante avesse iniziato a leggerlo da pochi giorni, era ormai quasi a metà; non c'era da stupirsi dato che la lettura era una delle sue più grandi passioni. Le altre due erano la cucina e la scrittura. Scrivere, come leggere, la rilassava molto; e ogni tanto le piaceva annotarsi qualche racconto breve nel suo quadernino in pelle marrone. Tra sé e sé fantasticava di riuscire un giorno a diventare una scrittrice famosa in tutto il mondo. Era completamente perduta nelle sue fantasie, quando la sua attenzione venne richiamata da uno strano lamento.
<< Cos'è stato? Klaus, lo senti anche tu questo lamento? >> domandò la ragazza.
Klaus fece cenno di sì col capo, ma la sua espressione caotica lasciava intendere che non avesse idea di che cosa, o sopratutto di chi fosse. Hanna e Klaus si avvicinarono alla siepe, e man mano i due sentirono aumentare il suono di quel lamento. La ragazza dai capelli biondi cominciò a spostare i rami della siepe, rivelando al suo interno un gatto. Quasi certamente il povero animale si era nascosto lì perchè era ferito. Hanna cercò di sfiorare il dorso del gatto, ma il piccolo iniziò a soffiare cercando di intimorirla.
<< Non toccarlo, sicuramente verrai graffiata. >> disse il giovane infermiere osservando la reazione poco amichevole del felino.
<< Lo so, ma non vedi che è ferito? Non possiamo certo lasciarlo qui a lamentarsi. >> replicò la giovane.
Subito dopo, Hanna si alzò in piedi e corse verso il castello. Se c'era qualcuno che poteva aiutare quel gatto, era sicuramente suo padre. La ragazza entrò di corsa nel suo studio, raccontandogli del gatto ferito. Heinreich non perse tempo, abbandonò lo studio e seguì la figlia fino alla siepe. Arrivato, l'uomo si inginocchiò per osservare meglio il gatto.
<< Che sia ferito non c'è dubbio. Muoviamoci, dobbiamo intervenire immediatamente! >> dichiarò mentre si toglieva il camice medico. Lo usò poi per avvolgere il felino impedendogli di agitarsi. Heinreich entrò nel castello, posò il gatto sul tavolo del salone all'ingresso e iniziò ad esaminarlo, sotto gli occhi di Edith.
<< Ma che bello che sei, micio! Oh, ti sei fatto la bua? Tranquillo, mio zio è il miglior medico di tutta la Svizzera, sei in ottime zampe! >> disse la giovane infermiera con gli occhi a cuoricino. Edith Berger aveva una passione incredibile per i gli animali, i gatti però erano da sempre il suo più grande amore.
<< Fortunatamente non è nulla di grave, ha riportato solo una ferita alla zampa posteriore sinistra. Probabilmente uno scontro con un cane o un gatto più grosso di lui. >> dichiarò il medico. Heinreich scese nei sotterranei col gatto tra le braccia, Edith lo seguì portandogli la valigia con gli strumenti.
Il dottor Volmer appoggiò il gatto sul tavolo d'acciaio davanti a sé, e iniettò una dose di anestetico al gatto. Indossò i suoi spessi guanti neri di lattice e iniziò a medicare il povero animale. La giovane infermiera esaminava intanto l'operato dello zio, e pensava tra sé e sé quanto fosse strana a volte la vita.
Quegli strumenti che servivano spesso a togliere la vita delle persone in quel luogo orrendo, erano adesso diventati un mezzo per salvare una vita. In quel momento, suo zio non era il sadico medico che provava piacere nel torturare i suoi prigionieri; era soltanto un medico che portava fede al giuramento di aiutare una qualunque vita.
Appena il micio fu totalmente sedato, l'uomo inizò a ricucire la ferita della sua zampa. Lasciava scorrere il filo del suo ago, e con cautela metteva i punti alla ferita. Ogni tanto alzava lo sguardo verso Edith, la quale osservava attentamente ogni movimento del medico. Guardare quella scena le fece venire in mente un episodio che le aveva narrato molto tempo fa la caposala Olga.
Era un episodio alquanto passato, avvenuto mentre Edith stava sistemando la mansarda assieme ad Olga. La giovane infermiera stava controllando alcuni scatoloni, per verificare se le cose al loro interno fossero da tenere o meno. Durante “l'ispezione” l'attenzione di Edith venne catturata da un vecchio orsetto di pezza. La ragazza lo tolse dallo scatolone, esaminandolo incuriosita. Al tatto si rese conto che si trattava di uno di quei peluche con dentro le batterie. Tuttavia, il particolare che l'aveva più colpita erano i buffi occhiali di quell'orsetto. In un primo momento, Edith scherzò commentando come fossero uguali a quelli di Hans, poi però si soffermò su un altro dettaglio: il piccolo libro che l'orso stringeva tra le zampe. Sembrava come intento a leggere qualcosa.
<< Olga, guarda questo, secondo te funziona ancora? >> domandò Edith cercando di far partire inutilmente il meccanismo.
<< Temo di no tesoro, è da molto tempo che è quassù. Vedi, quello era il giocattolo preferito della signorina Hanna. >> rispose Olga sorridendole.
Lo sguardo di Olga si addolcì, probabilmente nella sua mente era riaffiorato qualche ricordo legato a quell'oggetto, pensava tra sé e sé Edith.
<< Il suo giocattolo preferito? Dimmi di più, sono curiosa! >> replicò la giovane sedendosi a terra con l'orso tra le mani.
