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multiverseofseries · 1 hour
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The new ‘FEAR STREET’ movie has begun filming. Coming soon to Netflix.
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multiverseofseries · 1 hour
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The final trailer for ‘KINGDOM OF THE PLANET OF THE APES’ has been released. In theaters on May 10.
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multiverseofseries · 2 hours
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FINAL TRAILER OF HOUSE OF THE DRAGON SEASON 2 ON MAY 5⁉️
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multiverseofseries · 9 hours
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Wednesday: Essere un Addams oggi
Mercoledì, la serie tv firmata da Tim Burton che porta su Netflix i personaggi de La Famiglia Addams, costruendo un racconto Young Adult a tinte dark che diverte e convince.
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Strano è chi lo strano fa. Con questa parafrasi della citazione cult di Forrest Gump viene spontaneo riferirsi a Mercoledì la serie fenomeno, del 2022, firmata da Tim Burton che ha portato la Famiglia Addams, su Netflix. Un outsider che racconta un'altra outsider, con la benevola accettazione che il ruolo richiede, con quel compiacimento inevitabile e sacrosanto per quell'anima dark che gli Addams incarnano da sempre.
Una scuola speciale
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Mercoledì: una scena della serie Netflix
La chiave di accesso al mondo degli Addams per Tim Burton è Mercoledì, la figlia adolescente, un personaggio che permette al regista e agli autori della serie, Alfred Gough e Miles Millar, di declinare quello specifico mondo dark con un approccio narrativo originale e appetibile per il target primario della piattaforma streaming, virando verso il teen drama a sfondo soprannaturale, con tanto di mistero di fondo e toni da commedia nel condurci tra i corridoi e le aule delle Nevermore Academy, la scuola per studenti speciali in cui la protagonista viene dirottata dopo uno spiacevole incidente nella struttura scolastica che frequentava in precedenza. In questo nuovo ambiente Mercoledì deve imparare a padroneggiare i propri poteri psichici, ma anche far luce su eventi che hanno coinvolto la sua famiglia venticinque anni prima e su una serie di omicidi che sta mettendo in pericolo gli abitanti della cittadina in cui si trova la scuola.
Dentro e fuori il mondo Addams
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Mercoledì: una scena della serie Netflix
Alfred Gough e Miles Millar sono noti per essere stati autori di Smallville e a pensarci bene non è tanto diversa l'operazione che hanno compiuto su Mercoledì: attingere a un popolare franchise per guardarlo da una prospettiva diversa. Se nel caso della serie WB (poi CW) avevano scelto di raccontare gli anni da liceale (almeno nelle prime stagioni) di Clark Kent, qui si fa qualcosa di simile nel mostrarci una Mercoledì a contatto con la quotidianità scolastica e con il relativo circondario, costringendola a confrontarsi con un mondo che vive secondo regole che fa fatica ad accettare e, soprattutto, capire. Mercoledì "vede il mondo in bianco e nero", a dirlo è Tim Burton stesso, nel corso della presentazione della serie al Lucca comics di due anni fa, ed è la stessa visione ch eporta avanti lui stesso al punto da renderlo un suo marchio di fabbrica, un impronta riconoscibilissima e caratterizzante. Tim Burton, regista dei primi quattro episodi della serie, fa suo il punto di vista di Mercoledì e ci propone il mondo attraverso i suoi occhi, ma si diverte a guardare anche al quotidiano della ragazza e della sua peculiare famiglia dall'esterno.
Sotto il segno di Edgar Allan Poe… e Tim Burton
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Mercoledì: Jenna Ortega, protagonista della serie Netflix
E Tim Burton fa questa operazione divertendosi a giocare con la cultura popolare, soprattutto quella che è più vicina al mondo interiore della protagonista di Mercoledì: ci si muove così sotto il segno di Edgar Allan Poe, si ammicca al Carrie di Brian De Palma, si propongono cover al violoncello di canzoni popolari come Paint it Black o Nothing Else Matters dei Metallica. Gioca, Tim Burton, e quando si gioca si arriva in modo naturale a un traguardo importante: divertire. In questo Mercoledì funziona benissimo, perché ci immerge con gusto e con brio nel mondo in bianco e nero della giovane Addams, sintonizzandoci sulla sua particolare visione della vita, lasciandoci empatizzare con lei nel confronto/scontro con il mondo normale laddove ci si trova a muoversi, ma affascinati da quello fuori dal comune che la Nevermore accoglie, protegge e guida.
L'indagine di Mercoledì
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Mercoledì: La protagonista al violoncello nella serie Netflix
Questo gioco e questa rivisitazione del mondo Addams funziona, diverte, intrattiene, ben sostenuto dalle spalle della protagonista Jenna Ortega, figura centrale di un casting ben costruito: la giovane attrice propone una versione originale, credibile e adeguatamente infastidita dal mondo di Mercoledì, ne incarna tristezza e disappunto, prontezza di spirito e brillante fastidio; la guida con sicurezza tra le maglie della storia, anche laddove l'intreccio si rivela un po' troppo esile sul fronte del mistero e dell'indagine che comporta. Non un peccato mortale, perché quello che conta nell'accoglierci e condurci nel triste mondo di Mercoledì è il tono, l'approccio che ci è sembrato quello giusto per rivisitare e raccontare in modo diverso questi personaggi, rendendo l'operazione sensata e riuscita.
In conclusione troviamo un Tim Burton giocoso e coerente con se stesso e che si dimostra capace di rivisitare con la serie Mercoledì il mondo de La famiglia Addams in modo originale e intrigante. Il regista è aiutato da una Jenna Ortega immensa calata perfettamente nel ruolo, efficacissima nel proporre un ritratto originale e coerente della protagonista, rendendosi motore del racconto e perno attorno a cui far ruotare un cast ben costruito.
👍🏻
La protagonista Jenna Ortega, una Mercoledì originale e coerente.
Il tono scelto da Tim Burton, che si diverte anche a giocare con la cultura popolare.
L’approccio scelto per rivisitare il mondo Addams in una chiave diversa.
👎🏻
Nulla.
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The first poster and trailer for Barry Jenkins’ live-action Lion King prequel ‘MUFASA: THE LION KING’. In theaters December 20.
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Wish: sogni e desideri di Walt Disney nel Classico del centenario
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Wish, il Classico Disney che celebra i 100 anni dei Walt Disney Animation Studios tra sogni, desideri ed emozioni. Dal 3 Aprile su Disney Plus.
C'è una cosa che unisce un po' tutti: l’essere tutti cresciuti vedendo Classici Disney. Questo è possibile non è solo perché, dal punto di vista pratico, sono tornati più volte in sala, sono passati in TV e ora sono lì a disposizione nel catalogo di Disney+, ma anche perché lo studio che li ha realizzati tutti, i Walt Disney Animation Studios, hanno compiuto 100 anni nel 2023. 100 anni, un secolo. Vi rendete conto dell'enormità di questo intervallo di tempo? Un periodo tale da permettere di abbracciare generazioni, famiglie intere da nonni a nipoti. Ed è un tempo che il nuovo film, Wish, si prefigge di festeggiare, di omaggiare. 100 anni, un secolo, di storie e personaggi, di sogni e desideri, di sogni che son desideri, concetti che proprio il nuovo lavoro diretto da Chris Buck insieme a Fawn Veerasunthorn (già autrice del sottovalutato Raya e l'ultimo drago) porta avanti, sottolinea e incarna, raccontandoci di Asha e del regno di Rosas, dove, per l'appunto, i desideri diventano realtà.
