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#vincenzo filosa
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Original from Vincenzo Filosa's Viaggio a Tokyo
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anaromantico · 2 years
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"Sir, le ho portato la sua fiducia nel prossimo"
"Ma che fine aveva fatto, Lloyd? Pensavo di averla persa..."
"L'aveva solo riposta nelle persone sbagliate, sir"
"E quali sarebbero quelle giuste, Lloyd?"
"Le persone che non si dimenticano di averla ricevuta, sir"
"Pensiero davvero molto ordinato, Lloyd"
"Buona settimana, sir"
(Di Lloyd, di sir, di vuoti e pieni che sono divenuti un quadro del maestro Vincenzo Filosa)
🦖
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fumettologica · 7 years
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Coconino Press – Fandango, in collaborazione con il Ministero dei beni culturali, inaugura una nuova collana di fumetti per raccontare i musei italiani.
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canicolaedizioni · 7 years
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BOLLE IN PENTOLA: Figlio unico di VINCENZO FILOSA
Dopo l’esordio pirotecnico di Viaggio a Tokyo, Vincenzo Filosa ritorna con una nuova graphic novel tra avventura e romanzo di formazione. Racconto di fantascienza sociale sulla scia di grandi classici come Astroboy di Osamu Tezuka, Figlio unico propone il tema del bambino solitario che scopre di essere speciale. Un nuovo viaggio ai confini del mondo attraverso le vette più alte e gli abissi più profondi, dentro città caotiche e tentacolari, regni invisibili nel cuore della natura. Tokyo-Crotone andata e ritorno, andata e ritorno?
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Il "non finito calabrese”, le ragioni di un paesaggio ferito
“Anche quando vado nelle altre città l'unica cosa che mi piace fare è guardare le case. Che bello sarebbe un film fatto solo di case” (Nanni Moretti nel film “Caro diario”).
Mi affaccio alla finestra. C’è la piana di Gioia Tauro e le isole Eolie che galleggiano sul Tirreno. Più in là l’infinito. Ma accanto, a pochi metri da qui, c’è il non finito del mio vicino di casa: tre piani di mattoni nudi senza intonaco, l’ultimo costituito solo da colonne di cemento armato esposte alle intemperie.
Ricordo quando da bambino da quel portone vidi uscire la figlia del vicino vestita in abito da sposa. La perfezione dell’acconciatura e il candore di quel vestito contrastavano col rossiccio dei muri grezzi, che all’epoca di certo non suscitavano in me particolari sensazioni. Era normale. Anche per me.
Siamo in Calabria. E sto parlando di quello che negli ultimi anni ha preso il nome di “non finito calabrese”, una presenza ingombrante quanto costante, che fa ormai parte di questo paesaggio.
A differenza delle opere incomplete di Michelangelo, in cui l’incompiutezza dell’opera è un valore, segno di totale libertà espressiva, queste costruzioni lasciate a metà, che sfigurano il territorio, non sembrano essere frutto di una coscienza estetica consapevole.
La casa è una delle icone più facilmente rappresentabili. Bastano solo quattro linee. Un quadrato con sopra un triangolo. Forse è il primo disegno che un bambino riesce a realizzare. In Calabria però è diverso e questa figura ha spesso contorni un po’ meno definiti.
A queste latitudini la fase di costruzione può prolungarsi in maniera indefinita. La casa può essere abitata già in fase intermedia. A volte viene terminata solo in parte, mentre il resto è lasciato in sospeso. Per sempre…
Sono un calabrese che ha trascorso gli ultimi quattordici anni fuori dalla sua regione. Dopo tanto tempo lontano dalla Calabria mi sono posto delle domande su questo fenomeno a cui non mi sono ancora abituato.
Sono sempre stato incuriosito, se non ossessionato, dalle ragioni che inducono a non terminare questi edifici, spesso abitati per metà. Sono ragioni economiche? Sociali? Storiche?
È molto facile cadere nella condanna e nella rabbia per un paesaggio spesso deturpato da questo cemento. Ma vorrei andare oltre l’indignazione e cercare le radici culturali di questo fenomeno.
In questa riflessione ho cercato di ascoltare alcune persone, calabresi come me, che hanno già affrontato questo tema, secondo la loro prospettiva.