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micro961 · 1 year
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Sergio Borsato - “Liberi e Forti”
La title track del nuovo album
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La narrazione di una commedia umana, troppo spesso sottovalutata nel suo vero desiderio di pace e prosperità. Sull’orizzonte crepuscolare del dramma collettivo che il mondo sta vivendo, si chiude il capitolo di un percorso che ha coinvolto Borsato negli ultimi due anni, conoscendo narratori e sognatori, che hanno raccontato le loro difficoltà, le loro paure e il loro sgomento. Sono operai, contadini, intellettuali, studenti, donne, e uomini, consapevoli dei troppi errori che la nostra specie continua compulsivamente a fare, che si stanno riunendo sotto l’egida di una sola e insostituibile parola: Pace.
 “Per me è importante scrivere quello che nel mio percorso ho vissuto e visto, con la speranza che, magari, qualcuno si prenda la briga di leggere e ascoltare non una, ma ben due, tre volte. E spero anche di affidare queste mie parole, questi pensieri in fila, disordinatamente costanti, a chi ha sogni che bruciano da svegli” Sergio Borsato
 Sergio Borsato nasce in Svizzera nel 1962. Figlio di immigrati veneti, trascorre la sua infanzia in parte con i nonni paterni, a Cartigliano - un ridente paesino della campagna veneta alle porte di Bassano del Grappa situato sulle sponde del fiume Brenta - e in una piccola cittadina svizzera vicino a Zurigo.
A 6 anni inizia a suonare l'armonica a bocca e a 10 il padre gli regala la prima chitarra, una sei corde spesso a cinque... Pink Floyd, Eagles, America, Crosby e gli italiani De Andrè, Bubola, De Gregori, Guccini, Bertoli, Vasco lo accompagnano. Inizia a scrivere la prime canzoni nel 1978, all'età di 16 anni. A 18 anni inizia a frequentare circoli filologici locali e, a Bassano del Grappa, conosce e frequenta il poeta scomparso Gino Pistorello con il quale inizia un interscambio di idee linguistiche e culturali. Prende coscienza che il Veneto è una lingua di trasferimento e di appartenenza e inizia a scrivere le prime canzoni in coiné Veneta. Collabora con vari gruppi musicali locali e nel 1986-87 si avvicina a gruppi che perseguono finalità autonomiste ed indipendentiste ed è in questo ambiente che nascono le prime idee musicali. Borsato riesce comunque a destare l'attenzione degli addetti ai lavori. Nel 1999 inizia il suo primo tour musicale che lo porta in 15 città, pubblicando in seguito l'album "live tour 1999". Nel 2001 con la nuova casa di produzione musicale indipendente Daigo Music Italia srl dà vita al primo grande progetto discografico "La strada bianca". La scelta dei musicisti ricade su nomi di maggior prestigio nazionale ed internazionale quali Andrea Braido alle chitarre (Vasco Rossi, Eros Ramazzotti, Mina, Celentano, etc), Massimo Varini, alle chitarre (Nek, Laura Pausini, etc), Davide Ragazzoni alla batteria (Branduardi), Stefano Olivato al basso (Patty Pravo), oltre ad una serie di musicisti molto bravi tra i quali Marco Fanton (chitarre) e Alessandro Chiarelli (violino). Nel 2003 Sony Music Italia, ascoltato l'album, avvicina l'artista e decide di distribuirlo in tutta Italia e all'estero con un contratto in esclusiva: Germania, Svizzera, Francia, Stati Uniti, etc. L'album, che desta molto interesse anche da parte della stampa internazionale, viene recensito tra l'altro su America Oggi, il piú importante quotidiano americano dedicato agli italiani all'estero, oltre che su varie testate nazionali. Rai 2, nel settembre 2004, lo vuole come ospite al Follia Rotolante Tour, nella tappa di Lido degli Estensi. Il primo singolo dell'album "La strada bianca" viene programmato da numerose emittenti radiofoniche italiane. Nel 2008 è fra gli autori “Freedom” programma di Rai 2 interamente dedicato alla musica, in onda in seconda serata (a mezzanotte e quaranta). Nel 2022, dopo circa 15 anni di pausa, Borsato ritorna con un nuovo singolo, “La bambina di Kiev”, mentre il 2023 è iniziato con la pubblicazione di “BIRKENAU - Unter dem blau” e di “liberi e forti” title track del nuovo album la cui pubblicazione è prevista il 17 marzo.
  Etichetta: Multiforce
 Facebook: https://www.facebook.com/sergio.borsato/
Instagram: https://www.instagram.com/sergioborsatoofficial/
Website: www.sergioborsato.com
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occhidibimbo · 2 years
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Essere genitori, si afferma spesso, è quanto il mestiere più difficile del mondo. Forse è così, forse no, ma di sicuro sono numerose le difficoltà che si incontrano nel percorso educativo del proprio figlio, o della propria figlia. L’arrivo di un bambino, o di una bambina, innegabilmente modifica gli equilibri della famiglia stessa. Sorrisi, gioia, amore puro ed incondizionato si alternano a momenti in cui lo sconforto, l’ansia, le paure di commettere un errore e di sbagliare prendono il sopravvento. I dubbi legati ad un’educazione che pare non essere efficace, le modalità adottate per gestire i capricci non producono l’effetto desiderato. Per poter evitare di cadere nella trappola dell’ansia e dell’angoscia e per vivere serenamente l’essere genitori è sufficiente informarsi e frequentare i corsi per genitori. Qual è la funzione dei corsi per genitori? La famiglia è uno dei punti cardine dell’esperienza dell’essere umano, è il primo incontro con l’altro. in famiglia si dovrebbe imparare il rispetto delle regole, la collaborazione, la socialità, il sorriso ed anche