Tumgik
#sarebbe stato interessante un volto nuovo? sì
gloriabourne · 5 years
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The one with the new girlfriend
"Fabrizio se l'è scelta proprio bella, la ragazza." Sentendo Rinald dire quella frase, Ermal fece una smorfia ma non disse nulla. Era perfettamente consapevole che la nuova fiamma di Fabrizio fosse una bella ragazza. Anzi, era convinto che fino a qualche tempo prima, sarebbe stato proprio lui il primo ad incoraggiare Fabrizio a provarci con lei. Magari addirittura ci avrebbe provato anche lui, dando inizio ad un'assurda sfida tra lui e il collega per vedere chi riusciva a conquistarla più in fretta. Ma le cose non stavano così. Da quando Fabrizio era entrato nella sua vita, erano cambiate un sacco di cose. La prima - la più importante, se non l'unica che avesse davvero un senso - era che Ermal non si era più interessato a nessuna donna. O uomo. Non si era più interessato a nessuno che non fosse Fabrizio. All'inizio, non ci aveva nemmeno fatto caso. Aveva semplicemente pensato che il suo mancato interesse verso qualcuno, fosse dovuto al fatto che non aveva conosciuto nessuno di abbastanza interessante da attirare la sua attenzione. Solo dopo qualche mese si era reso conto che il motivo era molto più semplice: non gli interessava nessuno perché nessuno avrebbe mai attirato la sua attenzione tanto quanto Fabrizio. Quindi, per quanto la nuova fidanzata di Fabrizio fosse effettivamente molto carina, Ermal non riusciva a guardarla con obiettività. "Mh, sì, carina" borbottò tenendo lo sguardo fisso sul suo cellulare, fingendosi interessato a ciò che stava leggendo. "Da quant'è che stanno insieme?" "Qualche mese" rispose Ermal con tono indifferente. "E tu l'hai già conosciuta?" chiese ancora Rinald. Ermal sbuffò alzandosi dal divano. "No, non ancora. Ma che te ne frega?" "Mi sembra solo strano che uno dei tuoi più cari amici si frequenti da mesi con una donna, al punto di portarla a eventi pubblici, e ancora non te l'abbia presentata. Tu, piuttosto, che hai? Sembri un cane a cui hanno pestato la coda!" "Non capisco questo terzo grado a proposito di una che nemmeno conosco" replicò Ermal scocciato. "Ti ho solo fatto una domanda, calmati" rispose Rinald uscendo dalla stanza. "Forse dovresti scopare un po' di più!" Ermal sbuffò. No, decisamente non era quello il problema. Anzi, non aveva minimamente voglia di andare a letto con qualcuno e anche nelle occasioni in cui finiva per toccarsi da solo pensando a Fabrizio, alla fine si sentiva più frustrato di prima. L'idea che Fabrizio stesse con qualcuno, che non l'avrebbe mai guardato come invece lui avrebbe voluto, lo logorava così tanto che qualsiasi cosa facesse si sentiva comunque frustrato e insoddisfatto. E tutto questo si riversava nella sua musica. Aveva abbozzato qualche testo nelle ultime settimane, e tutto ciò che era venuto fuori erano frasi cariche di tristezza e malinconia. Su una cosa, però, Rinald aveva ragione: doveva calmarsi. Doveva davvero cercare di rimettere insieme i pezzi della sua vita e smetterla di pensare a Fabrizio. Altrimenti, se avesse temporeggiato ancora, sarebbe solo stato più difficile e non ne sarebbe più uscito.
Erano passati mesi. Mesi in cui Ermal e Fabrizio non si erano visti nemmeno una volta e si erano sentiti pochissimo. Mesi in cui, per ciò che Ermal aveva letto online e su qualche rivista, Fabrizio aveva continuato a uscire con quella che ormai era diventata ufficialmente la sua fidanzata. Mesi in cui Ermal aveva cercato di andare avanti e di toglierselo dalla testa. E a un certo punto, credeva anche di esserci riuscito. Pensava a lui sempre meno, a volte riusciva a non pensarci per giornate intere, e vedere le sue foto insieme a Roberta - così si chiamava la sua ragazza - non faceva più così male come qualche tempo prima. Il tempo aveva curato, almeno in parte, le ferite ed Ermal era riuscito a far tornare un po' di normalità nella sua vita. Fino a quel giorno. In fondo, non poteva nemmeno dire di essere sorpreso. Fin dal momento in cui Fiorella Mannoia lo aveva chiamato per invitarlo a quella cena a casa sua, aveva sospettato che anche Fabrizio sarebbe stato presente. Ed era convinto che la cosa gli andasse bene, che addirittura gli fosse indifferente. Ma quando aveva visto Fabrizio entrare in casa sorridendo, quando si era accorto che il suo mondo aveva di nuovo preso colore solo grazie alla sua presenza, Ermal aveva capito che in realtà non aveva superato proprio nulla. Rimase a osservarlo in disparte, mentre salutava Fiorella e un paio di altre conoscenze comuni. Sapeva che prima o poi sarebbe arrivato il suo turno, sapeva che Fabrizio probabilmente gli si sarebbe buttato addosso come al solito - incurante del male che gli avrebbe fatto - e sapeva che avrebbe dovuto lottare con tutto se stesso per non esplodere e non sputare fuori tutto quello che si teneva dentro. Appena vide Fabrizio guardare verso di lui, sorrise e lo raggiunse, pronto a fingere che andasse tutto bene. "Ermal! È una vita che non ci vediamo!" esclamò Fabrizio prima di abbracciarlo. Ermal lo accolse tra le sue braccia sofferente, ma allo stesso tempo sollevato. Era passato davvero troppo tempo dall'ultima volta in cui si erano visti, e Fabrizio gli era mancato più di quanto in realtà avesse creduto. "Già, è passato un sacco di tempo. Come stai?" chiese Ermal, con un sorriso stampato in faccia. Fabrizio gli era mancato davvero e, per quanto la situazione lo facesse stare non proprio benissimo - a tratti proprio male, ma questo non lo avrebbe mai ammesso - gli faceva comunque piacere parlare con lui. Gli sembrava di essere tornato ai vecchi tempi, quando erano solo due amici senza assurde implicazioni sentimentali. Era tutto più facile, all'epoca. E quella sera, sembrava un po' di essere tornati indietro nel tempo. Parlarono tanto, arrivando al punto di isolarsi completamente nella loro bolla, come era già successo tante volte durante il festival o l'Eurovision. Per un attimo, Ermal si dimenticò addirittura che Fabrizio avesse una splendida ragazza che probabilmente lo stava aspettando a casa. Fino a quando, ormai al termine della cena, il cellulare di Fabrizio iniziò a suonare incessantemente, mentre il nome della sua fidanzata lampeggiava sullo schermo, e lui dovette allontanarsi per rispondere. Ermal lo guardò portarsi il cellulare all'orecchio e parlare per qualche minuto, sentendo il cuore stretto in una morsa e lo stomaco completamente chiuso. E pensare che era convinto di aver superato e accantonato tutto quel groviglio di sentimenti che provava per lui. Quando Fabrizio tornò a sedersi accanto a Ermal, il più giovane si sentiva completamente schiacciato dalla consapevolezza che più a lungo restava accanto a Fabrizio e più avrebbe sofferto. E lui amava Fabrizio, lo amava davvero tanto, ma amava di più se stesso e non poteva farsi del male in quel modo. "Tutto bene?" chiese, anche se in realtà non era davvero interessato. Voleva solo andarsene da lì al più presto. "Sì, certo. Roberta voleva sapere a che ora sarei tornato, ma le ho detto di non aspettarmi. Sto troppo bene qui per tornare a casa" rispose Fabrizio sorridente, prima di bere un sorso di vino. "Io, invece, credo proprio che andrò" disse Ermal alzandosi. "Ma come? Te ne vai già?" chiese Fabrizio stupito. Non vedeva Ermal da così tanto, che aveva sperato di poter passare ancora un po' di tempo con lui. "Sì. Non sono dell'umore giusto per continuare la serata. Saluto Fiorella e vado" disse Ermal. Poi abbozzò un sorriso verso Fabrizio e aggiunse: "Buona serata, Bizio. Ci sentiamo." Fabrizio lo guardò raggiungere Fiorella e salutarla, mentre sul volto della donna si dipingeva prima un'espressione confusa e poi comprensiva. Almeno c'era qualcuno che comprendeva. Fabrizio, dal canto suo, non stava capendo proprio niente. Appena Ermal uscì, si avvicinò a Fiorella e, senza nemmeno premurarsi di fingere indifferenza, chiese: "Sai che gli è preso?" "Dovrei?" chiese la donna. "Non lo so. Sembrava di sì. Fino a poco fa andava tutto bene, poi all'improvviso ha detto di non essere dell'umore giusto e se n'è andato." "Forse era semplicemente stanco" disse Fiorella. Fabrizio scosse la testa. "No, non è quello. Era da tanto che non passavamo del tempo insieme, non avrebbe mai perso l'occasione solo perché è stanco." Fiorella sospirò. Aveva passato da un pezzo la fase in cui dava consigli di cuore alle amiche, eppure ogni volta che si trovava con Ermal e Fabrizio si rendeva conto che forse quella fase non sarebbe mai passata. "Forse dovresti parlarne con lui" disse semplicemente. "Allora c'è davvero qualcosa che non va." Fiorella gli posò una mano sulla spalla e disse: "Parla con lui, Fabrizio." Il tono di Fiorella era così serio che Fabrizio non poté fare a meno di afferrare al volo la sua giacca e raggiungere Ermal il più velocemente possibile.
Ermal si era appena seduto in macchina e stava rispondendo a un messaggio di Marco, quando sentì qualcuno bussare sul vetro del passeggero. Sollevò lo sguardo e, appena vide Fabrizio, disattivò la sicura per permettergli di entrare. Fuori stava piovendo ormai incessantemente da parecchie ore e non aveva di certo intenzione di lasciare Fabrizio sotto l'acqua. Il romano salì in auto, ormai con i vestiti appiccicati al corpo e i capelli completamente fradici, mentre Ermal lo guardava con la fronte aggrottata. "Che succede?" chiese poco dopo. "Perché sei andato via così di fretta?" chiese Fabrizio senza mezzi termini. "Te l'ho detto, non ero dell'umore giusto" disse Ermal puntando lo sguardo di fronte a lui, anche se la pioggia sul parabrezza gli impediva di vedere qualsiasi cosa ci fosse all'esterno della macchina. "Prima lo eri. Che è successo?" insistette Fabrizio. "Dovresti tornare da Roberta" disse Ermal, senza rispondere alla domanda di Fabrizio. Il più grande lo guardò perplesso, senza capire cosa c'entrasse Roberta in tutta quella conversazione, poi disse: "Non voglio tornare da Roberta. Voglio stare qui. Con te." "Fabrizio, per favore." "No, Ermal, dimmi che c'è che non va. Perché è ovvio che c'è qualcosa che non va" disse Fabrizio. Poi allungò la mano verso quella di Ermal, appoggiata al volante, ma il più piccolo lo scansò via malamente. "Vorrei evitare che finisse come l'ultima volta" disse togliendo entrambe le mani dal volante e incrociando le braccia al petto. Fabrizio non rispose, ricordando semplicemente come fossero andate le cose quell'ultima volta in cui si era permesso di prendere la mano di Ermal. Era stato a Lisbona, la sera prima della finale, quando Ermal si era fatto prendere dall'ansia e Fabrizio - che di attacchi di panico nella sua vita ne aveva avuti parecchi - aveva cercato di calmarlo. Quando finalmente Ermal si era rilassato, per Fabrizio era stato automatico prendergli la mano in un gesto che doveva essere semplicemente di conforto. Ma poi la stretta di mano si era trasformata in dita intrecciate, sguardi languidi e un bacio mancato che purtroppo - o per fortuna - era stato interrotto dall'arrivo di Andrea. Non ne avevano mai parlato, ma entrambi avevano cercato di fare in modo che le loro mani non si sfiorassero più. C'erano stati gli abbracci, le pacche sulle spalle, ma le strette di mano sembravano essere diventate una cosa troppo intima per loro. "Ermal, non ci vediamo da mesi. Non puoi davvero pensare che io preferisca stare con Roberta piuttosto che con te" disse Fabrizio. "È la tua fidanzata." "È tu sei il mio..." disse Fabrizio bloccandosi un attimo dopo. Ermal si voltò di scatto verso di lui e, con tono quasi rabbioso, disse: "Il tuo cosa? Amico? Collega? Compare? Nulla di tutto ciò è paragonabile." Fabrizio abbassò lo sguardo ricacciando indietro le parole che stavano per uscire un attimo prima. Il mio amore. Perché era quello che Ermal era sempre stato per lui, anche se era sempre stato troppo codardo per dirglielo. Fece un respiro profondo e poi disse: "Non capisco perché ce l'hai con me." "Non ce l'ho con te, Fabrizio. Cazzo, non ce l'ho con te. Ce l'ho con me stesso" disse Ermal in un sussurro. La rabbia, la frustrazione... ormai non c'era più niente. C'era solo lui. Un uomo svuotato da ogni speranza, che si portava dietro solo l'enorme peso di essersi innamorato di un suo amico.   "Ma perché?" chiese Fabrizio. Il tono di voce era preoccupato, così come lo sguardo. Ermal sospirò, poi si voltò verso di lui e disse semplicemente: "Perché mi sono innamorato di te." Fabrizio spalancò gli occhi sorpreso, senza sapere cosa dire. Non aveva mai creduto che Ermal provasse qualcosa per lui, non lo aveva mai lasciato trasparire. Ed era il motivo principale per cui aveva iniziato a frequentare Roberta. Per distrarsi, per non pensare a Ermal. Con il tempo, però, a Roberta si era affezionato davvero e in quel momento si trovava combattuto tra il confessare a Ermal la verità e il non voler causare sofferenze a Roberta. In un attimo, gli passarono per la mente tutti i pro e i contro che avrebbe avuto un'eventuale relazione con Ermal. Sarebbe stato senz'altro bellissimo stare con l'uomo di cui era innamorato. Si sarebbe sentito finalmente felice. Ma come l'avrebbero presa i suoi figli? E la famiglia di Ermal? E le rispettive case discografiche? Che conseguenze avrebbe avuto sulle loro carriere? Non poteva permettersi di rischiare - e di far rischiare a Ermal - così tanto. Così si costrinse, di nuovo, a ricacciare indietro i suoi sentimenti e disse: "Io sto con Roberta." Ermal annuì, lo sguardo fisso sul finestrino e gli occhi leggermente lucidi. "Lo so, Bizio." Si sforzò di non sembrare troppo scosso da quella situazione e, guardandolo negli occhi, aggiunse: "Te la sei scelta molto carina. E sembra anche simpatica. Sono contento per te, davvero." Fabrizio abbassò lo sguardo sentendosi morire a quelle parole. Aveva appena spezzato il cuore dell'uomo che amava e, contemporaneamente, anche il suo.
Per quanto sembrasse assurdo, dopo quella sera le cose erano state più semplici. Almeno per Ermal. La consapevolezza che Fabrizio sapesse cosa provava per lui e che non ci sarebbe mai stato nulla di più di un'amicizia, rendeva Ermal stranamente tranquillo e rilassato. Insomma, si era messo il cuore in pace. Aveva ripreso in mano la sua vita, gettandosi a capofitto nel lavoro e riprendendo anche ad uscire con gli amici senza avere perennemente l'espressione triste stampata in faccia. Andava tutto bene. O quanto meno, andava tutto meglio rispetto a qualche tempo prima. Certo, il fatto di non vedere né sentire Fabrizio da un po' aveva contribuito a fargli superare quella situazione, ma ciò che contava era che finalmente Ermal stava meglio e finalmente Fabrizio non occupava più la sua mente in ogni singolo momento della giornata. Quando si incontrarono di nuovo, ormai erano passati mesi da quella conversazione avuta in macchina nel mezzo di un temporale. Ermal aveva sentito la mancanza di Fabrizio, ovviamente, ma non era stata una morsa dolorosa che gli stritolava lo stomaco. Era stato più che altro un leggero fastidio che gli ricordava quanto si sentisse ancora legato a Fabrizio, ma senza farlo soffrire come era successo fino a qualche mese prima. Quella sera, erano stati entrambi ospitati allo stesso evento e sebbene Ermal fosse contento di rivedere Fabrizio - nonostante i sentimenti per lui non si fossero mai del tutto assopiti - il più grande sembrava volerlo evitare a tutti i costi. Ma Ermal non avrebbe mai accettato di andarsene senza averlo prima salutato, quindi al termine della serata, si avvicinò a lui proprio mentre stava per andarsene. "Pensavi di andare via senza salutare?" Fabrizio si voltò sorpreso verso di lui, poi abbassò lo sguardo colpevole e disse: "No, io..." "Volevi andare via senza salutarmi, me ne sono accorto" disse Ermal. Fabrizio non replicò. Ormai era stato beccato, non avrebbe avuto senso cercare di giustificarsi. "Bizio, che ti prende? Sono sempre io! E mi ferisce il fatto che tu non voglia nemmeno dirmi ciao" disse Ermal sorridendo, cercando di fargli capire che non era davvero arrabbiato per quel comportamento, ma semplicemente confuso. "Avevo paura che tu ce l'avessi con me. Mi sembrava più facile evitarti" confessò Fabrizio. Ermal lo guardò accigliato e Fabrizio aggiunse: "Sai, per quello che ci siamo detti l'ultima volta che ci siamo visti." "Pensavi davvero che ce l'avessi con te perché stai con qualcuno? Ma dai, Bizio..." "Veramente, io e Roberta non stiamo più insieme." Ermal lo guardò sinceramente dispiaciuto. Non aveva avuto modo di conoscerla, ma era bella e sembrava anche simpatica. Tutto sommato, nonostante i suoi sentimenti, era dispiaciuto che si fossero lasciati. "Mi dispiace, Bizio." Fabrizio si strinse nelle spalle. "Doveva andare così. Non è mai stata una relazione sincera, non aveva senso che continuasse." "Che vuoi dire?" chiese Ermal curioso. Intanto avevano iniziato a camminare entrambi verso il parcheggio ormai deserto. Sembrava di nuovo di essere tornati ai vecchi tempi, quando bastava ritrovarsi insieme per qualche minuto per trovare la voglia di chiacchierare per ore. "Io non mi sono messo con lei per i motivi giusti, e lei lo sapeva ma ha sempre fatto finta che le andasse bene. A un certo punto, i problemi sono semplicemente saltati fuori" disse Fabrizio, poi si portò una sigaretta alle labbra e la accese svogliatamente. Ermal lo osservò per un attimo, mentre aspirava il fumo e poi lo buttava fuori, cercando di capire il senso di quelle parole, ma era sempre più confuso. "Non riesco a capire. Che significa che non stavi con lei per i motivi giusti e che lei lo sapeva?" Fabrizio sospirò appoggiandosi al cofano della sua auto. Poi, trovando la forza di guardare Ermal, disse: "Mi sono messo con lei per evitare di pensare a te, e lei lo sapeva benissimo. Lo aveva capito anche senza che glielo dicessi io." "Come, scusa?" chiese Ermal sgranando gli occhi. Quella conversazione stava diventando assurda. "Dopo l'Eurovision mi sono accorto di provare qualcosa per te, ma non credevo che per te fosse lo stesso. Così, quando ho conosciuto Roberta, ho iniziato a uscirci. Pensavo mi sarebbe servito a dimenticarti." "Ma quando io ti ho detto che..." iniziò a dire Ermal, ancora confuso da tutta quella situazione. "Mi sono fatto prendere dal panico. Ero spaventato dalle conseguenze che avrebbe avuto una nostra eventuale storia e non volevo che Roberta soffrisse. Qualche giorno dopo però le ho raccontato tutto, e lei mi ha risposto che lo sapeva già, che si era resa conto fin da subito che provavo qualcosa per te, che i miei occhi erano diversi quando parlavo di te" disse Fabrizio abbassando lo sguardo. "Perché non mi hai detto niente in questi mesi?" "Non sapevo come comportarmi. Non volevo che pensassi che fossero state le tue parole a condizionare il mio comportamento, che per qualche motivo mi fossi innamorato di te solo perché tu lo eri di me. Non è così. Io ti amo da anni, ormai." Ermal rimase in silenzio, a qualche passo di distanza da Fabrizio. Se quella fosse stata una commedia romantica, si sarebbe gettato tra le braccia di Fabrizio e lo avrebbe baciato fino a farlo rimanere senza fiato. Ma quella non era una commedia romantica. Era la sua vita e lui si sentiva totalmente confuso e sopraffatto dagli eventi. Fabrizio era innamorato di lui da anni, probabilmente da quando Ermal provava gli stessi sentimenti. E non gli aveva mai detto nulla. Certo, nemmeno Ermal lo aveva fatto, ma Fabrizio non era così codardo come lui nelle relazioni. Si era sempre aspettato che il primo passo sarebbe arrivato da lui. E anche quando alla fine Ermal gli aveva confessato di amarlo, Fabrizio si era tirato indietro giustificandosi dietro la sua relazione con Roberta. "Ermal, ti prego, di' qualcosa." "Che vuoi che ti dica?" rispose Ermal sollevando le spalle. "Che potevi dirmelo subito? Che così avremmo perso meno tempo?" "Ma che cazzo, Ermal! Io non ho detto niente, ma pure tu sei stato zitto in tutto questo tempo! Come puoi anche solo pensare di incolparmi?" Già, come poteva anche solo pensarci?! In fondo, erano semplicemente stati entrambi troppo spaventati per esporsi. Ma arrivati a quel punto, quando ormai entrambi avevano confessato i propri sentimenti, non aveva più senso avere paura. Senza perdere altro tempo, Ermal raggiunse Fabrizio prendendogli il viso tra le mani e baciandolo. Fabrizio lo strinse a sé immediatamente, ricambiando il bacio con la stessa intensità, facendo scivolare la lingua nella sua bocca e muovendo lentamente le labbra sulle sue. Erano entrambi ancora arrabbiati l'uno con l'altro, si incolpavano a vicenda perché nessuno dei due aveva parlato, frustrati per non aver espresso prima i loro sentimenti, tristi per aver perso tempo. Ma almeno erano insieme, almeno in quel momento le cose andavano bene. Era come se in quel bacio fosse racchiuso tutto il tempo che avevano perso, ogni bacio mancato, ogni parola non detta. Era come se per la prima volta entrambi si sentissero davvero bene, felici, liberi. Ermal sorrise sulle sue labbra. Era in un parcheggio e stava baciando la persona di cui era segretamente innamorato da anni, dopo aver superato mesi di incomprensioni che non sarebbero nemmeno esistiti se loro fossero stati solo un po' meno ciechi. La loro vita non era una commedia romantica, ma forse non si discostava poi così tanto. 
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gracetempest99 · 5 years
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Vita da lupo- Capitolo 1: Prefetto
Aprì di scatto gli occhi e si mise a sedere, il cuscino e le coperte stropicciate e madide di sudore intorno a lui. Remus poteva sentire il proprio cuore battere ferocemente nel petto ma, dopo qualche respiro profondo, percepì un rallentamento. Si stava calmando. Inspirò ed espirò silenzioso ancora un paio di volte e poi si asciugò le guance umide, almeno aveva smesso di piangere. Per l'ennesima volta aveva fatto quell'incubo ... Un incubo che in realtà era il ricordo del giorno peggiore della sua vita, il giorno che l'aveva segnato per sempre, irreversibilmente. Lo scenario era sempre lo stesso: lui immerso nell'oscurità familiare della sua camera, addormentato, e all'improvviso un rumore, lui nel letto che comincia ad agitarsi e infine un dolore lancinante al volto... Apre gli occhi solo per vedere una figura antropomorfa con un lungo muso affilato incombere su di lui. Ed ecco che, con una finestra forzata e una zampata, Remus era diventato un lupo mannaro.
Ormai era troppo sveglio per provare a riaddormentarsi. Diede un'occhiata all'orologio ticchettante sul comodino e vide che erano ancora le tre. Poco male, avrebbe impiegato il tempo che lo separava dalla colazione per terminare i compiti delle vacanze. Di lì a due giorni sarebbe tornato ad Hogwarts per il suo quinto anno, in veste di prefetto per di più. Era stato molto orgoglioso della spilla dorata che gli era stata inviata quell'estate, soprattutto perché non se lo era aspettato. Sapeva di piacere a Silente, che d'altronde sembrava avere a cuore i casi più disperati. Essere prefetto richiedeva responsabilità, senso del dovere e affidabilità. Remus presentava le prime due qualità, quanto alla terza... Per alcuni giorni ogni mese non era esattamente affidabile, anzi violento e pericoloso erano aggettivi che gli si addicevano di più. Eppure era felice, realizzato. Anche se Silente era a conoscenza del suo "piccolo problema peloso", come James, Sirius e Peter usavano riferirsi alla licantropia, si stava fidando di lui, e a Remus non importava se Sirius e James avrebbero cominciato a tormentarlo per essere il cocco del preside.
Arrivato davanti al binario nove, Remus salutò i genitori (la madre babbana non poteva attraversare il passaggio e al padre non piaceva l'idea di lasciarla ad aspettare indietro). Lasciò che entrambi lo abbracciassero, un po' imbarazzato ma sorridendo. Notava il velo di preoccupazione nei loro occhi, anche se non era la prima volta lontano da casa, temevano sempre che potesse fare del male a qualcuno o, peggio ancora, a se stesso. Lì rassicurò con un sorriso e si accomiatò da entrambi. Poi, assicurandosi che non ci fosse nessun babbano intorno, afferrò il carrello e corse dritto contro il muro tra il binario nove e dieci. La piattaforma era gremita: studenti e genitori che si urlavano gli ultimi saluti, bagagli che venivano caricati sulle carrozze, animali vaganti i cui proprietari tentavano disperatamente di riacciuffare. Remus non aveva di questi problemi: il suo docile barbagianni beccava tranquillamente il mangime nella gabbia e non sembrava intenzionato ad evadere. Da lontano vide James e Sirius, seguiti da un affannato Peter, farsi strada in mezzo alla folla verso il treno. Decise che li avrebbe raggiunti più tardi visto che, in ogni caso, prima doveva andare nella carrozza dei prefetti.
Ci mise un pò a raggiungere lo scompartimento dei prefetti, ma capì di essere nel posto giusto non appena vide una lunga chioma rossa agitarsi mentre la proprietaria issava il pesante baule sulla rastrelliera. Remus impugnò la bacchetta e sussurrò “Wingardium leviosa", accompagnando le parole con un elegante gesto della mano. Il baule fluttuò via dalle mani della ragazza e andò a depositarsi al suo posto. La rossa si voltò, un po' confusa e un po' divertita. "Mi sembravi in difficoltà" si giustificò Remus mentre sistemava anche il proprio bagaglio e la gabbia di Gatsby il barbagianni, ma Lily ora rideva. "Ti ringrazio, Remus." Poi notò la spilla sul petto del ragazzo. "Oh che bello, sei tu l'altro prefetto allora!" "Così pare. Sai chi c'è delle altre case?" Lily scosse la testa e i due presero posto accanto al finestrino, una di fronte all'altro. "Cosa leggi?" chiese Lily vedendo che Remus aveva estratto dalla tasca un libricino. "Oh, è un manualetto sugli incantesimi non verbali". Lily sgranò gli occhi, quella era magia di un livello molto avanzato e non in molti riuscivano a padroneggiarla. "Sei in grado?" “No, certo che no." Rispose Remus sorridendo. "Però è un argomento interessante e può sempre tornare utile." "Sarebbe bello imparare." Ammise Lily. La conversazione fu interrotta dall'arrivo degli altri prefetti. Si presentarono e i più anziani spiegarono a Remus, Lily e ad un nuovo prefetto di Corvonero, Brian Hutt, le loro mansioni. "Ogni venerdì alle quattro dovrete presentarvi in sala prefetti, dove relazionerete e riceverete le comunicazioni." Terminò così il suo ampolloso discorso un prefetto Serpeverde di settimo anno, Cornelia Loterus, prima di distribuire ai tre nuovi arrivati un libretto viola con sopra stampato a lettere dorate il titolo "Il prefetto rispettabile". "Qui troverete tutte le informazioni necessarie sulle regole della scuola e le restrizioni, anche se dovreste già conoscerle. In ogni caso, vi aiuterà in caso di dubbio. Buon anno e buon lavoro." Con queste parole la Hutt abbandonò lo scompartimento, seguita da tutti, fatta eccezione per i novelli. "Suppongo che possiamo andare anche noi..." disse Remus e vedendo lo sguardo di Lily inseverirsi sentí l'assurdo bisogno di giustificarsi. "Non ho ancora salutato gli altri." "Sì, certo vai. Anch'io andrò da Sev. A dopo." Con un cenno in direzione sia di Remus che di Brian, Lily si allontanò lungo il corridoio. "Allora, quest'anno a chi tocca? A Lysa? A Kendra? A... Remus?!" Sirius sobbalzò sul sedile. "Ti ha dato di volta il cervello, James?" "Idiota, c'è Remus!" Remus osservò i suoi amici dalla soglia. Gli erano mancati infinitamente quei pagliacci. "Onestamente, Sirius, mi sento offeso dalla tua reazione. Credo di essere più simpatico di Kendra." Scherzò Remus. Ora ridevano tutti e tre, Peter dormiva in un angolo, la bocca spalancata e un rivoletto di bava all'angolo della bocca. "Dov'eri finito?" chiese James. "Non hai saputo?" "Cosa dovremmo sapere?" Si insospettí Sirius. James squadrò Remus dall'alto in basso e, dopo una manciata di secondi, si soffermò sulla spilla appuntata al petto dell'amico. "Non ci credo, Lunastorta prefetto!" Come Remus aveva previsto Sirius e James si divertirono un mondo a scherzare su come ora avrebbero dovuto tenere un comportamento irreprensibile, alla presenza di Remus almeno. "Tranquilli, mi sono abituato all'idea che non cambierete mai atteggiamento." Sospirò Remus. "Ma non aspettatevi favoritismi." Sirius diede una pacca a Remus. "Hai sentito, Ramoso? Sarebbe ora di cambiare atteggiamento!" Remus scosse la testa, fintamente esasperato. "Dimmi, Remus, per caso la McGranitt si è impossessata di te attraverso quella spilla?" Sarebbe stato un lungo viaggio, ma Remus ne amò ogni singolo momento.
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beavakarian · 6 years
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More than a Trickster - Atto XII (ITA)
Autore: maximeshepard (BeatrixVakarian)
Genere: Mature
Pairing: Loki/Thor
Sommario: questo è il mio personale Ragnarok. Si parte e si finirà alla stessa maniera, alcune scene saranno uguali, altre modificate, altre inedite. Parto subito col precisare che qui troverete un Loki che non ha nulla a che fare con il “rogue/mage” in cui è stato trasformato in Ragnarok, e un Thor che si rifà a ciò che abbiamo visto fino a TDW.
Loki e Thor sono stati da sempre su due vie diverse, ma quando il Ragnarok incomberà inesorabile su Asgard, le cose cambieranno. Molte cose cambieranno.
@lasimo74allmyworld @piccolaromana @miharu87 @mylittlesunshineblog @meblokison
Capitoli precedenti: Atto I - Atto II - Atto III - Atto IV - Atto V - Atto VI - Atto VII - Atto VIII - Atto IX - Atto X - Atto XI
- Atto XII -
“Oh… Sei sveglio e… Sei diverso”.
Loki aveva rilasciato le sue proiezioni un attimo prima che la porta scorrevole dell’infermeria si aprisse e che quella donna minuta, dai profondi occhi neri, facesse ingresso nella stanza.
Si fece trovare intenzionalmente ad armeggiare con quelle catene di fattura nanica, leggendo lo stupore negli occhi della donna nel rivelarsi nella sua forma Asgardiana.
Esibì un sorriso imbarazzato.
“Puoi liberarmi?”
Una domanda al quanto stupida, all’apparenza, quella di Loki. La donna si fece avanti, fermandosi accanto al letto.