La prima persona che decido di coinvolgere è Angelo Maggio, un impiegato delle Ferrovie della Calabria con l’hobby della fotografia, che da più di venti anni immortala il non finito nostrano. Mi perdo fra le foto del suo progetto “Cemento Amato”. Trovo immediatamente che i suoi scatti siano carichi di tutta quella decadenza e contraddizione che mi affascina e ripugna allo stesso tempo. Angelo mi racconta di quella volta in cui fotografò la statua del Cristo a San Luca, in un contesto di case di cemento e mattoni. Con sua grande sorpresa quella foto piacque molto agli abitanti di quel paese. Per loro era un normale contesto urbano. È proprio questo il punto centrale: come è stato possibile assuefarsi a questo codice architettonico?
“Il problema non è tanto che quelle case sono brutte” mi dice Angelo, “quanto che sono disabitate, o abitate per metà. Buona parte di queste abitazioni è stata realizzata tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Ognuno cercava di costruire per i propri figli. Nelle culture più tradizionali si tende a non far spostare la figlia femmina dal nucleo familiare d’origine. Quindi si cerca di allargare lo spazio domestico per tenere unita la famiglia”. È forse questa la ragione che spinse a erigere questi appartamenti sovradimensionati poi rimasti in gran parte vuoti? La mentalità dei padri è stata questa: “Io intanto costruisco la struttura. Poi ognuno se la finirà per i fatti suoi”.
Scopro che anche il mio amico architetto Vincenzo Bernardi si è occupato di questo tema. Un altro calabrese emigrato, che lavora prevalentemente all’estero. Con lui iniziamo a parlare di viaggi, del fatto che se hai la possibilità di spostarti un po', riesci a vedere le cose con un altro occhio. Per Vincenzo “il non finito non è da bollare semplicisticamente come una vergogna, ma è un fenomeno da comprendere. Rappresenta una speranza. O almeno l’ha rappresentata. Sull’onda del boom economico si è cominciato a costruire con l’illusione di chissà quale chimera”.
Vincenzo mette l’accento sulla precarietà, in tutti i sensi, del territorio calabrese. “Un territorio spesso poco ospitale e che nel corso della storia è stato periodicamente devastato da terremoti e alluvioni”. È come se in Calabria si fosse storicizzata questa sfiducia, questa attitudine a non costruire “bene”, perché comunque prima o poi qualcosa renderà tutto vano.
Tramite Vincenzo, finisco per conoscere anche il punto di vista più antropologico di Angela Sposato. “Sono luoghi di drammaturgia che però esprimono il nostro essere calabresi. Prima che estetico è un problema dell’ethos. Siamo tutti un po’ dei non finiti, approssimativi, procrastinatori, tendiamo all’attesa. L’attesa è incantesimo, è delirio. Attesa di un avvento che non ci sarà mai”.
Un aspetto da considerare è tuttavia che in questi spazi disabitati ci sono piccoli segni di vita. Il non finito viene in qualche modo “goduto”. Diventa uno spazio in cui si mettono i pomodori a seccare, si fa la conserva, si stendono i panni. Spesso sono i cani a beneficiare di queste aree inutilizzate. Li senti abbaiare minacciosi verso i passanti dai piani alti. A volte diventano persino luoghi di divertimento. “Non dimentico quella festa di 18 anni in una casa non finita (il piano superiore finito nei minimi particolari ed il piano terra in mattonato). Fecero la festa al piano terra, in mezzo alle colonne di cemento armato con luci psichedeliche, buffet di tutto punto. Il contrasto era molto forte”.
Ma allora, che cosa ce ne facciamo di tutto questo non finito, che è un po’ l’estetica dominante del paesaggio calabrese? Bisogna abbatterlo? È una delle domande che rivolgo ad Emilio Salvatore Leo, architetto ed imprenditore. “Innanzitutto bisognerebbe indagare il fenomeno costruendo una tassonomia dei casi. Il non finito è un po’ questo sogno tradito di poter continuare a costruire i propri castelli. È opportuno considerare che una-due generazioni hanno investito le loro energie finanziarie (e non solo) per costruire tutta questa carica di bruttura. Alcuni di questi manufatti, all’interno di una nuova progettazione, potrebbero diventare dei “contenitori pubblici”, dei luoghi che, opportunamente trasformati, restituiscano questa dimensione della spazialità, dell’architettura come ricucitura del sogno collettivo.
Bisogna però spostare l’asset dall’autocostruzione ad una serie di professionisti che hanno gli strumenti culturali per rendere questa complessità non precaria, che la convertano in linguaggio che sia sovversivo e contemporaneo e che includano i moderni concetti dell’abitabilità”.