reperire i mezzi necessari per affrontare le difficoltà che nella vita si incontreranno. Insomma, la famiglia dovrebbe crescere e contribuire alla formazione di bambini felici e adulti consapevoli e responsabili. Il luogo in cui sviluppare le abilità fisiche e psicologiche. Affinché, però, il bambino cresca in un ambiente sano è opportuno che i genitori siano altrettanto preparati, consapevoli, sereni e felici. Non si potranno gestire i capricci del bambino, o della bambina, se il rapporto tra i genitori è basato sulla scarsa comunicazione, sul conflitto e sui silenzi lunghi ed estremamente pericolosi e dannosi. Infatti, per un’educazione efficace ed efficiente è necessario che i genitori scelgano ed adottino una via da percorrere insieme. Ad esempio, creerebbe molta confusione se dinanzi alla richiesta del bambino un genitore rispondesse affermativamente e l’altro negativamente. A lungo andare, il bambino comprenderebbe a chi rivolgersi per vedere soddisfatte tutte le sue pretese. Quali sono alcuni dei problemi che i genitori devono affrontare? Il termine capricci si usa per indicare e per riferirsi a tutti quei momenti di vita in cui il bambino è restio a concludere quanto richiesto e previsto. Si pensi, ad esempio, al momento del pasto. Come poter gestire i rifiuti del bambino? Come evitare che il bambino mangi soltanto quel che gli piace rinunciando ed evitando, quindi, di assumere quei cibi che sono indispensabili affinché cresca sano e forte? Ebbene, la risposta a questi quesiti naturali e quotidiani è fornita dai professionisti e dagli esperti del settore che hanno alle spalle molti anni di studio e di formazione e che, quindi, posseggono i mezzi per poter consigliare adeguatamente evitando di aggravare una situazione già complessa di per sé. Chiedere il supporto ad un esperto, seguire un corso per genitori, confrontarsi con chi ha già incontrato e superato questo tipo di difficoltà, non può che agevolare e migliorare il percorso di crescita del bambino e, di conseguenza, tranquillizzerà e donerà serenità all’interno nucleo familiare. Alla base di gran parte dei fallimenti educativi vi è una scasa conoscenza non solo del bambino, o della bambina, ma in primis dei genitori. Pertanto, è opportuno intervenire ed affidarsi agli esperti che sapranno consigliare ed indicare il percorso idoneo da seguire per raggiungere la meta prefissata.
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hermioneblk · 2 years
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Seconda lettura. C’è una bambina magra che in tempo di guerra in Inghilterra legge un libro sugli dei nordici. Stop. Non c’è altro. La bambina magra non ha neanche un nome forse la scrittrice si ricorda di quando da piccola aveva letto questo libro in tempi difficili ma perché dire che era magra? Era meglio darle un nome invece di questa descrizione monotematica. La bambina smilza divorava libri insomma si è data un po’ di arie definendosi piccola e al tempo stesso bravissima a leggere libri difficili. Questo libro parla di idee altrui riferite a un libro da lei letto nel passato. La bambina magra si interrogava su questo e su quell’altro quando in verità sono domande che si è fatta la scrittrice solo dopo, sono pensieri adulti forzati nella piccola mente della smilza. Quando non descrive il libro letto descrive la campagna circostante senza riuscire a inventarsi altro. La bambina magra e tutto il resto sono solo un contorno, una scusa per poter parlare di vicende nordiche di altri facendo finta che ci sia un po’ di qualcos’altro che invece non c’è. Questa tipa stava leggendo “Asgard e gli dei” curato da un tedesco tanto per infilzarci poi anche un binomio con i tedeschi che erano in guerra contro gli inglesi. La smilza faceva anche un confronto tra gli dei nordici e il dio della scuola cattolica che era obbligata a frequentare… Ma senza mai prendere una vera concreta posizione e senza quindi un senso a tutte queste parola ammonticchiate. Anche dopo questa seconda lettura sono giunta alla conclusione che si tratta di un libro scritto da chi non ha la necessità (e la capacità) di scrivere un libro ma che vuole solo pubblicare. Poche pagine grandi caratteri capitoli corti tanto spazio vuoto: tutte indizi che fanno pensare a un stesura strascicata difficile e conclusa a fatica. È normale quando non si hanno proprie idee è meglio lasciar perdere e magari scrivere articoli su un giornale senza camuffare una recensione da libro, non lo è proprio per niente. My #bookstagram 📚 #biblioteca My #books #libri #library #photography #commento #recensione 🇮🇹 #instagram (presso Falconara Marittima) https://www.instagram.com/p/CkJIJlSK9LE/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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nosferatummarzia-v · 2 years
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Erano giorni che non sognava o meglio dire non aveva avuto degli incubi. La sua vita, complicata e piena di traumi infantili, l’aveva talmente destata che ormai da sempre temeva di addormentarsi e cadere in uno di quei terrificanti incubi che le avrebbero fatto rivivere un duro passato. Eppure qualcosa era cambiato, niente sogni e niente incubi.
Susy aveva appena compiuto vent’anni ed era una donna come tante, soltanto più problematica. Il giorno più bello della sua vita era stato quando aveva compiuto diciotto anni, non per la torta e la canzonata d’auguri, ma perché aveva appena acquisito la libertà. La notte del suo compleanno aveva racimolato poche cose in uno zaino ed era scappata da casa.