“Temo di no, ma avviserò il comandante che hai ripreso i sensi. E cambiato… Aspetto. Sei uno shapeshifter?” rispose lei, aggrottando la fronte. Il paio di antenne su di essa vibrarono leggermente.
L’imbarazzo sul volto di Loki aumentò. Deglutì sonoramente, abbassando gli occhi e appoggiando di nuovo la testa sul cuscino – le mani rilassate lungo i fianchi ora.
“Una sorta… Non ne vado molto fiero di quell’aspetto. Ti domando scusa, se ti ho spaventata”.
“Oh, no, non ti preoccupare. Sono solo sorpresa, tutto qui” replicò con un sorriso e la voce dolce e gentile, facendo il giro della branda e armeggiando con qualche dispositivo sul lungo tavolo lì accanto.
Sommariamente calmo, imbarazzato, cooperante, Loki aveva deciso per un basso profilo, cercando la fiducia in primis di quello che pareva ricordare come il suo guaritore. Volse gli occhi, poi, alla sua spalla, muovendola leggermente, quanto le catene potessero permettere.
Le dita della sua mano destra si mossero impercettibilmente.
“Sono contenta che tu stia meglio. Avevi una ferita tutt’altro che facile da curare, ma sta guarendo e a breve non dovrebbe più farti così male” aggiunse lei, voltandosi con una siringa colma di liquido azzurro in mano.
Loki la fissò con occhi sgranati – forse non così intenzionalmente. Aprì la bocca un paio di volte, nel vedere l’ago della siringa bagnarsi rapidamente e il liquido zampillare un paio di volte. Intanto, nel palmo della sua mano, raccolse il suo seidr: piano o non piano, non doveva e non voleva tornare a dormire. Non di nuovo.
“Ti prego, no… Non voglio”.
L’aliena alzò le antenne assieme alle sopracciglia, in uno sguardo sorpreso. Osservò il prigioniero, poi la siringa, poi di nuovo il prigioniero e mise le mani avanti.
“Stai tranquillo, non è un sedativo. E’ per il dolore”.
Di nuovo quel sorriso dolce e quel tono gentile, rassicurante. Loki seguì l’ago con la coda dell’occhio, il braccio che andò a tendersi, il suo potere pronto a farsi strada e a colpire. Duro. E da lì sarebbe avvenuta la fuga, correndo da Thor, liberandolo e uscendo a muso duro da quella struttura che ormai stava stretta ad entrambi.
Ma un gesto della donna lo fermò dal compiere il suo intento. Sentì il palmo della sua mano appoggiarsi alla fronte: di istinto fece per schivarlo ma, immediatamente, avvertì un senso di calma e rilassatezza impossessarsi del suo corpo.
Portò gli occhi in quelle pozze d’ebano, espirando dapprima con forza a più ripetizioni, poi esalando un lungo respiro.
“Non voglio farti del male… Ti sentirai meglio dopo questo, ma ho bisogno che tu stia tranquillo per medicarti la ferita. E non voglio neanche che tu senta più dolore del necessario”.
Loki strinse le labbra e l’ago entrò nella sua pelle: le labbra di lei non si muovevano, stava comunicando direttamente nella sua mente.
Un’empata e un telepata. Questo non l’aveva considerato e poteva risultare problematica la cosa se la donna avesse posseduto anche delle capacità che andavano oltre alla sola telepatia. Cercando di mantenere una concentrazione tale da permettere il processo, schermò parte della sua mente con la sua magia e si lasciò cullare in quella sensazione di calma.
Sentì il dolore alla spalla sparire completamente.
“Lo so che non ti fidi di me…” sussurrò “Ma credimi, non ho brutte intenzioni”.
Loki non rispose. Osservò piuttosto la pelle attorno alla lesione venire lenita dalle amorevoli cure di quel medico capace di curare una ferita del genere, una ferita inferta da un dio. Da Hela. Una ferita che difficilmente sarebbe riuscito a guarire completamente e in così poco tempo da solo.
Sul serio, dove diavolo erano finiti? Chi era quella gente?
Ad un tratto, un ricordo ben preciso irruppe nella sua mentre come un lampo a ciel sereno. E Loki ricordò. Ricordò quel simbolo e dove l’avesse già visto. Ricordò chi, su Asgard, portava quel tatuaggio sull’avambraccio. Ricordò come lui e Thor sfogliassero quei libri la sera, prima di andare a dormire e fantasticassero ore e ore.
E capì. Gran parte di ciò che era accaduto ora acquistava un dannato senso.
La domanda, però, era: perché?
“Bene, qui ho finito. Ti prometto che queste” ed indicò le catene “Se ne andranno presto. Abbi pazienza ancora un poco”.
 Nelle ore successive della giornata, Loki imparò un po’ di cose: la prima era che il curatore si chiamava Rekis e che paresse avere un debole per lui. Non nel senso comune del termine, ma era chiaro che Loki avesse incuriosito molto quell’alieno ed in un certo senso il sentimento fosse reciproco.
Era reciproco perché, con sua somma soddisfazione, Rekis amava parlare. Amava raccontare cose, il che portava Loki in una posizione di vantaggio, data la sua abile dialettica e – siamo sinceri – il suo tentativo primario di manipolare quell’essere per la ragione principale: uscire di lì, possibilmente con le proprie gambe e con Thor.
Altro dettaglio da non sottovalutare era che le abilità empatiche della donna erano enormemente efficaci. E questo riequilibrava il match, così come le manette che erano andate a sostituirsi alle catene.
Il bonus consisteva nel non essere più legato come un salame e la sua reclusione in quella infermeria: poco male, aveva pensato, sempre meglio di una campana di vetro con un bocchettone di gas. Aveva una vaga idea riguardo al comportamento di Thor tenuto in quella struttura, visto il suo temperamento e che le parole detenzione e fratello, nella stessa frase, non avevano portato di sicuro a qualcosa di costruttivo. Non che si fosse aspettato qualcosa di diverso.
Ergo, Loki si sarebbe dovuto rimboccare le maniche e fare di testa sua. Come al solito. Ma quella, oh, sarebbe stata una sfida interessante.
 “Quindi siamo nel sistema di Nifelheim? Stento a crederci” disse Loki, mentre Rekis era intenta a cambiare, nuovamente, la medicazione.
“Effettivamente, ciò che i Nani hanno costruito qui millenni fa, ha dell’incredibile. Tuttavia, la nostra bolla è destinata a cessare di esistere a breve” spiegò lei, armeggiando con il solito liquido blu.
“Questo ecosistema sta morendo?” domandò Loki, alzando un sopracciglio – l’espressione perplessa.
“Non esattamente. E’ la struttura che mantiene attiva la bolla che si sta deteriorando, sfortunatamente. Anzi, ormai è parecchio danneggiata e i territori perimetrali sono andati persi via via nel corso degli ultimi due secoli” continuò, preparando la siringa e disinfettando la cute con cura.
“Hai avuto modo di vedere in lontananza cosa c’è?”
Loki annuì brevemente, riportando la mente a quella sorta di ammasso nuvoloso attorno a dei vortici di dimensioni gigantesche, visto all’orizzonte.
“Il clima – o più in generale l’atmosfera di Nifelheim, non è gentile con le forme di vita. Questo pianeta, in particolare. Quando la struttura della bolla cederà, nulla impedirà più a quelle mostruosità di cancellare tutto l’ecosistema e riappropriarsi di questo pezzo di terra. Il clima è già cambiato parecchio negli ultimi anni”.
L’aliena abbassò lo sguardo e le antenne. Anestetizzò la ferita e procedette.
“Quanto resta a questo posto?”
“La stima più ottimistica è quella di un secolo”.
“Non potete riparare il meccanismo della bolla?”
La donna soffocò una risata amara.
“Per mettere le mani su di una tecnologia nanica, ci vogliono i nani. E i nani hanno lasciato questo posto millenni fa. Oltretutto, questo posto è raggiungibile solamente attraverso una serie di wormhole… Insomma, o ci finisci per caso – come quasi tutti noi – oppure ti devi impegnare a trovarlo” fu l’ovvia risposta, seguita da un gesto sommesso del capo. Loki la osservò con attenzione appoggiare entrambe le mani sulla sua spalla e una luce dorata scaturire dai suoi palmi.
“Ma sono sicura che presto riusciremo a lasciare questo posto” aggiunse, in un sussurro.
Loki schiuse le labbra.
“Questa è arte magica” constatò vagamente, aggrottando le sopracciglia. Un’arte magica che io conosco bene.
La donna sorrise, gli occhi chiusi.
“Me l’ha insegnata Hildi tanto tempo fa” rispose poco dopo, ritirando gentilmente le mani.
“Hildi?”
“Oh, sì, scusa. Il nostro comandante”.
Loki annuì, portando lo sguardo verso la parete opposta. Non aveva bisogno di sapere altro sul conto del loro comandante.
 Per tutto il resto della giornata, Thor non aveva ricevuto visite. Tutto ciò che lo circondava era composto da pietra, vetro e suoni ovattati e per quanto la visita di Loki gli avesse sollevato il morale e fosse servito a tranquillizzarlo per un breve periodo, quella detenzione lo stava facendo impazzire. E di starsene buono non se ne parlava, per quanto Loki l’avesse pregato di non fare stupidaggini.
Era una questione di principio.
Le persone di quella struttura facevano pieno affidamento sulle contromisure prese. Le guardie erano unicamente state messe fuori dalla prigione, per quanto avesse potuto vedere dalla sua cella. Ma non avevano fatto i conti con la sua tenacia.
Arrendersi non era nella sua natura.
E mentre Loki pensava a superare le barriere aggirandole, Thor aveva deciso di far leva sulla sua testardaggine e di sfondarle a testate. Per quanto stimasse infinitamente la razza Nanica e i loro manufatti, in quel momento si erano guadagnati ogni imprecazione tra un colpo e l’altro, tra ogni minima crepa che si allargava e la lunga pausa data dal gas sprigionato successivamente ad ogni minimo danno alla struttura.
Quello che era troppo anche per lui, però, non era il dolore alle mani, non era il sangue che sgorgava dalle sue nocche ad ogni pugno, nella battaglia contro quella maledetta gabbia. No.
Era il doversi arrendere ogni volta al sonno, quando avrebbe dato pure l’altro occhio per sapere cosa stesse succedendo su Asgard. Tuttavia, si era convinto che, prima o dopo, quella parete avrebbe ceduto e non ci sarebbe stato nessun narcotico a fermare la sua marcia furiosa.
La sesta volta che si arrese al gas, si era accorto di aver creato una crepa sostanziale nella struttura. Ed era cosa ottima. Si sarebbe dovuto sforzare probabilmente una, due volte al massimo per uscire finalmente da lì, ma ce l’avrebbe fatta in tempo, prima che la donna col vizio della bottiglia tornasse?
Il dolore alle tempie era atroce, i polmoni bruciavano ad ogni respiro, mentre la sua coscienza si inabissò nuovamente nel buio. Si sentì precipitare, come ogni volta, incapace di muoversi, incapace di fermarsi: solo, questa volta, successe qualcosa di diverso.
Thor la vide come una sorta di fune, in quel buio. Si immaginò allungare una mano, avvertì la rugosità del tessuto nel suo palmo e la afferrò, stringendo più forte che potesse. Si sentì risalire, come se fosse stato sott’acqua per troppo tempo, sentì come se due possenti mani lo tirassero su per le spalle.
Aprì l’occhio di scatto, esalando un respiro che assomigliava ad un rantolo.
E con suo sommo stupore si trovò appoggiato ad una delle colonne del palazzo reale, in Asgard, innanzi ad Heimdall e ai suoi occhi ambrati.
“Abbiamo bisogno di te”.
 Quando le porte dell’infermeria si aprirono, Loki era intento ad esaminare la propria ferita nello specchio poco lontano dal piano medicale. La donna dai capelli neri, raccolti in uno chignon sfatto, era entrata come un treno, coperta di fango e resti non meglio identificati su quasi tutto il corpo e, bottiglia stappata lungo il tragitto, si era gettata sulla branda al centro della stanza, alzando lo schienale e stravaccandosi come fosse più comoda.
Insozzando praticamente ogni angolo dell’unico posto ove Loki aveva modo di riposare come se fosse un umano, non un animale.
E infatti, lo sguardo che il Principe di Asgard le regalò fu così duro da poter tagliare il diamante.
“Wow” commentò sottovoce, inalando aspramente – le labbra contratte in una smorfia di disgusto e sdegno “Fa pure con comodo” aggiunse, alzando le mani legate di fronte a lui e aprendole in un gesto ironico.
La donna sogghignò divertita, ingollando più volte il liquido ambrato della bottiglia, per poi appoggiarla in mezzo alle gambe e pulirsi le labbra con il dorso della mano.
“Allora, la sistemazione è di tuo gusto?”
“Avrei gradito una finestra, un po’ meno umidità. Un po’ meno... folla” esordì Loki, camminando qua e là, gesticolando quanto le manette permettessero.
“Individui più civili. Ma non posso lamentarmi. Ah, il servizio medico è eccellente” puntualizzò con un ghigno, voltandosi verso di lei.
La donna portò le mani in avanti, stirandosi rumorosamente, per poi incrociarle e portarle dietro alla testa, appoggiando la nuca e fissando il soffitto con estrema curiosità.
Il ghigno di Loki si distese molto più di prima. Era una sfida, quella, ma oh – non degnarlo di attenzione era un gesto più presuntuoso che impavido.
“Ci sono prigionieri che darebbero un braccio per avere questa sistemazione”.
Loki sorrise in silenzio, passandosi una mano per sistemarsi i capelli lungo le spalle: appoggiò il suo peso al banco, le mani lungo le cosce, strisciando i palmi sulle ginocchia.
“E dovrei, chessò, ringraziare la tua infinita” e calcò quella parola in maniera teatrale “Bontà, Hildi?”
La donna guadagnò una posizione più eretta, portando per la prima volta gli occhi nel suo interlocutore.
“Sì, dovresti ringraziare proprio quella” fu il suo commento aspro.
“Un nome particolare, il tuo”.
“Un aspetto particolare, il tuo”.
Questa volta, Loki si lasciò andare in una risata sommessa. Tutta quella situazione la trovava ridicola, ai limiti dell’assurdo: erano stati catturati senza un valido motivo, stavano scontando una detenzione in un posto dimenticato dalla grazia divina, in un sistema che ospitava unicamente ghiaccio e nebbia – non fosse per i Nani e l’interesse in quel posto.
“Per quanto adori chiacchierare, sono un po’ a corto di tempo. Che cosa vuoi da noi, esattamente?” rispose, serrando la mascella e scoccandole l’occhiata di chi non era più intenzionato a giocare.
La donna sghignazzò tra sé, tirando fuori dal taschino della giacca un pacchetto. Giocherellò un po’ con l’apertura, per poi agguantare lo snack tra i denti.
“Ho fatto qualche ricerca sul conto di quello che chiami fratello…” esordì quella, masticando con nonchalance “Colui che con disperazione continuavi a chiamare quando eri tra le braccia dell’incoscienza. Una scena dolcissima, se dai retta a me” aggiunse, ingollando il tutto con una sorsata di liquore.
“E non hai idea – fidati, non ce l’hai! – di quanto valgano quei riccioli d’oro”. Allargò le braccia per mimare quanto fosse grande la taglia pendente sulla testa di Thor.
Loki drizzò la schiena, mordendosi il labbro inferiore.
“Mi stai chiedendo di vendere mio fratello in cambio della mia libertà?” domandò, con una punta di incredulità.
“No” asserì lei, con un gesto del capo. Esibì un sorriso disteso “Non subito, almeno. Se è vero che si tratta del Figlio di Odino, prima lo convincerai ad aiutarci a catturare la Bestia. Poi ce lo consegnerai. Pensi che la tua vita valga meno della loro?”
“L’alternativa?”
La donna inspirò con il naso, in un gesto quasi di stizza.
“Cadere a pezzi con questo posto. Rekis ti avrà di certo raccontato di questa rovina nanica – ah, mi ci gioco cosa vuoi che te l’abbia raccontato”.
Loki si alzò da dov’era appoggiato e compì un paio di passi in avanti. L’espressione ora era seria, le labbra strette in una linea sottile. Hildi lo guardò quasi meravigliata.
Si sporse un poco avanti, chinando leggermente la schiena.
“E tu pensi davvero che una gabbia del genere possa contenere Thor? Che tu riesca a consegnare la tua taglia con questa facilità?” incalzò, compiendo un ulteriore passo in avanti. Soffocò una breve risata “Tu non sai chi hai davanti, donna”.
“Ho davanti un piccolo Jutun che si diverte ad andare in giro con ornamenti Asgardiani” constatò lei, alzando le spalle “E per quanto pensi che la cosa sia curiosa e a tratti divertente, la questione si ferma qui. Sei un po’ piccolino per uno della tua razza… Tu dovresti odiarli quelli come Thor” aggiunse, scuotendo la testa e trovando la cosa parecchio esilarante.
Loki sbatté le palpebre per un istante, inclinando il capo da un lato.
“Chi ti dice che non lo odi?” fu la sua serafica risposta, risposta che per un istante spiazzò la donna. Rimase con la bottiglia a mezz’aria, gli occhi fissi su di lui e una smorfia ironica sul viso.
“Ne sai di cose su Asgard, per essere un cacciatore di taglie…”
“Ho le mie fonti”.
A quelle parole, Loki le diede le spalle, prendendosi il tempo necessario e girovagando per la stanza. Ad ogni passo entrambi potevano udire il clangore della catena che collegava le manette, scandire il tempo scorrere.
Nel momento in cui Hildi fu in procinto di riprendere parola, si voltò verso di lei, prendendo un lungo respiro.
“Per prima cosa, voglio che mi porti più lontano possibile da questo posto. Secondo, voglio una parte della taglia di Thor e di quel dannato mostro. Queste due cose non sono negoziabili” sentenziò Loki, ergendosi in tutta la sua altezza.
“Terzo…” e alzò le mani ammanettate di fronte a sé “Queste. Per trattare con Thor ti servirà il mio aiuto e, credimi sulla parola, non è saggio provocarlo”.
La donna appoggiò il mento sulle nocche della mano, tamburellando il ginocchio con le dita. Per quanto quei soldi le servissero come il pane, ciò che Loki aveva buttato sul piatto non era assolutamente da scartare – se fosse riuscito a rendere l’operazione meno spinosa di quanto lo sarebbe stato senza il suo aiuto.
Si alzò lentamente, muovendosi verso di lui. Si fermò poi con una mano sul fianco, nell’altra la bottiglia. L’aveva osservato a lungo, durante il suo periodo di incoscienza, aveva parlato a lungo con Rekis, nel mentre che sondava la sua emotività. Si poteva fidare del giudizio del curatore sullo sconosciuto che aveva di fronte?
Loki colmò lo spazio che lo separava da lei, portando le braccia in avanti.
“Abbiamo un accordo?”
Credo che si capisca, ma per il personaggio di Rekis ho preso spunto da quello di Mantis, che è l’unica cosa che salvo dei guardiani assieme a Groot e Rocket xD Un versione un po’ diversa, con poteri telepatici di base. Puro scopo di trama. u.u
Loki venderà la pellaccia di Thor?
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dxscriserva-blog · 6 years
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Ormai era da più da un’ora che cercavo un giro armonico ed un ritmo  per potere poi recitare le mie parole sulla musica, ma nessun ordine di note e di suoni sembrava adatto per quei testi o forse erano i miei testi a non essere adatti a diventare canzoni. 
Che canzoni di alta qualità pensavo di produrre poi? A malapena sapevo tenere la chitarra in mano e per anni avevo tentato d’evitare canzoni col barrè.
Insomma, in me non c’era mai stata nemmeno l’ombra del musicista e. sicuramente, per scrivere una canzone erano necessarie delle conoscenze musicali. 
O forse avrei dovuto scrivere una canzone, non riciclare testi scritti in rima. Non erano stati scritti per questo, lasciamo la poesia quel che è. In verità non erano nemmeno nati come poesia ma che vuoi farci, mi ero promesso di provare ogni strada capace di condurmi al libero sfogo dei miei pensieri e al numero illimitato di ragazze a gambe aperte, anche se probabilmente quest’ultimo desiderio non si sarebbe mai avverato, ma in fondo non era nemmeno un mio desiderio. Al contrario, apparteneva a quella razza di babbuini che frequentavo quei giorni in cui di segregarmi in casa a scrivere non ne potevo più e allora ci intrufolavamo a qualche festa e ballavamo, bevevamo, non tornavamo a casa.
«Amico, non lo hai ancora capito? E’ normale che non si sia innamorata di te, a nessuno piacciono più i fessi che si chiudono a scrivere poesie d’amore. Ora alle donne piacciono gli uomini combattivi, che lottino per loro. Tu invece che hai fatto? Sei stato lì a guardare. Ormai l’hai persa, amico. E’ da troppo che ti conosce e probabilmente non ha mai pensato a qualcosa di diverso dell’amicizia con te, non lo farà mai. Guarda quante bellezze in giro, il mare è pieno di pesci!»
«Amico, dovresti anche cambiare tecnica d’approccio, di questo passo attirerai solo lesbiche! Lo sai che le lesbiche non si fanno scopare, vero?»
«Quelle sono frigide, non lesbiche!»  
«L’unica lesbica che mi sono scopato si definiva etero curiosa, che cazzata!» 
E così procedevano le serate quando, tra la massa di persone, nessuna persona sembrava interessata a far qualcosa di diverso dal bere e ballare, nemmeno intrattenere una breve conversazione.
Le feste non mi divertivano più come prima, forse perché non avevo trovato nessuno di interessante con cui andarci, nessuno d’interessante da incontrare.
Posai la chitarra e cercai di asciugarmi le gambe bagnate di sudore.
Andai in cucina e afferrai la bottiglia d’acqua.
Se ci fosse stata lei sicuramente mi avrebbe gridato di usare un bicchiere, ma lei non era qui, non poteva vedermi e non poteva darmi del maleducato.
Chiusi gli occhi e mi lasciai alla sensazione del freddo terribile e quasi doloroso che mi stava attraversando la gola, fino a quando non sentii il campanello.
Non fu un sentirlo tranquillamente. Sobbalzai e sentii parte del contenuto della bottiglia versarsi sulla mia maglietta.
«Dannazione! Per fortuna non era succo» Pensai.
Risi appena mi resi conto del pensiero stupido che avevo formulato.
Subito dopo mi bloccai per riflettere su chi potesse essere l’ospite indesiderato, fino a quando il campanello non suonò di nuovo.
“Che diavolo vuoi?”
“Passavo di qua...hai la maglietta bagnata”
“Sei venuto per salutarmi e prenderti gioco di me ancora una volta? Dissi aspramente.
“Volevo parlarti”
“Ho di meglio da fare?”
“Cioè? Struggerti, urlare strofe deprimenti, suonare melodie tristi e scrivere versi pieni di nostalgia? Su, fammi entrare” Disse aprendo la porta che stavo attento fosse accostata quel tanto che bastava per permettere alla mia figura d’essere intravista.
“Sei invadente, lo sai? Smetterai mi di presentarti solo quando ne hai voglia tu? Hai mai pensato che io possa sentire il bisogno di evitarti? Di non averti nella mia vita? D’essere un po’ più sereno? Lo vidi voltarsi verso di me con un il sopracciglio destro alzato, mentre i muscoli del suo volto erano concentrati a trattenere una risata, lasciando spazio sulla sua pelle chiara a quelle che parevano essere specifiche rughe di espressione.
“Ti sembro il tipo da chiedere il permesso?”
“No, decisamente no” Tra noi ci fu un breve silenzio che impiegai per riflettere.
“Sarebbe parecchio comico: «Hey, ciao, posso farti credere nella bellezza della vita per poi torturarti e far di te e della sua sensibilità niente più di un pugno di granelli di polvere?»”
“Io non faccio questo!” “Oh, si! Lo fai eccome! E sai qual’è la parte peggiore? Che non te ne stanchi mai!”
“Smetti di fare il bambino. Sai benissimo che ti presento sempre solo gente stimabile”
“Si, lupi travestiti da pecore, diavoli travestiti da angeli,  donne dal sorriso dolce e dalle ali nere. Gente stimabile dai più abili truffatori, perché è questo che sono anche loro! Truffatrici! Ingannatrici dell’anima!” Urlai esasperato.
Lui si lasciò andare. La risata che fino ad allora aveva trattenuto era scoppiata in un susseguirsi di gridolini, gemiti e versi gutturali. Una risata lunga e sincera, era da tempo che non ne sentivo una.
Ci pensai su un attimo, era dall’ultima volta in cui la vidi che non ne sentivo una. Una risata dolce, che la faceva sembrare una bambina mentre s’imponeva di diventare adulta al 97/100, così come si leggeva sul suo diploma.
«Sono matura ormai. Ricordo la mia adolescenza, ma sono tempi lontani» Recitava mentre il bicchiere di birra si avvicinava alle sue labbra e le macchiava di schiuma di cui lei si liberava repentinamente passandoci la lingua sopra.
“Ci sei? A cosa stai pensando? Mi fai del tè?”
“C’è ancora qualcuno che beve tè caldo? A fine Luglio poi?” Dissi scocciato
“Sta zitto e fammi del tè!”
Cercai di trovare dei motivi validi per non saltare al suo collo mentre immergevo ripetutamente la bustina nella tazza fumante.
“Come hai fatto a riconoscermi?” Mi chiese ponendo fine alla mia lista mentale, non ero riuscito a superare il motivo numero uno.
“Non lo so” Tagliai corto.
“Pensaci, non mi capita spesso”
“Mh” Mugugnai. Più cercavo di render breve quella conversazione più lui me lo ostacolava.
“Quando ti ho aperto mi è sembrato di ritrovare un vecchio amico” Continuai.
“In fondo non così vecchio” “Può essere”
“E basta?”
“No. Hai presente quell’ansia che ti senti all’altezza del cuore, che ti pervade lo stomaco e che ti dà la sensazione di star per vomitare? Ecco”
Aveva uno sguardo luminoso, forse più del sorriso. L’intero Universo sembrava essere contenuto in quelle due iridi. Okay, probabilmente non tutto l’Universo, ma una parte di esso sicuramente sì. Magari qualche paio di Galassie.
“Non ti immaginavo così” 
“Mi hai immaginato?” Mi chiese sorpreso.
“Beh, sì. Sai, quei momenti in cui fai soffrire come un cane e noi idioti ci chiediamo chi cazzo abbia avuto la geniale idea di inventarti? L’idea di distruggerti diventa più fattibile se ti si attribuiscono forme umane”
“E come mi avevi immaginato?”
“Sicuramente non un uomo” Gli risposi nel tentativo di provocarlo.
“Cosa?!” Mi domandò perplesso mentre si lasciava cadere nell’ennesima risata.
“Hai capito bene! Si sa, le donne amano più forte, ti proteggono con l’ombra del loro cuore, ti fanno l’amore molto più intensamente”
“Le assomigliavo?”
“Sì, tanto”
Non volevo rattristarmi. Insomma, per ognuno di noi l’amore è rappresentato da qualcuno. In fondo non è colpa mia se quel concetto così tanto elogiato, dipinto, suonato, scritto, cantato per me era rinchiuso nel corpo di una ragazza dal sorriso perfetto, ricci scuri e frangetta, occhi di un colore indecifrabile, che a volte sembrava quasi nero ed altre volte un verde misto ad un nocciola dolce. Insomma, i suoi occhi bisognava studiarli in base alle emozioni che provava, alla luce che si posava su di essi e ad altre infinite varianti. E’ così che ho deciso di scusare l’insistenza che dimostravo nel volerla guardare, non sia mai che da quei continui ed accurati studi non avessi fatto una scoperta importantissima, non si perdono queste occasioni. Alla fine non scoprii niente di così importante, così decisi a proseguire le mie ricerche in altri punti del suo corpo. Collezionai una buona base di dati basati sulla vista. Magari glielo avrei potuto dire che la stessi studiando in attesa di diventare un ricercatore di una certa fama e mi avrebbe concesso di accarezzarla, ma probabilmente i miei studi non sarebbero stati compresi e, al posto di ricevere un consenso avrei dovuto accettare solo una serie di insulti e schiaffi che avrebbero macchiato sia il mio corpo che il mio orgoglio.
“Forse è meglio così. Non mi sarei mai permesso d’alzare le mani ad una donna, specialmente a lei” E accennai un sorriso beffardo.
“Quindi mi lasci intero?”
“Stai scherzando? Lei ti ha spaccato in due” “Non puoi spaccare l’amore in due”
“Eccome se puoi, guarda il mio cuore!”
Improvvisamente mi apparve più vecchio, con un paio di rughe accennate ed uno sguardo bonario.
“Io non sono il cuore, tanto meno lo abito. Voi uomini dovreste smetterla di voler far apparire tutto così facile. Non è facile per niente, sono assai complicato.
Quella discussione mi stava facendo male, la testa mi esplodeva ma avevo bisogno di sforzarla ancora un po’, dovevo trovare le parole giuste per controbattere. Insomma, io non ero così superficiale, sapevo bene quanto fossero complicate le cose quando quello stupido si metteva in mezzo. Mi appigliai a strane teorie filosofiche formulate da me stesso ed assimilate nel tempo senza neanche accorgermene.
“Non siete poi così diversi” Dissi sperando che l’individuo dalla tazza di tè fumante in mano si accorgesse del mio voler proseguire il discorso e mi invitasse a farlo.
“E in cosa ci assomigliamo?”
“Fino a che battete, battete forte, l’uomo sopravvive. Se muore il cuore, se muore l’amore, muore anche l’uomo”
Lo vidi sorridere compiaciuto.
Forse la mia risposta lo aveva soddisfatto? 
Mi avrebbe dato un po’ di tregua adesso? No.
Il suo tè era già finito e sembrava deciso d’alzarsi e prepararsene un secondo.
Non riuscivo a capire quali fossero le sue intenzioni, sicuramente però andare via non rientrava tra di esse.
Il silenzio che si era creato attorno a noi era imbarazzante, anche se incompleto.
La mancanza di suono era coperto dal delicato rumore della fiamma del fornello e dal bollore dell’acqua, oltre che dai nostri respiri.
E’ corretto ritenere il suono del nostro respiro parte integrante di quello che viene definito come silenzio?
Decisi di riprendere il discorso. Nonostante continuassi a ripetermi quanto la sua presenza fosse fastidiosa non volevo che quell’incontro terminasse lì (Un po’ come quando ti trovi con la donna di cui sei innamorato e non vedi l’ora di porre fine all’imbarazzo che si è posto tra di voi e, allo stesso tempo, non vuoi allontanarti più un solo istante da lei). 
“Non è vero che l’amore non si spezza”
Lui si voltò e,ancora una volta, col suo sguardo interrogatorio, mi intimò a continuare.
“L’amore si spezza e va ad unire due persone...” “...A volte tre” Proseguii cercando di prenderla con leggerezza ed ironia.
Lui mi guardò divertito.
“Beh, se è questo il tuo modo di vedere le coppie e...me” Disse accompagnato da un’alzata di spalle, attendendo che la sua tazza piena d’acqua bollente si tingesse di un color ambrato intenso.
“Peccato che, a quanto pare, le parti sono molte volte sproporzionate”
“Continui a rimproverarmi?”
“Pensi che dovrei smettere?”
“Non sarebbe una cattiva idea”
“Sarebbe una pessima idea! Insomma, perché lei?” “Vi assomigliate molto”
“Gli opposti si attraggono”
“Ma i simili si amano”
“Allora non potevi farla innamorare di me?” Dissi scoppiando in una risata disperata.
“Quel ragazzo aveva bisogno di amore”
“Perché io no ovviamente, io non ne avevo bisogno, non avevo bisogno del suo amore” “Sei ancora qui, solo un po’ turbato. Forse un po’ più dolce, sensibile, il che è positivo. Non ti sei fatto così male”
“Ma ho il cuore spezzato!”