L’ultima persona con cui mi confronto è Vincenzo Filosa, un fumettista che è riuscito a coniugare il mondo dei manga con la Calabria. L’architettura calabrese finisce spesso nei suoi disegni. Vincenzo pone giustamente l’attenzione sul fatto che il non finito può essere “finito” dall’osservatore, con la fantasia. Può essere potenzialmente ancora tante cose. “Sono degli spazi vuoti su cui si può inventare qualsiasi tipo di storia. Crescendo ti rendi conto però che quei palazzi sono così perché l’emigrazione li ha svuotati, anzi ha fatto in modo che non venissero mai riempiti. Quelli sono gli edifici che la nostra generazione avrebbe dovuto abitare, ma che non occuperà mai”.
In Calabria ogni giovane si trova prima o poi di fronte ad una difficile, spesso dolorosa, scelta: rimanere o partire, cercare di sbarcare il lunario qui, fra mille difficoltà ma godendo di un territorio di grande bellezza, o cercare fortuna altrove, in luoghi più favorevoli allo sviluppo e alla valorizzazione del proprio talento.
Oggi questi edifici sono il segno tangibile di un abbandono, di un’assenza. È una delle sfaccettature, forse la più visibile, della famigerata e complessa “questione meridionale”.
La complessità è grande, soprattutto da un punto di vista antropologico. Il non finito oggi è paesaggio. Ci rappresenta. Fa parte della Calabria. È una categoria non facile da decifrare perché i mondi che richiama non sono solo estetici.
Il non finito spesso assume i tratti di una tensione verso il cielo, un’estensione dello spazio privato, di una sospensione del tempo. Questi totem di cemento che spuntano dai solai sembrano quasi fungere da congiunzione fra il finito e l’infinito, fra il privato e il pubblico, fra il dentro e il fuori.
Da bambino ero solito giocare nella casa dei miei vicini. Ricordo benissimo quei mattoni forati, la sensazione che mi davano al tatto quando mi appoggiavo al muro. Tra un mattone e l’altro si intravedeva il cemento. C’erano degli spazi segreti in quei muri. Delle fessure in cui un bambino poteva nascondere le sue cose più preziose.
E ricordo l’ultimo piano, senza pareti, sempre molto ventilato, che nel corso degli anni ha assunto le funzioni più disparate. Anche quella di pollaio. Oggi mi pare sia adibito a sola lavanderia. Eppure il piano del mio vicino di casa doveva essere diverso. La figlia avrebbe dovuto completare ed occupare quello spazio, invece vive in Valle d’Aosta e torna con i suoi figli solo in estate.
Oggi vedo questi ragazzini, dall’accento nordico, in vacanza aggirarsi per casa. Una casa che è loro. Ma loro forse non lo sanno.
Foto di Angelo Maggio (progetto “Cemento Amato”)
(presso Calabria)
https://www.instagram.com/p/CFHlq0jI5uZ/?igshid=1evw7pfw6rwx1
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hollow-press · 4 years
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Today, 18:00 GMT + 2, on COMICON fb page, there will be a live stream with Vincenzo Filosa and Spugna for the quarte finals of a huge tournament. Of course you know on wich side we are on!
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aurelienfacente · 5 years
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Mi sono fatto personalizzare Italo di Vincenzo Filosa dal grande Filosa stesso #aurelienfacente #photographer #smartphotography #selfie #selfportrait #me #myself #scrittore #writer #blogger #book #libro #leggere #reading #reader #comics #fumetto #graphicnovel #italo #vincenzofilosa #crotone #kroton #calabria #photooftheday #picoftheday #instagood #instalike #instagram #instaphoto #instafriends (presso Circolo Arci "Lecentocittà") https://www.instagram.com/p/B6q_7nFgFTW/?igshid=1qdj2htlqwom7
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mit199nft · 4 years
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Torneo delle Mazzate 2020 Secondo quarto - 6 maggio VINCENZO FILOSA VS SPUGNA
da: https://www.comicon.it/the-art-of-pugni-presenta-il-torneo-delle-mazzate
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combatcomics-blog · 7 years
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E visto che finora "scusate se è poco", vi diciamo chi altri troverete il pomeriggio del 9 Giugno. @filosav, o meglio Vincenzo Filosa, la voce più autorevole quando si parla di manga e di cultura del Giappone. Il Combat è un animale curioso, e vi aspettiamo per perderci insieme tra le strade di Tokyo, con tutta la meraviglia di un occhio occidentale. "Viaggio a Tokyo", Canicola Edizioni, sará presentato venerdí 9 Giugno alle 18. Precisi, mi raccomando!