Una storia ambientata nel magico regno di Rosas
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Wish: un'immagine
Ed è proprio attorno a sogni e desideri che ruota la trama di Wish, portandoci nel magico regno di Rosas. Ad accoglierci è la protagonista Asha, che ha proprio questo compito nella sua vita di tutti i giorni: accogliere. È infatti la persona che dà il benvenuto ai visitatori di questa isola al largo della penisola iberica e allo stesso modo introduce noi alla storia del nuovo Classico Disney. È una sognatrice, una persona che desidera con una forza tale da far sì che i suoi sogni non si limitino a rimanere tali: esprime infatti un desiderio così potente da essere recepito, accolto, da una forza cosmica, una piccola stella, una minuscola forza di energia, che risponde al nome di Star. Ed è proprio insieme a Star che Asha dovrà operare per far fronte ai piani del sovrano di Rosas, Re Magnifico, l'uomo più potente del regno dal quale tutti si recano per far realizzare i propri sogni. Perché è l'unico che può farlo e promette di esaudirli prima o poi, detenendo il potere di farlo e di decidere quali desideri far avverare e quando.
Asha contro Magnifico
Da una parte c'è Asha, la nostra eroina a cui da la voce la cantante Gaia Gozzi, la nuova principessa Disney in quanto protagonista di un Classico che diventa per l'occasione IL Classico per eccellenza, dall'altra Re Magnifico. Ed è questa la vera notizia di Wish: il ritorno di un villain degno di tale nome, a cui dà voce in italiano Michele Riondino. È un personaggio suggestivo, affascinante, il suo Re Magnifico. Una figura che forse sarebbe potuta essere un pizzico più ambigua nel corso della storia, ma funziona come antagonista della nostra protagonista Asha. Lei, dal canto suo, ha le armi che tutti vorremmo: i suoi sogni e il suo coraggio, una gran forza d'animo e un importante aiuto esterno, ovvero quello della magica Star. A dimostrazione che dall'unione delle qualità interiori dell'animo umano e della magia si possono ottenere grandi cose… come ha fatto anche Walt, no?
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Wish: una scena del film
Sono personaggi riusciti quelli attorno a cui ruota Wish, che siano Asha e Star o Magnifico, ma è impagabile anche la capretta Valentino, che nella nostra lingua può fregiarsi della voce di un personaggio noto e amato come Amadeus. È un cast di personaggi ben tratteggiato anche dal punto di vista visivo, con un character design che dona varietà, colore e anima al regno di Rosas rendendolo vivo di umanità oltre che di sogni irrealizzati. È anche per loro che Wish funziona e intrattiene, anche laddove lo script fa fatica a girare, anche se impiega tempo a partire, ingranare e aprire le porte al cuore degli spettatori. Anche se, purtroppo, ha più forza nell'idea della celebrazione del mondo Disney che nella realizzazione di questo sentito omaggio.
Una nuova frontiera visiva
C'è anche un altro aspetto che rende Wish interessante per gli appassionati d'animazione, che rende ancor più significativo il suo essere film che celebra i 100 anni di uno dei più importanti studi mondiali del settore: la tecnica usata, che lavora sulla fusione di animazione tradizionale e CGI. Era il 2012, più di dieci anni fa, quando abbiamo visto un primo interessante esempio di questo tipo di lavorazione con il magnifico corto Paperman, ma nel frattempo la fusione di tecniche diverse in animazione sembra essere diventata un traguardo futuro e quasi imprescindibile per proporre qualcosa di nuovo e innovativo. I Walt Disney Animation Studios stanno sviluppando tecniche di tipo diverso, che sembrano puntare più alla sovrapposizione che lo sfruttamento fianco a fianco, alla coesistenza, di stili diversi.
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Wish: una sequenza del film
Quello che mostrava con successo Paperman e che viene ripreso non troppo dissimile da Wish è il voler ottenere un look e un calore da disegno a mano pur usando un contesto animato in CGI. Avere, cioè, la versatilità, libertà di inquadrature e movimenti di camera dell'animazione al computer, ma mantenendo il valore artistico e pittorico del disegno a mano. Lo si vede negli splendidi fondali, ma anche nel look generale della messa in scena, dei dettagli e della composizione del quadro. È forse una tecnica ancora un filo acerba, che vedremo esplodere di bellezza solo nei prossimi anni, ma è di certo il modo giusto per celebrare 100 anni di sogni, desideri e successi. Guardandosi alle spalle, emozionando nel guardare a un passato che non può essere dimenticato e trascurato, ma guardando avanti. Perché è quello che Walt Disney ha sempre fatto e ha insegnato a fare.
In conclusione guardando Wish non si può non emozionarsi ripensando al glorioso cammino sviluppato dagli studi d’animazione Disney nel corso dei loro cento anni di storia. Ma rimanendo ugualmente consapevole che l’omaggio rappresentato dal film e nel film è riuscito e sensato più nelle intenzioni che nell’effettiva applicazione pratica. Buono il lavoro sui personaggi, e sul cattivo di turno rappresentato da Re Magnifico, così come è importante e interessante la componente tecnica che mira ad aggiungere il calore del disegno a mano alle potenzialità della CGI. Peccato per uno script che in alcuni passaggi gira un po’ a vuoto, ma questo non ci impedisce di emozionarci e festeggiare lo studio creato da Walt Disney.
Perché mi piace 👍🏻
Il lavoro sui personaggi, sia sulla protagonista Asha che sull’antagonista Re Magnifico.
La componente artistica, che si avvale di splendidi background dal gusto pittorico e il calore da disegno a mano apportato dalla tecnica usata.
L’omaggio, imprescindibile e doveroso a quanto fatto in cento anni di storia…
Cosa non va 👎🏻
… ma forse riuscito più nelle intenzioni che nella realizzazione.
Lo script non scorre sempre con naturalezza e soffre di alcuni passaggi poco riusciti.
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multiverseofseries · 4 days
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Love Lies Bleeding
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Rose Glass dà il massimo nel suo primo film prodotto negli Stati Uniti, un'affettata combinazione di thriller poliziesco e storia d'amore lesbica con Kristen Stewart e Katy O'Brian
Se l'esordio della regista britannica Rose Glass, Saint Maud, era un film dell'orrore disciplinato e mirato, la sua prima avventura americana, Love Lies Bleeding, è il suo opposto: un'appassionante storia d'amore, un crime-thriller con elementi fantasy da incubo e una dichiarazione femminista che non rifugge dal camp e non si prende troppo sul serio. Il risultato è una corsa sfrenata che non raggiunge le vette artistiche del primo lungometraggio della Glass, ma non pretende nemmeno di farlo.
Lou (Kristen Stewart) è un'impiegata di una palestra nella cittadina del New Mexico nel 1989. Questo lavoro senza prospettive le permette di incontrare Jackie (Katy O'Brian), una body-builder sbandata che sogna di sfondare a Las Vegas. Le due iniziano subito una storia d'amore appassionata, con Lou che aiuta Jackie a raggiungere il suo obiettivo - che forse diventa anche il suo - fornendole steroidi da banco.
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Ma la situazione di Lou è molto più complicata di quanto sembri. Suo padre, il signore del crimine locale Lou Sr (Ed Harris) è il proprietario del poligono di tiro locale, dove Jackie trova lavoro come cameriera dopo aver fatto sesso sul sedile posteriore con il gestore del locale, JJ (Dave Franco), che a sua volta è il marito violento di Beth (Jena Malone), sorella di Lou. Quando Beth finisce in ospedale con gravi ferite, si innesca una catena di eventi alimentata non poco dall'eccesso di steroidi di Jackie, che la rendono frenetica ed estremamente aggressiva.