Tra notti insonni alle stazioni dei treni, a compagnie poco raccomandabili, Susy aveva lasciato il sud ed era stata accolta in casa da una zia che si era subito dimostrata premurosa. Un anno era trascorso serenamente, fin quando un uomo, un amico di famiglia, aveva iniziato a frequentare quella casa.Più volte Susy si era accorta che la scrutasse in modo inequivocabile. A lei non piaceva e oltretutto aveva quasi il doppio dei suoi anni. Tuttavia un giorno sua zia le riferì che non sarebbe più potuta restare lì e che avrebbe dovuto trovarsi un’altra sistemazione. Parenti come serpenti. Lei non aveva un reddito per sostentarsi e sua zia la spinse tra le braccia di quell’uomo. Forse gli doveva un favore? Chissà. Susy, giovane donna e molto fragile, su pressione della zia era andata a vivere con l’amico di famiglia.I pianti isterici nei momenti di solitudine, gli incubi e un uomo che non amava, soltanto in parte furono rinfrancati dalle passeggiate mattutine e dalla brezza marina. Quando lui andava a lavorare, lei si rasserenava, poi il resto della giornata era come vivere nell’inferno in terra. Non perché lui la maltrattasse, ma perché quella non era la vita che aveva sognato. Prima prigioniera di un padre padrone che non esitava mai a lesinarle delle cinghiate e adesso di un uomo che per lei era soltanto un amico di famiglia. La vita di Susy era come un treno che aveva deragliato.Eppure Susy era maturata e aveva deciso di provare a rimettere in carreggiata la propria vita, ricercando un’indipendenza da sempre agognata. Era stato durante le mattinate di quella calda estate, nei suoi momenti di solitudine, che aveva iniziato a raddrizzare la propria vita. L’iscrizione all’ufficio di collocamento l’aveva fatta talmente gioire da condurla a brindare con un bicchiere di prosecco; proprio lei che con gli alcolici non ci andava a nozze. Poi un giorno arrivò una telefonata che la fece esplodere di gioia, forse a breve avrebbe avuto un lavoro.Fu allora che scomparvero i sogni e anche gli incubi.Lei che era sempre stata mattiniera si svegliava negli orari più inusuali e ultimamente erano sopraggiunti anche i mal di testa. Le stava accadendo qualcosa, se lo sentiva, ma non riusciva a capire. Era tutto così strano, tanto da spaventarla più della vita dura che aveva sempre dovuto sopportare.
Era tardo pomeriggio quando mise a fare il caffè. Lo avrebbe accolto con calore, diversamente dal solito, per poi dirgli qualcosa che non gli avrebbe di certo fatto piacere. Ormai era una donna, non sarebbe scappata ancora nella notte come un ratto in fuga da un gatto.
Il cuore le sobbalzò in gola quando seduta in cucina sentì la porta aprirsi. Si affrettò a versare il caffè ancora caldo in una tazzina, lo zuccherò e lo posò sul tavolo. Lui ne fu felice, la baciò sulle labbra e ancora sudicio per il lavoro andò a sedersi.
"Devo parlarti…" bofonchiò Susy mentre lui sorseggiava il caffè.
"Ti è forse accaduto qualcosa, eh mia cara Susy?" domandò lui con tenerezza.
Susy era spaventata, le sembrava di essere ritornata quella bambina terrorizzata dalla cinghia di suo padre. Ricordò quando veniva colpita con ferocia e maltrattata e rinchiusa nello sgabuzzino sotto gli occhi indifferenti di una donna che con molta difficoltà riusciva a chiamare mamma. Odiava più la sua indifferenza che la ferocia di un padre padrone. "Ho trovato un lavoro…" lui la guardò con sospetto, "appena percepirò il primo stipendio intendo andarmene da qui."
Susy si aspettava che lui dicesse qualcosa, invece la fissava con uno sguardo furioso ma non incredulo. Non sembrava sorpreso, era come se già sapesse. «Io ti ringrazio per esserti preso cura di me… però sai che non ti amo. Perdonami… questa è la mia decisione.» Lui continuava a fissarla, era furioso, poi lanciò la tazzina sul muro e si trasformò in un mostro, un demonio a suo dire.
"Io mi sono preso cura di te! Io ti ho dato una casa e da mangiare e il mio amore! Tu non puoi lasciarmi, non puoi!"
"Non fare così, ti prego", borbottò Susy mentre le lacrime avevano già iniziato una frettolosa discesa sulle sue guance.
"Zitta! Stai risvegliando il demonio! Non vuoi davvero avere a che fare con lui, vero mia cara Susy?"
"Mi stai spaventando", disse lei tra le lacrime interminabili. "Allora dimentica questa idea! Vai a riposarti un po’, penso io alla cena."
Susy si risvegliò con un dolore alla testa, guardò la sveglia sul comodino e scoprì di avere dormito troppo; mezzogiorno era trascorso da alcuni minuti. Barcollando raggiunse il bagno e si diede una rinfrescata al volto. Non si sentiva bene e oltretutto non ricordava quasi nulla della serata precedente. Una vaga immagine di sé la ritraeva in cucina, spaventata e rabbiosa, poi nulla più. Susy non riusciva proprio a capire cosa le stava accadendo. Barcollando per la casa, si soffermò davanti alla porta e pensò di fuggire, proprio come aveva fatto già una volta. Era spaesata ma ricordava vividamente lo sguardo furioso di chi diceva di amarla, così decise di rimandare la fuga e aspettare il momento più opportuno.
Quella sera Susy non aveva riaperto il discorso del giorno prima e lui sembrava essere tornato l’uomo di sempre; aveva ripreso a guardarla con amore. Avevano cenato insieme e poi lei si era rintanata nella stanza da letto per finire le ultime pagine di un romanzo. Lui, invece, era uscito per comprare le sigarette e probabilmente si sarebbe bevuto anche qualche campari.
D’improvviso ravvisò dei passi e un’ombra serpeggiò il corridoio antistante alla stanza da letto. Il sangue nelle sue vene si raggelò, il cuore le pompava a tutta forza e tremava. Con delicatezza posò il romanzo sul comodino, senza nemmeno mettere il segno, e scivolò sul pavimento. Aggirò il letto, raggiunse la porta spalancata della stanza da letto e quando si affacciò nel corridoio, qualcosa le se aggrovigliò attorno alla gola. Susy faceva fatica a respirare, il dolore era quasi insopportabile, le forze iniziavano a mancarle, il suo sguardo era vitreo sull’ombra che la stava uccidendo. Non un uomo, non un essere mortale, ma un’ombra nel crepuscolo.
Susy si risvegliò e la testa le scoppiava. La sua memoria era frammentata e aveva più vuoti che ricordi della giornata precedente. Era spaventata. Che fosse arrivato il momento di rivolgersi a un medico?