“Ce lo avevi anche prima di conoscerla”
“Magari mi sono stancato di averlo, magari voglio essere felice pure io”
“Sei giovane, hai ancora tanti amori davanti”
“Ma io ora ho bisogno di lei” “Non ne avrai ancora per molto” “Tu che ne sai?” “Non sai essere fedele”
“Non ho mai tradito nessuno”
“Magari non il tuo corpo, ma il tuo cuore sì” “Cosa intendi?” Gli chiesi scocciato.
“Ti sei innamorato di lei mentre dicevi di amare un’altra”
“E che cosa mi rifacci? Quella è sempre colpa tua!”
“Impara ad assumerti le tue colpe, non sei più un bambino!”
“Sappiamo benissimo entrambi che non ho alcun potere contro di te!”
Si zittì. Forse sapeva d’essere in torto.
“E insomma, che c’entra lui con lei?! Magari aveva bisogno di amore, ma proprio del suo? Proprio della donna di cui mi sono innamorato io?”
Non replicava. Mi stava lasciando sfogare? Lui? O forse ero riuscito a convincerlo d’essere un fottuto, crudele torturatore?
“Perché loro insieme? Magari anche lei aveva bisogno di amore, ma lei è meravigliosa! E’ così dannatamente intelligente e dolce, gentile...persino uno sconosciuto che la incontra per la prima volta sarebbe capace di innamorarsi di lei! Lui è...lui è soltanto lui”
“E tu cosa sei?” Domandò quasi in un sussurro, ma un sussurro dal suono deciso, che mi colpì alla bocca, alla testa, allo stomaco, al fegato, ai polmoni, al cuore, alle mani, alle gambe, come decine di proiettili che mi trapassavano la pelle, come tanti coltelli le cui lame mi aprivano la carne.
Cos’ero io? Cosa mi rendeva diverso da lui? Cosa mi rendeva migliore di lui? Perché mai avrebbe dovuto scegliere me?
“Io sono soltanto io”
Lo vidi sorridere compiaciuto, bastardo.
La linea curva delle sue labbra sembrava volermi dire «Vedi? Ho sempre ragione io».
“Sì, hai ragione tu” Pronunciai sconfitto, mentre il mio corpo era desideroso di farsi piccolo su quella sedia, così come il cuore che sembra essersi liberato di emozioni liquide ed ora di lui restava solo un organo dalla strana forma e dalla superficie rugosa, come una prugna secca.
“Tutti siamo solo noi”
“Che cazzata. Ci sono imprenditori, registi, pittori, illustratori, poeti, scrittori, cantanti, intellettuali, professori, barboni, contadini e poi ci sono io che non spicco né tra i poveri, né tra i ricchi, né tra i sentimentalisti, né tra i talentuosi e nemmeno tra i colti”
Ero particolarmente divertito dalla situazione creatasi. Ero passato dalla critica all’auto-critica. Era un passo avanti o un passo indietro? “Ma spicchi tra i sensibili”
“Oh, che onore! Perfino l’uomo più crudele possiede la sua dose di sensibilità”
“Ma tu, tra i sensibili, spicchi”
“Vuol dire che non ne hai conosciuti molti e poi abbiamo già concordato che io non spicchi in nessuna delle categorie che influenza o, al contrario, viene influenzata dalla sensibilità. Come faccio allora a possederne abbastanza da poterne trarre un vanto?”
Lo sentii ridere ancora una volta, ma questa volta c’era qualcosa di diverso. La piega del suo sorriso era più dolce, il suono del suo divertimento risultava coperto da uno strato di tenerezza.
Guardai l’orologio ripetendo il gesto compiuto pochi secondi prima dell’udire il suono del campanello di casa che diede il via a quello strano incontro con quello ancora più strano ed inaspettato ospite. 
Era tardi e lui si alzò.
“Non andare”
Si girò ma non mi rispose, era da qualche minuto che si era ammutolito.
Percepii una mano carezzarmi piano il volto e vidi un sorriso confortante comparire sul viso posto di fronte al mio.
Non sarebbe mai sparito, questo era certo.
Non era la prima volta che si presentava nella mia vita, ma sicuramente non si sarebbe mostrato nuovamente  alla porta di casa mia.
Finalmente mi sentivo coccolato e l’ostilità che provavo per quel sentimento prepotente sembrava svanire col passare dei minuti, forse dei secondi.
“Vieni, è tardi. Non puoi andare ora. Rimani qui e, se vorrai, domani potrai andartene alle prime ore del mattino o, se preferisci, alle ultime della notte”.
Lo presi per mano e lo condussi su quel divano che molte volte mi era sembrato poco confortevole ma su cui in ancora più numerose occasioni mi ero addormentato placidamente.
Si sedette in una delle stremità ed io poggiai la testa sulle sue gambe.
“Senti?” Gli chiesi.
“Questa canzone mi ricorda lei”
Non guardai la sua espressione, mi limitai a cercare d’indovinarla. Probabilmente era stranito, confuso. Probabilmente stava ragionando su quanto avessi pronunciato un attimo prima, mentre non rinunciava passarmi dolcemente le mani sul viso e tra i capelli, districando con delicatezza i pochi nodi, formatisi durante lo scorrere della giornata, che impedivano in qualche modo il percorso di attenzioni che mi stava dedicando.
“Il silenzio è quello che mi rimane di lei. E’ la canzone che me la ricorda sempre” dissi muovendo le mani in aria, allo stesso modo in cui fanno i bambini nel tentativo di imitare i direttori d’orchestra.
“Mi sarebbe piaciuto ballare con lei sul ritmo che solo l’assenza di suono è capace di dare. E’ come leggere un libro: puoi usare l’immaginazione, mentre un film te lo vieta” Aprii un attimo gli occhi per richiuderli subito dopo.
“Almeno così dicono, io riesco a fantasticare anche su quelli ed immaginare scene tagliate che in verità non sono neanche state pensate, così come fantastico sulla mia vita e su tutte le situazioni in cui potrei sfortunatamente trovarmi o che mi piacerebbe vivere, nonostante esse siano improbabili, ogni tanto ci scrivo qualcosa sopra sperando di non deludere le aspettative che mi ero fatto su quelle realtà alternative. In verità non sono un amante del mondo cinematografico. Il punto, però, è questo: con una vera musica in sottofondo devi adattarti a uno stile, a un ritmo. Possibilmente devi conoscere anche qualche passo specifico riconducibile a quel tipo di ballo, mentre io sono un davvero pessimo ballerino. Sul silenzio potrei limitarmi a saltare, o potrei ballare un lento, o una salsa, o bachata...insomma quei balli latinoamericani...o potrei semplicemente abbracciarla e spostare il peso dei nostri corpi da una gamba all’altra, stando attenti a non incastrarci troppo per poi cascare” Scoppiai a ridere appena riuscii a disegnare nella mia mente quella buffa scena.
“In verità io e lei abbiamo ballato parecchie canzoni. Molte volte in gruppo, altre volte mi ha ha trascinato in mezzo agli altri e mi ha obbligato a ballare con lei. Devo dire, l’obbligo più dolce da rispettare di tutta la mia vita. Altre volte ci siamo limitati a canticchiare quello che passava in cassa. Una volta ci è capitato di parlare dei nostri gusti musicali e consigliarci artisti che difficilmente avremmo mai potuto sentire ad una festa. Ci sono così tante canzoni che mi riconducono a lei, ma la cosa che più me la ricorda e più mi emoziona è il silenzio. Forse perché ho sempre avuto uno strano rapporto con esso. Insomma, mi ha sempre messo a disagio, a partire dalla interrogazioni a scuola alle persone appena conosciute, oppure alle persone conosciute da tempo e mai frequentate. Ho sempre trovato il silenzio imbarazzante ed ho sempre cercato di liberarmene, anche parlando del silenzio stesso o semplicemente lasciandomi scappare una risata nervosa. Invece con lei no. Certo, amavo i momenti in cui parlavamo, amavo trovare sempre più cose che ci accomunavano e lentamente imparai ad apprezzare quelle che ci rendevano diversi. Mi ricordo i nostri primi, brevissimi, discorsi. Provavo imbarazzo nel dire la mia, nel mostrarmi diverso. Perché sai, molti pensano che il diverso sia sbagliato. Ecco, io non l’ho mai pensato, ma l’ho temuto a lungo, anche perché di motivi per essere etichettato come diverso ce ne avevo eccome e tante persone mi avevano già puntato il dito contro in passato. Avevo paura che la mia diversità non le piacesse ed invece si mostrava ogni volta così disponibile e così curiosa della mia persona, della mia vita, delle cose che non conosceva e che invece facevano parte di me che tutte le paranoie caddero e, lentamente, mi lasciai sempre più all’impulsività, io che con lei avevo sempre calcolato ogni centimetro di distanza tra i nostri corpi ed io che con lei avevo sempre pesato più volte ogni parola che mi usciva dalle labbra.
Lasciai scorrere nella mente quei ricordi che sembravano sempre più lontani, perduti, desiderosi d’essere rivissuti, magari anche cambiati e migliorati.
“Eppure sono sempre stato di poche parole, ma non farmene una colpa. Lei è l’unica che mi faceva stare bene anche in silenzio, non sentivo il bisogno di parlare e così non me ne uscivo fuori con cretinate dette prima ancora di poterle pensare. Ogni tanto, in mezzo al niente, ci sorridevamo. Mi ricordo alla perfezione quei sorrisi, sono immagazzinati per bene nella memoria (Ne ho fatto una copia anche per il cuore, non sia mai che me li dimentichi) ma non ho memoria di nessun suono percepito di tutte le ore passate insieme. 
Molte volte ci eravamo ritrovati a camminare fianco a fianco e non proferivamo parola, come se non ce ne fosse l’occorrenza. Non avere argomenti di cui trattare non sembrava un problema, non sembrava un limite tra noi. Ogni tanto la guardavo con la coda dell’occhio per assicurarmi che fosse esattamente al mio stesso passo e che non fosse nervosa. Sul suo viso scorgevo sempre un’espressione rilassata, allora mi rilassavo anche io”
Pensavo ancora a tutti i nostri spostamenti in giro per la città o a tutte le volte che c’eravamo affiancati ad una festa, alle volte in cui sembrava ci cercassimo con lo sguardo per poi trovarci e sorriderci, ancora, ancora una volta, ripetutamente.
“Il silenzio accomuna la maggior parte dei ricordi che tengo di lei”
Non sapevo se mi stesse ascoltando, se fosse ancora lì con me. 
Percepii nuovamente le sue mani accarezzarmi piano. Probabilmente non aveva mai smesso, ma tanto ero assorto nei miei pensieri e nel mio monologo che non ci feci più caso.
“Mi sembra un sogno. Uno di quelli in cui c’era lei. Sai, due sono i sogni con lei che mi sono rimasti impressi nella mia memoria ed entrambi li ho fatti in momenti in cui non sapevo come agire nei suoi confronti il giorno seguente. Dicono la notte porti consiglio e con me lo ha fatto spesso, ma in notti insonni, sicuramente non l’attendevo in dei sogni così piacevoli. 
Quello che differenzia questi due sogni da tutti gli altri è particolare. Insomma, mi era già capitato altre volte di sognare ragazzette che ammiravo o bramavo, ma mai avevo sentito il mio subconscio complottare assieme ai miei sensi contro di me”
Feci una breve pausa. Il mio discorso probabilmente era confuso ma era l’esatto modo in cui mi sentivo io in quella situazione surreale.
“Insomma, nel primo sogno mi ricordo che ci tenemmo per mano. «La cosa particolare qual’è?» Ti chiederai tu. Ecco, io percepivo il calore delle sue mani. Era un calore così dolce che mi sembrava di stare a casa e quando dico “casa” intendo quella “casa” idealizzata, quella di cui si parla nei film, quella che si dice si trovi tra le braccia della persona amata. Ecco, io quella “casa” non l’avevo trovata tra le sue braccia ma nelle sue mani. Quando mi svegliai percepivo ancora quella sensazione confortevole a contatto col mio corpo e quella fu la prima volta che mi dissi di dover avere un impatto, anche minimo, nella sua vita. 
Era la notte del 13 Febbraio, me lo ricordo bene.
La seconda volta che quella dolce ragazza mi stupì in sogno fu il 13 Luglio.Il 13 è un bel numero. Stai a vedere che se a Settembre sarò indeciso se farle o no gli auguri di compleanno, la sognerò di nuovo. Comunque. la sognai con la schiena contro la vetrina della gelateria posta di fronte allo stesso edificio in cui avveniva il primo sogno, lo stesso edificio in cui ci incontrammo nella realtà. Ecco. lei era posta contro quella vetrina ma non era schiacciata ad essa, anzi. Era lei a tenermi stretto a sé. In quel momento percepii nuovamente un contatto col suo corpo. Le mie labbra ne sentirono un altro paio bollente ed umido. Niente a che vedere coi baci che ho ricevuto nella vita reale. Mi ricordo la fermezza con cui la baciavo, la lentezza con cui mi assaporavo quelle labbra carnose che da tempo sognavo d’avere per me. Lei invece mi baciava rapidamente, come se il tempo a nostra disposizione non bastasse per amarci tanto intensamente quanto desideravamo entrambi. Era una lotta tra noi ed entrambi sembravamo desiderosi di morire sulle labbra dell’altro. Non avevamo bisogno d’ossigeno, per vivere ci bastava rubare il respiro caldo ed affannato dell’altro, sufficiente, a non far concludere quel gioco che probabilmente avremmo dovuto iniziare mesi prima. Insomma, un vero e proprio “bacio dei sogni”, in entrambi i sensi. Avevamo furia, paura del tempo e di vederlo svanire, ma avevamo un metodo diverso per combatterlo. Quando mi svegliai mi sentivo affranto di non averla mai baciata prima. Insomma, il tempo in sogno era finito e nella realtà non era neanche iniziato e forse il giorno seguente non rischiai abbastanza. 
Sai la cosa che mi piace soprattutto di questi sogni, oltre ai suoi tocchi che sembravano reali? I silenzi ed i sorrisi che caratterizzavano i nostri momenti nel mondo onirico”
Aprii gli occhi e nonostante il forte bisogno che sentivo di piangere, non piansi. Non trovai abbastanza forza da perdere la forza stessa, da lasciarmi andare.
Allora sorrisi, pensando ancora a lei.
“Sì, è così che mi piace pensarla, ricordarla: silenziosa e sorridente”
Avevo sempre trovato il suo sorriso immensamente dolce ed ora che di quell’angolo di Paradiso mi rimaneva solo il ricordo lo sembrava ancora di più.
“Sai, non ho mai trovato il coraggio di dirle quanto l’amassi. Speravo vivamente lo capisse da sola, forse è anche andata così. Non ci siamo neanche detti di volerci bene. Io perché non sapevo come fare: per mesi avevo cercato l’occasione per dirglielo, perché si sa che per queste confessioni c’è bisogno di un momento speciale, ma mai nessun momento sembrava degno di tutta quella dolcezza e tenerezza che provavo per lei e che volevo trasmetterle. 
Rimandai al nostro ultimo incontro e allo stesso modo rimandai il nostro addio il più possibile. L’ultima volta che la vidi fu proprio il giorno seguente al secondo sogno di cui ti ho parlato, quattro giorni prima della sua partenza. Non le ho detto né “addio” e non le ho nemmeno svelato tutto l’affetto che provavo nei suoi confronti. Gliel’ho lasciato scritto su un biglietto, affiancato da un “mi mancherai” mascherato sotto una leggera ironia. Magari non lo neanche preso sul serio. Magari non provava nemmeno del semplice affetto per me e tutte quelle piccole attenzioni ( che ai miei occhi apparivano immense) che ella mi donava, erano solamente frutto di tutta la gentilezza che la caratterizzava.
Tanto ormai non ha importanza, se ne è andata.
Io però continuerò a ricordarmela.
Intelligente, timida, un’ottima ballerina, era anche molto brava a disegnare. Era bravissima in tantissime cose, tant’è che l’ho sempre ritenuta perfetta. Sai, non mi piace la parola “perfetta”. Di difetti ne aveva, avevo imparato a conoscerli col tempo. Ma anche quelli che gli altri chiamavano “difetti” a me piacevano tutti.
Splendidamente imperfetta.
Silenziosa e sorridente. 
Dannatamente bella, quella strega dalle mani di fata,
mi ha stregato e il suo incantesimo sembra non voler svanire.
Forse non lo voglio neanche io.
-DXSC
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gerteheike · 4 years
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     🌻💫     —     𝐍𝐄𝐖 𝐑𝐎𝐋𝐄      𝐠𝐞𝐫𝐭𝐞 𝐡𝐞𝐢𝐤𝐞,   𝐤𝐚𝐥𝐞𝐛   &   𝐚𝐥𝐞𝐱      ❪    ↷↷     mini role ❫      raven's           cafè       23.12.2020  —  #ravenfirerpg            traccia role #1
Lavorare anche durante la settimana di Natale non sembra entusiasmare la fate, eppure il suo lato stacanovista era ancora lì, pronta ad andare di strada in strada per raccogliere tutte le opinioni possibili. Era realmente interessata a che cosa pensassero tutti i cittadini di Ravenfire sull'operato del sindaco recentemente rieletto, ma soprattutto era curiosa di ciò che teneva viva la comunità di Ravenfire. Nonostante la di lei fantasia fosse giunta ad un punto morto, credeva che andare in giro a raccogliere interviste fosse un modo più che perfetto per farsi ispirare. Quali erano i loro timori, quali erano le migliorie che avrebbero voluto vedere in atto, e soprattutto l'opinione che avevano nel vedere le strade di Ravenfire piene di quegli stand che, a suo avviso, davano un senso di spensieratezza. Erano quelle le domande principali che voleva porre, ma giunta al Raven's Cafè, Gerte decise di prendere una piccola pausa. Un semplice caffè, un po' di calore di quel locale che attraeva sempre decine di clienti e sarebbe stata pronta a ripartire, ma la sua attenzione fu catturata dai due ragazzi in coda. Non conosceva i loro rispettivi nomi, eppure li aveva già visti, prima che lei stessa si accasciasse nella pista del resort appena un mese e mezzo prima. Aveva dato sfoggio delle sue ali, incapace di trattenersi, priva di alcun controllo eppure non aveva ancora parlato con Leah riguardo a quella faccenda. Un passo alla volta, ecco ciò che avrebbe fatto, ma prima era fondamentale avvicinarsi ai due giovani sconosciuti.
Kaleb Mieczyslaw Walker
* Non vi era una sola persona che non nutriva nei confronti di quella cittadina una serie di sentimenti contrastanti, eppure, immersi in quelle numerose domande che gli eventi devastanti suscitavano di volta in volta, gli abitanti di Ravenfire non facevano che nascondersi nel silenzio più profondo. Ci si chiedeva spesso al telegiornale, nei bar, nella stazione di polizia se prima o poi il silenzio avrebbe aiutato a rimettere al suo posto gli animi ormai scomposti dal male, ma la risposta sembrava ritardare sempre più, segnando inesorabilmente chi veniva attaccato e probabilmente anche chi attaccava. Quella era ormai una verità constatabile: i cassetti, o forse meglio gli scomparti dell'anima di ciascun abitante di quella città erano stati buttati all'aria, scompigliati, rovesciati totalmente, e al singolo non era rimasto che sorvegliare su se stesso in silenzio o annegare nella pura follia delle domande che avrebbero potuto ferire più della verità. Kaleb Walker era uno di quelli che, nonostante i problemi che doveva vivere ogni giorno e i disagi causati dalla sua 'mitica' sedia a rotelle, nuotava nel mare infinito delle domande che riguardavano quella città e a cui non sapeva darsi una vera e propria risposta. Non riusciva a darsele neppure in quel momento in cui, immobile come al solito sulla sua carrozzella, era in fila per fare lo scontrino. Si trovava nel Raven's Café che era un po' come dire che si trovava a casa: adorava quel posto, amava persino il profumo che quel locale aveva, perché era diverso da tutti i locali di Ravenfire, sapeva di famiglia, di chiacchiere, di cioccolato caldo, di.... conoscenza. Ebbene sì, il ragazzo dagli occhi intensamente color nocciola non sapeva che da lì a qualche passo vi sarebbero state delle nuove persone con cui avrebbe condiviso... chissà! *
Alex Maxwell
Era stato il tedio, quel fardello incomprensibile composto da tanti se e altrettanti ma, a indurlo a uscire dal suo piccolo ma caloroso appartamento. Nonostante le lamentele della signora Graham circa il terreno scivoloso a causa della neve, pericoloso per chiunque, anche per uno come lui – lei intendeva sempre dire strano, non umano – che in assenza di personale, diceva, la coltre bianca non si spalava mica da sola! Nonostante questo rimbrotto continuo e la cicatrice sul polpaccio che si era un po’ arrossata a causa delle basse temperature, Alex si era armato di sciarpa, copricapo di tipo ušanka e cappotto, e si era diretto nel centro mondano della cittadina in cerca di svago e di un calore diverso – certamente non quello che si respirava nel suo b&b. Ma forse più che il tedio a spronarlo era stata la consapevolezza che, anche se si fosse distorto una caviglia o slogato una spalla scivolando sulla ghiaia o sulla neve, come lo aveva avvertito la carinissima signora Graham, dopo l’evento di Halloween niente lo avrebbe spaventato più di tanto. Il ricordo di quella notte era ancora evidente. Il livido intorno al suo occhio era diventato giallino, e la ferita che si era procurato su uno zigomo, sbattendo contro un’ascia decorativa, era quasi del tutto guarita, divenuta visibile soltanto come una sottile linea cicatrizzata e rosea. Il suo amante lo aveva esortato a usare una pomata per quella cicatrice, ma Alex aveva preferito il vecchio rimedio della nonna: impacchi di rosmarino e lavanda; e adesso la sua faccia profumava di primavera – mentre l’umore rimaneva più tetro di una notte invernale. < Un cappuccino e un donut fondente. > Alex depose un paio di banconote sul bancone del ravens e attese in silenzio, guardandosi intorno – le persone che, dietro di lui, in coda insieme a lui, lo ricambiavano disattente.
Gerte Heike A. Ivanova
Il bisogno di rinnovamento sembrava aleggiare in ogni angolo della città, forse dovuto alla festa di Halloween appena passata, o forse i cittadini avevano semplicemente voglia di qualcosa di nuovo. Per contro, il risentimento che impregnava l'aria di quel locale era ben noto alla fata, un borbottio che si poteva leggere nei volti dei presenti, come nei due giovani che aveva davanti a sé. « Che musi lunghi, ragazzi... Non ditemi che non apprezzate le novità che hanno organizzato in città. » Affermò la fata prendendo l'occasione di intavolare così il discorso su sui voleva andare a parare. Vi era tempo per presentarsi, lo avrebbe fatto con calma e senza spaventare nessuno dei due. La curiosità che spingeva la fata a intervistare anche completi sconosciuti nasceva dal suo bisogno di poter raccontare una storia, che avesse un fondo di verità ma che venisse comunque dalla normalità. S'avvicinò per ordinare un caffè d'asporto, macchiato e con una spruzzata di panna, prima di voltarsi in direzione dei due giovani. « Mi chiamo Gerte Ivanova, lavoro per il Raven's News e mi piacerebbe potervi fare qualche domanda, che ne dite, ci state? »
Kaleb Mieczyslaw Walker
* Il tedio non apparteneva a Kaleb Walker che, fin da quando aveva memoria, era sempre all'opera e sempre alla costante ricerca di qualcosa che avrebbe potuto rendere la sua esistenza più interessante. Quel qualcosa, nonostante le sfaccettature alquanto inquietanti, era contenuto in quella città, nella /sua/ Ravenfire. Non si era mai spostato da quella città, mai se non si contava qualche breve soggiorno vacanziero quando era decisamente più piccolo. Era per questo che l'affetto e l'attaccamento che provava per quella piccola città era davvero molto per Kaleb. Quei pensieri verso la propria città natìa fecero sì che Kaleb non percepisse le prime parole della giovane, ma l'attenzione le si rivolse quasi subito. Gli occhi curiosi di Kaleb osservarono prima la figura della donna, poi quella dell'altro che si trovava nelle vicinanze. * < Ehm... > * Cercò di dire qualcosa, ma l'imbarazzo lo bloccò per qualche secondo mentre, invece, la figura femminile sembrava essere pronta a presentarsi e a parlare con una certa spavalderia professionale. Fu a quel punto che il nostro giovane corrucciò le sopracciglia e alla fine annuì. * < Sì, ma di cosa si tratta?... E.. vorrei essere comunque un anonimo, sono figlio dello Sceriffo, non voglio mettere in difficoltà nessuno >
Alex Maxwell
Non immaginava che ordinando un cappuccino avrebbe ottenuto anche la possibilità di essere intervistato da una donnina del Ravens News, non era preparato, e non aveva altro tempo da perdere – nel suo b&b lo attendevano una serie di faccende burocratiche che andavano risolte, per non parlare del nuovo personale chiamato dalla signora Graham che andava approvato, della neve che andava spalata, e del gruppo di turisti proveniente da New York che andava accolto e, no, non poteva permettersi di rilasciare un’intervista e al contempo godersi l’unico bicchiere di cappuccino – consumato direttamente al Ravens – che si sarebbe concesso quel giorno. Si voltò dunque in direzione delle due voci, la prima da donna, una certa Gerte, e la seconda da uomo, a lui del tutto sconosciuta. < Sì, di cosa si tratta? > osservò entrambi mentre prendeva un sorso di cappuccino, attento a non imbrattarsi le labbra di schiuma. Un secondo sguardo più curioso lo aiutò a imprimere nella propria mente il volto di entrambi. La domanda che aveva posto poc’anzi finì per essere scacciata via da un’altra domanda ancora, che elaborò prima che uno dei due potesse dire qualcosa, e questa fu: < Perché non venite entrambi a pranzo da me? Mi trovate... uhm... > insinuò una mano nella tasca del cappotto per trovarvi un suo biglietto da visita, lo porse alla giornalista e lo indicò all’altro con un cenno del capo, facendogli capire che poteva tranquillamente dare un’occhiata anche lui – se voleva. < Nel mio bed and breakfast. Se siete d’accordo vorrei rimanere anch’io anonimo, e al momento non posso intrattenermi oltre. È una città piccola, credo conosciate la strada per arrivare al cimitero, il mio bed and breakfast si trova lì accanto. E ora vogliate scusarmi...> pagò quel che aveva ordinato e si avviò nuovamente verso l’uscita del café. Il cappuccino in una mano e nell’altra la scatola di donut al cioccolato fondente, la signora Graham avrebbe avuto da ridire anche sulla scelta di quella colazione, ma dell’intervista non era certo che avrebbe detto qualcosa.
Gerte Heike A. Ivanova
Essere discreti sembrava essere una condizione assolutamente necessaria per entrambi i giovani che richiedevano espressamente di rimanere anonimi. Comprendeva perfettamente la loro decisione, ed in qualità di redattrice non era poi così sorpresa della loro scelta. Sapeva che prendere una posizione non era cosa semplice, soprattutto se da quell'intervista ne avrebbe tirato fuori un articolo per il giornale. Aveva infinite domande da fare, piccole curiosità da soddisfare, ma chissà se i due avrebbero risposto. Con un sorriso sulle labbra, Gerte passò lo sguardo prima su uno e poi sull'altro, acconsentendo di spostarsi in un luogo decisamente più tranquillo. Osservò con attenzione il biglietto fornito da parte del giovane Maxwell, ed annuì. « E anonimato sia... Credo comunque sia meglio spostarci, e il bed & breakfast potrebbe fare al caso nostro. » Commentò la fata prima di vedere il giovane in fretta e furia pagare e andarsene. Il ragazzo sulla sedia a rotelle, invece, s'era dimostrato essere il figlio dello sceriffo, e di certo avrebbe avuto modo di avere qualche informazione in più. Certo, il suo obiettivo era raccogliere opinioni riguardo a queste nuove attività natalizie, ma nulla le vietava di chiedere informazioni riguardo alla festa di Halloween. La curiosità continuava a far strada nella sua mente e chiedersi, è stato realmente un incidente?
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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eleanordahlia · 4 years
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          && eleanor janssen          his office          #ʀᴀᴠᴇɴғɪʀᴇʀᴘɢ #ᴀʀᴄʜɪᴠɪᴏʀᴏʟᴇ
( ... ) Era ormai risaputo che per un dooddrear non era facile ubriacarsi con la stessa facilità con cui si ubriacava un essere umano, ma quella sera Ector ci stava provando con tutto se stesso. Aveva chiesto a Eleanor di raggiungerlo nel suo studio, nel Garage che aveva ereditato da Kit, e nell’attesa si era già dato da fare con una bottiglia di whisky ora completamente vuota. “Appena in tempo per le presentazioni.” Guld se ne stava accucciato ai suoi piedi, e aveva appena sollevato lo sguardo su Eleanor come se avesse capito che Ector, il suo nuovo padrone, stava parlando di lui. “Il canelupo si chiama Guld. Guld, questa è Eleanor.” con un gesto quasi teatrale indicò la doodd con il bicchiere alzato a mezz’aria. Poi la invitò a sedersi di fronte a loro. “Serviti pure... abbiamo whisky, cognac, brandy, la fata verde, vodka, rum...”
Eleanor Dahlia H. Janssen
Era interessante come bastassero poche parole per far sì che queste rimanessero scalfite nella mente di una persona, una mente che di certo era arguta come quella dell'esperimento. Quattro parole che bruciavano nell'animo di Eleanor, più di quanto non volesse ammettere nemmeno a se stessa, eppure aveva accettato quell'invito che appariva più strano che mai. I tacchi colpivano il pavimento dell'officina come tonfi, li sentiva perfino nel profondo ad ogni passo e solo quando giunse nello stesso ufficio in cui tempo prima aveva chiesto all'uomo il suo aiuto, trovò lo stesso intento ad accarezzare un pastore tedesco. Un angolo delle labbra si alzò in un mezzo sorriso nell'osservare l'animale, tese così una mano nella di lui direzione e come se la riconoscesse abbassò la testa per farsi accarezzare. Si prese il suo tempo la donna, godette della pelliccia di Guild prima di alzare lo sguardo in direzione, questa volta, del suo padrone. « Sei ubriaco... O comunque l'intenzione è quella. Qual è l'occasione? » Domandò mostrando una lieve indifferenza che le costava comunque un certo sacrificio. Fece poi un altro passo in avanti prima di prendersi una bottiglietta di birra e stapparla con un movimento rapido, quello era solamente l'inizio, ed era certa che avrebbe sicuramente avuto bisogno di qualcosa di più forte.
Ector Kelley
Distratto. Non poteva dirsi quindi attento ai movimenti della dooddrear né quando lei si avvicinò per esaminarlo, né quando, da sola, optò per una birra che stappò senza tante cerimonie. “Mh?” Il bicchiere continuò a dondolare nella sua mano, e lui alzò la testa per puntare soltanto ora lo sguardo azzurrino sul viso imperscrutabile di Eleanor. “Mi chiedi se sono ubriaco?” domandò retorico, invitandola a sedersi comoda sulla poltrona posta dinanzi a sé. Ubriaco lui non era, o almeno non pienamente, o come avrebbe voluto essere. In quel momento preferiva esser chiamato diversamente lucido... ma per via dei pensieri che avevano preso a macinargli in testa da bravo ingegnere meccanico. “Stavo pensando alla notte di Halloween, e a mio padre, e al fatto che adesso tu sei un dooddrear. Non è mica un caso che al party abbiano voluto colpire anche chi è umano? Mi chiedevo se potessero aver avuto il mio stesso pensiero.” Si alzò scavalcando Guld che era rimasto accucciato tutto il tempo davanti ai suoi piedi, e si avvicinò all’angolo bar prendendo il brandy. “Sei stata ferita?”