Da questo momento in poi, il film assume le sembianze di un crime-thriller in stile fratelli Coen, con la conta dei morti che si accumulano attraverso inaspettate e improvvise esplosioni di violenza e maldestri tentativi di nascondere i crimini e depistare la polizia, finanziata da Lou Sr. C'è anche l'FBI, che gli dà la caccia ma non ha le prove per inchiodarlo.
La fotografia widescreen di Ben Fordesman cattura l'America di Glass come un luogo di sogni scartati, bettole, strade polverose e spazi deserti. In questa atmosfera, la storia d'amore tra Lou e Jackie è ancora più crudamente sessuale e sovversiva, ma anche senza speranza, se non fosse per il fantasioso finale. L'effetto degli steroidi sul corpo di Jackie è mostrato in modo allucinatorio, il che potrebbe far pensare che si tratti solo di una sua percezione, ma se fosse "reale", si adatterebbe allo spirito campy del film, che si ferma appena al di là del trash più sfrenato. Il controllo tonale di Glass è ammirevole.
Stewart, che sta vivendo un momento di rinascita della sua carriera di attrice, e l'esplosiva esordiente O'Brian sono perfettamente accoppiati: la disillusione e il cinismo della prima trovano un'adeguata controparte nell'entusiasmo e nella spensieratezza della seconda, ma man mano che il loro rapporto si modifica e il comportamento di Jackie diventa sempre più irregolare, la Stewart passa a una modalità più affermativa e decisamente stringata.
Ambientato alla fine degli anni '80, il film mostra dettagli accurati dell'epoca, fortunatamente senza immergersi troppo nella nostalgia troppo sfruttata per l'epoca, iniziata con Stranger Things. La variegata colonna sonora di Clint Mansell inizia con un brano che richiama i temi di suspense di John Carpenter con la sua linea di basso e gli accordi di sintetizzatore, ma con l'avanzare del film cambia e diventa completamente diversa.
Love Lies Bleeding è un film che non va molto in profondità, ma  compensa ampiamente con il suo sfrenato slancio cinematografico, l'approccio tematico audace e i personaggi affascinanti.
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multiverseofseries · 5 days
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The Last of Us: Un viaggio sofferto ma che vale la pena compiere
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The Last of Us è risultata essere la serie più attesa del 2023 e inevitabilmente quella che rientra tra i titoli più gettonati nel prossimo futuro, uno di quei titoli di cui si è parlato e si parlerà con ancora più passione e insistenza per diversi motivi: prima di tutto perché il videogioco a cui si ispira è uno di quelli che ha lasciato il segno, sia nel suo settore che nell'immaginario popolare, diventando uno dei titoli più noti e apprezzati da parte del pubblico, videogiocatori e non; in secondo luogo perché rappresenta il tipo di gioco a cui si presta sempre attenzione, essendo formato da una componente narrativa e cinematografica molto marcata e costruita in modo magistrale; infine, ma non per ultimo ma non meno importante, si tratta di una produzione HBO, che è da sempre sinonimo di qualità e di un certo tipo di televisione che sa coniugare alla perfezione autorialità e appetibilità per il pubblico.
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The Last of Us: un'immagine dal teaser trailer della serie HBO
Mi sono approcciata alla serie di The Last of Us, carica di speranze, curiosità, ma anche timori, perché è facile disattendere le aspettative quando sono molto alte, ma anche per la difficoltà intrinseca di un progetto del genere che deve necessariamente parlare a due tipi diversi di pubblico: quello televisivo che può essere a digiuno del materiale di partenza e quello che ha già vissuto questa storia pad alla mano, a cui è più difficile proporre le stesse suggestioni senza il valore aggiunto dato dal partecipare in prima persona all'azione. A conti fatti, e dopo aver guardato tutti i 9 episodi che compongono la prima stagione che adatta il primo dei due giochi, posso dirmi soddisfatta del risultato.
Di che parla The Last of Us?
Ma da che spunto prende il via la trama di The Last of Us? Cercando di non fare spoiler ma accenando giusto qualcosina per chi non ha avuto modo di provare il video gioco di Naughty Dog del 2013 o nel più recente remake per nextgen del 2022: ci muoviamo in un mondo post-apocalittico, in cui la razza umana ha già perso la sua battaglia contro un agente patogeno, che proviene dai funghi e rende gli infetti simili a zombie, è stata decimata e vive in piccole comunità che cercano di riorganizzarsi. Un contesto oramai già consolidato, perché dall'esplosione della pandemia e dal prologo della serie sono passati ormai vent'anni, e sullo sfondo di questa nuova umanità seguiamo Joel, cinquantenne ormai disilluso e con una forte ferita emotiva alle spalle, che si ritrova a dover fare una consegna particolare: Ellie, una ragazzina di quattordici anni.
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The Last of Us: Pedro Pascal e Bella Ramsey in una scena della serie
I due si trovano a dover viaggiare lungo gli Stati Uniti per raggiungere la destinazione, mettendo alla prova il loro rapporto interpersonale che si andrà definendo lungo il cammino, per superare quelle inevitabili diffidenze che albergano nel cuore di entrambi, in quello di Joel ferito da una grave perdita vent'anni prima così come in quello di Ellie, adolescente che ha avuto la sua dose di dolore e non ha mai lasciato il recinto (relativamente) sicuro della zona di quarantena. Un viaggio lungo, duro e denso di pericoli e incontri di ogni sorta che metterà alla prova e segnerà entrambi per sempre.
Da un media all'altro, gli inevitabili cambiamenti
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The Last of Us: un momento di tensione della serie HBO
Questa in sintesi la storia del gioco The Last of Us che la serie HBO riprende non senza le dovute modifiche e riscritture nel passaggio da un media all'altro: quello che funziona quando è lo spettatore, ovvero il giocatore, ad agire in prima persona non è detto che funzioni nell'essere solo osservatore passivo dell'azione ed è uno dei motivi che hanno portato a non eccedere sul fronte action, perché avrebbe snaturato l'approccio character driven del gioco. Alcuni di questi cambiamenti riguardano svolte narrative, altri sono fatti a monte, in fase di ridefinizione della storia a dieci anni dal debutto, e uno di questi, per esempio, è il mezzo con cui l'infezione si trasmette, non più veicolata attraverso le spore che costringevano i personaggi del gioco a indossare in determinati luoghi chiusi delle maschere, che avrebbero costretto a nascondere in alcune situazioni i volti degli attori, ma attraverso dei viticci e, in modo più tradizionale per il genere, il morso. Si rinuncia quindi all'originalità e le potenzialità narrative di un espediente fuori dal comune per trasmettere ed evocare il pericolo, ma se ne introduce un altro ugualmente interessante. In definitiva non cambia molto ai fini pratici nella costruzione ed evoluzione del racconto.
Raggiungere un nuovo pubblico, espandere un mondo
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The Last of Us: una scena
Quello menzionato sopra è solo un esempio del modo in cui The Last of Us nella sua versione seriale diverge da quanto già vissuto dai videogiocatori, in una costruzione narrativa che vive della necessità e difficoltà di evocare e rispettare l'originale, ma propone anche elementi che possano stupire e stimolare gli spettatori già a conoscenza della storia. Una difficoltà comune a questo tipo di adattamenti, che ad esempio gli autori di The Walking Dead avevano aggirato con efficacia nel passare dalla carta allo schermo, mantenendo dinamiche simili ma non sempre relative ai medesimi personaggi. Nel caso dell'adattamento di The Last of Us si è scelta una via differente che passa anche per un approfondimento della mitologia della serie: si dà più spazio al passato, come si può intuire già dalla primissima sequenza del primo episodio, dando allo spettatore qualche informazione in più su come si è arrivati alla situazione che fa da sfondo al viaggio di Joel ed Ellie, ma si aggiunge anche qualche deviazione dal flusso principale della storia per dar più profondità alle figure che i protagonisti si trovano a incrociare sul loro cammino, che diventano piccoli spaccati di vita vissuta nel mondo pandemico della serie.