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hodgkintimes-blog · 8 years
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Original from Vincenzo Filosa's Viaggio a Tokyo
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spinebookstore · 4 years
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"Da tempo ormai considero #YoshiharuTsuge e tutto il suo lavoro come un enorme paradosso. Parliamo di uno dei più importanti esponenti del fumetto giapponese che è riuscito a imporre la sua grandezza pur pubblicando pochissimo; un autore che ha smesso di lavorare trent’anni fa… una rarità in Giappone, dove i mangaka sono come degli appartenenti a una gang: “entri vivo ed esci solo morto”. Nel 1986, dopo la pubblicazione de L’uomo senza talento – che era stato serializzato in una rivista chiamata “Comic Baku” – Tsuge ha realizzato altre due storie e poi ha salutato tutti. Il libro reinventa il watakushi manga, cioè il manga dell’Io, ed è il culmine della sua ricerca trentennale. " - [Vincenzo Filosa] . . Ne parleremo nuovamente con @filosav il 3 Marzo e sul nostro canale Zoom, per il nuovo appuntamento on-line di #Testafralenuvole - Il club del Fumetto di Bari. La partecipazione è libera e gratuita, ma è necessario prenotarsi compilando il consueto form che trovate nell'evento. . . #spinebookstore #Spine #Bari #Puglia #Italia #libri #fumetti #autoproduzioni #smallpress #albiillustrati #microproduzioni #editoria #edizioni #italiane #estere #stampe #graphicnovel #illustrazione #arte #poster #bookshop #booklovers #illustratedbooks #indipendente #independentbookshop #illustration #autori (presso SPINE Bookstore) https://www.instagram.com/p/CLuPRzGAA29/?igshid=1wh8pi40fp9bs
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berliac · 7 years
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Yoshiharu Tsuge’s Zen
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What follows is my contribution to a lecture with Paul Gravett (UK) and Vincenzo Filosa (IT) held at the Academy of Fine Arts in Bologna, on the occasion of Bilbolbul Festival.
The first part, with Gravett's and Filosa's interventions can be read here (in italian).
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Paul Gravett: I read in an interview that Tsuge, in order to cope with some of his emotional and psychological problems, at some point was directed towards Zen, in particular to seated meditation, zazen.
Berliac: I've never read about it, but it makes total sense. I consider "The man without talent" one of the purest expressions of Zen in manga form. Tsuge's main focus in the book, the issues it addresses, are the very essence of Zen, that is, a direct experience of things, a concrete experience of life, and reality as the ultimate expression of beauty. He explores these fundamental questions of Zen not only in its content, but mostly in the form itself, a narrative and structure devised to guide the reader into "being present" beyond intellectual interventions, in short, to be mindful, in Buddhist speak. Tsuge talks about what it means to be present by building an elliptic narrative which isn’t chronological nor direct, and similarly to a photographic negative, or an etching, where the picture emerges from all those parts we do not touch, it is the empty spaces what create meaning.
One of the Zen elements present throughout his whole career, especially in his more mature works such as the famous "Neji shiki", is that which according to Master Dōgen, who brought Zen to Japan from China in the 12th century, reality and dreams can be represented as a Moebius strip (”To doubt the dream state is itself to dream”). On the one hand we have everyday reality. On the other, that of dreams. But if we bend the sheet until its ends meet, they become one continous surface. This is a clear example of what Zen Buddhists call nondualism or Buddha Nature - not one, not two -, and in "Neji shiki" this concept is expressed at its best. From a Western point of view this particular work falls under the surrealist category, but in Tsuge’s work dream reality is not "beyond" or "under" reality, but one and the same.
After this so-called surrealist period, Tsuge begins to produce more contemplative works, more literary or even essaistic in their form, clearly reminiscent to Watakushi shōsetsu , or "I-Novel”, as autobiographical literature was called in Japan. A moment ago Paul Gravett pointed to "being in nature" as a recurrent motif in Tsuge's stories of this period. In the ancient tradition of Chinese Zen, or Ch'an, one of the most widespread Buddhist practices was that of hermitage. To leave, to move to the mountains, to get lost in nature. In these works Tsuge explores another example of Zen non-dualism, that is, the elimination of the internal/external dichotomy, presenting both aspects as part of the same thing instead.