Eleanor Dahlia H. Janssen
Erano chiare le parole dell'esperimento, un dato di fatto, una constatazione e non solamente una domanda. Aveva acconsentito a presentarsi in quel luogo perché sapeva che Ector era colui che avrebbe potuto aiutarla, nel bene e nel male. Sentiva il gusto della birra scivolare lentamente lungo la di lei gola mentre osservava l'espressione sul suo volto e chiedersi che cosa gli stesse passando per la mente. Prese posto sulla poltrona lasciandosi cadere con uno sbuffo, un comportamento che tanto era più lontano da lei, ma che in quel momento appariva quasi necessario. Bevve un altro soriso del liquido dorato prima di voltarsi nella di lui direzione. Quando menzionò la festa di Halloween, l'attenzione divenne massima, ma era si accasciò su se stessa sentendo dove volesse andare a parare. « Nel limite del possibile. Un paio di slogature e una caviglia rotta. » Non disse tuttavia che il primo sguardo che aveva cercando quando venne risucchiata dalla folla imbazzita era quello del dooddrear, e non disse nemmeno che in quel momento era l'orgoglio ferito a parlare, eppure mostrò un'espressione quasi accondiscendente. "Potresti essere mia figlia", quattro parole che le bruciavano in gola, che facevano sì che fosse un miscuglio di rabbia eppure non sapeva verso chi fosse diretta, se nei di lui confronti, o semplicemente contro se stessa. « Tu? Sono finita in ospedale ma non ti ho visto. E quale pensiero hai avuto? »
Ector Kelley
“Non penso di aver capito bene. Stai forse imparando l’uso dell’ironia, Eleanor?” Insomma, venire a sapere di un paio di slogature e una frattura considerate come “il limite del possibile” sembrava un palese sfottò – e non solo perché era chiaramente poco lucido in quel momento. Il bicchiere di brandy venne riempito – non meno di due dita, ma in modo assai abbondante – nonostante l’occhiata che si sentì arrivare addosso. “Sì, sono ubriaco.” diede conferma a ciò che aveva detto la doodd poco prima di intavolare il discorso attentato-ad-halloween, mettendosi nuovamente comodo sulla poltrona posta dinanzi a quella di lei. E, che palle, pensò. C’era ancora il profumo di Harriet lì dentro, ricordava proprio la notte del trentuno ottobre, quando la biondina si era diretta nel suo studio subito dopo esser stata ferita – proprio come Eleanor – a quella tremenda festa che adesso cercavano di dissezionare come un cadavere. “Mi trovavo altrove quando è successo, ma sono rientrato per – onestamente non ricordo perché sono rientrato. E non credo, comunque, che un paio di slogature e una frattura siano cose da poco, anche per uno come noi due.” Disse, sciacquandosi il palato con un sorso di brandy e rimanendo concentrato su Eleanor, assumendo un’espressione quasi.. preoccupata? Troppo severa e seria? “Adesso come sta la tua caviglia?” Chiese, mentre cambiava posizione e si metteva scomposto, entrambe le gambe divaricate e le braccia distese sui braccioli della poltrona. Guld lo vide come un invito a mettersi nuovamente tra lui e la sua ospite, e si fermò in mezzo alle sue gambe, seduto come una statuetta egiziana, orgoglioso, soprattutto. “Non vorrei ricominciare da zero con gli allenamenti.” Stordito com’era a causa dei litri di alcol che aveva ingerito, il suo cervello aveva momentaneamente archiviato il motivo per il quale l’aveva invitata a passare da lì, e il pensiero che forse suo padre potesse c’entrare con il casino al Resort.
Eleanor Dahlia H. Janssen
Il gusto della birra era l'unica cosa che le stava mantenendo i nervi saldi in quel momento. Il sentore di rabbia che stava avvertendo dentro di sé stava per raggiungere decisamente un picco e non sapeva che cosa sarebbe successo se fosse accaduto. Ella si limitò così ad increspare le labbra prima di avvertire un leggero sarcasmo nelle parole del dooddrear. Sapeva quanto potesse essere duro, lo aveva capito durante i loro primi allenamenti, ma ora qualcosa stava cambiando. « Ho molte doti che non conosci, Keller... Tra cui anche l'ironia. » Una risposta piccata giunse dalle labbra della newyorchese, la quale ora osservò l'animale posizionarsi in mezzo alle sue gambe come un braco soldatino. Era fiero, orgoglioso e in qualche modo ciò fece nascere un sorriso sulle di lei labbra. « Sono finita in ospedale per un paio di notti, non di più. Vi sono stati casi ben più gravi per cui sì, nel limite del possibile sono stata fortunata... E nessun nuovo inizio, credimi, nemmeno io ho voglia di ricominciare tutto da capo. Piuttosto si sa che cosa sia successo? » Seduta su quella poltrona sentiva una rigidità che non le apparteneva, eppure in presenza di Ector qualcosa s'era rotto. Inspirò più volte prima di riuscire a calmarsi, almeno apparentemente, perché in fondo che altro avrebbe dovuto fare?
Ector Kelley
Per la prima volta in assoluto, da quando Lui e la Janssen si conoscevano, Ector rimase ad ascoltarla con molta più attenzione. Annuì quando c’era da annuire, acuminò lo sguardo, si fece serioso – paradossalmente serioso – e attento e silenzioso come in segno di rispetto. Insomma, Eleanor raccontava di quella fatidica notte del trentuno ottobre, e Lui sembrava ascoltarla per davvero, senza fare il minimo cenno di voler interrompere il suo discorso. “Potevi sempre chiamarmi, a modo mio ti avrei dato una mano.” Disse, non appena Lei ebbe terminato il suo racconto. Guld che ancora se ne stava comodo, accucciato e ben nascosto tra le gambe di Ector, il bicchiere di brandy lasciato a penzolare in modo precario nella mano del dooddrear, e una porta che veniva improvvisamente aperta: Simon era ora lì con loro. “Tornando a noi.” Riprese Ector, distogliendo lo sguardo dalla porta ancora chiusa del suo studio e portando nuovamente l’attenzione su Eleanor. “Non ho davvero la benché minima idea di cosa sia successo. Fino a qualche minuto fa pensavo potesse centrare qualcosa mio padre, ma ora non ne sono più così sicuro. Sono mesi che non ha risposto a...” si interruppe, ricordandosi d’improvviso che Eleanor non sapeva nulla di quello ch’era successo subito dopo l’incendio. Gli uomini che aveva colti sul fatto. Gli stessi uomini che marcivano ora nella sua cantina. Vivi per loro sfortuna. “Quando arriverà il momento lo saprai anche tu.” Continuò, chiudendo l’argomento, scacciandolo come si fa con una mosca; nel frattempo Simon perlustrava l'officina da cima a fondo. Ector riempì un bicchiere di brandy e successivamente lo passò a Eleanor. “Riprenderemo presto gli allenamenti, di questo non preoccuparti. E la città scoprirà chi è stato ad attaccarci alla festa. Fino ad allora, cerchiamo di starcene buoni. Mh?”
Eleanor Dahlia H. Janssen
Ridacchiò la giovane, come se Ector avesse fatto una battuta, eppure quel semplice ridacchiare nascondeva qualcosa di molto più amaro. Ella si ritrovò così a distogliere lo sguardo per un momento, ripensando a quanto era stata fortunata durante quella dannata festa. Erano tante le cose che non riusciva ancora a comprendere, come i tasselli di un puzzle che mancavano per poter completarlo. Le sembrava di brancolare nel buio ultimamente, eppure aveva cominciato a fare sempre più affidamento su quella natura che ormai faceva parte di lei. Umettò le labbra per un momento prima di prendere il bicchiere che Ector le porse, aveva decisamente bisogno di qualcosa di più forte che una birra, e quello era il momento giusto. « Cosa c'entra tuo padre? » Domandò inarcando un sopracciglio. Sapeva che non avrebbe comunque risposto a quella domanda, eppure la sua curiosità era difficile da fermare. Portò alle labbra il bicchiere con il liquido ambrato e ne bevve un sorso prima di cercare gli occhi del dooddrear. « Devo poter contare su ciò che ho adesso, Ector. E tu puoi aiutarmi a farlo. »
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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magicnightfall · 7 years
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HE CAN BE MY JAILER, BURTON TO THIS TAYLOR
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Sì, gente, sì, abbiamo capito che il video di ...Ready For It? e il testo di ...Ready For It? non c’entrano nulla l’uno con l’altro, non c’è bisogno di ripeterlo fino alla nausea, abbiamo afferrato il concetto. Ma se la cosa vi turba fin nei più reconditi recessi dell’animo, non temete, ho io la soluzione per voi: sostituite il testo con l’introduzione a Star Wars - Episodio III e sbam! problema risolto.
È guerra! La Repubblica crolla sotto gli attacchi dello spietato Signore dei Sith, conte Dooku. Si contano eroi in ambedue gli schieramenti. Il Male è ovunque. Con un'azione spettacolare, il malvagio comandante dei droidi, generale Grievous, è entrato nella capitale della Repubblica e ha rapito il cancelliere Palpatine, capo del Senato della Galassia. Mentre l'Esercito Separatista di Droidi cerca di abbandonare la capitale assediata insieme al prezioso ostaggio, due Cavalieri Jedi sono alla testa di un'impresa disperata: liberare il Cancelliere prigioniero...
Perché è vero che la canzone parla di un innamoramento - seppure con toni ben distanti da quelli carini e coccolosi a cui la vecchia Taylor ci aveva abituato (penso a Enchanted e alle sue “giocose conversazioni”, mentre qui abbiamo fantasmi, vendette, rapine e carcerieri) ma il video racconta tutt’altra storia, ponendosi in connessione più con (quella che si presume essere l’idea alla base di) reputation, che con il brano di cui è il commento visivo.
Non è infatti l’amore a tirare le fila della narrativa del videoclip, ma il dualismo introdotto già a partire dalla copertina dell’album, in cui il volto di Taylor è diviso a metà: da una parte la vera lei, e dall’altra quella invasa dalle scritte di giornale, cioè quella creata dai media per loro uso e consumo.
Ed è un dualismo che non è insito in Taylor, ma è invece esterno ed estraneo, perché calato dall’alto in modo del tutto arbitrario da soggetti terzi.
Nel video, infatti, ci sono due personaggi: uno, quello confinato in gabbia e che cerca in tutti i modi di liberarsi, è la vera Taylor, la metà a sinistra della cover dell’album. L’altro, quello vestito come un bacarozzo, è la Taylor creata dai media, la metà a destra della copertina.
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Ed è proprio perché il dualismo è esterno che queste due Taylor non possono - nel lungo termine  - esistere contemporaneamente, in quanto antitesi l’una dell’altra.
I due personaggi non rappresentano le contraddizioni connaturate ad uno stesso soggetto, contraddizioni tipiche (e quindi la loro contemporanea esistenza sarebbe perfettamente legittima) di ogni persona in quanto tale perché nessuno di noi è solo bianco o solo nero, ma contraddizioni imposte da altri. Viceversa, sarebbe stato tutto un altro discorso, un altro video, un altro album.
Prendete Lo strano caso del Dr. Jekyll e del signor Hyde: è vero che all’esterno i due esistono a turno, ma è anche vero che all’interno esistono contemporaneamente: la pozione, infatti, non crea dal nulla una nuova personalità malvagia, ma fa emergere le inclinazioni che già erano presenti, anche se nascoste, nel buon Jekyll. Non c’è nulla di estraneo, tant’è vero che sia Jekyll che Hyde hanno memoria di l’uno dell’altro e Hyde può scrivere con la scrittura di Jekyll. A differenza delle Taylor di questo video, la cui dicotomia è senza dubbio esterna, quella di Jekyll e Hyde è invece interna.
Se volessimo restare nell’ambito della letteratura britannica, a questo video si attaglierebbe quindi la profezia pronunciata da Sibilla Cooman in Harry Potter e l’Ordine della Fenice, secondo cui “L’uno dovrà morire per mano dell’altro, perché nessuno dei due può vivere se l’altro sopravvive”.
E non è un caso, allora, che alla fine la vera Taylor prenda il sopravvento e uccida quella falsa, proprio perché non è possibile che esistano entrambe.
Già la stessa Look What You Made Me Do, che peraltro è anche il primo singolo estratto (quasi a voler fornire una sorta di indirizzo programmatico a tutta l’opera), poneva il dualismo in termini netti - quelli della vita e della morte - e in maniera assolutamente esplicita, senza perifrasi o eufemismi di sorta: “the old Taylor is dead”, mica “the old Taylor andò a ricevere il premio della sua carità”, che era il modo in cui Manzoni ha fatto sapere ai suoi lettori che un ignoto benefattore era schiattato prima di vedere l’incredibile raccolto di noci del suo albero rinsecchito.
Ma lì, in effetti, veniva affrontata una diversa sfumatura di quella contrapposizione: non vero contro falso, ma vecchio contro nuovo. La vecchia Taylor, quella ingenua, contro la nuova Taylor, quella nonmenefregapiùuncazzodinientefaccioquellochevogliocià.
Tutte e due legittime perché tutte e due vere (anche se la seconda nasce come reazione a fattori esterni, i media), che se in privato possono coesistere tranquillamente, per quanto riguarda il personaggio pubblico ne può esistere solo una alla volta, tanto che la vecchia Taylor è dovuta proprio morire.
(esattamente come Jekyll e Hyde, in pubblico, non esistono contemporaneamente)
E come il video precedente, anche questo è ricco di simboli, roba che ne avrebbe scritto anche Umberto Eco... se non fosse andato a ricevere il premio della sua carità.
Già il fatto che le due Taylor si pongano in contrapposizione visiva così evidente, una “nuda” e l’altra vestita come un Signore dei Sith, è un’immagine molto potente: la prima sembra voler dire “guardatemi per quella che sono, questa è la vera me”,
(but that’s what they don’t see...)
mentre la seconda indossa tutte le falsità e le bugie attribuitele nel corso degli anni.
Alla luce di tutto quanto sopra, ho trovato interessante il fatto che la falsa Taylor cerchi un contatto con la vera Taylor, quasi come volesse convincerla (e convincerci) che in realtà loro due sono solo le facce della stessa medaglia, e lei non è affatto un personaggio creato a tavolino dai giornali.
“Touch me and you’ll never be alone” nel senso, allora, che basterebbe un solo tocco perché la vera Taylor ne resti per sempre “macchiata”.
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Tuttavia l'altra non ci casca e la affronta con tutto quello che ha, riuscendo a prevalere.
E senza dubbio non è un caso che la contrapposizione sia anche cromatica: la vera Taylor è bianca, la falsa Taylor è nera: luce contro tenebre, bene contro male, una rappresentazione immediata ed efficace vecchia come l’umanità stessa e in auge ancora oggi, basti pensare a come vengono “colorati” buoni e cattivi nei film Disney (qui una mia analisi nel dettaglio).
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Il video è altresì disseminato di graffiti, da “This is enough” a “Ur gorgeous”, passando per “I love you in secret” e “They’re burning all the witches”, perché ormai Taylor non si accontenta più di dirci le cose attraverso le metafore delle canzoni, ma proprio esplicitamente (quel “This is enough” non vi viene da tradurlo con un bel “emmòbastaveramente”?).
Ora, per concludere finalmente un post che nasceva incartato fin dalla prima riga che ho scritto, capisco le perplessità di chi ritiene questo video poco originale e lo considera già visto (c’è in effetti chi l’ha paragonato a Bad Blood per via dell’ambientazione fantascientifica).
Tuttavia a me sembra che stia emergendo una sorta di pattern, per cui la videografia di questa era si dimostrerà perfettamente coesa: video coerenti tra loro, ma che viaggiano su un binario diverso rispetto ai testi.
Per questa ragione mi sto sempre di più convincendo che si tratterà di un “visual” album, cioè verrà rilasciato un video per ogni canzone. E spero davvero che sarà così, perché questo in particolare ha più il sapore di una premessa che di un prodotto completo in se stesso, e sembra quasi che l’idea alla base di reputation, perché possa essere raccontata al meglio, debba essere visivamente raccontata con tutte le canzoni a disposizione, e non solo con una manciata di singoli.
P.S. meno 13.
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r-roiben-r-blog · 7 years
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Samfuin
Samfuin
Gli ultimi, rosseggianti bagliori del tiepido sole autunnale si stanno in quel momento ritirando oltre l’orizzonte scuro del villaggio. Socchiude gli occhi, inspirando con calma il profumo dolce dell’aria circostante. Lentamente, poco per volta, le finestre si illuminano fiocamente e la notte avanza, portando con sé un venticello frizzante. In lontananza può già scorgere i primi chiarori del fuoco. “Strane usanze umane, dopo tutto” si sofferma a pensare, osservando con curiosità i sentieri, un attimo prima deserti, tornare ad accogliere nuova vita.
«Notte strana, sì, ma notte infine» mormora, abbozzando un ghigno pigro.
Con passi lenti e cadenzati varca i confini del villaggio e si addentra nelle vie ricolme di umani, scivolando agevolmente fra i corpi mortali di passaggio come un’ombra impalpabile. Non ha desiderio di mostrarsi, non in quel momento per lo meno. Ci sarà tempo più tardi, forse. Ora è il momento di godersi la tensione dell’attesa, la seduzione dell’anticipazione, il brivido della caccia. “Oh, sì. Delizioso” riflette fra sé, estasiato. Ridacchia divertito, procedendo senza fretta e osservando l’evolversi di un rituale che si perpetra di anno in anno. Gli sfugge un sorriso compiaciuto, nemmeno se ne rende conto, e se anche così fosse, perché preoccuparsi? Non è certo tenuto a mantenere un contegno serioso; è perfettamente libero di agire come meglio crede e, in quel momento, crede di potersi permettere di bearsi un po’ della follia umana, perché no?
Molti degli abitanti di quel villaggio si sono ormai radunati attorno alla modesta piazza, nel centro della quale arde un grande falò alimentato dalle scorte accumulate durante gli ultimi mesi. Il chiarore dorato dardeggia bruciante sui volti di uomini e donne, perfino di bambini, che fissano entusiasti il crepitio sinistro e selvaggio delle fiamme riflesse nei loro occhi brillanti.
Si gode tutto questo dal tetto spiovente di una delle case adiacenti la piazza, mantenendosi in parte nell’ombra senza mai perdere d’occhio l’evolversi della serata, ma gustando ogni momento come un buon vino. Lo scoppiettio ardente induce i più piccoli a strillare, sgomenti e soddisfatti insieme, e le sue labbra si schiudono lasciando che i bagliori facciano scintillare una chiostra di affilati denti candidi come la neve appena caduta.
Perdersi una nottata proficua e interessante come quella sarebbe stato un orrendo spreco, un vero crimine per lui. Purtroppo non può essere presente a ogni singola cerimonia, ma si cura ugualmente di far visita a un villaggio differente ogni anno, così da non doversi mai annoiare. Dalla sua gola scivola un piccolo sbuffo divertito, riflettendo che la sua presenza possa ben essere considerata una sorta di onore, per quegli umani che celebrano gli spiriti con il fuoco; probabilmente un qualche tipo di ospite d’eccezione e, in fondo, ciò che loro offrono a lui non può che essere l’adeguata contropartita a ciò che lui porta loro.
Socchiude gli occhi, individuando l’apparire fugace di un bagliore argenteo nel mezzo del falò. Nessun altro, a parte lui, sembra averlo notato. Poco dopo una figura eterea prende il posto del bagliore, spostandosi con ammirevole grazia fra i ceppi ardenti e poi fra la folla concentrata.
Uno sbuffo stranito accompagna lo scuotersi della sua testa. L’apparizione solleva il volto e punta i suoi occhi perlescenti direttamente su di lui, senza dar segno della minima sorpresa per altro. Le sue labbra sottili e delicate si arricciano in un grazioso sorriso divertito e i suoi piccoli piedi nudi si muovono agili nella direzione dello spirito oscuro. I suoi lunghi capelli argentati brillano, alla luce delle fiamme, più dell’esile spicchio di luna calante che si muove lentamente nel cielo notturno.
Nel momento in cui lei gli si accosta, lui solleva un sopracciglio e soffia una mezza risata.
«Da quando te ne vai a spasso fra i mortali?» le chiede, suo malgrado incuriosito.
Il sorriso di lei diviene enigmatico. Accosta una mano diafana, sfiorando distrattamente una manica scura della veste dell’altro, poi solleva lo sguardo al cielo nero.
«È una bella serata» si limita a mormorare.
La fissa con cipiglio critico, spostando di tanto in tanto gli occhi sulla cerimonia in corso alle spalle di lei.
«Indubbiamente. Ma ciò non ha mai costituito un valido motivo per abbandonare il tuo castello. Che cos’ha per te di speciale questa serata, rispetto alle altre?».
Lei si volta appena, soffermandosi per qualche lungo istante sullo splendore del falò. Muove un polso, creando un cerchio che per un breve momento brilla argenteo ma che scompare presto nell’oscurità.
«Ci sarà uno scambio di anime importante. Era mio dovere essere presente».
«Lavoro, quindi» borbotta lui, un pizzico deluso.
«Che altro?» domanda lei, divertita.
La scruta brevemente e di nuovo scuote la testa, stavolta perplesso.
«Secondo il mio parere dovresti svagarti di più, Arianrhod. Non esci mai dal tuo regno e quelle rare volte in cui lo fai è unicamente per seguire personalmente qualche noioso processo di scambio d’anime. A che scopo essere immortale se passi l’eternità a sgobbare?» lamenta lo spirito oscuro.
Lei sorride. Non ha mai smesso in effetti, ma ora è decisamente un sorriso ilare.
«Pitch, non tutti siamo perdigiorno come te» lo sbeffeggia.
Lui sgrana gli occhi e le lancia uno sguardo urticante.
«Non sono affatto un perdigiorno!» protesta con veemenza.
«Certo che sì. Esci quasi esclusivamente la notte. In che altro modo dovrei definirti?» scherza beatamente lei.
Lo scoppiettio del falò copre il suo ringhio irritato. Picchietta nervosamente un piede sulla parete dell’abitazione e incrocia rigidamente le braccia al petto.
«Creatura dell’oscurità sarebbe più che accettabile. O, ancora meglio, Signore delle tenebre» annuisce, compiaciuto.
Lei, per tutta risposta, soffia una risatina. «Molto divertente, Pitch. Ma temo che siano titoli già presi» rimarca con un ghigno perfido.
Al che lo spirito oscuro si imbroncia e distoglie lo sguardo, tornando a concentrarsi sul fuoco e sui volti degli umani raccolti attorno a esso.
«Solo perché sono l’ultimo arrivato, ciò non ti dà il diritto di burlarti di me» soffia piccato e piuttosto offeso, senza distogliere lo sguardo dalla cerimonia.
«No, è vero. Sono stata scortese, perdonami» ammette con voce lieve.
«Mhf» soffia, ancora imbronciato.
Il silenzio cala tranquillo. Perfino gli strilli elettrizzati dei bambini si sono acquietati. Entrambi gli spiriti sono intenti a seguire lo svolgersi dell’annuale rito officiato da uno dei druidi dell’isola.
«Che cosa senti?» mormora appena Arianrhod rivolta all’altro spirito nonostante stia ancora seguendo le parole del celebrante.
Un soffice fremito scuote la scura figura di Pitch. Chiude gli occhi e può quasi avvertirla sulla sua pelle.
«Angoscia ed eccitazione. Paura e speranza. Impregna l’aria e mozza il respiro. È… stordente, ma è l’unica cosa che mi fa sentire vivo» ammette, rabbrividendo ancora.
«È bello?» si accerta.
L’adocchia un solo momento, tornando in fretta sulla piccola folla assiepata in piazza.
«Sì» soffia, un po’ perso, «lo è».
La falce di luna è da poco tramontata e le fiamme si stanno ormai esaurendo. Ogni famiglia ha ora con sé una piccola fiaccola con un poco di quel nuovo fuoco che riscalderà le loro case per l’ormai prossimo inverno.
«Un pochino ti invidio, in effetti» esordisce Arianrhod rompendo il protrarsi del silenzio.
Lui distoglie a fatica lo sguardo dalle fiamme morenti e la guarda interdetto.
«Perché mai? Mi sembrava d’aver inteso ch’io fossi poco più di un fastidioso moscerino per te e gli altri» sibila seccato.
«Non lo sei» replica, appoggiandosi contro la sua spalla e facendo ondeggiare i piedi nel vuoto sotto il tetto sul quale sono seduti. «Invece credo tu sia uno spirito molto particolare. Tu non ti limiti ad avvertire le emozioni altrui, le provi anche».
«E con questo?» borbotta, arricciando il naso un po’ infastidito.
«Non sono molti quelli di noi che possono farlo» cerca di spiegare, pacata. «Provare emozioni, sentimenti umani, intendo» specifica.
Lui scuote la testa, incerto, fissando le proprie mani con la fronte aggrottata.
«Non è poi nulla di eclatante, te l’assicuro. Potendo, ne farei felicemente a meno».
«No» sibila seccamente lei, facendolo sussultare per la sorpresa e lo sconcerto (per non parlare del tono, non comune nella voce solitamente dolce ed eterea di lei).
«Come?» chiede incerto.
Lo sguardo di lei, poco prima metallico, torna a essere sereno.
«Non ne farai a meno. È quello che sei e non puoi cambiarlo, non senza cambiare te stesso» ragiona tranquilla.
Pitch sbuffa una risata incredula e solleva lo sguardo al cielo d’inchiostro.
«Scommetto che vi divertite pazzamente a uscirvene con certe frasi così disgustosamente filosofeggianti» bercia stizzito.
«Non sai quanto» ridacchia Arianrhod.
«Allora, dove sono queste anime tanto speciali da costringere la Signora della morte ad abbandonare il suo castello?».
Lo osserva con curiosità, soffermandosi sui suoi occhi concentrati ancora sulla piazza che va svuotandosi.
«È ancora presto. Saranno qui prima dell’alba» annuncia serena. «Mentre aspettiamo, che ne dici di accompagnarmi a fare una passeggiata?» propone allegra.
Distolto ancora una volta lo sguardo dagli umani, Pitch lo volge lentamente su di lei e solleva un sopracciglio, scettico.
«Ma che romanticismo» soffia sarcastico. «Una passeggiata sotto le stelle».
Lei gli sorride, sorniona, e gli dà una leggera spinta con la spalla.
«Avanti. Cos’hai da fare qui, in fondo? La cerimonia è conclusa, ormai».
Pitch sbuffa ma, seppur recalcitrante, annuisce.
«Mai, mai, mai contrariare uno spirito dimensionale» scherza con una sfrontata vena critica. «O si corre il rischio di ritrovarsi ingabbiati in qualche mondo alternativo e senza uscite di sicurezza».
«Oh, polemico!» lo rimprovera bonariamente Arianrhod. «Non lo farei. Al massimo potrei pensare di chiuderti in una gabbietta e conservarti sul comodino della mia camera da letto» ridacchia, facendo strabuzzare gli occhi del suo accompagnatore che, inquietato, rabbrividisce involontariamente.
«Sei abbastanza spaventosa, lasciatelo dire» borbotta offeso, con una sfumatura grigiastra e malaticcia sul volto.
«Sì? Beh, grazie. Detto da te dev’essere un vero complimento» lo prende amichevolmente in giro.
Di tanto in tanto Pitch sposta lo sguardo sull’esile figura eterea e a tratti evanescente che lo affianca sul cammino e si chiede quale possa essere il reale motivo della sua presenza lì quella notte. Se avesse semplicemente dovuto occuparsi di quelle anime sarebbe comparsa qualche istante prima del trapasso per scomparire nuovamente qualche istante dopo. È già accaduto in passato, dopo tutto. Invece si trova a passeggiare tranquillamente nella notte buia, apparentemente ignara dei crucci di lui e perfettamente a suo agio in un mondo che non le appartiene.
«Perché?» mormora confuso.
Lei si volta al suono della sua voce e lo osserva incuriosita.
«Come hai detto?» domanda gentile.
Scuote la testa, soffermandosi sui suoi capelli argentei che a tratti sembrano fluttuare, quasi fossero più leggeri dell’aria stessa.
«Mi chiedevo solo perché sei qui, realmente?».
Lei sorride di un sorriso un poco triste e reclina appena il capo di lato. «C’è qualche motivo preciso per cui non potrei godermi una serata di pace, di tanto in tanto?».
Pitch soffia una ristata soffocata e un po’ vuota. «Pace, dici? Sono certo che tu abbia notato che per la tua seratina di pace, amore e armonia con l’universo hai scelto giusto la notte in cui gli umani celebrano gli spiriti, mortali e immortali».
«L’ho notato, in effetti» annuisce, senza preoccuparsi di nascondere un sorrisetto birbante.
«E…?» insiste lui.
«E nulla. Ne avevo voglia, tutto qui».
«Tutto qui» ripete lui in un mormorio pensieroso.
«La mia presenza ti infastidisce, Pitch? Forse ho rovinato il tuo momento di svago?».
Il ghigno che si apre sul volto dello spirito oscuro è tutt’altro che piacevole.
«Se così fosse?» sibila. «Ma no» sbuffa, allargando appena le braccia. «Ogni tanto mi piace condividere» ammette con leggerezza. «Tuttavia devi concedermi che è piuttosto strana la tua presenza qui, in una notte come questa, per di più con la luna calante» si incaponisce.
«Forse» concede con un piccolo sospiro. «Desideri che ti lasci solo?» si accerta.
Le fa un cenno di diniego e avanza di qualche passo, invitandola silenziosamente a riprendere la passeggiata.
«Come ti trovi qui nel mondo degli umani?» riprende d’un tratto la parola lei.
Lui si prende qualche minuto per riflettere, mentre inspira l’aria della notte e si perde a scrutare le stelle lontane.
«Non poi così male come temevo, in effetti. A volte mi mancano gli spazi infiniti oltre questo pianeta, ma devo ammettere che le creature che lo popolano concorrono a tenere vivo il mio interesse e a non permettermi di annoiarmi con facilità».
«Ti capita mai di sentirti solo?» mormora esitante.
Pitch abbassa rapidamente lo sguardo e lo incrocia con quello di Arianrhod, non del tutto sicuro di ciò che ha appena sentito.
«Parli sul serio?» si accerta.
«Sì».
Arriccia il naso e socchiude gli occhi affilando lo sguardo. «Ho scelta, forse? Pensi che cambierebbe qualcosa se lo ammettessi?» ringhia, fermando i suoi passi. «La risposta è no, a entrambe le domande».
«Pitch…» tenta, incerta.
«Che cosa vuoi?» sibila.
«Nulla, era solo…».
«Curiosità?» la interrompe bruscamente. «Te la puoi tenere. Puoi prendere la tua futile filosofia e tutti i tuoi bei propositi e ficcarteli…».
«Pitch!» sbotta Arianrhod, ottenendo uno sbuffo decisamente irritato in risposta. Sospira, passandosi nervosamente le dita fra i capelli in un gesto frustrato. «Che sciocchezza. Non intendevo offenderti. Era solo… solo un innocente scambio di opinioni» prova.
«Innocente, come no» bercia stizzito, riprendendo a camminare, o forse, dato il passo sostenuto, sarebbe più corretto dire marciare attraverso i declivi erbosi che circondano il villaggio.
Per stargli dietro lei è costretta a spiccare una breve corsa che la fa somigliare a una farfalla, dato che quasi i suoi piedi non toccano il terreno.
«Avanti, non ti arrabbiare» lo blandisce, pacata. «Le rughe non donano per nulla al tuo viso» scherza, strappandogli uno sbuffo suo malgrado divertito.
«Evita di insistere sull’argomento, se desideri che non me la prenda» l’ammonisce, più tranquillo, osservandola annuire.
Improvvisamente, nel bel mezzo di un lungo momento di tranquillo silenzio, Arianrhod ridacchia, palesemente divertita da qualche particolare che evidentemente sfugge al suo accompagnatore, al momento. “Sembra una bambina felice” si ritrova a pensare lo spirito oscuro.
«Che succede?» si informa incuriosito.
«Oh, nulla di importante, in verità. È solo che, in effetti, un paio di conoscenti me ne avevano parlato precedentemente, ma non sapevo se crederci o meno. Devo invece ammettere che avevano ragione».
Pitch aggrotta la fronte, perplesso, e scuote piano la testa senza riuscire a dare un senso al discorso di lei.
«Di cosa stai parlando? Non ti seguo» riconosce.