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The Last of Us: Pedro Pascal e Anna Torv in una scena
Si snellisce così il viaggio nel suo complesso per evitare di girare narrativamente a vuoto e proporre troppi episodi in cui la storia progredisce poco dal punto di vista pratico: già così, dopo un inizio di grande impatto. Si è scelta, quindi, la strada della linearità e sintesi per quanto riguarda la costruzione della storyline principale, evitando di proporre una sequenza di scontri tra i protagonisti e gli antagonisti di turno al solo scopo di mettere in scena ulteriori sequenze d'azione e allungare il brodo.
Joel ed Ellie
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Ti possono tradire solo quelli di cui ti fidi
Una scelta che sulla lunga distanza abbiamo apprezzato, ma che avrebbe rischiato di spostare troppo l'equilibrio della serie rispetto al gioco, il cui cuore narrativo e tematico sono Joel ed Ellie, vero punto di riferimento per i giocatori: The Last of Us era la loro storia e riducendo il tempo in loro compagnia, anche a fronte di inserti mirati a raccontare e dar spazio a ciò che li circonda e che incrociano, rischiava di far perdere il focus del racconto. Un rischio evitato da uno dei principali meriti della produzione HBO guidata da Craig Mazin (già autore di Chernobyl per lo stesso canale cable americano) e lo stesso Neil Druckmann: Pedro Pascal e Bella Ramsey, gli interpreti dei due protagonisti nella serie. Se la storia del The Last of Us seriale resta così viva ed emozionante anche in questo adattamento è perché i due interpreti regalano una prova di grande efficacia. Pedro Pascal è un Joel smarrito nel suo dolore, ma solido e deciso dove serve; Bella Ramsey propone invece una Ellie differente da quella a cui ci siamo legati nel gioco Naughty Dog ma ugualmente autentica e viva. Soprattutto, funzionano insieme nel mettere in scena le dinamiche interpersonali che poco per volta si sviluppano tra i rispettivi personaggi, quella fiducia da conquistare per dar vita al legame che vediamo nascere e consolidarsi in modo graduale ma inequivocabile. Il viaggio in loro compagnia è così coinvolgente ed emozionante, capace di guidarci con partecipazione d'animo verso la loro destinazione e un riuscito finale di stagione, anche laddove l'azione latita e ci si limita a seguirli nei loro spostamenti e le loro chiacchierate, anche quando non si va oltre lo star seduti attorno a un falò.
Il livello produttivo HBO si conferma per The Last of Us
Si nota, come sempre, l'elevato livello produttivo di casa HBO, nella (ri)costruzione di un mondo post-apocalittico in grado di risultare d'impatto oltre che coerente con quanto già noto a chi ha giocato l'originale: Joel ed Ellie attraversano sì luoghi desolati e desolanti, fatti per lo più di ampi spazi e poche reliquie della nostra umanità, ma anche città abbandonate a loro stesse che, soprattutto in alcuni scorci dei primi episodi, colpiscono per dettaglio e portata. Il rischio di già visto è dietro l'angolo, perché non è la prima serie che ricalca questo tipo di ambientazione, ma è bilanciato da alcune location particolarmente riuscite e ricche di dettagli in termini di scenografie, come il centro commerciale che fa da sfondo a una delle sequenze più riuscite.
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The Last of Us: una scena della serie
La differenza, però, la fa ancora una volta l'accompagnamento musicale, quella splendida colonna sonora firmata da Gustavo Santaolalla che già avevo amato nella controparte videoludica e che si mantiene ugualmente efficace e toccante nel fungere da filo conduttore e contrappunto emotivo per la traduzione targata HBO di quel mondo allo sbando in cui i protagonisti si trovano a dover sopravvivere.
In conclusione The Last of Us nella sua incarnazione seriale funziona ed emoziona. Le poche perplessità che avevo sono state bilanciate da due importanti elementi: da una parte le interpretazioni dei due protagonisti, con Pedro Pascal e Bella Ramsey che danno vita a dei Joel ed Ellie vivi e vissuti, coerenti con gli originali seppur personali; dall’altra la conferma del valore aggiunto della colonna sonora di Gustavo Santaolalla, efficace a supporto delle immagini della serie quanto lo era stata per l’azione e le emozioni del videogioco.
Perché mi piace 👍🏻
Pedro Pascal e Bella Ramsey, vero punto di forza della serie, che riescono a dar vita a Joel ed Ellie e alle loro dinamiche in modo coerente eppur personale.
La colonna sonora di Gustavo Santaolalla, vero e proprio valore aggiunto del videogioco ed ora anche della serie HBO.
Il livello produttivo HBO, che si conferma elevato anche in questo caso e cerca di aggirare la sensazione di già visto, inevitabile per un’ambientazione post-apocalittica.
L’approccio al racconto, che sceglie di approfondire il mondo in cui ci si muove guardando oltre Joel ed Ellie senza perdere l’importante focus narrativo sulla coppia di protagonisti…
Cosa non va 👎🏻
… ma riduce di molto l’azione rispetto a quanto accadeva nel videogioco, prestando il fianco alle critiche di una parte di spettatori.
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multiverseofseries · 6 days
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The Last of Us: Un viaggio sofferto ma che vale la pena compiere
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The Last of Us è risultata essere la serie più attesa del 2023 e inevitabilmente quella che rientra tra i titoli più gettonati nel prossimo futuro, uno di quei titoli di cui si è parlato e si parlerà con ancora più passione e insistenza per diversi motivi: prima di tutto perché il videogioco a cui si ispira è uno di quelli che ha lasciato il segno, sia nel suo settore che nell'immaginario popolare, diventando uno dei titoli più noti e apprezzati da parte del pubblico, videogiocatori e non; in secondo luogo perché rappresenta il tipo di gioco a cui si presta sempre attenzione, essendo formato da una componente narrativa e cinematografica molto marcata e costruita in modo magistrale; infine, ma non per ultimo ma non meno importante, si tratta di una produzione HBO, che è da sempre sinonimo di qualità e di un certo tipo di televisione che sa coniugare alla perfezione autorialità e appetibilità per il pubblico.
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The Last of Us: un'immagine dal teaser trailer della serie HBO
Mi sono approcciata alla serie di The Last of Us, carica di speranze, curiosità, ma anche timori, perché è facile disattendere le aspettative quando sono molto alte, ma anche per la difficoltà intrinseca di un progetto del genere che deve necessariamente parlare a due tipi diversi di pubblico: quello televisivo che può essere a digiuno del materiale di partenza e quello che ha già vissuto questa storia pad alla mano, a cui è più difficile proporre le stesse suggestioni senza il valore aggiunto dato dal partecipare in prima persona all'azione. A conti fatti, e dopo aver guardato tutti i 9 episodi che compongono la prima stagione che adatta il primo dei due giochi, posso dirmi soddisfatta del risultato.
Di che parla The Last of Us?
