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#L'istituzione negata
gregor-samsung · 2 months
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" Nel 1925, un manifesto di artisti francesi che si firmavano la « revolution surrealiste », indirizzato ai direttori dei manicomi, cosi concludeva: « Domattina, all’ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di comunicare con questi uomini, possiate voi ricordare e riconoscere che nei loro confronti avete una sola superiorità: la forza ». Quarant’anni dopo - legati come gran parte dei paesi europei, ad una legge antica ancora incerta fra l’assistenza e la sicurezza, la pietà e la paura - la situazione non è di molto mutata: limiti forzati, burocrazia, autoritarismo regolano la vita degli internati per i quali già Pinel aveva clamorosamente reclamato il diritto alla libertà… Lo psichiatra sembra, infatti, riscoprire solo oggi che il primo passo verso la cura del malato è il ritorno alla libertà di cui finora egli stesso lo aveva privato. La necessità di un regime, di un sistema nella complessa organizzazione dello spazio chiuso nel quale il malato mentale è stato isolato per secoli, richiedeva al medico il solo ruolo di sorvegliante, di tutore interno, di moderatore degli eccessi cui la malattia poteva portare: il valore del sistema superava quello dell’oggetto delle sue cure. Ma oggi lo psichiatra si rende conto che i primi passi verso la « apertura » del manicomio producono nel malato una graduale trasformazione del suo porsi, del suo rapporto con la malattia e col mondo, della sua prospettiva delle cose, ristretta e rimpicciolita, non solo dalla condizione morbosa, ma dalla lunga ospedalizzazione. Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale… viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione… "
Franco Basaglia, Le istituzioni della violenza, in:
AA. VV., L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, (a cura di Franco Basaglia; collana Nuovo Politecnico, n° 19), Giulio Einaudi editore, 1974⁷ [1ª edizione 1968]; il brano citato si trova alle pp. 129-130 (corsivi dell’autore).
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garadinervi · 2 years
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L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Edited by Franco Basaglia, «Nuovo Politecnico» 19, Einaudi, Torino, 1968. Cover Design: Bruno Munari
«Fanon ha potuto scegliere la rivoluzione. Noi, per evidenti ragioni obiettive, ne siamo impediti. La nostra realtà è continuare a vivere le contraddizioni del sistema che ci determina, gestendo un'istituzione che neghiamo, facendo un atto terapeutico che rifiutiamo, negando che la nostra istituzione – diventata per la nostra stessa azione un'istituzione di violenza sottile e mascherata – non continui ad essere solo funzionale al sistema; tentando di resistere alle lusinghe delle nuove ideologie scientifiche in cui si tende a soffocare le contraddizioni che è nostro compito rendere sempre più esplicite; consapevoli di ingaggiare una scommessa assurda nel voler far esistere dei valori mentre il non-diritto, l'ineguaglianza, la morte quotidiana dell'uomo sono eretti a principi legislativi.» – Franco Basaglia (p. 378)
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kneedeepincynade · 7 months
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China will always stand for the right of the palestinain people and for their right for statehood
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😘 LA CINA HA SEMPRE SOSTENUTO, SOSTIENE E SOSTERRÀ L'ISTITUZIONE DI UNO STATO DI PALESTINA 🥰
💬 «Le ingiustizie storiche commesse nei confronti del Popolo Palestinese non dovrebbero essere lasciate in sospeso all'infinito. I legittimi diritti e gli interessi legittimi di una Nazione non sono negoziabili, e la richiesta di istituire uno Stato Indipendente non può essere negata» | Xi Jinping, 2022年12月9日 🇨🇳