Arianrhod lo occhieggia con malizia e ghigna divertita, prima di saltellare, agile e leggera, un poco più distante.
«Del tuo pessimo carattere. Prendi fuoco come paglia secca sotto il sole d’agosto» soffia, allargando il ghigno.
Gli occhi di Pitch si sgranano, attoniti. Inspira bruscamente una boccata d’aria e ringhia. Ma lei si è già allontanata con pochi balzi e una rapidità sconcertante e a lui non rimane che pestare stizzosamente un piede a terra e sbuffare sonoramente il proprio disgusto.
«Me la paghi» minaccia risentito. «Vedrai se non è così».
«Non vedo l’ora» bisbiglia al suo orecchio, prima di sparire nell’aria fresca, lasciandolo nuovamente solo.
Sospira e, suo malgrado, stiracchia un piccolo sorriso poco convinto.
Riprende a camminare lentamente, senza avere ben in mente dove andare. Il mare, vicino, porta fino a lui l’aria salmastra che ha l’effetto di placare un po’ la sua agitazione. Ancora una volta solleva lo sguardo sulla volta celeste e osserva le stelle. Così lontane, troppo oltre la sua portata, ormai irraggiungibili.
Chiude gli occhi, scivola fra le ombre e un momento dopo è nuovamente a ridosso della piazza. Del falò non rimangono che pochi tizzoni ardenti, ma al loro fianco c’è ancora qualcuno: un essere umano dai capelli grigi e dalla lunga tunica verde scuro; uno di quei sacerdoti che officiano le cerimonie per il popolo. Sembra incantato a osservare le braci morenti. Pitch reclina il capo, incuriosito, e si fa più vicino, così da poterlo osservare con più agio. Quando il bordo della sua veste d’ombra entra nel raggio del fioco bagliore ancora presente, lo sguardo dell’uomo si solleva lentamente e si ferma su di lui, fissandolo diritto negli occhi senza apparente sorpresa.
«Sei uno spirito?» chiede pacato.
«Così dicono» commenta Pitch, senza particolari inflessioni nella voce.
L’uomo rimane in silenzio per qualche tempo, come intento a studiare l’apparizione e a trarne le dovute conclusioni.
«Non sei qui per farci del male».
Non è una domanda, la sua. Pitch aggrotta un sopracciglio, incerto.
«La vostra vita non rientra nei miei interessi. Sono qui per le vostre emozioni».
Non sa perché gli sta parlando. Forse perché non sono molti gli esseri umani che possono vederlo. A volte gli altri spiriti si rivelano un po’ troppo pieni di sé, tanto che trova difficoltoso tenere a bada quello che Arianrhod ha poco diplomaticamente definito un pessimo carattere.
«Emozioni…» mormora l’uomo, pensieroso. «La cerimonia. È per questo che sei qui. Le persone sono eccitate e spaventate, e tu… puoi sentirlo».
Un angolo delle labbra di Pitch si solleva appena, mostrando un po’ del suo compiacimento. “Un mortale piuttosto intelligente e percettivo: interessante”.
«È così» conferma.
L’uomo lo soqquadra, incuriosito, ma senza mai muoversi dalla posizione in cui si trova.
«E l’altra creatura, quella bianca comparsa dal fuoco?».
Pitch socchiude di poco le labbra e sgrana impercettibilmente gli occhi, suo malgrado intrigato. Annuisce, a mostrare di aver compreso a chi si stia riferendo.
«Era qui per il medesimo motivo?» conclude l’uomo.
Lo spirito scuote lentamente il capo e si mordicchia discretamente un labbro, indeciso.
L’uomo sembra tuttavia comprendere la sua reticenza e gli indirizza un discreto cenno di accettazione con il capo. Non è necessario che gli parli dell’altra creatura, se non lo crede prudente.
Piano, Pitch arretra, uscendo dal vago chiarore e tornando nelle tenebre, ancora seguito dallo sguardo brillante del mortale. Volta le spalle e svanisce nel nulla, lasciando l’uomo solo ai suoi pensieri.
Fine
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     🏈💥     —      𝐍𝐄𝐖 𝐑𝐎𝐋𝐄      𝐞𝐥𝐨𝐝𝐢𝐞 𝐚𝐝𝐚𝐦𝐚𝐧𝐭𝐢𝐧𝐞 & 𝐥𝐨𝐫𝐞𝐧𝐳𝐨 𝐯𝐚𝐧𝐞      ❪    ↷↷     mini role ❫      c   o  l   l   e  g  e      26.08.2019  —  #ravenfirerpg
Quando arrivava la fine di agosto, si poteva tranquillamente affermare che l'estate era agli sgoccioli, soprattutto per il fatto che un nuovo anno accademico stava per cominciare. Le serate fuori, le bevute con gli amici sembravano un lontano ricordo, ma ciò che non poteva andare via dalla mente erano quelle sensazioni che s'erano create negli animi di coloro che avevano partecipato al Coachella. Il timore e la rabbia erano le sensazioni che più si avvertivano in ognuno dei cittadini di Ravenfire, e per quanto la veggente non fosse rimasta vittima di quegli avvenimenti, il suo animo era ancora scosso. I giorni erano trascorsi in modo lineare, ma con quel sentore costante che qualcosa non quadrasse. V'era forse qualcosa che tutti loro non conoscessero? Giunta, tuttavia, a quel lunedì mattina, Elodie non si lasciò intimidire dai brutti pensieri e si preparò per andare al college. Era importante per lei, impegnarsi a fondo in qualcosa che per suo padre era diventato così vitale, ma soprattutto fin da piccola ne era rimasta affascinata. Arrivò al campus dove si ergeva l'imponente struttura a metà mattina, le lezioni non erano ancora incominciate, ma quel via vai di persone sarebbe incrementato nei giorni a seguire. Il sorriso sulle di lei labbra non poteva essere più contagioso e solo quando trovò un tavolino libero nel giardino circostante, la veggente prese posto. La Dalì odiava presentarsi impreparata, anche ai primi giorni di lezione e, nonostante avesse superato gli esami brillantemente, v'era sempre tempo per qualche approfondimento in più. Immersa completamente nella lettura di quel trattato di psicologia, alzò lo sguardo solamente quando una persona le fece un cono d'ombra.
Lorenzo Vane Hunt
Lorenzo era molto impegnato in quei giorni, quando si trattava di dare il benvenuto per il nuovo anno, lo chiamavano sempre e lui spesso visitava il college, facendo interventi e conferenze. Non aveva scelto di insegnare psicologia perché il suo scopo non era insegnare agli altri, principalmente era lui che voleva continuare ad imparare ed aiutare le persone a capirsi. Era bravo nel proprio lavoro, il suo studio era sempre cosparso di oggetti che nessuno avrebbe usato per il proprio ruolo. Aveva pazienti adolescenti e di tutte le età maggiori, ma per avere la loro fiducia non sfruttava i poteri, faceva colazione con l'anziana Juditte, giocava a scacchi con Michael e a mini pallacanestro con il ragazzino del caso al quale la polizia indagava. Entrava nel loro mondo silenziosamente, con il loro invito e mai con distacco. Era andato a consegnare una dispensa in segreteria e passando dal cortile si fermò vicino alla ragazza, piegando il capo per leggere il titolo del libro che stava studiando. - Interessante lettura, ti prepari per i corsi oppure é una scelta personale?- Eccolo là, mani in tasca, occhiali da sole e ancora quella barba incolta, chi non lo conosceva lo avrebbe scambiato per un professore.
Elodie Adamantine G. Dalì
Provare continuamente ad eccellere in qualcosa a cui teneva particolarmente era il nuovo scopo della Dalì che, da quando aveva scoperto quanto le piacesse il campo del padre, aveva fatto ogni cosa per brillare e dimostrare quanto fosse una degna erede del famoso psicologo criminale. Studiare e ancora studiare per poter capire quanto la mente potesse essere perversa, enigmatica eppure v'era un lato della veggente che sembrava dominare in quel carattere così espansivo e leale, una spensieratezza difficile da eguagliare. Elodie impiegò qualche secondo di alzare lo sguardo ed osservare che le avesse oscurato parzialmente la visuale, una figura alta, spalle larghe ma con un'espressione che la giovane non sapeva esattamente identificare. « Direi entrambe, qualche approfondimento in più non fa mai male... Ma da come osservi il mio manuale di psicologia clinica, sembri averlo già letto. » Difficile era per Elodie tenere la bocca chiusa, ma quel sorriso così contagioso faceva sì che il più delle volte nessuno si arrabbiasse dei suoi modi così schietti. Come se volesse fargli cenno che l'uomo poteva accomodarsi di fronte a lei, Elodie si scostò appena per concedersi un'occhiata più accurata. « Ma per quanto tu possa essere giovane, non sei affatto uno studente... Sbaglio? »
Lorenzo Vane Hunt
Enzo non era " in borghese", si, amava profondamente confondersi tra gli studenti ma non si nascondeva propriamente da essi, anzi ricercando il modo per comunicare e metterli a loro agio, spesso si fermava con loro a parlare, come in quel caso . Accennò un sorriso, alzando gli occhiali per abbandonarli tra i capelli corvini. Era una ragazza molto attenta, si notava, come si notava il fatto che non avesse problemi a dire quello che pensava, anzi. Annuì Lorenzo, indicando il libro. - La seconda parte è la migliore, credo di averlo letto almeno tre volte. Comunque, sono Lorenzo Hunt, psicologo. Di tanto in tanto mi chiamano per tenere qualche conferenza.. - Ammise senza problemi, magari aveva seguito qualcosa negli anni o forse no, ma la cosa più importante era che avesse potuto darle un consiglio su quel libro. - Ottima lettura, veramente , a che anno sei?-
Elodie Adamantine G. Dalì
Diretta e per nulla intimorita, Elodie non aveva paura di esporre il proprio pensiero, anche con perfetti sconosciuti come in quel momento. Aveva abbandonato temporaneamente la lettura del suo libro per rivolgere completamente l'attenzione all'uomo che, una volta tolto gli occhi occhiali, mostrava un aspetto curato e un poco intellettuale. Il sorriso che curvò le labbra della veggente divenne più ampio nel sentire la sua presentazione, soprattutto perché quel nome la ricollegava ad alcune conferenze che aveva avuto modo di ascoltare. « Ecco dove mi sembrava di averti già visto... Credo di averne sentite un paio la primavera scorsa. Mi chiamo Elodie Dalì. » Si presentò la giovane mostrandosi educata, ma soprattutto interessata alla materia. Fin da piccola Elodie aveva mangiato pane e psicologia, assieme al padre, la veggente aveva sviluppato una passione per tutto ciò che riguardava il comportamento umano e il suo essere veggente era stato di certo un buon vantaggio in quello studio. Si ritrovò poi ad abbassare per un momento lo sguardo sul libro di testo che teneva ancora tra le mani prima di alzare di nuovo gli occhi e osservarlo. « In settembre inizierò il quarto anno... Sembra ieri quando sono entrata come una matricola. Ma non stare in piedi, puoi accomodarti, e probabilmente non dovrei nemmeno darti del tu.. Mi scusi! »
Lorenzo Vane Hunt
Lorenzo non era un ragazzo che cercasse di mettere distanza tra lui e gli altri, anzi era il netto contrario, si confondeva tra gli studenti, cercava di trovare ogni modo possibile per mettere a loro agio i pazienti, così anche in quel caso, con il suo solito sorriso, lo psicologo scosse la testa. - Affatto, puoi darmi del tu, neanche quando sarò un vecchio con la dentiera vorrò farmi dare del lei, perché la figura dello psicologo deve dare sollievo, deve stimolare alla fiducia, alla comprensione, non spaventare o desiderare incutere terrore reverenziale.. Io odiavo tutti i miei insegnanti.. tutti meno che uno, lui la pensava come me.- Prese posto vicino alla ragazza, il veggente assottigliò lo sguardo, non ricordava di averla vista, probabilmente perché molte erano le persone che assistevano alle sue conferenze. - Bene, appurato che tu sia una appassionata di psicologia e di sicuro una studentessa modello, ti piacerebbe discutere di qualcosa in particolare?-
Elodie Adamantine G. Dalì
Il comportamento di Elodie era piuttosto spiccio, soprattutto nei rapporti con gli altri ma sapeva essere anche estremamente educata quando la situazione lo richiedeva. In quel momento la Dalì si sentì quasi in imbarazzo per aver dato del tu ad una persona che poteva essere perfino un suo professore e solo quando sentì la sua replica, non poté non ridacchiare. « Lei... Tu potresti essere tranquillamente un mio professore e solitamente nessun professore permetterebbe mai dargli del tu. Però trovo che tu abbia ragione, sai? Spesso ci si dimentica di quanto sia importante poter mettere a proprio agio il prossimo e creare la giusta situazione per poter parlare. » Si ritrovò così ad annuire, un lieve cenno del capo prima di vedere accanto a sé l'uomo che sembrava così tanto a suo agio in compagnia degli studenti. Elodie sorrise poi abbassando per un momento lo sguardo e stringendosi nelle spalle. « Si nota così tanto, eh? E detta così sembra quasi una seduta... Però qualcosina da chiederti ce l'avrei. » Disse con un tono di voce appena più basso e rivolgendogli l'attenzione con lo sguardo che ora s'era spostato sul suo volto. Avrebbe voluto invaderlo di domande, in fondo non era così scontato che uno psicologo si fermasse a parlare con una studentessa, ma allo stesso tempo Elodie era il tipo di persona che sapeva darsi un limite. « Quando hai iniziato sapevi già dove saresti arrivato? O dove avresti voluto arrivare? Te lo chiedo perché a volte mi sembra di aver sbagliato tutto... »
Lorenzo Vane Hunt
Enzo sapeva bene di essere un vero anticonformista, lui giocava con i pazienti più piccoli e faceva colazioni con gli adulti, talvolta andava bene una partita a scacchi, altre una sigaretta insieme. Trovava antico e inutile quel distacco, ecco perché anche in quell'occasione si era guardato bene dall'indossare giacca e cravatta. Sorridendo, comprese subito che la ragazza fosse dotata di talento ma ancora trovasse difficoltà per colpa dell'insicurezza. Niente di sbagliato, era l'età classica per le insicurezze, specialmente riguardanti il college. - Ho tempo, mi piace parlare con le persone, quindi chiedi pure.- La guardava incuriosito, certo non si aspettava chissà quali quesiti, ma amava potersi confrontare sempre. - Quando ho iniziato.. a dire il vero l'ho fatto per capire me stesso, per migliorarmi e superare i miei limiti, per capire i miei che sono, come tutti i genitori, esigenti con i figli ma un vero casino con la loro vita.- Una piccola pausa, ammettendo quella verità, per poi continuare, in modo esauriente, a risponderle. - Sapevo che un giorno avrei voluto aiutare gli altri a superare le loro paure, i loro problemi, come avevo fatto con me stesso.. È stato spaventoso fare tirocinio, mi ero quasi scoraggiato.. Poi, ho trovato un modo tutto mio di fare, allora mi sono sentito a mio agio e i pazienti di quello psicologo sono venuti da me.. - La guardò con un sorriso e cercò di capire se fosse soddisfatta di quella risposta.
Elodie Adamantine G. Dalì
Chiunque altro avrebbe potuto trovare invadente una domanda del genere ma nell'osservare i lineamenti di Lorenzo, Elodie si rincuorò appena. Il suo essere così diretta spesso intimoriva il prossimo, quante volte glielo aveva detto suo padre, ma solo in quel momento la veggente capì che a volte era necessario fare un passo indietro. Il di lui sguardo appariva incuriosito piuttosto che infastidito, e quando udì la risposta cercò di immagazzinare quante più informazioni possibili. « Ho sempre seguito il lavoro di mio padre, è lui che mi ha cresciuta ed è l'unica persona che è anche il mio punto di riferimento. So che lo psicologo non deve sostituire un componente della famiglia, ci mancherebbe... Ma credo che debba essere una persona di cui ci si debba fidare, no? Sapere che c'è... » Disse Elodie questa volta abbassando per un momento lo sguardo. Fin da piccola osservava suo padre lavorare in quello studio che spesso era diventato un po' anche il suo, quante volte s'era addormentata sul divano accanto alla grande scrivania, ma era innegabile che qualche dubbio le fosse venuto. E se avesse compiuto un errore a seguire quella strada? Alcuni l'avrebbero potuta accusare perfino di aver seguito psicologia per la perdita che aveva avuto, ma la verità era che non ricordava nulla di sua madre. Si ritrovò così a buttare fuori l'aria prima di rialzare lo sguardo e stringersi nelle spalle, ma il sorriso che le rivolse le scaldava davvero il cuore. Annuì con un semplice cenno del capo, come per dire che quelle sue parole erano state più che esaurienti, prima di riprendere il discorso. « Quindi... Mi sa che devo armarmi di coraggio durante il tirocinio. Dove l'hai fatto tu? Trovare un proprio modo, eh? E immagino che nessuno possa aiutarmi... Scommetto che è una di quelle cose da fare soli. »
Lorenzo Vane Hunt
Quando Lorenzo aveva deciso di intraprendere quel cammino non conosceva nessuno di influente, si era fatto da solo le ossa,massacrandosi di tirocinio e studio. Eppure era fiero di sé stesso. Quella ragazza doveva avere la stoffa per fare quel mestiere, cresciuta in un contesto perfetto e sembrava, abituata a non darsi per vinta. Prese ad ascoltarla con molta attenzione, era un tipo che entrava nelle storie degli altri con mente e cuore, ma soprattutto avrebbe voluto aiutarla in qualche modo. - Già, il modo devi trovarlo da sola,ma basta che tu sia : Te stessa. Sai, il tirocinio vuole vederti in faccia ed io l'ho fatto al consultorio dell'ospedale, ascoltando per ore donne che non sapevano se abortire e adolescenti con manie suicide, credimi.. Fallo dove meglio credi, anzi, visto che il mio tirocinante ha rinunciato, potresti prendere in considerazione anche il mio studio.. un po' anticonformista ma ti assicuro abbastanza pacifico.- Chiarí il veggente senza troppi problemi, sentendosi a suo agio con le proprie parole.
Elodie Adamantine G. Dalì
Era difficile non rimanere affascinati dal carattere intraprendente della veggente, ma in quel momento quel semplice fattore non era nemmeno da prendere in considerazione. Si trattava infatti del suo mondo, di come il mondo della psicologia avesse invaso ogni lato del suo carattere. Crescere senza la figura di una madre era difficile, ma suo padre aveva fatto un lavoro davvero ottimo, e anche se Elodie in alcuni comportamenti era fuori dalle righe, non si poteva non vedere quanto fosse curiosa nei confronti del mondo. Ci impiegò tuttavia qualche istante prima di capire e recepire la proposta che Lorenzo le aveva appena fatto. Si costrinse così a sbattere un paio di volte le palpebre prima riuscire a spiccicare parola. « Dici... Dici sul serio? » Domandò la veggente con espressione assolutamente sorpresa ma senza nemmeno nascondere la sua contentezza. « Voglio dire, sarei davvero onorata di farne parte. E soprattutto sarebbe un'occasione imperdibile e giuro che saprò essere una spugna a recepire tutto ciò che potrò imparare. Cavolo... Dimmi dove devo firmare e vengo subito. Non ho mai preso in considerazione l'ospedale perché l'ho sempre trovato troppo caotico, ma il tuo studio sarebbe davvero la svolta. »
Lorenzo Vane Hunt
Lorenzo non era certo una persona così sciocca da offrire a chiunque la possibilità di fare un tirocinio, non avrebbe preso Elodie come tirocinante fissa senza vedere quello che sapeva fare, ma qualche settimana l'avrebbe introdotta in quel mondo che dai libri sembrava troppo semplice. Sorridendo scosse la testa il veggente, che fosse una ragazza caparbia e ben istruita era lampante, ecco che senza malizia alcuna annuì. No, Lorenzo aveva chiuso il cuore a doppia mandata ormai, inaccessibile , lo interessava solo la professionalità. - Puoi provare a venire due volte a settimana e vedere come ti trovi, io collaboro anche con una psicologa molto brava, sarebbe interessante per i tuoi studi.- L'entusiasmo della ragazza fu apprezzato e in modo comunque misurato, Enzo prese un biglietto da visita e lo porse alla studentessa. - Ecco, io devo andare adesso, ma qui trovi il numero e l'indirizzo dello studio , io ci sono tutti i giorni, puoi venire direttamente, eccetto il fine settimana . Sono sicuro che ti sarà d'aiuto e toccherai con mano la professione .- Lorenzo, lieto di poter essere utile, accennò un saluto militare scherzando e si allontanò verso la segreteria.
Elodie Adamantine G. Dalì
Era difficile trovare qualcuno che avesse il coraggio di rischiare, ma l'uomo davanti a lei sembrava aver il giusto temperamento per poter offrire di fatto ad una sconosciuta un lavoro. E non si trattava di un semplice lavoro come cameriera, ma un vero e proprio tirocinio in una struttura che avrebbe potuto arricchirle la conoscenza e non solo, anche il suo curriculum. Ella si ritrovò così ad annuire ma senza mai abbandonare quel sorriso da cui ora spuntavano anche due piccole fossette. « So che sarebbe un salto nel buio, ma vi prometto che non ve ne pentirete. » Lo osservò poi prendere un biglietto da visita che prese subito dopo cercando immediatamente di memorizzare il recapito. Lesse almeno un paio di volte il numero di telefono prima di alzare nuovamente lo sguardo ed annuire. « Davvero non so come ringraziarti e senz'altro ti scriverò. » Con un sorriso che difficilmente sarebbe andato via tanto presto, Elodie ricambiò il saluto prima voltarsi verso i suoi libri ma con la mente già a migliaia di chilometri di distanza.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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▸ ( #ᴀʀᴇsᴛᴏʀᴇɢɪsᴛʀᴀᴛɪᴏɴ )                     ᴍᴀʀᴛᴇᴅɪ̀ ₃₀ ₀₄ ₁₉₇₇        ✩ ✩ ✩            ↻ 𝙋𝙧𝙞𝙢𝙤 𝘼𝙩𝙩𝙤
     With: Uranus Aspen Herschel | 𝐺𝑟𝑒𝑎𝑡 𝐻𝑎𝑙𝑙.                    ✰  ★�� ✰    
      【 ✈️ 】 Al fianco della sua migliore amica, Jacqueline s'incamminò per uscire dalla Sala Grande interrogandosi su quanto accaduto al Ministero della Magia. Non era una che badava molto alla politica, tuttavia quella le sembrò essere una questione davvero seria.
‹‹ Hai visto che ombrello carino ha il guardiacaccia? ›› Domandò ad un tratto, ricordandosi dell'accessorio dell'uomo. ‹‹ Ne vorrei avere uno anche io, da portare in giro; almeno alla prossima molestia saprei come difendermi. ››
Affievolì la voce quando entrò in argomento. Genevieve, toccandole il sedere - giorni prima - l'aveva così sconvolta che invece d'indossare la gonna, portava i pantaloni della divisa.
Tuttavia, c'è da dire, che ormai la giovane Serpeverde si era bella che ripresa. Se continuava a gridare l'accaduto ai quattro venti era per rendere più interessante la sua immagine. Cosa che avrebbe dovuto fare anche qualcuno come Urina Herschel.
Vedendolo passare, la biondina non poté fare a meno che arricciare il naso e voltarsi dall'altra parte; così da non respirare la medesima aria.
                     Uranus Uranus camminava particolarmente piano perché era immerso nei suoi pensieri; stava pensando alla sua famiglia e al viaggio che stavano facendo i suoi genitori. Gli avevano scritto giorni prima che sarebbero partiti due settimane per l’Italia, quindi era ovvio che non potessero accompagnarlo al Ministero. Ma forse meglio così. Più non esponeva i suoi genitori al mondo magico, meglio era. Se ci fosse stato un altro agguato dei mangiamorti e lì ci sarebbero stati pure i suoi genitori? Scosse la testa velocemente, quasi affannato da quel pensiero che cercò di scacciare. Agitato da quel pensiero che non riusciva a scacciare, superò di qualche passo alcune persone. Non stava ascoltando e non si era neppure accorto della biondina che ora, era dietro di lui. Fortunatamente. Uranus si sarebbe messo sicuramente in ridicolo, dopotutto aveva una cotta per Jacqueline da anni. La trovava particolarmente bella e la sua timidezza e castronaggine non remavano a sua favore. Dopotutto chi, poteva trovarlo affascinante oppure interessante? Sbadato com’era, osservando il suo aeroplanino e continuando a maneggiarlo, gli scivolò dalle mani facendolo cadere a terra. « Accidenti... » Sussurrò fermandosi. Per rimanere a passo degli altri studenti, si accucciò immediatamente per raccoglierlo con il suo modo di fare goffo e impacciato. « OH! » Qualcosa, o meglio, qualcuno, lo aveva urtato esattamente sul suo sedere mentre era piegato. Lo fece quasi cadere a terra rovinosamente. Si alzò di scatto una volta afferrato l’oggetto caduto a terra, e con velocità si girò verso la ragazza. « Scus... OH PER TUTTO L’UNIVERSO SCUSAMI! » Il volto di Urina era completamente paonazzo a causa della ragazza perché era, quella, ragazza. E soprattutto per la vergogna che stava provando; Una volta girato velocemente si scontrò nuovamente con lei, e l’aeroplanino si era incastrato tra i capelli di Jacqueline. Uranus era nel panico. Cominciò a borbottare dopo quelle scuse urlate e soprattutto a tremare. L’attacco di panico era imminente.
                     Jacqueline Se solo fosse stata più lungimirante, Jacqueline, invece di distogliere lo sguardo, l’avrebbe tenuto fisso su quel cataclisma vivente che era il Tassorosso. Tuttavia, come dimostrarono i fatti, a 16 anni la biondina non era ancora in grado di valutare singolarmente le situazioni. Poiché sì, gli sfigati all’epoca era sempre meglio non guardarli in faccia; altrimenti si sarebbero sentiti in diritto di rivolgerti la parola. Però un minimo di accortezza in più, in loro presenza, era preferibile conservala. Altrimenti rimanere incastrati in un susseguirsi di eventi spiacevoli risultava inevitabile. ‹‹ Dah, ehm, non fa niente, non fa niente ›› fece stridula. Ritrovatasi ad intruppare e quasi a cadere sopra il ragazzo, riprese le distanza il più che poté. Mettendo, inoltre, le mani avanti; spaventata e schifata, al contempo, da quell’esplosione di scuse. Tali sentimenti, sebbene la ragazza fosse convinta e si vantasse, anche, di saperli celare, in quel momento ce li aveva chiaramente dipinti in faccia. Il disagio, il desiderio d’essere ovunque meno che lì, il labbro arricciato in un moto di tacito disgusto… Se ne dispiacque un po’ a dire il vero. Vedendolo così, arrossito per l’imbarazzo e - si augurava - per la sua incredibile bellezza, provò empatia per lui. Dopotutto aveva vissuto un episodio simile anche lei giorni fa. Per questo dunque, nonostante tutto, rimase inchiodata lì e non si dileguò; cosa che invece aveva fatto la sua migliore amica. ‹‹ Uri-ranus è tutto apposto, davvero. ›› Disgustata, le narici dilatate, difronte all’instabilità di lui si fece coraggio e gli toccò due volte la spalla. “  Merlino, ti prego, fa che non si senta male, fa che non si senta male “ pensò tutto il tempo, desiderando ardentemente d'essere colpita da un fulmine.
                     Uranus ‹‹Uranus aveva compiuto da poco quindici anni ma a confronto degli altri studenti sembrava ancora, esteticamente parlando, un ragazzino di tredici anni. E da come si comportava invece, di undici. Impacciato e fin troppo emotivo, Uranus sentiva mani e braccia tremare per la figuraccia che aveva appena compiuto con la sua prima cotta; Jacqueline. Lei gli aveva ripetuto più volte che non era successo nulla, che non le importava dell’aeroplanino tra i capelli, ma il Tassorosso, continuava a scusarsi realmente perché aveva notato sul suo viso, il labbro arricciato in segno di disgusto. Non aveva capito Uranus se era disgustata dal suo comportamento o perché proprio lui, Urina, l’aveva urtata più volte. Respirò profondamente più e più volte per evitare l’attacco di panico davanti a lei ma il tremolio delle dita e delle mani non smise. Ad ogni respiro gli sembrava di sentir tremare anche la gabbia toracica, cercò infatti di controllarsi pensando al motivo per cui erano andati al Ministero, ma quando la bionda gli toccò la spalla due volte, il viso gli diventò ancora più paonazzo. Le ragazze erano il suo punto debole; non sapeva comportarsi, non ci sapeva parlare, cercava di guardarle il meno possibile perché sennò si agitava. In senso negativo. Era sempre stato così sottopressione con il genere femminile che non le voleva mai avere vicino, dopotutto si metteva già in imbarazzo da solo, con loro era come mettersi nei guai da solo. Con la bocca secca cominciò a balbettare cose senza senso e che non avevano neanche un significato, tutto a causa delle sue mani esili sulla sua spalla per niente muscolosa. Gli scese una lacrima però; il pensiero che Jacqueline avesse sentito il suo essere pelle e ossa, non lo confortava. Si scansò, allontanandosi di un passo mentre con il dorso della mano si asciugò la guancia. ‹‹ N..No..Non era m..mm..mia intenzione! Lo giuro! Non volevo d..disturbarti Jacqu..Jacqueline›› Più la guardava negli occhi più si malediva, aveva sempre pensato di parlarle in un modo o nell’altro, ma non con il naso arrossato e una lacrime versata.
                     Jacqueline Vedendolo tremare, in cerca di aiuto - per se stessa chiaramente… voleva fuggire da quella situazione - Jacqueline guardò in ogni dove ma incontrò solo visi sconosciuti o appartenenti ad altri sfigati con cui avrebbe fatto meglio a non farsi vedere in giro. Non seppe neppure cosa dire. Nessun detto le sovvenne; nessuna verità indiscussa; né tantomeno una frase lapidaria da poter sciorinare a gran voce, per uscirne dignitosamente. Paralizzarsi con le esili dita sospese in aria a metà tra il tendersi, per fare qualcosa, e il chiudersi, per evitare un ulteriore contatto, fu tutto quel che riuscì a compiere. ‹‹ Bravo respira! ›› Geniale. In seguito al primo respiro profondo di Uranus, la bionda si ricordò che quella era la frase per eccellenza in situazioni del genere. Dunque prese a dirlo ripetutamente, facendogli aria con le mani; dando loro finalmente uno scopo. Avesse saputo dell’aeroplano incastrato tra i suoi capelli, l’avrebbe usato per fare più aria ma, sfortunatamente per lei e fortunatamente per il Tassorosso, con tutto quel trambusto non se n’era minimamente accorta. Poco prima, quando gli aveva detto di tranquillarsi, che non era successo nulla di grave, l’aveva detto pensando che lui fosse preoccupato per la caduta. Per la figuraccia fatta davanti a lei. Non sarebbe stata così caritatevole se solo avesse saputo. ‹‹ Non è nulla, non è nulla. ›› Voleva tappargli la bocca. Continuando così, la notizia del suo scontro con Uranus sarebbe giunta alle orecchie di tutta la scuola. Poteva già sentire le sue amiche farle il verso di Uranus, per prenderla in giro. 'Jacqu..Jac-queline vuoi sposarmi?' Il suo nuovo incubo. ‹‹ Dai shhh shh, va bene così. ››
                     Uranus La situazione stava completamente degenerando; più respirava a fondo e cercava di pensare ad altro che non fosse quella doppia, tripla, quadrupla figuraccia, più non riusciva a farlo. Come quando si è a letto sotto le coperte soffici e calde e ci si concentra per addormentarsi perché la mattina seguente magari, si prospetta una giornata impegnativa o appunto un impegno all’alba; è la stessa identica situazione. Più Uranus voleva qualcosa in quel momento, più non riusciva ad ottenerlo. La voce limpida dal tono disgustato, forse imbarazzato, di Jacqueline, non migliorava di certo il tutto. Uranus non era stupido, con i suoi occhi lievemente lucidi per l’emozione, riusciva a scrutare l’espressione della ragazza; era come se anche lei cercasse una via di fuga da tutto quello che stava accadendo. Uranus avrebbe voluto sotterrarsi. Si chiedeva perché fosse così sbadato, perché non avesse con gli anni maturato un comportamento più sicuro come tutti gli altri maghi della sua età. Era alla fine del quarto anno e ancora tutti lo chiamavano ‘Urina’, lo guardavano con sguardo disgustato e molto probabilmente, chi lo compativa, molto probabilmente era perché provava pena per lui. Qualcosa di sicuro, è che si faceva pena da solo. Sarebbe riuscito a cambiare qualcosa durante quell’estate? Sarebbe riuscito in quei mesi di vacanza di non farsi guardare più con espressioni che lo facevano sentire così schifosamente sbagliato? Non a suo agio? Ormai le parole che pronunciava la Serpeverde, Uranus le sentiva ovattate. Il suo sguardo era basso e gli occhi socchiusi mentre il suo respiro poco a poco si stabilizzò. Uranus non sembrò più andare in panico solo perché cominciò a pensare al suo essere un disastro e non più, alla situazione che si era creata con una ragazza a suo parere bellissima. Di male in peggio poiché a causa di quei pensieri che lo stavano momentaneamente torturando, non fu solo una lacrima ormai asciugata a scivolare sulla sue gote; ma più e più lacrime. Sarebbe esistito il giorno in cui Uranus non si sarebbe sentito così triste riguardo il suo aspetto interiore ed esteriore? Le diede velocemente la schiena. ‹‹Scusami…›› Non sapeva più cosa dire, non sapeva come migliorare o porre fine a tutto quello che era capitato.