Ma da che spunto prende il via la trama di The Last of Us? Cercando di non fare spoiler ma accenando giusto qualcosina per chi non ha avuto modo di provare il video gioco di Naughty Dog del 2013 o nel più recente remake per nextgen del 2022: ci muoviamo in un mondo post-apocalittico, in cui la razza umana ha già perso la sua battaglia contro un agente patogeno, che proviene dai funghi e rende gli infetti simili a zombie, è stata decimata e vive in piccole comunità che cercano di riorganizzarsi. Un contesto oramai già consolidato, perché dall'esplosione della pandemia e dal prologo della serie sono passati ormai vent'anni, e sullo sfondo di questa nuova umanità seguiamo Joel, cinquantenne ormai disilluso e con una forte ferita emotiva alle spalle, che si ritrova a dover fare una consegna particolare: Ellie, una ragazzina di quattordici anni.
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The Last of Us: Pedro Pascal e Bella Ramsey in una scena della serie
I due si trovano a dover viaggiare lungo gli Stati Uniti per raggiungere la destinazione, mettendo alla prova il loro rapporto interpersonale che si andrà definendo lungo il cammino, per superare quelle inevitabili diffidenze che albergano nel cuore di entrambi, in quello di Joel ferito da una grave perdita vent'anni prima così come in quello di Ellie, adolescente che ha avuto la sua dose di dolore e non ha mai lasciato il recinto (relativamente) sicuro della zona di quarantena. Un viaggio lungo, duro e denso di pericoli e incontri di ogni sorta che metterà alla prova e segnerà entrambi per sempre.
Da un media all'altro, gli inevitabili cambiamenti
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The Last of Us: un momento di tensione della serie HBO
Questa in sintesi la storia del gioco The Last of Us che la serie HBO riprende non senza le dovute modifiche e riscritture nel passaggio da un media all'altro: quello che funziona quando è lo spettatore, ovvero il giocatore, ad agire in prima persona non è detto che funzioni nell'essere solo osservatore passivo dell'azione ed è uno dei motivi che hanno portato a non eccedere sul fronte action, perché avrebbe snaturato l'approccio character driven del gioco. Alcuni di questi cambiamenti riguardano svolte narrative, altri sono fatti a monte, in fase di ridefinizione della storia a dieci anni dal debutto, e uno di questi, per esempio, è il mezzo con cui l'infezione si trasmette, non più veicolata attraverso le spore che costringevano i personaggi del gioco a indossare in determinati luoghi chiusi delle maschere, che avrebbero costretto a nascondere in alcune situazioni i volti degli attori, ma attraverso dei viticci e, in modo più tradizionale per il genere, il morso. Si rinuncia quindi all'originalità e le potenzialità narrative di un espediente fuori dal comune per trasmettere ed evocare il pericolo, ma se ne introduce un altro ugualmente interessante. In definitiva non cambia molto ai fini pratici nella costruzione ed evoluzione del racconto.
Raggiungere un nuovo pubblico, espandere un mondo
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The Last of Us: una scena
Quello menzionato sopra è solo un esempio del modo in cui The Last of Us nella sua versione seriale diverge da quanto già vissuto dai videogiocatori, in una costruzione narrativa che vive della necessità e difficoltà di evocare e rispettare l'originale, ma propone anche elementi che possano stupire e stimolare gli spettatori già a conoscenza della storia. Una difficoltà comune a questo tipo di adattamenti, che ad esempio gli autori di The Walking Dead avevano aggirato con efficacia nel passare dalla carta allo schermo, mantenendo dinamiche simili ma non sempre relative ai medesimi personaggi. Nel caso dell'adattamento di The Last of Us si è scelta una via differente che passa anche per un approfondimento della mitologia della serie: si dà più spazio al passato, come si può intuire già dalla primissima sequenza del primo episodio, dando allo spettatore qualche informazione in più su come si è arrivati alla situazione che fa da sfondo al viaggio di Joel ed Ellie, ma si aggiunge anche qualche deviazione dal flusso principale della storia per dar più profondità alle figure che i protagonisti si trovano a incrociare sul loro cammino, che diventano piccoli spaccati di vita vissuta nel mondo pandemico della serie.
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The Last of Us: Pedro Pascal e Anna Torv in una scena
Si snellisce così il viaggio nel suo complesso per evitare di girare narrativamente a vuoto e proporre troppi episodi in cui la storia progredisce poco dal punto di vista pratico: già così, dopo un inizio di grande impatto. Si è scelta, quindi, la strada della linearità e sintesi per quanto riguarda la costruzione della storyline principale, evitando di proporre una sequenza di scontri tra i protagonisti e gli antagonisti di turno al solo scopo di mettere in scena ulteriori sequenze d'azione e allungare il brodo.
Joel ed Ellie
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Ti possono tradire solo quelli di cui ti fidi
Una scelta che sulla lunga distanza abbiamo apprezzato, ma che avrebbe rischiato di spostare troppo l'equilibrio della serie rispetto al gioco, il cui cuore narrativo e tematico sono Joel ed Ellie, vero punto di riferimento per i giocatori: The Last of Us era la loro storia e riducendo il tempo in loro compagnia, anche a fronte di inserti mirati a raccontare e dar spazio a ciò che li circonda e che incrociano, rischiava di far perdere il focus del racconto. Un rischio evitato da uno dei principali meriti della produzione HBO guidata da Craig Mazin (già autore di Chernobyl per lo stesso canale cable americano) e lo stesso Neil Druckmann: Pedro Pascal e Bella Ramsey, gli interpreti dei due protagonisti nella serie. Se la storia del The Last of Us seriale resta così viva ed emozionante anche in questo adattamento è perché i due interpreti regalano una prova di grande efficacia. Pedro Pascal è un Joel smarrito nel suo dolore, ma solido e deciso dove serve; Bella Ramsey propone invece una Ellie differente da quella a cui ci siamo legati nel gioco Naughty Dog ma ugualmente autentica e viva. Soprattutto, funzionano insieme nel mettere in scena le dinamiche interpersonali che poco per volta si sviluppano tra i rispettivi personaggi, quella fiducia da conquistare per dar vita al legame che vediamo nascere e consolidarsi in modo graduale ma inequivocabile. Il viaggio in loro compagnia è così coinvolgente ed emozionante, capace di guidarci con partecipazione d'animo verso la loro destinazione e un riuscito finale di stagione, anche laddove l'azione latita e ci si limita a seguirli nei loro spostamenti e le loro chiacchierate, anche quando non si va oltre lo star seduti attorno a un falò.
Il livello produttivo HBO si conferma per The Last of Us
Si nota, come sempre, l'elevato livello produttivo di casa HBO, nella (ri)costruzione di un mondo post-apocalittico in grado di risultare d'impatto oltre che coerente con quanto già noto a chi ha giocato l'originale: Joel ed Ellie attraversano sì luoghi desolati e desolanti, fatti per lo più di ampi spazi e poche reliquie della nostra umanità, ma anche città abbandonate a loro stesse che, soprattutto in alcuni scorci dei primi episodi, colpiscono per dettaglio e portata. Il rischio di già visto è dietro l'angolo, perché non è la prima serie che ricalca questo tipo di ambientazione, ma è bilanciato da alcune location particolarmente riuscite e ricche di dettagli in termini di scenografie, come il centro commerciale che fa da sfondo a una delle sequenze più riuscite.
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The Last of Us: una scena della serie
La differenza, però, la fa ancora una volta l'accompagnamento musicale, quella splendida colonna sonora firmata da Gustavo Santaolalla che già avevo amato nella controparte videoludica e che si mantiene ugualmente efficace e toccante nel fungere da filo conduttore e contrappunto emotivo per la traduzione targata HBO di quel mondo allo sbando in cui i protagonisti si trovano a dover sopravvivere.