🇵🇸 2011 | Ghazi Hamad - Vice-Ministro degli Affari Esteri di HAMAS, dichiarò a NPR che l'organizzazione accettava la "Two-State Solution", con l'Istituzione di uno Stato di Palestina che rispetti i confini del 1967, con Gerusalemme Est come Capitale 🇵🇸
💬 «Se Israele accettasse una "Two-State Solution", [...], sarebbe un obiettivo accettabile per HAMAS, o sarebbe insufficiente poiché continuerebbe ad esistere uno Stato d'Israele?», chiese il giornalista di NPR al funzionario di HAMAS:
💬 «Abbiamo detto, francamente, che accettiamo lo Stato e i Confini del 1967. Questo è stato affermato più volte, e l'abbiamo ripetuto più volte. [...] HAMAS dimostra molta flessibilità, siamo diventati più pragmatici e realistici. Siamo sempre pronti a perseguire soluzioni politiche», rispose Ghazi Hamad 🇵🇸
🇵🇸 2017 | Khaled Meshaal - Membro dell'Ufficio Politico di HAMAS dal 1996 al 2017, pubblica un Documento in cui viene ufficialmente accettata la formazione di uno Stato di Palestina entro i confini del 1967 con Gerusalemme Est come Capitale, senza il riconoscimento d'Israele 📄
🇵🇸 Allo stesso tempo, Meshaal affermò di non rinunciare all'obbiettivo di «liberazione di tutta la Palestina», dichiarando:
💬 «HAMAS ritiene che la creazione di uno Stato Palestinese sovrano, completo, sulla Base della Convenzione del 1967, con Gerusalemme come Capitale e la possibilità per tutti i profughi di ritornare in Patria sia una forma gradevole, che ha ottenuto un consenso tra tutti i membri del movimento» 🇵🇸
🇵🇸 Proposta del PLO (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) per uno Stato di Palestina con Gerusalemme Est come Capitale, entro i confini del 1967 📄
💬 «Vorrei ribadire che la Cina sostiene fermamente l'Istituzione di uno Stato Palestinese indipendente che goda di piena sovranità sulla Base dei Confini del 1967 e con Gerusalemme Est come Capitale. La Cina sostiene la Palestina affinché diventi un Membro a pieno titolo delle Nazioni Unite» | Xi Jinping, 2022年12月9日 🇨🇳
🔍 Approfondimento sulla Russia: Lavrov: «La Russia sostiene la creazione di uno Stato di Palestina entro i confini del 1967 e con Gerusalemme Est come capitale» 🇷🇺
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😘 CHINA HAS ALWAYS SUPPORTED, SUPPORTS AND WILL SUPPORT THE ESTABLISHMENT OF A STATE OF PALESTINE 🥰
💬 «The historical injustices committed against the Palestinian people should not be left hanging indefinitely. The legitimate rights and legitimate interests of a Nation are non-negotiable, and the request to establish an Independent State cannot be denied" | Xi Jinping, 2022年12月9日 🇨🇳
🇵🇸 2011 | Ghazi Hamad - Deputy Minister of Foreign Affairs of HAMAS, told NPR that the organization accepted the "Two-State Solution", with the Establishment of a State of Palestine respecting the 1967 borders, with East Jerusalem as the Capital
💬 «If Israel accepted a "Two-State Solution", [...], would it be an acceptable goal for HAMAS, or would it be insufficient since a State of Israel would continue to exist?», the NPR journalist asked to the HAMAS official :
💬 «We have said, frankly, that we accept the State and the Borders of 1967. This has been stated several times, and we have repeated it several times. [...] HAMAS shows a lot of flexibility, we have become more pragmatic and realistic. We are always ready to pursue political solutions", replied Ghazi Hamad 🇵🇸
🇵🇸 2017 | Khaled Meshaal - Member of the Political Bureau of HAMAS from 1996 to 2017, publishes a Document in which the formation of a State of Palestine is officially accepted within the 1967 borders with East Jerusalem as the capital, without the recognition of Israel 📄
🇵🇸 At the same time, Meshaal stated that he would not give up on the goal of "liberating all of Palestine", declaring:
💬 «HAMAS believes that the creation of a sovereign, complete Palestinian State, on the basis of the 1967 Convention, with Jerusalem as its capital and the possibility for all refugees to return to their homeland is an agreeable form, which has obtained consensus among all members of the movement" 🇵🇸