                     Jacqueline Nell’esatto momento in cui, dentro di sé, il dispiacere di vedere Uranus piangere superò di gran lunga il timore d’essere vista con lui, Jacqueline seppe che non vi era più “ma” che tenesse. L’avrebbe aiutato come si deve. Se ne sarebbe pentita, ma l’avrebbe aiutato; o quella notte non sarebbe riuscita a dormire bene. ll sonno era indispensabile per chi teneva in maniera ossessiva ad avere un viso fresco e setoso. ‹‹ Andiamo a prendere dell’acqua… può essere una buona idea? ›› Parlò con sincera premura, finalmente; dal tono traspirava un pizzico di demoralizzazione - già pensava a come sarebbe stata cruenta la sua discesa nella scala sociale. Da Jacqueline però quello era il massimo a cui uno studente come Uranus potesse aspirare. Se non di più! Stava mettendo in discussione la sua intera esistenza, così facendo. Titubante, comunque, non osò guardarlo in quello stato. Non voleva metterlo a disagio. Pensò solo fosse il caso di offrirgli un fazzoletto. ‹‹ Ecco prendi, asciugati un po’. ›› Dell’accaduto non fece più parola. Era evidente che più lei diceva di star tranquillo più lui ci ripensava e il tutto andava degenerando. Gli diede solo il fazzoletto; uno dei suoi preferiti. Bianco con dei ricami floreali rosa. Lo teneva sempre ben piegato nella tasca del mantello. Era un’abitudine che le aveva passato sua sorella Elettra. Quando Jacqueline faceva i capricci, dopo averla rimproverata, quest’ultima gliene porgeva sempre uno. La bambina ne era rimasta incantata e con gli anni, senza rendersene conto, aveva emulato la maggiore. Del resto, accadeva così per qualsiasi cosa la riguardasse. ‹‹ Tienilo tu ›› aggiunse, prima che Uranus potesse anche solo pensare di restituirglielo tutto bagnato. ‹‹ Me lo ridai la prossima volta che ci vediamo. ››
                     Uranus “Andiamo a prendere dell’acqua” disse Jacqueline. Una frase semplicissima ma al tempo stesso molto significativa per il ragazzo che le stava dando le spalle. Uranus tenne il respiro, scioccato per quella frase pronunciata da lei, e cioè una Serpeverde per cui provava attrazione da anni. Jacqueline era splendida secondo il Tassorosso; la reputava molto bella e amava i momenti che riusciva a scorgerla per i corridoi di Hogwarts. In più la reputava divertente e carismatica. Da quel momento per lui, Jacqueline sarebbe stata anche gentile poiché, Uranus si ricordava quando le persone facevano qualcosa di carino per lui, ma solo perché raramente qualcuno lo prendeva sul serio, raramente qualcuno capiva la bontà e la ingenuità che gli scorrevano nelle vene. Raramente qualcuno lo trattava in modo normale. Quindi, ovviamente era scioccato che dopo anni, qualcuno della sua età avesse fatto qualcosa per lui; per quello respirava a fatica e si sentiva paralizzato, era la prima volta che qualcuno voleva farlo calmare regalandogli un fazzoletto, molto probabilmente, per asciugarsi le lacrime. Non sapeva cosa dire, era sbalordito e scioccato dal comportamento della ragazza. La ringraziò con uno sguardo simile ad un cane bastonato, mentre le sfiorò le sue esili e fresche dita per stringere il fazzoletto di lei. Fazzoletto che asciugò fino all’ultima lacrima scivolata dal suo sguardo scioccato ma leggermente speranzoso. Era diventata sua amica? « Lo laverò e te lo riporterò! » Disse determinato ma con voce lieve. « Magari... Posso... Posso ridartelo al... » Ballo! « Pozioni! » Stava sudando, lo si poteva notare guardandogli la fronte lucida. E gli aloni che aveva sotto le braccia. Uranus stava per invitarla al ballo di fine anno, ma con quale coraggio l’avrebbe fatto? Lui è un Tassorosso, non un Grifondoro. E anche se aveva fatto qualcosa di carino per lui, non significava che lo aveva cominciato ad apprezzare. Magari le faceva ancora ribrezzo. « O magari ad una qualsiasi altra lezione che... che... che seguiamo insieme! In un club... o... o... in sala grande... » La fatica che stava facendo per farsi vedere più normale possibile e non uno zimbello, era immane. Si faceva pena da solo.
                     Jacqueline Uranus doveva essere uscito fuori di senno. Come avrebbe potuto restituirle il fazzoletto a lezione di pozioni? Non seguivano neppure un corso insieme! Lei frequentava il quinto e lui il quarto. Ecco cosa comportava trattare i più piccoli come dei pari: finivano per credere di esserlo veramente! Inammissibile. Anni impiegati a mantenere alta la sua reputazione, andati perduti così, per un incidente di percorso e per la bontà del suo cuore. ‹‹ Puoi portarmelo una di queste mattine a colazione; vado sempre presto io, ti posso aspettare all’entrata ›› fece, gentilmente, dopo aver pensato a quale fosse il modo migliore per evitare di farsi vedere ancora vicino ad Urina. Marcò il tono nel dire che l’avrebbe atteso all’ingresso. Merlino, se Uranus si fosse, invece, avvicinato al tavolo Serpeverde, l’umiliazione sarebbe stata dilaniante. Gettato un sguardo sulla sua fronte imperlata, la ragazza trattenne il vomito. Lo vedeva più tranquillo ora; lo sforzo che Uranus stava facendo per apparire normale aveva funzionato; era attenta ai dettagli Jacqueline ma raramente li ricollegava alla realtà. Il sudore del ragazzo per cui, rimase solo quello. ‹‹ Se ti senti meglio io- ›› cominciò a dire, portandosi una mano ai capelli. E fu a quel punto, che le sue dita incontrarono della carta: l’aeroplano. Era stato tutto così intenso, sopportato da lei così bene, che s’impedì di lasciar esplodere i suoi nervi. “Sono solo le indicazioni del Ministero; sono solo le indicazioni del Ministero” si ripeté, disincastrandolo dalla bionda chioma con una buffa espressione corrucciata. ‹‹ Il tuo aeroplano ›› glielo consegnò senza fare una piega. Tono sereno ma - a tratti - sull’orlo di un collasso. Chissà in quanti l’avevano vista con quell’affare in testa! ‹‹ Bene vado, il fazzoletto ridammelo pure quando torni ›› dopotutto, non l’aveva realizzato, Uranus sarebbe dovuto tornare a casa per sistemare la faccenda dei registri.
                     Uranus Molto probabilmente aveva detto una stupidaggine, si ricordò solamente dopo aver aperto quella maledetta bocca, che Jacqueline era al quinto anno mentre lui era al quarto. Con uno sguardo così trasparente il quale faceva capire che si era accorto di aver fatto una figuraccia, abbassò nuovamente il capo, mordendosi più volte la lingua come segno di punizione. Promemoria per il prossimo anno: evitare di agitarsi in ogni situazione. Si sarebbe avvicinato al tavolo dei Serpeverde nei giorni seguenti? Più che altro, avrebbe avuto il coraggio di aspettarla davanti all’entrata della Sala Grande? Era peggio aspettare Jacqueline e agitarsi come se fosse un appuntamento oppure farsi vedere impacciato nell’area di persone minacciosa? Grazie a tutti i pianeti e le costellazioni, Uranus sarebbe dovuto rimanere con la sua famiglia e solo dopo ritornare ad Hogwarts. Non glielo disse ma non si sarebbe presentato per ridarle il fazzoletto. Avrebbe cercato il suo coraggio inesistente, prima di rivolgerle la parola in un modo... normale? Si sarebbe calmato a casa e poi una volta nelle mura del castello, avrebbe cercato di evitarla. Per quanto fosse difficile farlo siccome nei luoghi comuni, gli piaceva guardarla da lontano. « Si.. m-mi sento m-meglio, c...credo! » Balbettando non proprio sicuro di sé e ancora scioccato da tutte quelle emozioni provate, alzò lo sguardo per rendersi conto di un altro imbarazzante momento tra loro due: Jacqueline e l’aeroplanino di Uranus ancora incastrato tra i suoi capelli biondi. « g-grazie... » Esalò. « M-mi dispiace... Jacqueline! » Inghiottì rumorosamente la saliva, facendo alzare ad abassare il visibile pomo d’adamo. « E... grazie per il... fazzoletto! » Lo sventolò quasi, per far notare alla ragazza che aveva apprezzato moltissimo il gesto e l’aiuto che gli diede. Quando allungò la mano per prendere l’aeroplanino e sfiorare così le sue piccole dita eleganti, le ritrasse poi velocemente per evitare di agitarsi e creare il cinquantesimo momento imbarazzante tra loro.
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mata-konya · 7 years
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Bad∞End∞Night - Volume Ultimo
Traduzione Italiana
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Capitolo Ottavo
* Bad∞End∞Night, novel in due volumi sulla Night Series; scritta da Hitoshizuku e accompagnata dalle illustrazioni di Suzunosuke. Si può acquistare su Amazon (I e II) o CDJapan (I e II).
* La mia traduzione è basata su quella inglese di Vgperson.
* Qui potete consultare la mappa della villa e leggere l’introduzione ai personaggi, più un piccolo glossario.
Capitolo 8 - Discrepanza
First Night
Una certa notte, il vento soffiava con ferocia, e sette attori celebravano il successo della loro recita. Era una festa veramente allegra. Poi un'ottava persona, una loro amica, fece visita. La donna disse di aver trovato una lettera che parlava di un peccato commesso dalle sette persone. E che avrebbe rivelato il loro segreto... I sette, indignati, si infuriarono. Perché loro avevano un lavoro da portare a termine, peccato o no. Gli attori biasimarono la donna. Dissero che rivelare il segreto sarebbe stato tradirli. Ma la donna tenne duro. Sosteneva di aver ragione. Lei abbandonò la discussione e cercò di andarsene, mentre i sette cercarono di impedirglielo. Non erano riusciti a concludere i negoziati in modo soddisfacente. Alla fine, la donna estrasse un coltello che, per certe ragioni, aveva in tasca. Minacciò i sette. I sette si spaventarono. Tuttavia, a questo punto, non potevano arrendersi. Se la verità scritta in quella lettera - il loro peccato - fosse stata rivelata, tutti i loro sforzi sarebbero stati vani. Ci fu una disputa, e una brutta collutazione... e poi. Forse fu uno scherzo giocato dalla dea del fato... per lei miracoli e incidenti sono la stessa cosa. Con quanta facilità gli ingranaggi di una tragedia iniziano a girare. La donna cadde per le scale. Quando arrivò in fondo... il coltello si era piantato nel suo petto. La donna morì... e che morte tragica. Gli attori si dispiacquero per la sua sfortunata morte. Addolorati, pensarono una cosa. "Se solo questa scena che abbiamo davanti fosse come la nostra recita... la prima scena di un mondo di finzione. Oh, se solo il tempo potesse fermarsi." Ma la recita della sua vita, dove lei era la protagonista, era già finita. E così, decisero di consegnare la sua tragica morte all'oblio. Di nascondere tutto nel sotterraneo segreto del teatro, dentro una bara... ∞
Del sudore mi colò lungo le dita quando voltai l'ultima pagina. Quello spesso libro, pieno di parole... Ogni volta che giravo una pagina, le parole mi saltavano in mente da sole, come se il libro fosse stato scritto direttamente nella mia testa. "Io... la conosco... conosco questa storia!" "HM...?" Ora ricordavo con chiarezza. Gli eventi di "First Night" erano gli stessi del mio incubo di quel mattino. Sette, fra uomini e donne, riuniti per una festa, una persona era arrivata tardi e aveva detto qualcosa che aveva causato un gran scompiglio. Poi aveva cercato di fuggire quando ancora non aveva risolto il disaccordo con i suoi amici... ed era morta nel tentativo. Il mio sogno arrivava fino a quel punto. Ma se quel libro raccontava la stessa storia... allora quei sette, dopo, avevano cercato di insabbiare la sua morte, nascondendo il corpo in un bara... sotto il teatro? "E' sicuramente la stessa storia... non ci sono dubbi." "La stESSA stOrIa Di cOSA?" "Ho fatto un sogno, stamattina. Quando mi stavo agitando nel letto e non riuscivo a dormire... Me l'ero del tutto dimenticato, finora. Ma adesso... riesco vagamente a ricordarlo." "RiCORdARlO?" "Quello che c'è scritto in questo libro. Otto uomini e donne... sette di loro inseguirono una delle donne, e lei morì. Pensavo fosse stato un incidente, ma... ora sento si possa anche interpretare come se fossero stati loro, ad ucciderla." "OTto atTOri...? ProPRIo coMe NOI, uh?" "..." Sì, esattamente così. Il copione di Crazy∞Night, e questo mondo.... che connessione avevano con il mio sogno, e First Night? Il mio era forse un sogno premonitore...? O... "Ma WoW, dUnQUE Lei pUò ricordare i SOGNI con tANTa chiArEzZA... NOI bamBOLe non SOGNamo neMMEno, quiNdi nOn SApREi. PerFINo RICordARe il NuMeRo di PERsonE nel tUo sOgNo..." "... Non sogno molto spesso, non so se sia normale o no..." "DavVERo ErAno in SETTE ad INSeguiRE la raGazza...?" "Sì..." "SicURA? E' staTA BRAVA a RIcoRDArE il nUMerO. Dato CHE nOn semBRa mOLto IntELLigenTE, signorina RAgazza dEl VILlaggiO." "Argh..." "Ehi, Ma PERché lo hA RICORDATO? Ha ViStO le fAcCe di TUttI? OppURe SEntiTO le LOro VOCi?" "... No... non li ho visti. O, beh, forse li ho visti, ma non ricordo ora. Non lo ricordo proprio... nemmeno come fossero le loro voci." "Mmh. Ma veDIAMO. Se HA coNTAto sE stEsSa cOMe uno dEi PERsonaGGI del SOgnO, SOttrAENDolA, in tOtale SAreBBEro OTTO... no?" "Eh?" Cercai di focalizzarmi di nuovo sulle mie memorie di quel sogno, ma... come pensavo, non mi sarei ricordata nient'altro. Il Ragazzo Bambola mi stava guardando con serietà, senza alcuna traccia di scherno. "Penso che... non stessi guardando il sogno dal punto di vista di nessuno in particolare. Come se fosse una recita ma io non mi trovassi in mezzo al pubblico, ero a poca distanza agli attori - ecco quanto sembrava vicino. Quindi, se includessi me stessa, forse in totale le persone sarebbero nove...? Non ne sono del tutto sicura. Questa è l'unica cosa che posso dire riguardo al da dove stessi osservando... e poi, non è che nei sogni ci sia solo un punto di osservazione. E' più... una strana, ambigua serie di punti di vista." "CapISCo..." Il Ragazzo Bambola posò la sua piccola mano sul mento e lasciò andare un "mmh", in riflessione. "... ha dETTo che NoN riEscE a ricORDARe aLCun VOLto o voce, MA... PenSa che SArebBEro potUTi essEre i NOStrI?" Piegò di lato la sua graziosa testolina e ghignò appena. Ma, sebbene lo sguardo nei suoi occhi prima fosse di vaga curiosità, ora era come se quella curiosità fosse diventata un'avida tenacia, e mi guardava con ostinazione - e un poco di follia. Il suo sguardo era così deciso, tagliente, che mi ritrovai a voltarmi pur di sfuggirgli. Se fossi rimasta prigioniera di quegli occhi... sapevo che i più remoti segreti del mio cuore, perfino quelli di cui io non ero a conoscenza, sarebbero venuti alla luce. Infine, le parole uscirono dalla mia gola secca. "... Uhmm... non lo so. Intendo, non ricordo nulla delle persone presenti. Ricordo solo... la persona che è morta, lei era..." Sì, ricordavo che la persona morta veniva chiamata "la protagonista". "... era la PROTAGONISTA?" "...!" Come faceva a saperlo? Il libro non diceva una sola parola a riguardo... "Se LA PROtagONISTa moRISse NEl bEl MEzzO delLa REcita..." "..." "... penSA che la RECITA FInireBBE Lì?" Esitai, non avendo alcuna risposta pronta per quella domanda. Generalmente, il protagonista non moriva a metà. Se proprio doveva morire, veniva lasciato per il finale... e solo nei finali tragici. Nel caso di un libro, non ci sarebbe rimasto nessuno per raccontare la storia, e di certo nemmeno in una recita era cosa comune andare avanti dopo la morte del protagonista. La risposta classica era che una cosa del genere non sarebbe stata interessante. "..." "Non lo SA? SUPPongO SIA un po' lENta, siGNOriNA RAgazza del villaGGIo. EppurE, è una buONA QUAlItà per una PROtaGONisTa..." "..." Non ero sicura se quella bambola crudele mi stesse insultando o facendo i complimenti. "Il PROtagonISta, di soLITo, NON mUOre. Se SUcCEDESse, la stORIa FINIrebbE lì. Ma c'è un MODO per AnDAre aVAnti..." "C'è...?" "Sì. Se il PROtagonISTA può EssErE... RImpiaZZAto. Il protagoNISTA muORE, ma il TEstimONE pASSa al PROssimO proTAGOnista... cOsì anDREBBe BEne. La stORia poTREbbE andaRE avAntI per SEMprE." "Rimpiazzare il protagonista...?" "Scambi i PErsonAggi, e diVEntA la stoRia del nuoVo proTAgonisTa. Non acCAde tuttO il tempo, nel MonDo umano? La STORIA... tutti scrivOnO Infinite storiE di EREdità. Se il protagoNIsta muorE... tROva qualcun ALTRO, e renDIlo il nuOvo protagonista. Ma NON doVREstI FArglieLO sapere priMA. E' una cosa nATUrale. Invece, CHE le persone nuove coNTINuinO a CONcentraRSI su storie già FINITE, vecchie, quello sarebbe iNNAturalE. QuelLE stORie non SONo interessanti. Non c'è NULLa di strano nell'aVErE un nUOvo protagonista nel suCCessivO capitolo. Se è una storia con OTTO pErsone... ne prepARI una NONA." "Una nona persona..." Cercare un  nuovo protagonista e portarlo con te, per sostituire quello morto. Una nona persona per una recita che ne necessita solo otto... C'era qualcosa che non capivo. La persona nei miei sogni che era destinata a morire e finire in una bara... chi mai poteva essere...? Inconsciamente portai la mano sul petto. Il tempo rimanente per la recita era ancora meno. Cosa fare, ora? Non c'era tempo. Dovevo sbrigarmi e fare qualcosa. Fare cosa? Giusto, la pagina! Dovevo uscire di lì e cercare...  e pensare...! "C'è un'aLTRa cOSa UTIle che LE possO dire." "Uhm, io dovrei..." "Non è NEcesSAriO lei vAda tantO di FRettA." "Non è necessario...? Ma il tempo per la recita! E' passato più di metà, non posso starmene ferma a..." "E se finiSSE? NoI SPariREmmO?" "Uh...?" "Certo, nOi di ADESSO sparIREmmO. Ma sarebbe SOlO la fiNe di QUESTA REcita. PotrebbE cONTinuarE di nuovO un'alTRa nOttE." Un'altra...? La Ragazza Bambola aveva detto qualcosa di simile. "Oggi andrà avanti comunque". Mi ero chiesta cosa significasse. Guardai il Ragazzo Bambola negli occhi, e il suo sguardo diceva "Vieni con me".  Stavolta andò verso una libreria dal lato opposto, a destra della porta. Studiò diversi di quei grossi libri, ma sembrava incapace di trovare quello che stava cercando. Come al solito, non c'era scritto nulla sul dorso, rendendo complicata la ricerca. Dopo averlo osservato cercare per un po', notai un orso di peluche in particolare. Era seduto con eleganza su una sedia a dondolo in pelle, e teneva fra le zampe un libro. Che vista strana. Mi avvicinai e controllai il libro. Il titolo era Bad∞End∞Night. Come prima, il semplice girare le pagine fece arrivare le parole nella mia mente... simili ad un flusso d'acqua, ma acqua torbida. Le onde di quelle parole si abbatterono con forza sulla mia mente. Quelle onde d'urto inaspettate mi fecero quasi perdere i sensi. L'onda finale si ritirò e io voltai l'ultima pagina; poi lasciai pendere le mani lungo i fianchi, come se fossi senza vita. Il libro si schiantò sul tappeto di un profondo rosso cremisi. "..." Una tempesta di diverse emozioni turbinava dentro di me, e mi mancavano le parole. Doveva essere... uno scherzo molto elaborato, vero? Sperai che lo fosse. "AaAhh... aVreI RAccoMANDAto qUAlcOSa di MEno iNTenSo, per iNIZiarE..." Il Ragazzo Bambola mi si avvicinò con un mucchietto di libri fra le mani. Ma, dopo essere stata colpita da quelle onde di parole, mi stavo reggendo con fatica ad uno scoglio sulla riva. Non mi sarei sorpresa di venire inghiottita da delle rapide tanto feroci. Mi stavo impegnando con tutta me stessa per rimanere aggrappata a quella piccola, inaffidabile roccia e non venire trascinata via. Non avevo avuto il tempo di rimettere insieme quelle parole turbinanti. Con mani tremanti, mi afferrai le spalle. "L'attrice che interpretava il ruolo di Ragazza del villaggio era stata risucchiata in uno strano mondo, ed era rimasta piuttosto confusa. Mentre correva in giro per la villa alla ricerca di un'uscita, aveva trovato un sotterraneo. E otto bare. Questo la spaventò più che mai, e provò a scappare... ma i sette abitanti della villa, no, i sette attori che un tempo erano i suoi amici e colleghi, non smettevano di inseguirla. Solo l'attrice che interpretava la Ragazza del villaggio sapeva che quella era una recita... Non poteva sfuggir loro; i suoi amici erano impazziti. Corse per tutta la villa, ma gli altri la inseguirono finché non si fermò. Convinta che di questo passo sarebbe stata uccisa e messa in quelle bare... la Ragazza del villaggio ricordò che la lancetta lunga dell'orologio fermo era un pugnale, e così lei-" "Bugie... sono tutte bugie... non ricordo nulla di tutto questo... questa non sono io!" "... La MEmoRiA è uN liBRo NOioSo. SpEsSO le SUe PAgIne non DOVrebbERO venir SFOGliare..." ".... non è possibile... ma..." "Se questo TEMPO finiSCE, c'è SEMprE una pROssiMA VOLTA. AnDRà AVAnti e anCORa avAnti. Per sEMpre..." Per sempre. Il mondo della recita in cui pensavo di essere stata intrappolata dopo aver raccolto quella strana lettera sul palco... Si era già ripetuto ancora e ancora? Quel "Bad∞End∞Night" era il mero, singolo atto di una notte che si ripeteva...? "QUEstI SCaffAlI soNO un po' Un MASTERpiecE, nOn trOVa...?" "...!!" Non poteva essere... tutti quei libri senza titolo sul dorso. Quindi tutti quegli scaffali pieni fino all'orlo erano...? No...!! "Allora... anche First Night...? E' successo..." "SbaGLIaTo. Quel liBRo è DIVERSO. E' unA cOsa che NOn è ACCaduTa in quEsta RECITA." "..." "Se non RIcoRda nulla, bEh, è MEglio cOsì..." "Uh...?" Ora non potevo vedere bene il viso, chinato verso il basso, del Ragazzo Bambola. Il suo sguardo pareva diverso... lo sguardo di quel ragazzino che mi arrivava giusto alle anche. I suoi occhi erano più simili a quando mi aveva dato il bouquet di rose blu e preso in giro. Non erano come quelli dell'altro "lui". Loro ricordavano, mi chiedevo? Che questa notte si era ripetuta ancora e ancora... Ero l'unica a sapere che questo mondo non era la realtà. Eppure, forse ero l'unica ad aver dimenticato ogni notte...? E cosa intendeva dicendo che First Night era un libro che non faceva parte della recita? Una luce splendente brillò nella stanza, e ne fui accecata per un momento. Ma lì non c'erano finestre. Mi voltai verso l'entrata, e la porta - che, lo ricordavo chiaramente, il ragazzino aveva chiuso prima - era socchiusa. La luce di un lampo era entrata dalla grande finestra alla fine del corridoio. Lasciai la biblioteca e, quasi in trance, scesi le scale. Andai oltre la scalinata, nel corridoio tra l'atrio e il soggiorno. Girai a destra, poi tirai dritta per un po' e, una volta superata la stanza degli ospiti numero uno, alla mia sinistra trovai quel corridoio con il quadro a parete intera. Mi avvicinai velocemente, senza fermarmi, come se qualcosa mi stesse attraendo. Andai avanti così, ascoltando solo il rumore dei miei passi. Non appena il quadro di Twilight∞Night entrò nel mio campo visivo, il Padrone di casa apparve alla fine del corridoio. Ero sicura fosse ancora di sopra, a controllare le stanze che gli erano state assegnate; come mai si trovava così lontano...? "Ehi. Potrebbe darci una mano? Vorrei che cercasse nel magazzino al pianoterra." "Ehr..." "Non è una stanza molto grande, ma ci sono un sacco di cose. L'ideale come nascondiglio. Potrebbe volerci un poco... ma cerchi meglio che può. Pare che gli altri stiano finendo con le loro stanze, ora." "Ah, hanno finito..." "Allora, era diretta da qualche parte?" Alla sua domanda, mi chiesi perfino da sola che ci facessi lì. Non stavo andando allo studio, al secondo piano, per parlare col Padrone di casa...? Ma quando avevo lasciato la biblioteca e, con fare assente, avevo iniziato a vagare, ero finita qui... Come se la mia destinazione fosse stata il quadro Twilight∞Night. Perché mai...? "... stavo solo girovagando per cercare qualcuno..." "Capisco... d'accordo. Per ora, vorrei che lei andasse nel magazzino. Quando ha finito, venga allo studio di sopra e faccia rapporto. Sto riepilogando i risultati di tutti." "... afferrato." Come il Padrone di casa aveva richiesto, mi diressi prontamente all'angolo nord-est del pianoterra. Era un magazzino piuttosto ampio. Ormai avevo notato come la maggior parte degli oggetti fossero solo di sfondo per la recita; copie di cartapesta, per così dire. Per esempio, il vaso con i gigli bianchi sul tavolo di vetro nel soggiorno. Sembrava reale. Aveva lo stesso identico aspetto di un vaso di fiori con tanto di acqua dentro. Ma non aveva alcuna qualità, a parte il dover dare l'impressione che "ci fosse un vaso lì", così non si potevano nemmeno tirar fuori i fiori dal vaso. Mentre cercavo in quel magazzino pieno fino all'orlo di oggetti di scena simili, iniziai a pensare che non avrei trovato la pagina lì. Le mie mani indaffarate, pian piano, si fermarono. Probabilmente avrei dovuto chiedere al Padrone di casa quando l'avevo incontrato nell'atrio. Perché nessuno mi aveva detto che questo mondo si ripeteva? Lo sapevano tutti? Oppure era solo il Ragazzo Bambola che, essendogli stata assegnata la biblioteca, l'aveva scoperto per caso? Perché non avevamo perquisito le persone durante la ricerca della pagina? E perché non avevamo trovato alcun segno della pagina, dopo tutte quelle ricerche...? Avevo letto alcuni altri libri di quelli che il Ragazzo Bambola mi aveva portato, altri oltre quel disgustoso Bad∞End∞Night. Erano tutti eventi di cui non avevo alcun ricordo. Ma supponevo fossero tutte Crazy∞Night che erano state messe in scena. Se avessi preso alla lettera il Ragazzo Bambola, allora io... allora tutti noi avevamo messo in scena il copione di Crazy∞Night un numero incalcolabile di volte. E nei libri che mi aveva mostrato, come ci si aspettava, tutti erano alla ricerca della pagina rubata. Ma non ce n'era nemmeno uno dove la pagina fosse stata trovata in tempo...! "Io... sono sempre da sola, uh..." Tutti avevano dimenticato il mondo reale, ed erano stati resi parte di quest'altro. Per quanto, all'inizio di ogni recita, avessi cercato di avvisarli dell'assurdità di tutto ciò, sembrava non riuscissero a comprendermi. E questo significava che l'unica intrappolata in quel mondo in realtà ero io, giusto? Quelle persone erano solo creazioni fittizie di quel mondo, e quelli veri erano da qualche altra parte... ma sì, ancora nella realtà. Solo io ero stata invitata come ospite in quel mondo... come protagonista. In quel caso, potevo capire perché solo io perdessi la memoria ogni volta. Se tutto a parte me fosse stato di cartapesta, e perfino i personaggi fossero stati del tutto fasulli, non avrei dovuto nemmeno sentirmi sola. E quell'orrido libro che non osavo nemmeno ricordare... Quella Bad∞End∞Night... non avrei mai creduto di essere stata in grado di fare una cosa simle. Anche se fossero stati fasulli, come avrei potuto ucciderli... uccidere i miei amici con le mie stesse mani? Avevo stretto le dita. Aprii le mani davanti al viso e le fissai con tanta intensità da poterle quasi trapassare. Non avevo assolutamente alcuna memoria di ciò. Ma, quando chiudevo gli occhi, potevo vagamente figurare le mie mani intrise di sangue. Ma, di sicuro, era solo la mia immaginazione... una deboluccia come me, priva di spina dorsale, non avrebbe mai potuto far nulla di simile. Scossi la testa per scacciarla dal mio cervello... ma quell'intensa, orribile immagine non sarebbe sparita facilmente. Il senso di colpa - per qualcosa che non ricordavo nemmeno di aver fatto - iniziò a serpeggiare dentro di me. La gola era del tutto secca. Così non andava bene... sarei impazzita per il senso di colpa, il sospetto e l'odio per me stessa. Avevo bisogno di qualcosa per placare l'umore e calmarmi, anche solo per un poco... qualcosa per calmare il mio cuore... "Il tè della nostra cameriera è davvero superbo, non trovate? E' proprio come se scaldasse il cuore, vero?" La battuta della Padrona di casa attraversò all'improvviso i miei pensieri. Dopo che l'aveva ripetuta tre volte parola per parola si era incastonata nella mia mente, come un messaggio subliminale. Sì, il tè...! Ma... ricordavo i principi di questo mondo. Solo la Cameriera poteva fare il tè. La Ragazza del villaggio, in quanto ospite, di sicuro non poteva andare in cucina, mettere a bollire l'acqua e farsi il tè da sola. Detto ciò,  non avevo alcuna voglia di rintracciare la Cameriera e chiederle di prepararmi qualcosa. La mia mente era ancora in disordine; non volevo incontrare nessuno. Dovevo fare qualcosa per riprendermi da quello schiacciante senso di disagio, anche qualcosa di piccolo... Adesso capivo, seppure in minima parte, come aveva dovuto sentirsi la Ragazza del villaggio di Bad∞End∞Night. Lo stato mentale in cui mi trovavo era davvero pericoloso. Era successo tanto in una sola notte e non avevo nessuno con cui condividerlo, da consultare, a cui affidarmi... Quella situazione, in realtà, era durata a lungo, molto più a lungo di quanto avrei potuto immaginare... e ogni volta lo dimenticavo... imparavo ciò che avevo dimenticato, e poi lo dimenticavo di nuovo... un loop continuo. Non sapevo quando la follia avrebbe potuto colpirmi alle spalle, approfittando di un attimo di debolezza. Perfino me stessa, l'unica di cui avevo potuto fidarmi sin da quando ero arrivata in quel mondo, era un qualcuno di cui aver paura. Il Maggiordomo aveva detto che il mondo è ciò che noi percepiamo. Se era così, allora io e il mondo che stavo percependo in quel momento eravamo reali. Ma allora, le cose "reali" che erano separate dalla mia percezione, e a lungo dimenticate, non esistevano più? Avevo dimenticato di aver recitato in Bad∞End∞Night e, per quanto mi avessero detto che, in un qualche tempo, era stata reale... io non riuscivo ad accettarlo. Perciò... era diventata fasulla? E così pure il mondo reale... Mentre frugavo senza sosta nelle mie memorie sin quando mi ero risvegliata in quel mondo, ricordai di colpo. Quando stavo parlando col Maggiordomo, non c'era rimasto un poco di vino? L'alcool avrebbe fatto il suo dovere. Avrei potuto bere un goccio per tirarmi su d'animo. Mi affrettai verso la cantina dei vini. Socchiusi la porta della cantina. Il Maggiordomo non c'era. Dove aveva riposto quella bottiglia non ancora vuota...? Cercai quell'unica bottiglia con un po' di vero vino fra tutte quelle fasulle. "... eccola qui!" Trovai quel minuscolo quantitativo di vino che bastava appena per un bicchiere. Ma non reggevo molto l'alcool, perciò anche solo quello avrebbe potuto farmi ubriacare per bene. La bottiglia era stata richiusa. Presi un coltello da sommelier là vicino, lo infilai nel sughero e girai piano. Una volta tirato fuori il tappo, si spanse un'aroma simile a quello delle rose fresche. Non c'erano bicchieri nella cantina. Esitavo all'idea di andare in cucina, con l'alta possibilità di incrociare la Padrona di casa o la Cameriera. Pur essendo cattive maniere, allora, avrei bevuto dalla bottiglia. Nessuno mi avrebbe vista. La tenni con entrambe le mani, sollevai all'altezza della bocca e la inclinai. Per un istante, ci fu il fragore di un tuono che sembrò scuotere l'intera stanza. Quel basso ruggito era risuonato con un tale tempismo da dare l'impressione di volermi impedire di bere. "Yaaaah!" Spaventata dal suono improvviso, rovesciai il vino. "Ah..." Un'altra delusione. Volevo solo una minuscola possibilità di sfuggire al mio stato triste e disperato... Ma nemmeno quello era andato come volevo. Alla fine, mi sentii solo peggio. Senza neanche darmi la pena di sospirare, guardai dov'era caduto. Un po' era finito sul pavimento di pietra, e altro sulla mia gonna. Cercando di prendere il fazzoletto nella mia gonna, mi accorsi che ne era finito un po' anche sulla lettera. "Ah... la lettera si è macchiata..." Era leggermente tinta del colore del vino. Ma era un'impressione mia, o le zone sporcate dal vino erano diventate più chiare rispetto al resto della carta ingiallita...? Avvicinai gli occhi. Non si era schiarita. Era la carta stessa a mandare un lieve bagliore. "Questo è...!" Era lo stesso che era successo nella biblioteca, quando stavo per prendere First Night; il libro aveva brillato per un istante. E mi aveva sorpreso tanto da farmi cadere dalla scala.  