In conclusione The Last of Us nella sua incarnazione seriale funziona ed emoziona. Le poche perplessità che avevo sono state bilanciate da due importanti elementi: da una parte le interpretazioni dei due protagonisti, con Pedro Pascal e Bella Ramsey che danno vita a dei Joel ed Ellie vivi e vissuti, coerenti con gli originali seppur personali; dall’altra la conferma del valore aggiunto della colonna sonora di Gustavo Santaolalla, efficace a supporto delle immagini della serie quanto lo era stata per l’azione e le emozioni del videogioco.
Perché mi piace 👍🏻
Pedro Pascal e Bella Ramsey, vero punto di forza della serie, che riescono a dar vita a Joel ed Ellie e alle loro dinamiche in modo coerente eppur personale.
La colonna sonora di Gustavo Santaolalla, vero e proprio valore aggiunto del videogioco ed ora anche della serie HBO.
Il livello produttivo HBO, che si conferma elevato anche in questo caso e cerca di aggirare la sensazione di già visto, inevitabile per un’ambientazione post-apocalittica.
L’approccio al racconto, che sceglie di approfondire il mondo in cui ci si muove guardando oltre Joel ed Ellie senza perdere l’importante focus narrativo sulla coppia di protagonisti…
Cosa non va 👎🏻
… ma riduce di molto l’azione rispetto a quanto accadeva nel videogioco, prestando il fianco alle critiche di una parte di spettatori.
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multiverseofseries · 7 days
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The new trailer and posters for ‘DEADPOOL & WOLVERINE’ have been released. In theaters on July 26.
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multiverseofseries · 7 days
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New posters for 'House of The Dragon' Season 2 and new full Trailer will be released tomorrow.
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Tomorrow. All Must Choose. #TeamGreen or #TeamBlack
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multiverseofseries · 8 days
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The new trailer and posters for ‘DEADPOOL & WOLVERINE’ have been released. In theaters on July 26.
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multiverseofseries · 8 days
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Killers of the Flower Moon: la banalità del male secondo Scorsese
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La musica nei film di Scorsese ha sempre una funzione rivelatrice. Quando c'è un personaggio che si muove in slow motion accompagnato da accordi in sostituzione delle parole, sai immediatamente che quello che sta per accadere è un momento importante. E anche all'inizio di questo suo film c'è questa dichiarazione d'intenti. Un anziano indiano Osage sta praticando un rituale in una tenda, alzando le mani verso l'alto. Stacco. e ci viene mostrato che fuori, dalla terra, erompe con un getto violento di liquido nero. È petrolio. Altri Osage, più giovani, levano le braccia al cielo, cercando di raccogliere le gocce dense. A rallentatore. Dallo spirituale siamo passati al materiale. Dalla religione al capitalismo. Da Dio al denaro. Guardando Killers of the Flower Moon si parte con la consapevolezza che, ancora una volta, Scorsese si interroga sulla fede, che può essere riposta anche in qualcosa di molto concreto come i soldi.
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Killers of the Flower Moon: Robert De Niro e Leonardo DiCaprio in una foto del film
Ispirato al libro di David Grann Gli assassini della terra rossa, Killers of the Flower Moon è ambientato nell'Oklahoma degli anni '20. Se nel romanzo il punto di maggior interesse è la nascita dell'FBI, con il personaggio dell'agente Tom White al centro di tutto, a Scorsese invece non interessa molto la legge. E soprattutto non una crime story come tante, che oggi saturano piattaforme di streaming e podcast. No. Il regista vuole il sangue e il sudore, il marcio, le contraddizioni. Non un uomo integerrimo col distintivo.
Ecco quindi che Scorsese sposta il punto di vista da quel personaggio al viscido e mediocre Ernest Burkhart interpretato da Leonardo Di Caprio. L'attore non è mai stato così sgradevole: proprio come chi, per convenienza e mancanza di talento, segue un capo sempre e comunque, non fermandosi di fronte a crimini terribili e negando la verità fino all'ultimo, anche davanti all'evidenza. Perché in realtà sta mentendo a se stesso. Il capo in questione qui è William Hale (Robert De Niro), che, come prima cosa, dice sia a Ernest che agli spettatori: "puoi chiamarmi zio, o puoi chiamarmi re", mettendo subito in chiaro come stanno le cose. In gioco c'è proprio il petrolio degli Osage, diventati i più ricchi cittadini americani. E per questo destinati a essere sterminati dall'avidità dell'uomo bianco.
Una storia d'amore (per i soldi)
In Killers of the Flower Moon Robert De Niro e Leonardo DiCaprio, gli attori simbolo di Scorsese, portano su di sé il peso dell'intera filmografia del regista. E anche del peccato originale degli Stati Uniti: il sogno americano non soltanto è un miraggio, ma è un incubo pagato col sangue dei non bianchi. Ernest viene infatti spinto dallo zio a sposare Mollie (Lily Gladstone), ricca Osage che, come le sue tante sorelle, soffre di diabete. Tutte le donne della sua famiglia, non sanno nemmeno loro bene perché, sono attratte da uomini bianchi, che le hanno sposate per interesse, in modo da mettere le mani sulla loro eredità.
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Killers of the Flower Moon: una foto del film
Quando incontra Ernest Mollie ammette che ricorda un coyote: "il coyote vuole i soldi", gli dice. Eppure non può fare a meno di volerlo: forse per i suoi occhi azzurri, forse perché, nel momento in cui si è fatta corrompere dalla ricchezza, ha perso di vista quella della sua gente, legata più alla terra e alla condivisione che alla proprietà privata. Fatto sta che l'amore per lui la consuma, proprio come la sua malattia. Anche di fronte all'uccisione sistematica di tanti Osage, Mollie rimane spesso in silenzio, stoica, a guardare.
La cosa paradossale è che, nonostante i suoi crimini, nonostante la cieca ubbidienza allo zio, che gli chiede di compiere nefandezze sempre peggiori, anche Ernest ama Mollie. Ama più i suoi soldi, certo, ma comunque la ama. Eppure non riesce a sottrarsi alla volontà di Hale, dissociando completamente la sua parte legata alla moglie da quella pronta a sterminare un'intera popolazione semplicemente perché "ha fatto il suo tempo". È questa la complessità che interessa a Scorsese, è questo il più grande dei misteri: le contraddizioni dell'animo umano.
Killers of the Flower Moon: un cast eccezionale
C'è tutto il cinema di Scorsese in Killers of the Flower Moon: è un gangster movie, un film spirituale, un western, un crime. In 3 ore e 30 il regista ripercorre tutta la sua carriera, questa volta assumendosi la responsabilità del mondo che ha sempre raccontato. Lui mostra i criminali, gli uomini affamati di potere, ma mai come questa volta ne è lontano: li rappresenta ottusi, senza nessun fascino. Il centro emotivo e morale sono invece Mollie e le sue sorelle: nella dignità della donna, nella sua capacità di rispondere con empatia alle persone che la circondano, è lei la vera ricchezza della Nazione Osage, sprecata e calpestata da chi non riesce a capirlo. Lì dove Mollie è la speranza, la vita, Ernest è l'autodistruzione. Come un veleno, il capitalismo ha reso malata la società americana. E siamo stati tutti a volerlo: chi ha cavalcato la caccia all'oro e chi l'ha subita senza opporsi.