Intontita riuscì a fare una doccia, mandò giù un tramezzino con il prosciutto cotto e tornò sul letto. Provò a riposarsi un po’ ma non ci riuscì, i pensieri di una tragica vita le scorrevano davanti come un vecchio film. Quando si guardò allo specchio, si convinse a correre da un medico, poiché si ritrovò al cospetto di uno spaventapasseri con le occhiaie violacee e i capelli bruni. Era lei e sembrava un cadavere ambulante.
Aprì l’armadio in cerca di qualcosa da indossare per uscire e sfilò da una delle stampelle un vestitino estivo con dei ricami floreali. Proprio in quel momento notò che un pezzo di stoffa impedisse a un’altra anta dell’armadio di chiudersi, così afferrò il pomello e tirò a sé, poi si perse tra gli abiti dell’uomo a cui ben presto avrebbe detto addio.
Susy non sapeva cosa l’avesse spinta a frugare tra gli indumenti di lui, ma quando trovò le scatole di sonnifero occultate nella pila di maglioni che prima della stagione invernale non avevano motivo di essere spostati, rimase allibita. D’improvviso sapeva da cosa derivassero i suoi malesseri. L’uomo le stava somministrando dei sonniferi che ben presto, aumentando sempre di più il dosaggio, l’avrebbero condotta alla morte. Susy era terrorizzata, ma adesso sapeva cosa fare, ossia fuggire senza mai guardarsi indietro, proprio come aveva già fatto una volta.
Susy chiuse il borsone che aveva riempito con lo stretto necessario proprio quando qualcuno entrò in casa.
"Tesoro, oggi sono tornato prima", mormorò lui e lei si sentì morire dentro. Susy fu lesta a fare scivolare il borsone sotto il letto. "Che cosa fai?" domandò lui appena la raggiunse.
"Nulla…" bofonchiò con il terrore negli occhi.
"Hai trovato i sonniferi, vero?"
Susy provò a cacciare un urlo che sperò sentisse tutto il vicinato, ma poi la sua mano ruvida e legnosa glielo impedì. Le aveva tappato la bocca con la mano destra e con la sinistra le aveva afferrato la gola e stava stringendo. «Stai zitta o ti uccido!» bisbigliò lui prima di mollare la presa. Adesso Susy ansimava per riprendere fiato e dai suoi occhi verdi colavano lacrime di paura e dolore. "Ti avevo avvisato che io sono un demonio, ricordi? Saremmo potuti essere felici insieme e invece ti sei voluta mettere nei guai."
Di colpo l’iride dell’uomo da castana divenne rossa, tra i suoi lunghi capelli neri sbucarono due corna da diavolo, le unghie divennero artigli e la sua espressione facciale mutò completamente. L’uomo con cui Susy aveva convissuto perché costretta da una famiglia senza cuore, non blaterava quando affermava di essere un demonio.
Al demonio bastò un leggero movimento per lacerarle la gola con i propri artigli. Susy stava morendo dissanguata e lui rideva di cuore. Quelle risate erano pura inquietudine che echeggiava nella stanza.
Susy morì con il rammarico di non avere mai assaporato il gusto della libertà.
Carmela era al quinto mese di gravidanza e sarebbe diventata una ragazza madre, poiché il padre aveva deciso di non assumersi le proprie responsabilità. L’inaspettata gravidanza le aveva procurato un brusco litigio con la famiglia, ottusi e retrogradi a suo dire, ed era così andata a vivere da una sua cugina. Quel pomeriggio rincasò dopo una breve passeggiata e sentì un parlottio provenire dalla cucina. Raggiunse le voci nella casa e quando entrò in cucina, suo zio la guardò e le parlò: "Vieni cara che ti presento un amico di famiglia."
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frammento · 5 years
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Papà ha sospirato profondamente e ha detto che avrebbe preferito leggermi le fiabe. Ma io conosco a memoria quasi tutte le storie. All'inizio gli uomini sono sempre cattivi e malvagi, poi si nobilitano e diventano migliori grazie all'arrivo di un qualche bell'animaletto. Apprezzerei di più se l'uomo restasse cattivo e quindi l'animaletto gli staccasse la testa con un morso.
Irmgard Keun, Una bambina da non frequentare
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onone-san · 5 years
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[...] I generali vogliono sempre la guerra e solo quando la guerra è persa vogliono la pace, per ritirarsi e mettersi a coltivare rose.
Irmgard Keun, Una Bambina Da Non Frequentare
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carmenvicinanza · 1 year
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Espérance Hakuzwimana
https://www.unadonnalgiorno.it/esperance-hakuzwimana-ripanti/
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È da tutta la vita che sono una persona nera. Non l’ho scelto ma so benissimo cosa vuol dire. Spesso però sono gli altri a non saperlo, a dimenticarlo. Sono nera, italiana, donna, e scrivo.
Espérance Hakuzwimana Ripanti, scrittrice e attivista che usa la narrazione come strumento per portare avanti la sua lotta di donna nera in paese che le ricorda il colore della sua pelle da quando ci ha messo piede.
Fa parte di Razzismo brutta storia, movimento che lavora con giovani, associazioni, scuole, carceri e biblioteche per smontare gli stereotipi alla base di tutte le discriminazioni. Ha un programma che parla di libri e attualità a Radio Beckwith Evangelica.
Nata in Ruanda il 9 settembre 1991, negli anni del genocidio, ha vissuto in un orfanotrofio per tre anni prima di essere portata in un centro di accoglienza improvvisato nella provincia di Brescia da dove è stata poi adottata da una famiglia italiana.
Nel percorso di crescita e ricerca della sua identità, sin da bambina, i libri sono stati il suo rifugio e conforto. Le parole il suo mezzo espressivo, il bisogno e il dovere di raccontare.