Perché stava brillando...? E se ci fosse stata una connessione fra First Night e quella lettera? Ricordavo cosa aveva detto il Ragazzo Bambola: First Night non era parte di quella recita. Poi, dal titolo... potevo fare le mie supposizioni. Forse il libro non faceva parte di quel mondo fittizio, ed era stato portato dalla realtà... o forse gli eventi descritti nel libro avevano avuto luogo altrove - nella realtà, appunto. Eppure, aveva una qualche connessione con quel mondo... se il punto in comune fra First Night e la lettera era il "mondo reale", allora... e se la lettera fosse stata la chiave per tornare alla realtà? Se avessi potuto usarla come "pagina finale", seguendo quanto scritto sulla busta, forse avremmo potuto terminare la recita e tornare alla realtà! Quella sensazione di oppressione si alleggerì improvvisamente. Se avessi potuto scrivere un finale sul tornare nella realtà su di un foglio bianco, che sarebbe successo? Per esempio, se avessi scritto "La recita finì, gli attori riottennero le loro memorie e i loro corpi, e tornarono tutti nel mondo reale"... sarebbe successo così com'era scritto? Oppure no, avremmo dovuto recitare come desiderato dalla mente dietro tutta la storia, e scrivere l'ending in QUEL modo; non importava cosa avessimo scritto noi, non saremmo tornati indietro. Se le leggi di quel mondo erano in funzione, allora ciò che era scritto sul copione diventava assoluto, e tutto e tutti avrebbero recitato seguendo le sue parole... Beh, dovevo solo provarci per scoprirlo. Okay...! Intinsi l'indice nella pozza di vino sul pavimento, poi tracciai delle linee sulla carta. Come testo, scrissi un breve "Tutti tornarono nella realtà", ma non accadde nulla. Forse non avrebbe funzionato finché non fosse stata messa come ultima pagina del copione. Oppure le parole scritte col vino erano troppo chiare, e dovendo strizzare gli occhi per leggerle, non andavano bene. Oppure perfino quello doveva essere scritto con qualcosa di simile ad una penna. Non sapevo come funzionasse, ma se avessi provato tutte le possibilità, allora forse... Ma... e se avessi fallito? Tutte le informazioni che avevo guadagnato da quando mi ero svegliata sarebbero svanite; sarei tornata un foglio bianco. Avrei di nuovo scordato tutto, e ripetuto le stesse azioni? Mi sarei risvegliata in un posto che non mi era familiare, avrei realizzato di essere stata risucchiata in uno strano mondo, sarei stata sovraffatta dal panico e dalla paura... E allora gli altri, che avevano dimenticato loro stessi ed erano stati resi parte di quel mondo, sarebbero apparsi... mi sarei disperata, e avrei giurato di salvarli tutti... Verso metà, avrei saputo che quel mondo si era ripetuto ancora e ancora... Non era garantito che ogni dettaglio della notte si sarebbe ripetuto allo stesso modo ogni volta. Una sola delle mie azioni avrebbe potuto cambiare interamente il risultato; si era sempre concluso con diversi finali. Dopo infinite notti, avevo trovato un grande indizio su come tornare nella realtà, per cui non volevo fallire proprio ora. Devo salvare tutti... C'era ancora tempo. Misi la mano sul petto: circa due terzi del tempo della recita erano perduti. In fondo alla mia mente, richiamai le espressioni che avevo visto sui volti di tutti da quando ero arrivata lì. C'era la possibilità che fossero sempre stati parte di quel mondo, e quindi falsi dal principio. Ma non importava, non riuscivo a pensare a loro come dei meri artefatti. C'erano stati svariati momenti in cui le loro azioni, parole ed espressioni si erano sovrapposti a quelli delle loro controparti reali. Perciò erano quelli veri, adattati al sistema di quel mondo, dimentichi dei loro veri nomi e di tutto il resto... Quella mi pareva la spiegazione più probabile. E quindi l'unica che avrebbe potuto salvarli da questo mondo impazzito ero io, Miku, l'unica che non aveva perso di vista il suo vero io. Pur di impedire che avesse luogo un'altra Bad∞End∞Night... avrei dovuto credere fermamente in me stessa, in Miku. Asciugai la mia gonna umida con il fazzoletto, quello nuovo che mi aveva appena regalato Luka. Ma ora che avevo scoperto come avessi già passato epoche là dentro e me ne fossi semplicemente dimenticata, riuscii a vedere come il nuovo fazzoletto fosse già consumato. Che strano... ovviamente, il solo conoscere la verità non avrebbe prodotto alcun cambiamento fisico. Era solo la mia mente ad essere cambiata. Eppure... non riuscivo a credere a quanto fosse diversa l'impressione che mi dava. Le luminose foglioline verdi si erano tinte del pallido colore del vino. Le rose, prima rosa, avevano risucchiato il colore del vino, e adesso parevano in piena fioritura. Avrei dovuto lavarlo, quando fossi tornata a casa... Strizzai il fazzoletto bagnato, lo rimisi con cura nella tasca, e mi misi ben dritta. Per trovare indizi su come terminare la recita e tornare alla realtà, prima di tutto, avrei dovuto cogliere l'intero quadro. C'erano molto libri in biblioteca, ma per quanto potessero esserci indizi accumulati fra quegli eventi del passato... dopo un poco di esitazione, scossi la testa. Non avevo il tempo di leggerli tutti uno per uno. Per adesso, era meglio arrangiarsi con ciò che avevo a disposizione, e cercare di sbrogliare i misteri di fronte a me. Avrei dovuto investigare con attenzione nei punti di maggior interesse... Dopo aver lasciato la cantina dei vini, procedetti dritta per l'atrio, e alla mia sinistra apparve la stanza proibita fuori dalla quale pendeva Twilight∞Night. Quando avevo lasciato la biblioteca in quello stato di vuoto mentale e avevo vagato, in qualche modo ero stata attirata lì. Ci doveva essere una ragione; avevo dimenticato quanto tempo avessi passato in quel mondo, ma di certo il mio corpo ricordava. Quando Meg mi aveva versato per la prima volta il tè al latte, nel soggiorno, ero sicura che mi fosse scivolata la mano e la tazza fosse caduta, ma non era effettivamente successo. Sorprendendo perfino me stessa, avevo preso quella tazza difficile da sollevare tranquillamente, per poi bere il tè senza esitazioni. Quella strana discrepanza... era stata causata dalla mia perdita di memoria. Il mio corpo ricordava, ma la mia mente no. Così avrei pensato "perché?" riguardo azioni che, nel mio subconscio, risultavano naturali, anche se dimenticate. In quel caso, avrei potuto smettere di pensare e lasciare che il mio corpo si muovesse da solo verso gli indizi raccolti in passato... o almeno così speravo. Fissai Twilight∞Night senza pensare. La mia mano destra, che sembrava conoscere la verità nascosta del quadro, si alzò fino a toccare il palmo sinistro della ragazza nel quadro. Dato che la ragazza era stata dipinta a grandezza naturale, in qualche modo pareva che stessi mettendo la mano su uno specchio - lei dentro, io fuori. Così notai che c'era una piccola rientranza e, come se avessi voluto entrare nel quadro, ci premetti le dita. Ci fu l'improvviso rumore di un movimento, e ritirai la mano. C'era una leva in quella rientranza? Il muro, lentamente e silenziosamente, tornò indietro, dentro la "stanza proibita". Quand'ebbe terminato, apparve una lunga scalinata a chiocciola che conduceva al sotterraneo. Dunque quella stanza non era mai stata un'effettiva stanza, ma solo l'inizio di una scalinata. Occhieggiai la buia scalinata. Lampade sulla parete fornivano una debole luce. Dal basso giungeva una brezza gentile; magari il sotterraneo aveva un qualche sistema di ventilazione che conduceva all'esterno. Sempre lasciando che il mio corpo facesse da solo, scesi passo dopo passo. Soltanto... quanto arrivava in basso? La scalinata scendeva così a lungo che non avrei nemmeno saputo dire da quanto la stessi percorrendo. Camminai per un po', e infine delle grandi porte mi apparvero davanti. I vecchi battenti di legno erano di sicuro pesanti, ma buttandoci contro tutto il mio peso riuscii a farle aprire lentamente, con dei cigolii. Quella muffita stanza di pietra era illuminata da alcune lampade a parete. Entrando, trovai alcune bare. Le contai, spaventata. Una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette... otto. Otto bare... mi avvicinai a quella in fondo alla sala e portai lentamente la mano sul coperchio. Ma, a quanto pareva, era sigillato, e non venne via. Lo stesso valeva per la bara accanto, e quella vicina... le controllai tutte, ma nessuna si aprì. Un lungo, scoraggiato sospiro riverberò in quella stanza tranquilla. A quel punto, ripresi coscienza di me. Pensando alle azioni inconsapevoli che avevo appena compiuto, mi allontanai dalla bara davanti a me. Avevo tentato di aprire quelle bare. Quando avevo lasciato che il mio corpo facesse da solo, in modo fin troppo naturale, aveva controllato e cercato di aprire ogni singola bara, bramando qualcosa al loro interno. Come se qualcosa dentro le bare mi stesse attraendo... Ci sarebbero potuti essere degli indizi su come tornare nella realtà, anche se non ricordavo nulla, eppure ero riluttante all'idea di aprire quelle bare senza un obiettivo specifico. Ero grata fossero sigillate... era un bene che non si fossero aperte, pensai con profondo sollievo. Ma allo stesso tempo, la vaga sensazione che avrei dovuto aprire quelle bare si fece strada in fretta nella mia mente. I due pensieri si intrecciarono, e riflettei su cosa fare per un po'. Ad ogni modo, le bare erano chiuse. Per ora non avrei potuto aprirle comunque. Un'occhiata in giro non rivelò alcuna chiave o altro. Fra i libri che avevo letto in biblioteca, non si faceva menzione dell'aprire quelle bare. Il Padrone di casa aveva diviso e assegnato le stanze, dicendo di cercare con attenzione, ma aveva tralasciato quella stanza e le bare senza nemmeno menzionarla. Che gli altri volessero tenere nascosta l'esistenza di quella stanza a me, la Ragazza del villaggio? Era una cosa naturale del loro ruolo come abitanti della magione? In effetti, nei vecchi copioni, il Padrone di casa mi aveva detto di stare lontano da questa zona, essendo troppo pericolosa. Ma avevo la sensazione ci fosse qualcosa di importante nascosto in quelle bare. Come diceva il libro First Night... "Ma la recita della sua vita, dove lei era la protagonista, era già finita. E così, decisero di consegnare la sua tragica morte all'oblio. Di nascondere tutto nel sotterraneo segreto del teatro, dentro una bara... ∞" Un sotterraneo segreto con delle bare; in First Night, diceva che solo la donna ci era stata nascosta... ma qui c'erano otto bare, tutte ben chiuse... Sul lato di ogni bara c'era un sottile foro rettangolare che supponevo servisse da buco della serratura. Sembrava avere più o meno la misura di una spessa carta da gioco. C'era un qualche oggetto di quella misura da qualche parte, nella magione? Avrei dovuto cercare anche quello, nel poco tempo che rimaneva? Per ora, non sembrava ci fosse nient'altro che potessi fare in quella stanza sotterranea. Girai i tacchi, mi diressi all'entrata, e ci misi tutta la mia forza per riaprire le pesanti porte, stavolta tirando. Con la coda dell'occhio, notai una grossa sbarra di legno poggiata al muro vicino alla porta. Ah-ha, così la stanza si poteva chiudere dall'interno. Avrei dovuto usarlo come chiavistello? Andai a controllare dall'altro lato delle porte e non vidi alcuna serratura o modo di chiuderle dall'esterno. Ci pensai un po' e decisi di lasciare le pesanti porte aperte. Aprirle di nuovo sarebbe costato tempo. Mi lasciai alle spalle la stanza delle bare e mi affrettai sulle scale. Prima di andare a cercare la chiave per le bare, avrei incontrato gli altri. Non ero neanche lontamente vicina alla fine della ricerca nel magazzino a cui mi aveva assegnata il Padrone di casa, ma di certo la pagina non era lì... me lo sentivo. C'era qualcosa di più importante per me da far notare: la possibilità di un indizio per il finale nascosto in quelle bare sotterranee. E a tutti era stato detto di incontrarsi nello studio e fare rapporto appena finito con le loro stanze, quindi chissà, magari qualcuno aveva davvero trovato la nuova pagina. Eravamo stretti coi tempi, ma c'era ancora speranza. Se tutti avessimo messo insieme le nostre conoscenze... di sicuro saremmo stati in grado di fare qualcosa. Cercando di contenere la mia speranzosa eccitazione, corsi su per la scala grande all'ingresso, poi seguii una linea retta fino allo studio.
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genevieveamelie · 6 years
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𝐑𝐨𝐥𝐞 - 𝐍𝐞𝐥𝐥𝐲 𝐚𝐧𝐝 𝐆𝐞𝐧𝐞𝐯𝐢𝐞𝐯𝐞 𝐒𝐨𝐦𝐞𝐰𝐡𝐞𝐫𝐞 𝐢𝐧 𝐑𝐚𝐯𝐞𝐧𝐟𝐢𝐫𝐞. - 𝟐𝟕.𝟎𝟏.𝟐𝟎𝟏𝟗
#𝐑𝐚𝐯𝐞𝐧𝐟𝐢𝐫𝐞𝐑𝐏𝐆 #𝐑𝐨𝐥𝐞𝐩𝐥𝐚𝐲𝐦𝐞𝐦𝐞
" 𝑆𝑒 𝑐'𝑒̀ 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑐𝘩𝑒 𝑣𝑢𝑜𝑖 𝑑𝑖𝑟𝑚𝑖, 𝑑𝑖𝑚𝑚𝑒𝑙𝑜! "
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*Era un po' che volevo chiedere quella cosa a Genevieve e forse finalmente ce l'avrei fatta. Mi vergognavo un po' di quello che stavo per chiedere, ma alla fine non c'era davvero niente di male.*
« Okay, sì, c'è una cosa... Come fai ad essere così bella? Perché io mi sento una patata e il fatto che nessuno dei ragazzi che mi piacciono mi contraccambino non fa che confermare questa mia teoria! Tu sei... sei perfetta! In tutto quello che fai, ti ammiro davvero tantissimo. »
Genevieve Amélie S. Hale
Le sorelle Blossom erano un'istituzione nella comunità di Ravenfire, tutti conoscevano le tre giovani, e il legame che Genevieve legava alle tre fate era indissolubile non solo per la loro razza, ma anche per la loro amicizia. Quella domenica mattina, in giro per la città, la mora aveva incontrato la più piccola, il viso sereno e quei capelli biondi che brillavano in confronto a quelli di Genevieve. Aveva parlato così, spinta dall'essere utile per l'amica, ma quando sentì la sua replica, la mora non poté fare a meno di scoppiare a ridere. « Ed io che credevo che mi dovessi confessare qualcosa di vitale importanza... » Rise di gusto, scuotendo appena il capo prima di posare lo sguardo nuovamente su di lei. « Credo che tu ti stia sbagliando, sai? Sei bellissima, e chi non ti contraccambia, vuol dire che non ha occhi per vedere, credimi. I ragazzi sono stupidi... E fidati, sono ben lontana dalla perfezione! Ma piuttosto, devi confessarmi qualcosa di interessante? »
Nelly Blossom
« È di vitale importanza! » *Continuai, subito dopo di lei. Poteva sembrare un discorso insensato, ma io pensavo davvero quello che avevo appena detto, mentre mi risultava decisamente più difficile accettare le parole della mora.* « Beh, grazie... Cercherò di crederci un po' di più, anche se no, non sei decisamente lontana dalla perfezione. » *Continuai convinta, con un nuovo sorriso sulle labbra, prima di pensare a qualcosa di interessante da confessare alla mia amica.* « Uhm... In realtà al momento non c'è niente di interessante da confessare. Sto solo impazzendo con la scuola e ogni tanto vorrei non andarci più. » *Scherzai, il mio odio verso quella istituzione era abbastanza noto a tutti. Non era tanto l'imparare il problema, quanto piuttosto lo stare chiusa e ferma in una stanza per ore e ore di seguito. Sarebbe stato molto meglio se avessimo potuto fare lezione su un prato.*
Genevieve Amélie S. Hale
Il rapporto che legava Genevieve con le tre sorelle Blossom era differente, ma di certo non uno più importante dell'altro. Negli occhi di Nelly vedeva la sorellina più piccola che non aveva mai avuto, colei che sarebbe dovuta essere protetta ad ogni costo. La Hale si ritrovò a scuotere ancora una volta il capo muovendo la massa di capelli scuri che le adornava il volto e quando portò nuovamente lo sguardo sull'amica, sorriso amabilmente. « Ho imparato che qualunque cosa accada, tu devi avere fiducia in te e nelle tue capacità. Possono essere i ragazzi come qualsiasi altra questione, ma non lasciare mai che gli altri ti facciano dubitare di te stessa... » Mormorò convinta delle proprie parole prima di ampliare il proprio sorriso. Sapeva che Nelly e la scuola erano come due linee parallele, destinate ad non incontrarsi mai, e quante volte ognuna di noi le aveva consigliato di trovare il lato positivo dell'istruzione. « Fammi indovinare, la professoressa di cosa? Chimica? Matematica? Quando andai io, ricordo la professoressa Stewart che mi dava del filo da torcere con le formule chimiche, la odiavo... Ma non per questo dovresti buttare all'aria ogni sforzo. Manca ormai poco, no? »
Nelly Blossom
*Ascoltai con attenzione le parole di Genevieve, come se a pronunciarle fosse stata Leah o Belle. Tra fate eravano tutte sorelle, ma comunque sentivo la mora molto più vicina di altre.* « Va bene. Ultimamente sto facendo una scorpacciata di ottimi consigli... Spero di riuscire a metterli in pratica più che altro. » *Sorrisi, esponendo senza alcun filtro quello che mi passava per la testa. Quello che diceva lei in quel momento, quello che mi aveva detto Leah, era tutto giustissimo e condivisibile. Però quando mi trovavo a tu per tu con la realtà spesso dimenticavo tutti i consigli che spesso ricevevo.* « Chimica e matematica sono il male! Sì! Quella vecchia strega- » *Mi portai subito le mani sulla bocca, per essermi lasciata scappare quella specie di insulto non molto da me, prima di ridacchiare e continuare a parlare.* « Quella... Adorabile professoressa Stewart. L'altro giorno ho quasi fatto scena muta quando mi ha interrogata, non riesco a capirci nulla... Meglio le lingue e la letteratura, anche se mi eviterei volentieri anche quelle... Comunque in realtà ho ancora due anni, stringerò i denti e arriverò alla fine, non ho molte alternative. » *Conclusi, sbuffando leggermente, ma convinta di quello che aveva detto Genevieve: ormai non dovevo buttare all'aria ogni sforzo.*
Genevieve Amélie S. Hale
Il legame che la fata che condivideva con le sue altre sorelle di razza era un qualcosa che non poteva essere spiegato a parole, ma era una sensazione, un legame che tutte loro sentivano nel profondo. Aiutarsi, consigliarsi o anche solo scambiarsi qualche opinione non era una cosa insolita, ma Genevieve doveva comunque ammettere che con le sorelle Blossom, v'era un rapporto ancor più profondo. A tu per tu con la sorella più piccola delle Blossom, sperava davvero che i suoi consigli fossero utili. Ridacchiò la mora nel sentire quel leggero epiteto contro quell'insegnante che sapeva davvero rendere difficile la vita degli studenti. « Per quanto possa servire, anche alla facoltà di lingue, ahimè, c'è matematica... Almeno però la Stewart non ce l'ho più davanti agli occhi, ad ogni modo è solo con il senno del poi che capisci che non tutti gli insegnanti sono lì per nuocerti... Solo che quando si è nella situazione, non sempre siamo obiettivi. —— Ancora due anni? Ed io che pensavo che ormai vedessi la luce in fondo al tunnel... »
Nelly Blossom
« Anche a lingue c'è matematica? Ma è una persecuzione! » *Esclamai, ancora. Se le materie umanistiche di tanto in tanto catturavano la mia attenzione, quelle scientifiche, prima tra tutte la matematica, avevano il mio odio. Odiavo i numeri e non capivo perché dovessi studiare tutte quelle cose inutili. Volevo diventare una contabile? No. Volevo lavorare in economia? No. Volevo scoprire un nuovo teorema? Assolutamente no. La matematica a me non serviva ed io detestavo ogni istante passato su quegli odiosi quaderni a quadretti.* « Il mio problema comunque è fare scuola in quell'orrendo edificio, se la facessimo in un prato sono sicura che riuscirei a concentrarmi molto di più. Comunque sì, purtroppo ho ancora due anni. Sarebbe bello vedere la luce in fondo al tunnel... Voi siete la mia salvezza, se non avessi te, Belle, Leah e gli altri con cui sfogarmi - sarebbe orrendo. Non voglio neanche pensarci. » *Con lei parlavo senza filtri, sfogandomi proprio come avrei potuto fare con Leah o con Belle. Invidiavo tutti i ragazzi più grandi che conoscevo, avrei tanto voluto aver concluso anche io il liceo.*
Genevieve Amélie S. Hale
Sentir parlare la più piccola delle sorelle Blossom era un balsamo per l'anima della mora che, dopo tutto ciò che aveva affrontato, qualche volta ancora zoppicava. Si sentiva una sorta di sorella maggiore per Nelly, e non solo per il legame di fate che condividevano, ma perché Genevieve vedeva in lei qualcosa di estremamente puro e cristallino. Inclinò di poco di lato il capo, abbassando per un momento lo sguardo, prima di sorridere sinceramente alle sue parole. « Sai che puoi sempre contare su di me, dico davvero e senza la paura di un possibile giudizio... » Allungò una mano per stringerle teneramente la spalla prima di cercare i suoi occhi con lo sguardo. Fece così un leggero cenno del capo prima che lo sguardo cadde sull'orologio sportivo che portava al polso sinistro. « E' meglio che vada ora, ho lezione tra non molto e se non arrivo in tempo rischio di rimanere seduta sui gradini delle scale... Dico davvero, però, sai che puoi sempre contare su di me.... E studia! Hai il mio numero per cui usalo! » Una volta salutata l'amica, la mora s'avviò in direzione del college, prima di arrivare in ritardo e sentirsi fare anche una ramanzina.  
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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edsitalia · 3 years
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EDS4
17) Lo sconosciuto
Ci siamo conosciuti in una di quelle chat che promettono amici e felicità senza fatica e fanno apparire l’essere soli quasi come un vantaggio. Io non sono sola, sono solo molto annoiata. La routine domestica non fa per me e cerco qualche svago in questo mondo fittizio.
Scelgo sempre foto che attirino gli uomini col chiaro intento di incuriosirli, di far sì che vogliano sapere qualcosa di più, che si sentano provocati. Non è difficile, sono una bella donna, molto curata, attenta al fisico e, cosa che spesso colpisce,sono anche intelligente.
Come se essere belle avesse la conseguenza di essere stupide…. ma gli uomini spesso sono davvero basici.
Scrivete in tantissimi, alcuni in modo simpatico, altri in modo provocatorio, altri come maiali ingrifati. Forse pensano che un messaggio sconcio sia più interessante di uno con almeno un briciolo di senso.
E’ qualche settimana che scambio battute con perfetti sconosciuti, a volte li provoco, altre mi ritraggo.
Sto cominciando ad annoiarmi di nuovo.
Una sera mi arriva un tuo messaggio.
Lo leggo svogliatamente, ma mi colpisce subito il tuo modo elegante di scrivere, senza errori, con una sintassi curata. Sei molto educato, il tuo post è un perfetto mix di buone maniere e seduzione. Decido di non rispondere subito, voglio vedere se è un caso o se ci riproverai.
Passano un paio di giorni ed ecco un nuovo messaggio. Come il primo, corretto ed elegante.
Ti rispondo. Con educazione ed ironia, lasciando in sospeso la conversazione per poter proseguire in un nuovo messaggio.
Che puntuale arriva. Sempre più interessanti, sempre più intriganti: scriviamo di tutto quello che ci succede e di quello che vorremmo ci succedesse, siamo in sintonia e gli argomenti iniziano a farsi più personali, a volte perfino piccanti.
Se tu fossi qui… se io fossi lì… cosa vorresti che ti facessi… vorrei sentire le tue dita su di me….Dai messaggi arriviamo presto al cellulare.
La prima telefonata è tua.
Hai una voce calda, quasi avvolgente, e ironizzi sulla mia che è decisamente poco femminile perché piuttosto bassa.
Adesso non mi annoio più. Riempi le mie giornate con messaggi e telefonate anche mentre sei al lavoro. Ma è la sera che diamo il meglio di noi.
Tu sei separato, io sono bravissima a inventare scuse per ritirarmi in camera e voler stare in pace.
Ben presto le nostre conversazioni assumono i toni delle 50 sfumature. Ma tutto, purtroppo, è pura immaginazione. Ci siamo scambiati qualche foto, nulla più. Ci diciamo cose altamente erotiche ma forse, se ci trovassimo in un aeroporto non ci riconosceremmo….
Una sera ti sbilanci: “ Voglio conoscerti, voglio vederti, voglio toccare ogni centimetro della tua pelle… voglio accarezzarti i capelli dopo aver fatto l’amore…”
Ci separano quasi 1800 km, ma in quel momento le distanze si annullano, sento di volerti, voglio farti dal vero tutto quello che ti ho descritto a voce. Chiudo la telefonata con una certezza in testa: organizzare un incontro.
Te ne parlo. Sei entusiasta. Decidiamo per Roma. Tutti e due conosciamo abbastanza bene la città e per tutti e due resta circa a metà strada da dove viviamo.
Per giustificare la mia assenza invento una trasferta per lavoro, e al lavoro chiedo ferie.
Prenoto il volo per me e l’albergo per tutti e due. Camera singola. Nel dubbio tu dal vero non mi piaccia o scopra essere diverso da quanto racconti.
Il tuo volo arriva 30 minuti prima del mio.
Quando esco dal gate ho lo stomaco in subbuglio, come una quindicenne che sente le farfalle per la prima volta. Cerco un volto simile a quello delle foto, questione di momenti e i nostri occhi si incontrano. Ci sorridiamo avvicinandoci. Ci studiamo nel breve tragitto che ci separa, fino a quando, uno di fronte all’altro,ci salutiamo quasi imbarazzati scambiandoci un rapido bacio.
Decidiamo per un giro del centro, una cena in qualche trattoria tipica e poi il rientro in albergo. Per tutto il giorno sei splendido: intelligente, simpatico, galante, provocante… in una parola sei perfetto.
Forse anche troppo. Ma non me ne rendo conto. I tuoi baci improvvisi, il tuo prendermi la mano mentre passeggiamo, i tuoi sorrisi, mi hanno stregato. Non vedo l’ora di rientrare in albergo per concludere la giornata nel migliore dei modi.
Abbiamo due camere separate ma è scontato che una delle due resterà vuota. Mi inviti in camera tua a brindare al nostro incontro,e io ovviamente accetto.
Sappiamo perfettamente tutti e due perché siamo qui, ma l’essere uno davanti all’altro non è la stessa cosa che essere dietro a una tastiera: l’aria è carica di aspettative, quasi tesa, nell’aspettare chi dei due farà la prima mossa.
Tante volte mi hai detto che ti sarebbe piaciuta una donna che prendesse l’iniziativa così poso il calice e con studiata lentezza mi avvicino a te, sento il tuo respiro e i tuoi occhi che mi guardano, ti passo una mano tra i capelli dietro la nuca e ti attiro a me per baciarti. Abbiamo tanto fantasticato di come sarebbe stato… tu volevi un bacio passionale di quelli che quasi ti tolgono il fiato, io un bacio dolce quasi da primo appuntamento.