🇵🇸 PLO (Palestine Liberation Organization) proposal for a State of Palestine with East Jerusalem as its capital, within the 1967 borders 📄
💬 «I would like to reiterate that China firmly supports the establishment of an independent Palestinian state enjoying full sovereignty on the basis of the 1967 borders and with East Jerusalem as its capital. China supports Palestine to become a full Member of the United Nations" | Xi Jinping, 2022年12月9日 🇨🇳
🔍 Insight into Russia: Lavrov: «Russia supports the creation of a State of Palestine within the 1967 borders and with East Jerusalem as its capital» 🇷🇺
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lumino-arancione · 7 years
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psicologia portami via
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monicadeola · 3 years
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Luigi Manconi torna sulla questione del deterioramento delle pratiche di salute mentale con un suo articolo su La Stampa. La lista delle cattive pratiche riscontrabili in molti servizi di salute mentale riesce davvero impressionante. E dolorosa per chi, come tanti di noi, non hanno mai smesso di pensare le persone, i cittadini con l'esperienza del disturbo mentale, al centro delle cure "umane e gentili" che il cambiamento legislativo di quasi mezzo secolo fa voleva garantire.
Negata l'istituzione, com'è accaduto in tutto il nostro paese, e meglio, nella concretezza delle pratiche territoriali, in tante realtà locali, bisognava da subito interrogarsi sul che fare, su che cosa poteva voler dire dare continuità al lavoro di critica e di distruzione del manicomio. Sta qui il nodo cruciale che non abbiamo potuto evitare e che non finirà mai di interrogarci: come, negata l'istituzione della psichiatria, pensare, progettare, montare le nuove istituzioni della salute mentale. Ecco il compito, direi l'urgenza, che, impreparati, abbiamo dovuto affrontare.
I giovani di Basaglia
Ero un ragazzino in quegli anni, uno dei giovani di Basaglia arrivati a Trieste da mezza Italia. Un ragazzino che capiva poco di manicomi e ancor meno di istituzioni totali e, tuttavia, ero entusiasta, avvertivo nelle quotidiane assemblee l'ansia del che fare, la paura di trovarsi in mezzo al guado, il pensiero di un mondo nuovo possibile (Il sogno di una cosa?). Ogni indecisione, ogni errore poteva segnare il fallimento. Il gruppo che si andava riconoscendo veniva messo alla prova ogni giorno. Avvertivamo voci di sfida: è facile - dicevano - buttare giù una rete, un muro, aprire una porta. E poi?
Non si può negare che rompere è più facile che costruire. Questo vale certamente per le cose, ma quando ci si riferisce alla vita dell'uomo, come stava accadendo, allora il distruggere e il costruire assumono tutta un'altra dimensione: rimandano a scelte di campo profonde, rigorose, difficili da frequentare.
Così Basaglia conclude nella bella intervista di Ernesto Venturini ne 'Il giardino dei gelsi', Einaudi 1979: "Della malattia mentale, sulla sua in/consistenza "scientifica", sulla ragione delle istituzioni totali. Forse bisognerà non stancarsi mai di tornare a rivedere quei percorsi, riascoltare quelle storie.
La trasformazione di Basaglia
Da dove ha potuto avere origine la trasformazione che Basaglia cerca faticosamente di realizzare? Non riesco a pensare ad altro se non ai primi giorni goriziani. È il novembre del 1961. Un giovane medico, non ancora quarantenne, mandato via dall'università di Padova perché troppo filosofo entra nell'ospedale psichiatrico di Gorizia. Sarà il nuovo direttore. Vede la violenza delle porte chiuse, delle contenzioni, delle divise. Vede "con gli occhi del filosofo" una violenza più grande: gli uomini e le donne non ci sono più. Avverte la vertigine del vuoto, la solitudine dell'assenza. È questa la dolorosa condizione che senza tregua lo interroga.