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Killers of the Flower Moon: Martin Scorsese sul set del film
A dirigere c'è un autore ormai all'apice della sua padronanza del mezzo cinema, ma Killers of the Flower Moon è grande anche grazie al ricco e magnifico cast. De Niro è alla prova migliore da anni, DiCaprio evoca Brando, quello più logoro e decadente, Lily Gladstone è perfetta.
"Le persone se ne fregano" dice un personaggio. Una cosa che invece sarà sempre al centro di tutto sono le storie: come nello splendido finale, in cui Scorsese sembra dire "i fatti sono questi, ma c'è sempre un punto di vista interessante da cui raccontarli". E il suo è sempre stato quello più difficile e scomodo. Anche stavolta non fa sconti. Ed è per questo che è un viaggio entusiasmante: in un mare di film sempre più simili tra loro, Scorsese ha il coraggio di essere se stesso, senza paura. Nel bene e nel male.
Conclusioni
In conclusione Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese adatta per il cinema il romanzo di David Grann in cui si racconta la nascita dell'FBI e lo sterminio della Nazione Osange, nell'Oklahoma degli anni ’20. Protagonisti Leonardo DiCaprio, Robert De Niro e Lily Gladstone, in quella che è una summa del cinema di Scorsese e anche un racconto del lato oscuro del sogno americano, un miraggio pagato col sangue dei non bianchi. 3 ore e 30 che volano e celebrano non solo l'importanza delle storie, ma anche del punto di vista con cui si raccontano.
Perché ci piace 👍🏻
La perfetta padronanza del mezzo di Scorsese.
Il montaggio di Thelma Schoonmaker, ormai una divinità.
La bravura di Lily Gladstone, meritatissima la sua nomination all'Oscar.
Cosa non va 👎🏻
Le 3 ore e 30 potrebbero scoraggiare.
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multiverseofseries · 11 days
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Diabolik - Chi Sei?: il Re del Terrore saluta il cinema, senza infamia e senza lode
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È a malincuore che mi ritrovo a scrivere di Diabolik - Chi Sei?, il film che va a chiudere la trilogia dei Manetti Bros. Lo faccio con dispiacere perché si tratta di una saga che ha faticato molto a livello produttivo e il risultato ne ha risentito, tanto che siamo quasi più contenti di averlo salutato che tristi per dovergli dire addio, almeno sul grande schermo.
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Diabolik - Chi sei?: Giacomo Gianniotti in una scena
Ciò che era nata infatti inizialmente come una serie tv per Sky - che a livello di qualità produttiva ha riscritto la serialità italiana degli ultimi anni - poi è diventata una trilogia per il cinema a cura dei Manetti Bros. Ma poi Ci si sono messe di mezzo anche la pandemia e un cambio di cast dovuto agli impegni di Luca Marinelli nei panni del personaggio titolare, che non voleva firmare per una trilogia, passando la mano a Giacomo Gianniotti, et voilà: l'insuccesso è, purtroppo, servito.
La parola alle donne
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Diabolik - Chi sei?: Giacomo Gianniotti in una foto
Dopo la presentazione dei personaggi nel primo film e l'attacco da parte del Ginko di Valerio Mastandrea nel secondo, questo terzo capitolo conclusivo si concentra da un lato sull'origin story di Diabolik e dall'altro su un nemico comune esterno che potrebbe far collaborare proprio il Re del Terrore e l'Ispettore sua nemesi complementare. C'è infatti una nuova e pericolosa banda di rapinatori in città, che non si fa problemi ad uccidere, e Diabolik e Ginko, lo yin e lo yang di questa storia, ne finiscono vittime.
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Diabolik - Chi sei?: Miriam Leone con Monica Bellucci in una scena
Spetterà allora alle donne della loro vita il compito di salvarli, rispettivamente la Eva Kant di Miriam Leone - sempre perfetta nel ruolo - e la Altea di Monica Bellucci - new entry del secondo film. Sono loro che muovono l'azione di questo canto del cigno cinematografico per il Re del Terrore, con sentimento, arguzia e maestria, mentre gli uomini sembrano perdersi in un bicchier d'acqua - non solo il poliziotto e il ladro, ma anche i membri della squinternata banda.
Spiegoni
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Diabolik - Chi sei?: Valerio Mastandrea in un'immagine
Il nuovo ed interessante punto di vista femminile - di cui in realtà erano già state gettate le basi nei capitoli precedenti ma che in Diabolik - Chi sei? viene approfondito ed acuito - purtroppo non impedisce alla pellicola di ricadere negli errori dei precedenti. Anche se bisogna lodare la coerenza dei Manetti Bros. mantenuta fino alla fine dello stile scelto, più fedele alla controparte cartacea e quindi più compassato. Ci troviamo quindi di fronte ad una serie di spiegoni che sembrano più indirizzati ad un target di spettatori da Rai Fiction, che hanno bisogno, anche quando si gioca con flashback e storyline ad incastro, che tutto sia il più chiaro possibile, a costo di essere allungato o esplicato più volte. Quello che doveva essere il grande saluto di Diabolik al cinema viene spogliato delle sue caratteristiche più avvincenti: dal ritmo che caratterizza una prima parte più dinamica si passa ad una seconda in cui si getta l'ancora e ci si dimentica di riaccendere il motore.
Cura formale
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Diabolik - Chi sei?: Giacomo Gianniotti con Carolina Crescentini in una foto
Non manca il ritorno, rispetto al secondo capitolo, alla cura formale che ha caratterizzato il Diabolik dei Manetti Bros., dalle scenografie e costumi che in questo caso dovevano ricreare gli anni '70, anche a livello di musiche sempre a cura di Pivio e Aldo De Scalzi, ma il risultato è davvero sottotono per un'uscita di scena che sarebbe potuta essere in grande stile per Giacomo Gianniotti, che continua ad avere gli occhi giusti, e per il suo Diabolik.
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Diabolik - Chi sei?: Miriam Leone e Giacomo Gianniotti in una scena
Il fascino di Miriam Leone e il suo incarnare perfettamente Eva Kant, gli split screen, le trovate di regia dei Manetti che però mancano di veri e propri guizzi, nonostante qualche omaggio qua e là al genere, non possono salvare un epilogo che risulta stanco proprio come tutta la trilogia. Non basta il ritorno alle origini proprio sul finale - con un Lorenzo Zurzolo che si ritrova sulle spalle la responsabilità di essere un giovane, ancora inesperto ma già glaciale Diabolik - se ciò a cui ci troviamo di fronte è una sceneggiatura troppo elementare, degli interpreti poco convincenti con una recitazione troppo teatrale e didascalica - come i membri della banda o l'accento surreale dell'Altea di Monica Bellucci. Tutti questi elementi chiudono il cerchio di motivi per i quali questa trilogia, forse, non s'aveva proprio da fare.
In conclusione Diabolik – Chi Sei? ancora dispiaciuta che il risultato di questo capitolo conclusivo, così come di tutta la trilogia cinematografica, non sia stato all’altezza delle aspettative. Si torna alla cura formale del film inaugurale ma il risultato non può renderci soddisfatti. Non sarebbe giusto nei confronti del fascino sempiterno di Diabolik, che sulle pagine di Astorina continua ad appassionare ancora oggi dopo 60 anni. Un film troppo didascalico, troppo lento nella parte centrale-finale, che indugia troppo sugli elementi che avrebbero reso il finale avvincente e appassionante, a favore di una coerenza con i due precedenti, che forse andava fatta virare su altri lidi, a costo di cambiare registro.
Perché ci piace 👍🏻
Il punto di vista femminile di Eva e Altea.
L’inserimento del nemico comune esterno a Diabolik e Ginko.