Non è niente di tutto ciò. È un bacio impersonale tra due persone che hanno solo voglia in fondo di farsi una bella scopata. Però stiamo al gioco, ti lasci stuzzicare con la punta della mia lingua, mi lascio accarezzare dalle tue dita, mi metto sopra di te lasciandoti giocare con la mia pelle.. è un continuo prendersi e perdersi uno nell’altro, di gemiti spezzati, di mani che toccano, stringono…. di bocche che esplorano….
La notte è quasi finita, mi alzo per farmi una doccia. Mi trattieni a letto con un perentorio “stai qui”… mi divicolo e ridendo ti dico che non sono abituata a sentirmi dire cosa devo o non devo fare. È un secondo, ti sollevi dal letto e mi tiri un ceffone che quasi mi butta a terra.
“Ah no? Non sei abituata a sentirti dire cosa devi o non devi fare? Si tratta bene la signora…. ma io non sono tuo marito… a me devi obbedire senza fiatare.”
E’ un incubo non c’è altra spiegazione, sto sognando, ho sognato anche il ceffone… chi è quest’uomo che mi parla come se fossi un oggetto? Che si permette di alzare le mani? Cerco di ricompormi e inizio a parlarti con calma, quasi con dolcezza… “ tra non molto devo tornare in aeroporto,è meglio se torno in camera mi..”
“non hai capito un cazzo!!! Tu stai qui e fai quello che ti dico io! Non mi interessa il tuo volo, inventerai un’ altra palla… sei così brava… ma guardati…. sai cosa sei? Lo sai?”
Stai quasi urlando e io sono terrorizzata. Non riesco a muovermi, ti fisso stranita col terrore tu possa farmi del male. Ti sei trasformato in una belva per una semplice battuta…
Mi do della deficiente da sola, anche nelle nostre telefonate era successo ma ti eri immediatamente ricomposto dicendo che era solo per il gran desiderio che avevi di me… e io ho voluto crederti, non ho voluto vedere… e adesso sono qui con te, che farnetichi sull’essere tua… “ allora!!!! Hai capito cosa ti ho detto???” Non faccio in tempo a rispondere, mi arriva un altro ceffone.
Esci sul balcone a fumare, provo a uscire dalla camera ma hai chiuso e mi mostri la chiave dai vetri… Sono in trappola…
Poi ho un flash. Compongo il numero delle emergenze e riappoggio il telefono dove lo avevi messo tu… non ti sei accorto di nulla… torni in camera e ricominci a insultarmi…. riesco a schivare un altro ceffone ma non sono abbastanza veloce da non farmi prendere da te e buttare sul letto mentre mi dici che se non faccio bene il mio lavoro di ceffoni ce ne saranno molti altri….
Fuori dalla porta si sentono delle voci concitate, intimano di aprire, poi dopo pochi secondi la porta viene aperta col passpartout del concierge…. la chiamata è stata geolocalizzata. È tutto finito. Ti portano via dalla stanza e anche dalla mia vita….
Posso tornare a casa.
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Come Adrien e Rafael si conobbero...
Adrien alzò la testa dal piatto, osservando il padre e cercando di assimilare le parole che l’uomo aveva appena pronunciato: «Un nuovo modello?» chiese, sbattendo le palpebre e tenendo lo sguardo su Gabriel Agreste. Da quanto era piccolo, da quando aveva posato per la prima volta per la marca del genitore, era sempre stato lui l’unico volto della linea. Nessun altro lo aveva affiancato. Nessun altro aveva condiviso quel ruolo con lui. Gabriel annuì, posando la tazzina di ceramica bianca sul piattino coordinato: «A breve finirai il college, no? Le superiori ti prenderanno più tempo, oltretutto adesso hai anche Marinette quindi ho pensato di assumere un secondo modello per…» l’uomo si fermò, facendo spaziare lo sguardo: «…per darti più spazio.» Uao. Suo padre stava facendo passi da giganti: dell’uomo freddo e austero, timoroso del mondo esterno e votato al possedere i Miraculous della Coccinella e del Gatto nero, stava rimanendo davvero poco, facendo riscoprire ad Adrien il padre che aveva conosciuto quando sua madre era ancora in vita. «Va bene.» dichiarò il ragazzo, abbozzando un sorriso: «Come si chiama?» «Il suo nome è Rafael Fabre, ha la tua stessa età.» gli rispose Gabriel, tornando a bere il suo caffè: «Oggi pomeriggio, verrà per qualche scatto di prova, graderei che anche tu fossi presente per presentartelo.» «Sì, certo.» assentì Adrien, allungando una mano e recuperando una brioche dal cesto di vimini posto in mezzo alla tavola: un ragazzo della sua età. Forse sarebbe stato un nuovo amico… Odiava quel tipo. A pelle, sentiva proprio che quella sarebbe stata una persona da tenere alla larga: troppo sicuro di sé, troppo sfrontato, troppo…tutto. Adrien sbuffò, osservando Rafael Fabre sorridere a due ragazze che erano venute a vedere gli scatti che avrebbero fatto ai Giardini di Lussemburgo quel giorno, e ignorò platealmente il kwami che si era affacciato dalla borsa: «Lo sai chi mi ricorda?» gli domandò Plagg, puntandogli contro lo sguardo verde e Adrien si decise a smettere di trascurare l’amico. Anche perché, era certo, Plagg l’avrebbe continuato a osservare finché lui non gli avesse dato udienza. «Chi?» «Tu.» «Cosa?» «Quando ti trasformi. Siete identici: stesso modo di flirtare, stesso modo di pavoneggiarsi…» «Io non flirto.» «Certo, dillo a Marinette e Ladybug.» «Ma sono la stessa persona!» «Fino a poco tempo fa non lo sapevi, moccioso.» sentenziò il kwami, assottigliando lo sguardo verde, mentre un sorrisetto impertinente gli si stampò sulle labbra: «Ma credere che fossero due persone differenti, non ti ha impedito di provarci con una e dichiarare amore eterno all’altra. Un po’ come il nostro galletto là, che si pavoneggia con quelle ragazze nello stesso momento.» Adrien borbottò qualcosa, tirando la zip della borsa e mettendo a tacere lo spirito felino, alzando poi lo sguardo e notando che Rafael Fabre si stava avvicinando a lui: «Adrien Agreste, vero?» gli domandò il modello, allungando una mano mentre un sorriso gli piegava le labbra. Un sorriso che non arrivava allo sguardo. Adrien era un vero esperto in quella tipologia di espressione. Allungò la propria mano e strinse quella che gli era stata offerta, iniziando un gioco di forza: attanagliava le dita dell’altro e questi ricambiava la stessa con pari forza, finché una smorfia tradì Rafael Fabre, che lasciò andare la mano del biondo: «Molto piacere. Io mi chiamo…» «Rafael Fabre.» concluse per lui Adrien, sorridendo quando lo vide massaggiarsi le dita che aveva leggermente torturato in quel gioco di forza. Una bambinata, lo sapeva bene. Quasi immaginava già come Plagg lo avrebbe preso in giro, una volta rimasti soli. «Beh, spero di lavorare bene con te.» «Anche io.» Rafael abbozzò un secondo sorriso di circostanza, poi il fotografo li chiamò entrambi al lavoro e le ore successive passarono veloci, fra uno scatto e l’altro. «Sai, ero certo che avresti tirato fuori la clava e ti saresti battuto il petto.» sentenziò Plagg, una volta che Adrien ebbe aperto la borsa nella sua stanza, mimando poi il comportamento e ricevendo uno sbuffo infastidito da Adrien: «Ti hanno mai detto che i cavernicoli si sono evoluti? Hanno avuto secoli e secoli per diventare Homo Sapiens Sapiens.» Uno sbuffò infastidito fu la risposta del ragazzo, che fece ridere maggiormente il kwami: «Pensa se conosce la tua lady e ci prova. Mi sembra un tipo che ci prova, sai?» «Piantala.» «Sarebbe veramente interessante vedere come reagiresti.» «Sarebbe veramente interessante vedere tu senza camembert, anche.» «Tu, piccolo…»
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pangeanews · 5 years
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“Dateci i nomi che volete: tali ci fece amore: diteci folli insetti”. John Donne, il poeta preferito da T.S. Eliot e reinventato da Cristina Campo
1. TS Eliot. Un corridoio illuminato
Nel 1921 il supplemento letterario del Times ospita un affondo di Eliot che reindirizza i gusti poetici verso gli incomprensibili poeti del Seicento inglese. Per capirci, in Italia nello stesso giro d’anni imperversa Croce e il suo amore per il barocco. Tout se tient. Il pezzo di Eliot si concentra sul modo di fare poesia di quegli uomini come gruppo ma ha un occhio di riguardo, in particolare, per John Donne (1572-1631). Ecco la voce di Eliot. Serve farlo circolare di nuovo perché le traduzioni italiane sono vecchie di mezzo secolo.
“La differenza tra il Seicento e l’Ottocento non è una semplice differenza di grado tra poeti. È che è successo qualcosa nella mente inglese tra il tempo di Donne e di Lord Herbert di Cherbury – e il tempo di Tennyson, il tempo di Browning. È la differenza tra il pota intellettuale e quello riflessivo. Tennyson e Browning sono poeti e, in quanto tali, pensano; ma non provano la sensazione del loro pensiero con la stessa immediatezza di quando odorano una rosa. Quanto a Donne, per lui un pensiero era un’esperienza; modificava la sua sensibilità. Quando la mente di un poeta è equipaggiata alla perfezione per il suo lavoro, sta sempre lì ad amalgamare le esperienze più diverse; la mente dell’uomo normale, viceversa, è caotica, irregolare, frammentaria. L’uomo normale si innamora, o legge Spinoza, e queste due esperienze non hanno nulla a che fare l’una con l’altra, o col rumore di una macchina da scrivere o il profumo di una cucina; nella mente del poeta queste esperienze invece si congiungono in continuazione per formare qualcosa di diverso. Potremmo segnare la differenza così: i poeti del Seicento come eredi del teatro del Cinquecento possedevano un meccanismo della sensibilità che era in grado di divorare tutte le esperienze. Sono semplici, artificiali, difficili o fantasiosi tanto quanto chi li ha preceduti – né più né meno di Dante, Guido Cavalcanti, Guinicelli, e Cino. Nel Seicento invece scatta una dissociazione delle sensazioni dalla quale non ci siamo ancora ripresi; e questa dissociazione, com’era prevedibile, fu aggravata dall’influenza delle voci più potenti del secolo, Milton e Dryden”.
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Segnalo due punti. Primo: non era da tutti indicare Dante & Cavalcanti come predecessori degli Inglesi metafisici invece delle solite menate petrarchesche. È evidente che Pound era già passato come una furia sul giardinetto inglese.
Secondo: la dissociazione è la trovata critica di Eliot e vale sino a un certo punto per il nostro, per Donne, dal momento che Milton venne dopo e non poté scioccarlo, non poté rendere troppo secco il dettato intellettuale di Donne. In sostanza Donne è cerebrale al punto giusto, è cotto (d’amore) a puntino.
Eccovi la conclusione dell’articolo che vola oltre la critica e indovina delle possibilità di sviluppo che furono negate alla lingua e al sentimento inglese dal momento che vinse la linea ‘bigotta’ e celebrativa dei vari Milton & Dryden: “È interessante arzigogolare e chiedersi se non sia stata una sfortuna che i due maestri di dettato linguistico, Milton e Dryden, trionfassero con un disprezzo allegro per i valori dell’anima. Se anche continuassimo a produrre altri Milton e Dryden non sarebbe un problema ma per come stanno le cose è un peccato che la poesia inglese sia rimasta incompleta a tal punto. I pochi che osano criticare Milton e Dryden per la loro artificialità ci dicono di guardare a fondo nel nostro cuore e poi di scrivere. Non basta. Un Racine, un Donne – loro sì che guardavano a fondo, molto a fondo nel cuore. Bisognerebbe fare come loro e guardare dentro la corteccia cerebrale, dentro il sistema nervoso, fino ai tratti intestinali”.
Solo una parentesi da secchione per concludere: Praz che si gasava per gli emblemi barocchi fu l’unico dei nostri a sentenziare contro Donne trovandolo troppo duro e malato di sensazioni. Ma si sa che a Praz piaceva la carne corrotta dei decadenti, non quella trafitta di sensi di colpa religiosi. E questa fu la vita di Donne – la sua poesia, i suoi avanti e indietro lancinanti tra la stagione degli amanti e la morte del sole a Santa Lucia, tra gli scrupoli per il dio anglicano in cui credette per vivere in pace con la famiglia della moglie e il suo dio intimo, più mobile, carnale e cattolico, il dio dei gesuiti scaltri e incoerenti che lo avevano allevato da fanciullo. Forse non è una novità e va sempre così perché…
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2. La vita dei poeti è un romanzo impossibile
Infatti quella di Donne parla per tutti gli altri. Quando lessi il suo trattato sul suicidio, il Biathanatos che stampano quei folli delle edizioni SE, ero indeciso se attribuire quelle tristezze di Donne al momento particolare della sua vita oppure a una sua malinconia congenita e creativa. Insomma, come si spiega che un uomo rimasto vedovo scriva sul suicidio? Lui era saturnino già in partenza, aveva scritto alla sua Lady una poesia sull’abbandono, su lui che va a Londra dagli amici perché almeno con loro ingrassa (mentre lei lo fa patire). Com’è insomma che nel trattato sul suicidio Donne smette di fare poesia e diventa lucido? Mistero. Ancora non vedo una soluzione.
Forse è giusto così perché la vita di Donne fu effettivamente dura e spaventosa in confronto alle nostre tiepide case, al cibo caldo di natale e ai visi amici. Tanto per cominciare, a 12 anni all’università di Cambridge. Poi, membro di missioni esplorative alle Azzorre (i nuovi mondi unica alternativa al mondo dove è costretto, per temperamento, ad amare). Coinvolto nella cerchia del conte di Essex, poi finito malissimo sotto la ghigliottina di Elisabetta per eccessiva intraprendenza sul campo militare irlandese. Insomma, Donne era il solito uomo venuto dal basso che non sapeva e forse nemmeno voleva scegliersi le amicizie influenti, quelle che contano (e che a conti fatti castrano la poesia, mettono un preservativo sulla testa del poeta).
Dopodiché, a 27 anni, incontra questa sedicenne “di cospicua e anglicana famiglia” dopo un lungo anno di appostamenti nei roseti di York House sulle sponde del Tamigi mentre lavora per il padre di lei – il quale giustamente si in*azza perché Donne vorrebbe fargliela sotto gli occhi. Donne è il misero segretario di ‘lui’ che per la storia è il Lord Cancelor & Solicitor della regina vergine madre Elisabetta, Thomas Egerton.
Tra un foglio e l’altro l’occhio di Donne ha preso forme carnali, ha smesso di giocare con la pupilla interiore e si è incatenato alle forme visibili di Ann Egerton. La sposa da cattolico nel 1601, si fa anglicano ed entra negli ordini. Un vero gesuita. Così, astuzia dopo astuzia, coglie l’attimo e compone trattati su trattati di commenti agli Atti e alle Lettere di san Paolo. Che sia poesia anche questa sanno giudicare meglio altri, perché qui il tempo stringe ed è il momento di vedere la nostra monaca poetica, la Campo, che riuscì a modificare Donne nel suo alambicco con un…
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3. Maquillage di John Donne  
E in effetti Cristina Campo scrive parole deliranti nella sua prefazione a Donne. La passione che lo porta al matrimonio è riassunta in un acrostico verbale: “Quando a ventotto anni sposa Ann, Donne tipicamente anela a uno di quegli stretti cerchi magici che consentono di spaziare di là da un tempo e da un mondo. L’imago mundi si restringe finalmente alle dimensioni di una stanza, un volto, una pupilla in cui, come nei rotondi specchi di Van Eyck e di Velazquez, ogni cosa si raccoglie senza ferire. E come, di colpo, gli amori non gli appaiono più se non preistoria di un più fine e più compiuto stato, tipi indigenti e risibili dell’autentica storia, la affectio coniugali si fa a sua volta media proporzionale, tipo ancor timido della futura delectio Dei”. Che dire? Siamo alle solite. Qui c’è più Campo che Donne o meglio, c’è un Donne potenziato con l’avvertenza di Yeats in esergo, che lo dice in grado “di affinare e approfondire il pensiero per ingrandire bellezza e passione” che come escogitazione non è per niente male; ma come di consueto, manca Donne in carne e ossa.
C’è invece la Campo in carne e sangue. Con una dedica a Jaffier che è un personaggio inventato dalla Weil in una sua tragedia storica ambientata a Venezia, un’opera che Campo ingurgita e medita tra il 1956 e il 1971. Cosa successe in quegli anni?
1956: in una lettera all’amica Pieracci, alias Mita, segna così “sarebbe bello poter sognare ancora di aver bambini – e di chiamare il primogenito Jaffier”.
1971: va in stampa la versione di Donne dedicata a Jaffier.
Ed è meglio fermarsi con le indagini psicologiche, senza misurare perché il libretto di poesie di Donne è, semmai, un libro della Campo su Donne. Qui, l’avrete capito, non mi interessano le coincidenze, i perché e i percome che portano Campo a tradurre Donne. Ci saranno sciami di studiosi a dischiudere piccoli forzieri con missive di Cristina che pensa di tradurre questo così e quello colì. Oggi non conta. Importa invece salire sul ring, aprire il libretto bianco Einaudi di Poesie amorose e teologiche per notare i granchi presi da Campo, i ghirigori che la portano a sciogliere il dettato di Donne che in origine è più sobrio, più castigato e, direi, più rassegnato e mansueto rispetto ai giri di frase che gli impone la poetessa sacra. Per esemplificare, qui sotto leggete due poesie di Donne tradotte dalla nostra.
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4. Donne secondo Campo
The Canonization
Call’s what you will, we are made such by love; Call her one, me another fly, We’re tapers too, and at our own cost die, And we in us find th’ eagle and the dove. The phoenix riddle hath more wit By us; we two being one, are it; So, to one neutral thing both sexes fit. We die and rise the same, and prove Mysterious by this love. We can die by it, if not live by love, And if unfit for tomb or hearse Our legend be, it will be fit for verse; And if no piece of chronicle we prove, We’ll build in sonnets pretty rooms; As well a well-wrought urn becomes The greatest ashes, as half-acre tombs, And by these hymns, all shall approve Us canonized for love; And thus invoke us, You, whom reverend love Made one another’s hermitage; You, to whom love was peace, that now is rage; Who did the whole world’s soul contract, and drove Into the glasses of your eyes; So made such mirrors, and such spies, That they did all to you epitomize— Countries, towns, courts beg from above.
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La canonizzazione
Dateci i nomi che volete: tali ci fece amore: or l’uno or l’altro diteci folli insetti; ma siamo anche candele e moriamo di noi e in noi troviamo l’aquila e la tortora. L’enigma della Fenice da noi s’illumina: e poiché noi siamo uno, lo siamo entrambi. Così ad una sola neutra cosa i due sessi si accordano: come quella moriamo e risorgiamo, noi fatti misteriosi in questo amore. E possiamo morirne se non viverne; e, se inadatta per sepolcri e feretri, questa leggenda correrà nei versi, e se non entreremo nelle cronache, leggiadra stanza avremo nei sonetti: l’urna elegante si conviene a elette ceneri quanto il tumulo maggiore. E per quest’inno attesteranno i molti noi due, canonizzati per amore. E invocheranno: voi che il reverendo amore fece mutuo romitorio (e a voi fu pace amore, che ora è furia) voi che traeste l’anima del mondo e concentraste nelle vostre iridi fatte così perfetti specchi e spie che a voi tutto riassunsero: paesi, corti, città – otteneteci dall’alto di questo amore un calco!
*
A ben vedere, non è tanto un guaio di musicalità che va diluita ma proprio di nettezza di sensazioni: Donne impatta di più nei versi iniziali e la Campo li rende meno scabri. Li renderei così:
Chiamateci come volete, siamo fatti così da amore; chiamatela pure moscerino, e io con lei, siamo moscerini e candele e moriamo come queste, e troviamo dentro di noi l’aquila e la colomba. L’enigma della Fenice lo risolviamo io e lei, diventiamo eterni divenendo di due, uno. Così entrambi i sessi si accordano per diventare uno e neutro, eppur moriamo e nasciamo lo stesso, mostrandoci misteriosi per questo amore.
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Soprattutto il finale è travisato dalla nostra, è travasato nel suo calco, nella sua identità. Lo si potrebbe soppesare così:
Molti ci invocheranno e diranno voi che il sacro amore fece di ciascuno il rifugio dell’altro; voi per cui amore era pace e ora è rabbia e riusciste a portare a unità le vostre anime mondane e le portavate nella magia dei vostri occhi a specchio, ed erano spie perfette che mandavano dispacci l’un l’altro: con paesi, città e corti: voi amanti, guidateci dall’alto sulla via d’amore.
Questo coinvolge il nodo dello specchio magico che un punto fisso dei letterati inglesi almeno dal Dottor Faustus di Marlowe (spia finita pugnalata, oltre che scrittore). Faccio ancora un poco le pulci alla divina Campo e poi chiudo.
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5. Gli occhi specchio
Tra le poesie profane tradotte dalla Campo c’è Fattura col ritratto. Lei dice: Fisso il mio occhio nel tuo, e vi compiango Il mio ritratto che vi arde. Il mio ritratto immerso immerso in trasparenti lacrime Scorgo, se indago più in basso.
Ma il valore dell’originale è più nervoso. L’amata, questo oggetto traditore, è come l’Inghilterra di allora, infiltrata di spie cattoliche come un formaggio. L’originale del pensiero di Donne, se fosse possibile, sarebbe che “la mia immagine è dipinta in una lacrima trasparente / quando abbasso lo sguardo devo spiare nei tuoi occhi”.
Per il resto la Campo si riprende e incomincia a calcare la mano, si è accorta che Donne è derelitto:
Avessi tu la diabolica arte Di uccidere con fatti, poi guastati ritratti, In quanti modi non potresti farlo? Ma ora ho bevuto le tue dolci e salse Lacrime, e sebbene altre ne versi, Mi diletto. Dissolto il mio ritratto, I timori dissolti che mi nuoccia quell’arte. E sebbene di me tu serbi ancora Un ritratto, quello sarà puro D’ogni malizia, poiché l’hai nel cuore.
*
6. I dolori del giovane John Donne
Per chiudere, una piccola poesia presa dalla pagina di Poetry. Per gli inglesi lui è solo questo, non ci sono santi che tengano. Buon pro vi faccia. (Andrea Bianchi)
*
Elegia VII
Sembrava idiota la natura e dovetti insegnarti ad amare, E in quei sofismi oh! ti mostrasti troppo esperta: folle, non hai appreso il linguaggio mistico dell’occhio e nemmeno quello della mano: Né riuscivi a giudicare la differenza delle arie E dei sospiri e dire questa è menzogna, questa disperazione: Né riuscivi a intendere dalla cascata dentro gli occhi Che c’era una malattia disperatamente calda, che variava come febbre. Non ti avevo ancora insegnato, allora, l’alfabeto dei fiori, e come ti ingannano per esser stati raccolti per bene in mazzo Per poi portare a perdizione la coppia nel silenzio. Ricordati allora di quelle parole che usavi Io, se i miei amici sono d’accordo Dal momento che sono l’attrazione del nostro focolare insieme al nome di tuo marito E sono i trucchi d’amore che potresti intendere alla perfezione.
*
Remember since all thy words used to be To every suitor, “I, ’if my friends agree”; Since, household charms, thy husband’s name to teach, Were all the love-tricks, that thy wit could reach; And since, an hour’s discourse could scarce have made One answer in thee, and that ill arrayed In broken proverbs, and torn sentences. Thou art not by so many duties his, That from the’world’s common having severed thee, Inlaid thee, neither to be seen, nor see, As mine: who have with amorous delicacies Refined thee’into a blissful paradise. Thy graces and good words my creatures be; I planted knowledge and life’s tree in thee, Which oh, shall strangers taste? Must I alas Frame and enamel plate, and drink in glass? Chafe wax for others’ seals? break a colt’s force And leave him then, being made a ready horse?
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italianaradio · 5 years
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Avengers: Endgame, il mistero di Cap e della sua ultima missione
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Avengers: Endgame, il mistero di Cap e della sua ultima missione
Avengers: Endgame, il mistero di Cap e della sua ultima missione
Avengers: Endgame, il mistero di Cap e della sua ultima missione
Alla fine di Avengers: Endgame, quando Thanos è stato sconfitto e le cose sono state ripristinate secondo la volontà degli eroi, nonostante le perdite, Steve Rogers viene incaricato di restituire le Gemme dell’Infinito al rispettivo posto nel flusso del tempo, esattamente dal punto dove ognuno di loro le aveva prese.
In questo modo la linea temporale principale del MCU viene ripristinata, stando almeno a ciò che viene spiegato nel film e viene anticipato dall’Antico di Tilda Swinton. Nell’idea dei Vendicatori, Steve sarebbe dovuto andare nel passato, compiere le sua missione e tornare indietro. Tuttavia, come ben sappiamo, non torna indietro, almeno non subito. Sceglie di rimanere nel passato, con Peggy Carter, finalmente!
Porta con sé anche il Mjölnir di Thor, che aveva impugnato nella battaglia contro Thanos, in una delle scene più epiche del terzo atto, in cui, a colpi di scudo e martello, Cap è sul punto di sopraffare il Titano. Il martello dei Dio del Tuono, così come le Gemme, va riportato nella sua linea temporale, ai fatti di The Dark World.
La sua scelta però avrebbe dovuto creare un’intera linea temporale nuova, in cui esiste un Cap congelato e uno che torna a casa da Peggy. Oppure no? Dove si è fermato il “nostro” Steve? I registi del film hanno commentato proprio questo mistero:
“Se Cap dovesse tornare nel passato e vivere lì, creerebbe una realtà ramificata – ha spiegato Joe Russo – Allora la domanda diventa: come è tornato in questa realtà per consegnare lo scudo a Sam?”
“Domanda interessante, vero? – continua Joe – Forse c’è una storia da raccontare. Ci sono molti strati incorporati in questo film e abbiamo passato tre anni a rifletterci sopra, quindi è divertente parlarne e, si spera, riempire buchi per le persone in modo che capiscano bene a cosa stiamo pensando.”
Ma in quella scena ci sono altre domande, altre curiosità che emergono dal salto temporale di Steve. Le reazioni di Bucky, l’eredità di Sam, ad esempio. I Russo hanno confermato che, nel momento in cui Steve si appresta a partire, Bucky ha già intuito l’intenzione del suo amico di rimanere indietro nel tempo. Probabilmente è questo che giustifica il dialogo che i due hanno prima della partenza. Ma come fa Bucky a sapere cosa ha intenzione di fare Steve? Può essere che il Soldato d’Inverno ha già incontrato lo Steve “alternativo” in un’altra linea temporale? Sembra che la risposta sia sì, stando a quanto fanno capire i Russo.
Per quanto riguarda Sam, invece, sembra proprio che Falcon non avesse alcun indizio di quelle che erano le intenzioni di Steve, come spiega Joe Russo: “Sam non sa nulla”. Falcon non ha idea di Old Cap, ed è per questo che Bucky lo spinge ad andare a parlare con l’ormai anziano Steve Rogers seduto su quella panchina. Bucky ha già la risposta alle domande che Sam sta per fare. Sappiamo che entrambi i personaggi torneranno nella serie Disney +, al momento in fase di lavorazione, e immaginiamo, a questo punto, che Sam Wilson porterà con sé anche lo scudo che Cap gli affida a fine film.
Lo scudo che Steve dà a Bucky è quello che viene dal passato, visto che quello del presente viene distrutto durante la lotta contro Thanos. Il passaggio di consegna è ufficiale dal momento che è lo stesso Captain America in carica a consegnare l’oggetto al successore.
Potrebbe anche essere, però che nella timeline con Old Cap possa esistere un momento in cui lo scudo non è più di Steve ma già di Sam, anche se il giovane amico di Rogers non lo sa. In questo modo, Steve sta solo restituendo lo scudo al legittimo proprietario. Ma se così fosse, cosa ne è stato di Sam, dal momento che lo scudo è stato portato a questa linea temporale?
Si tratta di domande molto valide sollevate da quell’unica scena finale, e secondo i Russo le risposte che potrebbero esigere i fan non sono state ancora scritte, e magari c’è una storia, da qualche parte, che aspetta di essere ancora raccontata.
Quando Steve vecchio saluta Sam, notiamo tutti la fede nuziale al suo dito, tutti sappiamo che sta ad indicare che Steve ha scelto finalmente di vivere la sua vita con Peggy, e Sam gli chiede di lei. Ma Old Cap risponde: “No … no, non credo che lo farò (parlarti di lei)”.
Sappiamo che Steve è tornato indietro e che è andato a vivere in una timeline secondaria. Tuttavia, molti fan si chiedono se si tratti di una disattenzione. Steve Rogers potrebbe aver trovato un modo per riallineare le timeline? Se è così, ciò gli permetterebbe di vivere nell’ombra come il “marito segreto” di Peggy, che è stato riconosciuto ma non è stato identificato finora nell’universo cinematografico Marvel. Ciò sembra improbabile sulla base del fatto che Joe Russo ha detto che una delle domande più ovvie è “come è tornato in questa realtà?”
La presenza pacifica e nascosta di Steve nella realtà principale crea anche molti paradossi: perché non riesce ad arginare l’infiltrazione di Hydra nello SHIELD? Perché non avverte i Vendicatori della prossima invasione aliena nel 2012? Perché non interferisce in tutte le principali tragedie e conflitti che conosciamo?
Forse lui agisce, ma sarebbe comunque in un universo alternativo, non certo nel principale. Quando rifiuta educatamente di parlare a Sam di sua moglie, potrebbe essere un suggerimento anche al pubblico: non potete sapere tutto, almeno non ancora.
Probabilmente si tratterà del prossimo passo, della narrazioni delle famiglie a diversi livelli temporali, con il racconto delle realtà alternative delle famiglie degli eroi. Ad esempio, all’intera domanda “Dove è andato Cap?” potrebbe essere data risposta nella serie animata di What If che la Marvel sta sviluppando per Disney +.
Il primo titolo annunciato esplora cosa accadrebbe se fosse stata Peggy Carter la protagonista dell’esperimento in cui Steve ha ricevuto il siero del Super-Soldato. E se quel mondo fosse quello in cui Steve è andato ad abitare? Con Peggy che fa la supereroina e lui che è un “normale” marito?
L’ultimo dettaglio della scena è invece una curiosità tecnica che i fratelli Russo hanno svelato a EW: l’uomo anziano, nel film, era effettivamente Chris Evans invecchiato con make up e CGI. “Ovviamente, se non avesse funzionato perfettamente, poteva minare le intenzioni emotive della scena – afferma Anthony Russo – Abbiamo usato un sacco di effetti pratici, quindi è stato un lavoro di makeup molto elaborato che è stato poi perfezionato con il CG, perché ci sono alcune cose che non puoi fare con il trucco per rendere credibile quell’età sul volto di un uomo giovane”.
Leggi la recensione di Avengers: Endgame
Nel cast di Avengers: Endgame ci sono Robert Downey Jr., Chris Hemsworth, Mark Ruffalo, Chris Evans, Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch, Don Cheadle, Tom Holland, Chadwick Boseman, Paul Bettany, Elizabeth Olsen, Anthony Mackie, Sebastian Stan, Letitia Wright, Dave Bautista, Zoe Saldana, Josh Brolin, Chris Pratt, Jeremy Renner, Evangeline Lilly, Jon Favreau, Paul Rudd, Brie Larson.
Dopo gli eventi devastanti di Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle conseguenze che potrebbero esserci.
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Avengers: Endgame, il mistero di Cap e della sua ultima missione
Alla fine di Avengers: Endgame, quando Thanos è stato sconfitto e le cose sono state ripristinate secondo la volontà degli eroi, nonostante le perdite, Steve Rogers viene incaricato di restituire le Gemme dell’Infinito al rispettivo posto nel flusso del tempo, esattamente dal punto dove ognuno di loro le aveva prese. In questo modo la linea […]
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Chiara Guida
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