Cosa fare per far tornare i corpi vivi, le voci, le memorie di tutta quella dolente umanità? Deve interrogarsi su cosa è quella psichiatria figlia del positivismo scientifico che costringe ogni respiro a oggetto. La malattia nascondeva ogni cosa. I nomi e le passioni, le storie e i sentimenti, i bisogni e le emozioni non hanno mai abitato quel luogo. E la cura, neanche a pensarci.
Pazienti chiamati per nome
Così, messa tra parentesi la malattia, come svegliandosi da un lungo sonno, tutti cominciarono per incanto a chiamarsi per nome, a raccontare una storia, a ricordare un villaggio, a riprendersi il proprio tempo. A Gorizia si cominciò allora ad aprire le porte, ad abolire tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Gli internati divennero cittadini, persone, individui. Da allora fu possibile curare e cercare un altro modo per ascoltare, per esserci, per riconoscersi. Fu possibile vedere il malato e non la malattia, le storie singolari e non le diagnosi, vivere la propria vita malgrado tutto. Fu possibile denunciare per la prima volta le torture e la vergogna di due secoli di istituzioni totali.
Con la legge 180 moltissimi pensarono, e continuano a pensare, che una storia anche se eroica ed entusiasmante, si era conclusa. Chiusi i manicomi, dissero, la psichiatria sarebbe stata accreditata nel mondo certo della clinica, avrebbe guadagnato il candore del camice bianco, le promesse della moderna medicina e gli orizzonti miracolosi dei farmaci, delle psicoterapie senza fine. La pericolosità, la deriva sociale, i diritti negati finalmente avrebbero interessato i carabinieri, i servizi sociali, la politica. Finalmente una psichiatria pulita!: così i tanti psichiatri che plaudivano alla nuova legge.
La legge 180
Si andava marcando una frattura (una paradossale continuità, in realtà) tra un prima, il manicomio, e un dopo, le psichiatrie delle diagnosi e del manuale diagnostico statistico. Non era stato il manicomio l'oggetto del lavoro di deistituzionalizzazione ma la sofferenza, la follia che diventa malattia, la negazione dei soggetti e dei diritti, l'esclusione.
L'approvazione della Legge 180 del 1978 dava finalmente inizio al lavoro di deistituzionalizzazione. In molte regioni l'inerzia e la corsa verso i servizi ospedalieri, i fragilissimi e freddi ambulatori e le liste di attesa, la ricerca affannosa di posti dove mettere i matti rallentarono non poco la chiusura (i manicomi chiuderanno 20 anni dopo!) e contribuirono a disperdere le ragioni di quella faticosa trasformazione appena avviata, perdendo di vista la comunità, i contesti e le reti che andavano progettate e ordite.
Fu chiaro allora che bisognava pensare alla cura, al riconoscimento ostinato dell'altro, ai nuovi luoghi dell'incontro che rispondessero a quelle premesse. Abbandonato il manicomio la cura poteva realizzarsi nei contesti, nelle relazioni, nella quotidianità. Potevamo immaginare di incontrare la sofferenza e il bisogno prima che diventi malattia. Un nuovo spazio dove le persone, senza la paura della porta che si chiude alle loro spalle, possono entrare per chiedere aiuto, per dire il proprio male, condividerlo. Un confine aperto che garantisce sempre il ritorno.
Luoghi organizzati
Cominciamo a immaginare e a organizzare luoghi che dovevano accogliere le voci, le identità molteplici, i conflitti: condomini, piazze, mercati, stazioni. Un luogo, penso al centro di salute mentale 24h nella mia esperienza triestina, che vuole vedersi abitato non (soltanto) dai folli. Tra questi luoghi che andiamo immaginando e il fuori (il territorio) si disegna una soglia che definisce lo spazio dell'incontro, dell'ascolto, dell'aiuto, della terapia; che contrasta il rischio della sottomissione e dell'assoggettamento così presente quando ricorre l'esperienza della malattia, della fragilità, del bisogno.