Yet, the question of what “nature” is according to Zen mustn’t be overlooked. In Zen speak, nature is called shō, and to see it is the first step towards enlightment. As Master Shunryu Suzuki once said: “the true purpose of Zen is to see things as they are”. Thus, from the point of view of Zen Buddhism, nature means not only to "be in nature", like many of Tsuge's characters, but also, to appreciate the essence of “things as they are” without human intervention, in their natural state. In “The Man without talent”, this concept is exemplified in the art of Suiseki (the appreciation of stones in their natural, unmodified state). In a revealing dialogue in which the protagonist is instructed on the art of collecting stones, he understands that suiseki is the very essence of aesthetic perfection and, true to the Zen spirit, the aesthetic qualities of these stones lies in the object itself as much as in the gaze of the viewer: it's the gaze which creates and reveals beauty. This way, a suiseki stone becomes a metaphor of life itself as perceived through Tsuge’s Zen.  
Zen sword master Odagiri Ichiun once said: “the swordman is to give up all desire for name and gain, all egotism and self-glorification”. And in fact, after "The man without talent" Tsuge engages in what Taoists call Wu Wei. In pages 170 and 178 the protagonist is arguing with his insistent wife who tells him: "you are a mangaka, you have to do this, you have to continue", yet he refuses. For Westerners this might seem like a stasis, but in a Zen, non-dualistic view of things, what Master Shunryu Suzuki called “not doing” is a form of action in itself if done mindfully. In a passage of the book the character flirts with ideas of total abandonment, or nekkhamma, in pursuit of a non-dualistic possibility of existing and not existing at the same time. Nekkhamma indeed means a renunciation of the Self, to let go of wordly attachments, and it is expressed in a very clear, very direct quote from the book: "only by taming one's ego we're able to escape from complex and difficult situations". As readers, we might even experience a sense of betrayal by such an incredible author's decision to not produce any more works. Personally I understand his decision of not doing any more manga as a heroic attempt to give back to the medium the right to exist only on the condition of being natural, to steal it back from an industry which most of the times refuses to appreciate it “as it is”, untouched, unmade.
Western reviews of "The Man Without Talent" often consider it pessimistic, or even nihilistic. In a materialist culture, a renunciation such as Tsuge’s risks misunderstanding. Significantly, at the end of the book we find the story of a poet who stubbornly dies in misery. There is a great dose of Zen humor in this little story because while the reader and also the main character of the book are finally given the chance to reach a logical conclusion, to affirm a concrete point of view, the situation is reversed in an active refusal to intellectualize experience, when the main character says: "this poet and the one who reccomended me this book are two complete idiots". 
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canicolaedizioni · 7 years
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L'UOMO SENZA TALENTO IN MOSTRA A FAR EAST FILM FESTIVAL
Prosegue la collaborazione tra Canicola e FAR EAST FILM festival di Udine che quest’anno ospita l’esposizione dedicata a L’uomo senza talento di Yoshiharu Tsuge, in cui potrete vedere un’anteprima del libro, realizzato in collaborazione con il CEC di Udine e la Japan Foundation, e i manifesti omaggio creati appositamente per l’occasione da autori come Andrea Bruno, Vincenzo Filosa, Fabio Ramiro Rossin, Michelangelo Setola e l’argentino Berliac. La mostra inaugura il 21 aprile e proseguirà fino al 7 maggio presso il cinema Visionario. Il 24 aprile in occasione della proiezione evento del film “Ramblers”, ispirato all’opera di Tsuge, si terrà l’incontro con il regista Nobuhiro Yamashita, Mark Schilling e Vincenzo Filosa.
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in-the-fauces · 7 years
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-9 giorni all'uscita del primo volume di #Haxa ! Mentre aspetto le *mie* copie da BAO Publishing, faccio dei ringraziamenti. Questa saga è stata (e sopratutto sarà) un lavoro molto impegnativo, che non si può fare tutto da soli: Alessio Trabacchini mi ha accompagnato nelle profondità del ragionamento, come in tutti i miei libri precedenti. Leonardo Favia è stato un editor molto lucido che ha portato ordine nei flussi magici. Myriam El Assil mi ha affiancato nella colorazione (lavorando sulle tavole molto più rapidamente di me, che uso ancora Windows95 per processare le informazioni). Marzia Grillo ha fatto i test di resistenza del mondo immaginario, è stata la prima esploratrice. Vincenzo Filosa mi ha aiutato con i termini giapponesi del libro (anche lui conosce lo slang di strada dei paesi baltici del 2110). Infine ringrazio Michele Foschini e Caterina Marietti, perché mentre sono dentro le mie cose non ci penso molto, ma qualche anno fa libri spettacolari come questo non sarebbero esistiti. Nella Foto: Aiko e Ziggy.
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sciscianonotizie · 6 years
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