Ha studiato Scienze Politiche all’Università di Trento e nel 2015 si è trasferita a Torino per frequentare la Scuola Holden dove si è specializzata in giornalismo, media e comunicazione.
Dopo una vita trascorsa a rispondere a domande e curiosità altrui, sulle sue origini, sulla sua pelle, sulle sue opinioni, ha iniziato a servirsi della scrittura come strumento per riappropriarsi del suo spazio ed esporsi, rivelarsi, a modo suo, nei suoi termini, alle sue condizioni.
Il suo debutto letterario è stato col racconto Lamiere nell’antologia curata da Igiaba Scego dal titolo Future. Il domani narrato dalle voci di oggi, del 2019. La narrazione di undici donne italiane afrodiscendenti che raccontano il loro passato per creare un legame con il futuro.
Nello stesso anno è uscito il suo primo libro E poi basta. Manifesto di una donna nera, edito da People, che racconta i passaggi che l’hanno portata a scoprire chi è e chi può essere.
Racconta di come ha vissuto sul proprio corpo le conseguenze del razzismo, di come è stata dissuasa a prendere parola e impegnarsi pubblicamente, di come ha scoperto che cosa significhi essere donna e nera in Italia, attraverso episodi minuti, quotidiani, usando prosa, lettere, citazioni, pezzi di diario, elenchi, attraverso le frasi che si è sentita ripetere in ogni luogo e attraverso i libri di altri e altre. Un saggio, una biografia, una ballata, un manifesto: la storia della sua lotta contro i pregiudizi e la ricerca di soluzioni, tra il buio e la luce del sole.
È del 2022 il suo secondo romanzo, Tutta intera, edito da Einaudi. Storie d’identità, paura del diverso e desiderio di appartenenza. Di discendenze lontane e di un domani che si esige nelle proprie mani. Raccontate da Sara, un’insegnante che credeva di vedersi tutta intera, invece si accorge di dover ancora mettere insieme molti pezzi. Uno sguardo sul mondo completamente nuovo e urgente.
Espérance Hakuzwimana ha una scrittura fluida, coinvolgente, necessaria e una dialettica virtuosa, sa dosare le parole giuste per comunicare e raccontarsi, come stilettate che costringono a bagni di realtà. Una piccola grande donna, minuta e potente che, parafrasando una sua affermazione, non rappresenta i nuovi cittadini, ma i prossimi.
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Questa storia inizia con una frase che, molto, molto tempo fa, mi disse mia madre: “ Non c’è nulla che faccia più paura di vedere qualcuno che amiamo iniziare a guardarci come un mostro. Lo stesso mostro che abbiamo sempre cercato di nascondergli.”
A otto anni la maestra mi fece sedere vicino a Fabio, e ci disse che saremo stati compagni di banco per tutto l’anno scolastico.
Io ero timida. Tenevo lo sguardo basso e, mentre scrivevamo sul quaderno, facevo attenzione a non sfiorare il suo gomito col mio.
Ma Fabio mi sorrideva, quando entravo in classe. E mi raccontava i cartoni che guardava a pomeriggio, dopo i compiti. E mi chiedeva come stavo. E lentamente il ghiaccio nella mia pancia iniziò a sciogliersi, e imparai a ricambiare i suoi sorrisi sdentati.
Iniziò a invitarmi a casa sua per fare merenda, e io a chiedere a mia mamma di passarlo a prendere per andare al parco assieme. Stare con lui mi metteva di buon umore.E, a fine anno, io e Fabio eravamo diventati buoni amici.
A undici anni iniziammo le medie (ovviamente il primo giorno ci sedemmo vicini; era la nostra tradizione).
Quello fu l’anno in cui mamma e papà cenavano in silenzio. In cui non si tenevano più per mano, quando uscivamo.
Ricordo sere passate a stringere forte il cuscino fra le braccia, spaventata, perché papà gridava, e la mamma piangeva.
Non ricordo l’ultima volta che mio padre disse “ti amo” a mia madre. O l’ultima volta che mia madre guardò mio padre, con quella luce negli occhi che la rendeva sempre bellissima.
Gli anni delle medie li passai male. I miei voti peggiorarono in tutte le materie, e non parlavo con nessuno, perché temevo che, appena avessi aperto la bocca, o alzato gli occhi, sarei scoppiata a piangere, e non sarei più stata in grado di fermarmi.
Fabio continuava a starmi vicino; mi scriveva messaggi durante il giorno e mi telefonava le notti in cui non riuscivo a prendere sonno.
A scuola, la sua presenza mi faceva sentire sicura. Protetta. Quando parlavo con lui, la morsa che attanagliava il mio stomaco si allentava. Era come se riuscissi a respirare meglio. E il petto non mi facesse più tanto male come prima.
Fabio non mi lasciò sola. Mi aiutò coi compiti e non si lamentò mai, nonostante gli chiedessi spesso di rispiegarmi gli argomenti. Non mi fece mai sentire stupida. O un peso. O una persona difficile da frequentare.
Fabio era l’unico che sapeva dei miei genitori, dei loro litigi, e, infine, del loro divorzio. Ma Fabio era un ragazzino di quattordici anni, e raccontò ogni cosa a sua mamma, che sparse la voce ad altri genitori.
I miei genitori si arrabbiarono moltissimo con me. Ricordo lo schiaffo che mi diede mio padre, la pelle della guancia andare a fuoco, come se fosse percorsa da migliaia di scariche elettriche. E le sue parole, più dure del marmo “sei solo una stupida ragazzina che non capisce niente”.
Ricordo lo sguardo che mi rivolse mia madre, pieno di vergogna. E io scoppiai a piangere e mi chiusi in camera.
Dopo ore, lei mi raggiunse e si sedette al bordo del letto.