In questi anni è stato possibile dimostrare che possiamo aver cura del folle, del diverso, del vecchio, del bambino in un altro modo. I Centri di salute mentale e i tanti e diversi luoghi di accoglienza, di cura, quando sono attivi, presenti e prossimi quotidianamente a sostegno della vita delle persone; le cooperative sociali, quando veramente sono in grado di stare sul mercato e piegarsi al bisogno singolare; le associazioni delle persone che vivono l'esperienza della fragilità, quando fanno crescere protagonismo e partecipazione; i luoghi dell'abitare e i laboratori, lì dove davvero si coltiva il valore della relazione, la bellezza degli spazi e degli oggetti, la qualità dei lavori e delle produzioni, dimostrano che è possibile curare senza contenzioni, con le porte aperte, con il sostegno puntuale, anche economico, della vita quotidiana, con la possibilità per le persone di abitare diverse e plurali identità. Con la possibilità di guarire.
Porte aperte
Questi luoghi, e le buone pratiche che li abitano, non riescono neanche a immaginare le "porte chiuse" e gli abbandoni colpevoli, contrastano quotidianamente la psichiatria delle distanze, diventano il momento privilegiato dell'ascolto, dell'accoglienza silenziosa e non perdono mai di vista il fuori. Anzi è la attenta valorizzazione di quel fuori (quel territorio di cui oggi tanto si parla) che pretende la cura in una sorta di contiguità tra la casa delle persone, gli spazi del rione, i luoghi collettivi, il centro di salute mentale, il distretto, il centro diurno. Progettare e costruire la cura significa rendere concreta, praticabile, abitabile la soglia.
Abitare la soglia ci costringe a incontrare l'altro nella sua realtà. Prima che il passaggio del confine salute/malattia avvenga. Prima che il disagio, l'isolamento, un profondissimo dolore, una inguaribile ferita si strutturi in malattia. Incontrare la sofferenza nella realtà dove essa accade. La trasformazione di cui vuole parlare Basaglia si muove da qui.
Il punto è che la buona volontà di tanti operatori, giovani e meno giovani, per tenere vivo l'orizzonte del cambiamento viene ostacolata da forme organizzative e dispositivi, leggi regionali e regolamenti aziendali che impediscono singolarità, creatività e complicità. Le culture e le pratiche preziosissime che in questi 40 anni si sono realizzate non riescono più a interrogare sul senso, sulle radici, sulla dimensione etica e politica del lavoro. La dimensione critica dei saperi e delle pratiche della psichiatria va scomparendo dal lessico di tutti gli operatori.
Questo mestiere pretende una radicale e rischiosa scelta di campo, esige di prendere parte, di accettare l'incertezza e di vivere quotidianamente il conflitto. Nella solitudine e nella frammentazione è difficile, specie per i più giovani, scegliere, resistere all'omologazione, al richiamo dell'indifferenza. Infinite volte, alla fine delle assemblee con familiari, operatori, cittadini volenterosi, ci siamo detti, sconsolati, che senza luoghi adeguati e dignitosi, con una endemica carenza di personale e di fronte all'evidente povertà di mezzi e di danari, non si va da nessuna parte.
L'Italia spende troppo poco
Il nostro Paese spende poco meno del 3% del budget nazionale della Sanità per la salute mentale (con differenze notevoli tra le 20 regioni), a fronte del 10-15% di altri Paesi come Francia, Inghilterra, Finlandia. Aspettando le risorse, molti operatori entusiasti invecchiano e, delusi, prendono strade diverse. E ognuno si ritrova a difendere, timoroso, il proprio misero spazio dalla presenza dell'altro, mentre i territori delle aziende sanitarie diventano sconfinati e i dipartimenti e le organizzazioni tra accorpamenti e fusioni si trovano spaesati in circoscrizioni sconosciute, segnate con un tratto di matita sulla carta da amministratori di "alta formazione manageriale".