La cura formale a livello di scenografie, costumi e musiche.
L’origin story di Diabolik…
Cosa non va 👎🏻
…anche se forse arriva un po’ troppo tardi.
Tutta la parte centrale è troppo lenta e inutilmente allungata, facendo perdere mordente al finale.
Gli spiegoni.
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multiverseofseries · 12 days
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‘ZOOTOPIA 2’ has begun voice recording. In theaters on November 26, 2025.
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multiverseofseries · 12 days
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The Witcher season 4 is in production, And they are already planning the fifth season to bring this epic series to a fitting conclusion.
'The Witcher' has officially been renewed for a fifth and final season. Netflix announced the start of production on the Liam Hemsworth-led season 4, confirming it will shoot back to back with season 5.
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multiverseofseries · 13 days
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Bottoms: una teen comedy che è pura rivoluzione
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Spesso negli ultimi tempi si sente ripetere che "non ci sono più idee nuove, è stato già detto tutto". Eppure, è solamente un facile luogo comune, dettato avvolte da una superficialità d'opinione e forse da una scarsa conoscenza. Del resto, il cinema non è solo l'esperienza delle saghe da vivere sul grande schermo. Il cinema è innanzitutto una storia da raccontare, e dietro i grandi titoli c'è un cinema indipendente che cerca di sanare quei buchi di originalità che stanno più o meno minacciando lo stato dell'arte. Ed oggi è dal cinema indipendente che arrivano i titoli che più meritano attenzione, chiarendo e dimostrando che l'assenza di novità non è un discorso applicabile a tutta l'industria. Perché poi ecco le prove si guarda su Prime Video un film come Bottoms, che in qualche modo è capace di ristabilire un equilibrio in fatto di originalità, che ribalta totalmente gli ideali legati ai teen movie, puntando sulla freschezza, disegnando i contorni dell'assurdità che, nell'ultima parte, prende il controllo del film.
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Ayo Edebiri e Rachel Sennott in Bottoms
Animal House, Mean Girls, American Pie, Grease, Schegge di follia. Da loro in giù, il film di Emma Seligman (scritto insieme a Rachel Sennott) è un'esagerazione ponderata, è l'archetipo della satira ed è, probabilmente, tra le visioni più originali degli ultimi tempi. Davvero, quando Bottoms sembra prendere una direzione, ecco che sterza di netto, imboccando una narrazione che lascia eccezionalmente sorpresi. L’opera seconda di Emma Sligman (segue il successo di Shiva Baby) è un manuale di scrittura, portando ad un livello post-moderno il concetto dei film basati sui liceali sudati, accaldati e vogliosi di scoprire la propria sessualità.
Bottoms, la trama: se un fight club lesbico ribalta il concetto di teen-movie
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Bottoms: tutti al liceo
Protagoniste di Bottoms, PJ e Josie (Rachel Sennott e Ayo Edebiri, coppia cinematografica dell'anno), due teenager lesbiche non propriamente popolari tra i corridoi della Rockbridge Falls High School. Le solite sfigate, con il mezzo cuore al collo e gli abiti fuori moda. Amiche per la pelle, PJ e Josie hanno una cotta per Brittany (Kaia Gerber) e Isabel (Havana Rose Liu). Qui, si ha il primo cambio di prospettiva: Bottoms sfrutta un archetipo classico dei teen movie portando il film ad un livello ben più strutturato, piazzando tra le linee della sceneggiatura il contesto nevralgico, a cui si legano le zone grigie di una violenza di genere che non può mai essere messa in discussione. PJ e Josie vengono emarginate ancora di più quando vengono ingiustamente accusate di aver aggredito Jeff (Nicholas Galitzine), il quarterback della scuola, dopo un acceso litigio con Isabel, la sua ragazza.
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Ayo Edebiri e Rachel Sennott, coppia dell'anno?
In un certo senso, e con la popolarità scesa sotto zero, le due best friends cavalcano l'accusa, e anzi dicono di essersi semplicemente autodifese, inventando di aver addirittura frequentato il riformatorio durante le vacanze estive. Insomma, si fingono delle dure, delle femministe intransigenti, quando invece vorrebbero solo avere la loro prima esperienza sessuale. Uno spunto che farà scattare in loro l'assurda idea di fondare un club femminista di autodifesa, così da permettere a PJ e Josie di conoscere altre ragazze con cui poterci provare. La menzogna, però, è destinata a sgretolarsi, e con essa il rapporto tra PJ, Josie e le altre componenti dello strampalato fight club scolastico.
Avril Lavigne, Rachel Sennott e Ayo Edebiri e una rivoluzionario teen-comedy
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Bottoms: un'immagine del film
Sorprendente per tono e per colori, Bottoms parla con una chiarezza quasi liberatoria, e non ha paura di osare, stravolgere, scherzare e prendersi gioco degli stessi preconcetti di genere legati alle proprie consapevolezze sessuali. Ecco, il caos ragionato di questa irrinunciabile teen comedy segna la strada per un linguaggio che sferza satira e storture, rivoluzionario e riottoso nel prendere di petto la stessa violenza di genere, affrontandola senza una categorizzazione assoluta, ma lasciando che sia coerente e coesistente con la natura del film. Di conseguenza, "le cose che restano nella zona grigia" (a proposito di abusi) vengono portate sotto la luce di un club al femminile ideato dalle protagoniste per portarsi a letto le ragazze (!), creando quindi quel cortocircuito essenziale nel trasmettere il messaggio, e il valore di una sceneggiatura che si adatta ad ogni circostanza, accelerando di ritmo fino ad un finale che lascia sbigottiti.
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Bottoms: una foto del film
Perché in Bottoms di Emma Seligman, nella straripante messa in scena, nell'alchimia pazzesca di Rachel Sennott e Ayo Edebiri, nel voler omaggiare un certo cinema anni '90, c'è anche un marcato valore linguistico, potente, istintivo e scapigliato nella generazionale cornice, senza sovrastrutture imposte. Per questo, come se fosse una sincera rilettura della scorrettezza cult di American Pie, il film della Seligman è uno di quei titoli che tutti i ragazzi dovrebbero vedere: nessuna "zona grigia" deve restare nell'ombra, e dall'altra parte ogni ragazza deve essere libera di poter vivere, amare ed esistere solo e secondo i propri bisogni, le proprie necessità sentimentali e le proprie sacrosante pulsioni. Ci voleva tanto, per essere originali, rivoluzionari e cinematograficamente rilevanti? A quanto pare sì, dato che Bottoms spiega concetti fondamentali molto meglio di innumerevoli slogan. Anzi, per citare Avril Lavigne e la sua leggendaria hit Complicated, "Chill out, what ya yellin' for? Lay back, it's all been done before. And if, you could only let it be, you will see!".
In conclusione libero dai preconcetti e dalle sovrastrutture, Bottoms, opera seconda di Emma Seligman, è una teen comedy che ribalta il linguaggio puntando alla satira, alla freschezza e ad un tono generalmente inafferrabile, giostrando perfettamente il ritmo. Ayo Edebiri e Rachel Sennot sono la coppia cinematografica dell'anno, perfette nei panni sgualciti di due assurde e irresistibili protagoniste.
Perché ci piace 👍🏻
Ayo Edebiri e Rachel Sennot, pazzesche.
Il tono generale, inafferrabile.
La soundtrack, c'è pure Avril Lavigne!
Il linguaggio, libero e satirico.
Il finale.
Cosa non va 👎🏻
Potrebbe essere scambiato per un film superficiale, proprio per la sua coerente originalità.
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