“Lo so tesoro che le tue intenzioni non erano cattive... in fondo, volevi solo confidarti con un amico. Ma devi capire che, per quanto possiamo voler bene ad una persona, non possiamo raccontargli tutto. Certe cose devono restare private.”
“Mamma” risposi fra i singhiozzi, con la faccia imbrattata di moccio e gli occhi bollenti di lacrime “ma perché? Io non capisco!” E non lo capivo davvero. E mi sentii stupida per questo, una stupida ragazzina proprio come mi aveva chiamato papà.
“Perché io e la mamma di Fabio siamo amiche. E quando ami una persona, vorresti sempre proteggerla dalle parti peggiori di te. Dai tuoi errori. Dai tuoi sbagli. La vorresti tenere lontana, e darle solo il meglio. “
“Ma perché?” le sue parole mi confondevano, la mia mente si riempiva di nebbia.
“Per paura. Non c’è nulla che faccia più paura di vedere qualcuno che amiamo iniziare a guardarci come un mostro. Lo stesso mostro che abbiamo sempre cercato di nascondergli.”
Dopo quel giorno, non rividi più mio padre.
Iniziammo le superiori, e le strade di me e Fabio si divisero; lui, con la sua media brillante, si iscrisse al liceo. Io mi rifugiai in una scuola che speravo fosse più semplice.
Le parole di mia mamma mi avevano scosso. Da quel giorno non raccontai più nulla sulla mia famiglia a Fabio. E dato che le lacrime che versavo e la rabbia che ribolliva nelle mie vene era per causa loro, non gli potei più raccontare nemmeno come stavo io. E tenermi tutto dentro mi faceva stare male. Mi sentivo come se fossi sempre sul punto di scoppiare.
Mi mancava parlare con Fabio, mi mancava lui, che nonostante tutte le cose orribili che mi accadevano, continuava a guardarmi come se io fossi l’unica cosa bella.
Gli anni delle superiori furono bui.
Iniziai a frequentare ragazzi più grandi, a cui interessava solo il mio corpo, e io confusi le attenzioni che mi davano per amore. Non volevo restare sola. Non volevo continuare a sentirmi sola. Per loro iniziai a fumare sigarette, nonostante non mi piacesse il sapore che mi lasciavano sulle labbra, o l’odore di cui si impregnavano le mie dita e i miei vestiti. Ma loro mi dissero che mi sarei abituata in fretta.
Iniziai a bere alcolici di cui non conoscevo nemmeno il nome, fino a quando mi girava la testa, fino a quando le mie gambe diventavano molli e cadevo a terra, risvegliandomi il giorno seguente con lividi che non ricordavo di essermi fatta.
Sapevo che le cose che facevo erano sbagliate. Ma mio padre mi aveva abbandonata, e mia madre mi faceva sentire come se anche lei l’avesse fatto. A nessuno importava di me. Nemmeno a me stessa. E incominciai a fumare sempre più pacchetti, e a bere sempre più bottiglie, perché quando ero lucida, mi odiavo. Desideravo uccidermi, uccidere quello che ero diventata e quello che avevo fatto.
Mi odiavo per non aver avuto abbastanza forza da salvarmi da sola. Mi odiavo per aver distrutto ogni possibilità di realizzare i miei sogni. Mi odiavo per aver mandato nei casini ogni cosa. Mi odiavo perché, a causa mia, mio padre se ne era andato. Erano lunghe e senza stelle le notti che passavo sveglia a tormentarmi su quello che era successo anni prima, e alla fine giungevo sempre alla medesima conclusione: se fossi stata zitta, forse lui sarebbe restato.
E odiavo Fabio che, nonostante tutto, si ostinava a voler stare al mio fianco. A telefonarmi la sera. A inviarmi messaggi. A venire sotto casa mia, perché era preoccupato per me. Io non sapevo come comportarmi. Le nostre conversazioni divennero vuote e piene di silenzi. Gli dissi che avevo bisogno di spazio e gli chiesi di lasciarmi sola. Lui mi chiese di uscire sempre meno. Finché non lo fece più. E lentamente, molto lentamente, uscì dalla mia vita, e il suo fantasma non faceva altro che ricordami che lo avevo allontanato solo perché mi vergognavo della persona che ero diventata e non volevo che lui mi vedesse in quello stato. E fu allora, che capii le parole di mia madre. E capii che ero innamorata di lui.
A vent’anni rividi Fabio. Erano le due del mattino, e stavo camminando lungo un marciapiede mal illuminato. In mano stringevo un paio di tacchi consumati. I miei capelli erano pieni di nodi e puzzavano di fumo. E il mio vestito era talmente corto da dover tirare l’orlo sulle cosce ad ogni passo.
“Ehi, sconosciuta” alzai lo sguardo, e dopo molto tempo, incrociai nuovamente i suoi occhi. E fu come se qualcosa dentro me, qualcosa di duro e appuntito che mi feriva ad ogni respiro, incominciasse a sgretolarsi. Era più alto di come lo ricordavo. E aveva tagliato tutte le ciocche dei suoi capelli, le stesse che da bambina intrecciavo fra le dita. Ma i suoi occhi non erano cambiati: continuavano ad essere dello stesso colore del caffè, quello che bevevo ogni mattina perché mi faceva pensare a lui.
“Ehi” la mia voce aveva un suono strano, come se fosse stata scartavetrata.
“Aspetta, sei qui tutta sola? Ma è pericoloso! Vieni, ho la macchina qui vicino. Ti do un passaggio per casa tua”
“Credevo stessi andando da qualche parte” gli risposi sospettosa.
“Infatti è così. Ma questo è più importante. Lo sai... era da molto che aspettavo di vederti. “
Uscimmo assieme qualche volta, dopo quell’incontro fortuito. Sapevo che non andava bene, perché io non andavo bene per lui. Lui non meritava me, che schifo! Meritava qualcuno di migliore. Ma quando mi chiedeva di vederci, gli rispondevo si. Perché stare con lui, la sua presenza, il suo profumo, ogni cosa di lui, mi faceva sentire... come non mi ero più sentita da talmente tanto tempo che non ricordavo nemmeno più come si chiamasse quella sensazione.