Come abbiamo potuto non vedere nei fatti gli ostacoli insormontabili allo sviluppo di luoghi di relazioni e di vicinanza, dove sia possibile sostenere visibilità, appartenenza, protagonismo dei soggetti, dei più vulnerabili?
Cominciammo a progettare e lavorare privilegiando la "piccola scala", in circoscritte aree territoriali, anche con la finalità di riconoscere i bisogni, denunciare le diseguaglianze, promuovere malgrado la "malattia" una vita buona. Perché altrimenti, continuiamo a pensare Centro di salute mentale 24 ore? A gruppi di lavoro multidisciplinari dove l'incontro ravvicinato e quotidiano degli operatori garantisse conoscenza, condivisione, reciprocità? La dimensione affettiva, dicemmo! Oggi nelle smisurate terre dei Dipartimenti accade che infermieri, riabilitatori, cooperatori sociali, assistenti sociali, psichiatri, psicologi non si conoscano nemmeno, e ognuno arrangi nella solitudine la sua crescita culturale, le scelte formative o la fine di ogni interesse, impedito a ogni salutare confronto, inchiuso in un'impenetrabile autoreferenzialità.
L'indifferenza
La dimensione amorosa, soggettiva, utopica e un po' sognante si è andata perdendo. E con essa non c'è più traccia del senso di appartenenza di quell'attenzione etica, politica e umana che avrebbe dovuto essere l'interrogazione dominante nei luoghi di questi mestieri.
A nulla serve credere che i fondi europei mobilizzeranno l'apatia e l'indifferenza dominante. La pandemia, che invochiamo a causa e giustificazione di ogni cosa, poco condiziona le questioni di cui cerco di parlare, che vengono da molto più lontano. La distanza e lo sguardo raggelante delle psichiatrie e delle psicologie che condizionano le scelte culturali e operative di tutto il mondo degli operatori domina il campo, e le persone che vivono l'esperienza continuano a essere obbligate a trattamenti, stupidi se non dannosi. La pratica della contenzione non è mai stata abbandonata, anzi i "legatori" vengono allo scoperto e rivendicano con parole gentili dignità alle loro orrende pratiche. La presa in carico delle singole persone e delle vastità dei loro bisogni, che pure abbiamo sperimentato con successo, dovrebbe rappresentare la potente alternativa alle modalità burocratiche e de-soggettivanti che dominano le (cattive) pratiche nella quasi totalità dei dipartimenti di salute mentale.
Non c'è più tempo
Basterà continuare a parlare di budget di salute, di Lea, di fondi europei e così via? Penso che non basterebbe. Non c'è più tempo. È il momento di denunciare con parole chiare, anche se dolorose, le distorsioni, le regressioni e i crimini di pace quotidiani che continuano ad accadere. La ingovernabilità delle differenti e contrastanti politiche regionali, delle inutili formazioni accademiche, delle povertà di cultura e di risorse delle aziende sanitarie in ordine alla salute mentale, sono evidenti. Un gruppo di operatori, del quale ho fatto parte, ha compilato un progetto di legge, con l'intenzione di dare unitarietà alle politiche di salute mentale, portato in Parlamento dalla Senatrice Nerina Dirindin e ripreso in questa legislatura alla Camera dall'On. Elena Carnevale e al Senato da Paola Boldrini (DDL 11 luglio 2018,). Forse bisognerebbe ricominciare da lì.