Ma poi venne un giorno, in cui non controllai l’orologio sul cellulare, perché ero troppo impegnata a battere Fabio a Mario Cart. E quando terminammo l’ennesima partita, suonarono alla porta e Fabio corse ad aprire: era la pizza. Aveva ordinato la mia preferita. E mi resi conto che nonostante tutto quel tempo, lui non aveva dimenticato nulla di me. Dopo aver cenato, mi passò il telecomando e mi propose di scegliere un film. Non era trascorsa nemmeno mezz’ora, quando mi resi conto che ci eravamo svenduti vicino. Così vicino che percepivo il calore del suo corpo, e l’odore del suo shampoo. Lui mi prese la mano e mi sorpresi di quanto fosse morbida la sua pelle, e le sue dita mi accarezzavano con una delicatezza che mi pietrificò. Perché io non ero abituata a ricevere amore. Non ero abituata ad essere toccata da qualcuno che mi desiderava davvero. E mi vennero in mente tutte le mani che mi avevano toccato nel corso degli anni. Mani sporche, mani distratte, mani a cui non importava nulla di me. Le stesse mani che lasciai trattassero in egual modo il mio corpo e la mia anima: con violenza, con brutalità, come se fossi poco più di un vecchio giocattolo.
E mi sentii sporca. E provai disgusto per me. E lui non sapeva. Non sapeva di tutti i miei lividi, e delle mie cicatrici. Non sapeva nulla dei miei errori. E del modo in cui mi guardavo allo specchio.
Ritrassi di scatto la mano. Lui mi guardò confuso, ma il suo sguardo era screziato di dolore.
Non sapeva il mostro che ero diventata, e le cose orribili che avevo fatto. E in quel momento mi tornarono alla mente le parole di mia madre “ Non c’è nulla che faccia più paura di vedere qualcuno che amiamo iniziare a guardarci come un mostro. Lo stesso mostro che abbiamo sempre cercato di nascondergli”.
Non potevo. Non potevo imbrattare con tutto l’odio e lo schifo che provavo per me stessa anche lui. Me ne andai, sbattendo la porta e correndo per le scale. Non mi voltai mai indietro. E non lo rividi più.
Oggi compio 34 anni, e sto aspettando un treno in una città anonima. Per ingannare il tempo, accendo il cellulare e apro Instagram. E fra i consigliati mi appare lui. Decido di cliccare sul suo profilo. Non è privato, ed ha appena pubblicato una foto. Sorride, vestito di nero, accanto ad una ragazza bellissima, col velo che le nasconde i capelli. Si è sposato, e questo mi provoca come uno strappo all’altezza del petto. Non so perché mi fa ancora così tanto male, dopo tutti questi anni. Ma non mi fermo e vado sul profilo di sua moglie. Voglio sapere, finalmente, che genere di donna può essere amata da Fabio. Nella biografia c’è scritto “leggi la mia intervista premendo qui!”. Ecco, lo sapevo. È di sicuro un’artista, una modella o una persona brillante, di carriera. Abbastanza per essere degna di un intervista, in ogni caso. Ma appena leggo l’articolo, mi sento sbiancare. Devo sedermi. Ho perso il treno. Ho perso la cognizione del tempo, perché non ho idea di quanto sia restata tra i miei pensieri. E dopo anni, mi ritrovai a scoppiare a piangere come quella notte, prima che mio padre se ne andasse.
L’articolo recitava questo: “Da adolescente mi ammalai di anoressia nervosa per più di tre anni. Fu l’inverno più rigido della mia vita: avevo sempre freddo, provavo solo rabbia e tristezza, finché mi ridussi a non provare più niente e a desiderare solo di non alzarmi più dal letto il mattino successivo. Vivevo in un inferno che mi ero costruita da sola. Ho pensato spesso al suicidio. Ho fatto cose orribili al mio corpo. Ho fatto soffrire me stessa e tutte le persone che mi volevano bene. Ma ora posso affermare di essere felice.” si volta e sorridendo stringe la mano al marito “perché ho trovato qualcuno che, nonostante conosca il mio passato, ha deciso di restare comunque al mio fianco. Non fu facile, perché all’inizio avevo paura e cercai di allontanarlo; credevo che se avesse saputo, anche lui mi avrebbe etichettata come ‘malata’. E avrei sopportato quel marchio da chiunque, ma non da lui. Almeno lui, no.
Però il suo continuo insistere finì per far desistere anche me. E mi lasciai amare. Credo sia stata la cosa più coraggiosa che abbia fatto; confidargli i miei errori, raccontagli dei miei demoni e degli incubi che continuavano a perseguitarmi.” respira e chiude gli occhi. Dopo una breve pausa li riapre e continua “stiamo assieme da sette anni, e non c’è mai stata una mattina in cui mi sono alzata e lui non mi ha fatto sentire amata.”
Cosa vorresti dire ai giovani che stanno affrontando situazioni simili alle tue?
Ed è così, che si conclude questa storia:
“Ragazzi, lasciatevi amare. L’amore salva le persone. Non sono i vostri sbagli a definirvi, ma il modo in cui riuscite ad andare avanti, nonostante questi. Lo so che siete convinti che, mostrando le parti più sporche e rovinate di voi alla persona che amate, questa finirà per guardarvi come vi guardate voi allo specchio. Ma voi non vi amate. Loro si. E credetemi; chi vi ama, non vi farà mai sentire un mostro. Al contrario, succederà che inizierete ad amarvi anche voi, e a vedervi nel esatto modo in cui lui vi guarda. “
-Alessia Alpi, scritta da me.
(-Volevoimparareavolare on Tumblr)
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