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purpleavenuecupcake · 5 years
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Isis sbarca in India
Lo Stato islamico ha annunciato l'istituzione di una nuova provincia d'oltremare nello stato indiano di Jammu e Kashmir. L'annuncio è stato fatto durante il fine settimana da Amaq, l’agenzia di stampa dello Stato islamico. Secondo il comunicato stampa, lo Stato islamico (noto anche come Stato Islamico di Iraq e Siria) ha nominato la nuova provincia "wilayah al-Hind" (provincia di Hind), e ha affermato di aver sede nella Valle del Kashmir a maggioranza musulmana, che si trova in una delle tre divisioni amministrative dello stato amministrato indiano di Jammu e Kashmir. Il rapporto Amaq è emerso a seguito di uno scontro armato tra un gruppo di militanti islamici e forze di sicurezza indiane a Amshipora, un villaggio nel distretto di Shopian, che si trova ai piedi delle montagne dell'Himalaya settentrionale. Almeno un militante islamista è stato ucciso nel confronto armato, che secondo le notizie sarebbe durato due ore. Le autorità indiane hanno identificato il militante morto come Ishfaq Ahmad Sofi e hanno dichiarato di aver giurato fedeltà allo Stato islamico. La dichiarazione di Amaq sosteneva che i militanti di Amshipora avevano "inflitto vittime" alle forze di sicurezza, ma la richiesta fu negata dal governo indiano. L'agenzia di stampa Reuters ha parlato con Rita Katz, un'analista israeliana che dirige il SITE Intelligence Group negli Stati Uniti. Ha detto che l'annuncio di una nuova provincia dello Stato islamico "non dovrebbe essere cancellato", ma ha aggiunto che "l'istituzione di una provincia in una regione in cui non ha nulla che assomigli al governo reale è assurda". Scrivendo nell'Asia Times di Hong Kong, Prakash Katoch, un tenente generale in pensione nelle forze speciali dell'esercito indiano, ha affermato che l'annuncio di una wilayah in India è stato il primo per lo Stato islamico. Ha avvertito che dopo aver annunciato una provincia nel Kashmir indiano, lo Stato islamico "potrebbe anche tentare di aumentare la sua presenza in altri stati indiani" con una significativa presenza musulmana, come il Kerala o il Bengala occidentale. Katoch ha osservato che "un certo numero di giovani uomini e donne del Kerala" era stato identificato come aderente allo Stato islamico nel 2016 e nel 2017. Molti di loro, infatti, si sono recati in Siria per combattere per il gruppo islamico sunnita, ha aggiunto.   Read the full article
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blugio · 9 years
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"Come una pianta quando è arsa perché non piove e le foglie appassiscono, così era qui la gente.”
Franco Basaglia, L’istituzione negata
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gregor-samsung · 4 years
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Famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale, sono istituzioni basate sulla netta divisione dei ruoli: la divisione del lavoro (servo e signore, maestro e scolaro, datore di lavoro e lavoratore, medico e malato, organizzatore e organizzato). Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione fra chi ha il potere e chi non ne ha. Dal che si può ancora dedurre che la suddivisione dei ruoli è il "rapporto di sopraffazione e di violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione da parte del potere, del non potere": la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra società. I gradi in cui questa violenza viene gestita sono, tuttavia, diversi a seconda del bisogno che chi detiene il potere ha di velarla e di mascherarla. Di qui nascono le diverse istituzioni che vanno da quella familiare, scolastica, a quelle carcerarie e manicomiali; la violenza e l’esclusione vengono a giustificarsi sul piano della necessità, come conseguenza le prime della finalità educativa, le altre della «colpa» e della «malattia». Queste istituzioni possono essere definite come le "istituzioni della violenza". Questa la storia recente (in parte attuale) di una società organizzata sulla netta divisione fra chi ha (chi possiede in senso reale, concreto) e chi non ha; da cui deriva la mistificata suddivisione fra il buono e il cattivo, il sano e il malato, il rispettabile e il non rispettabile. Le posizioni sono - in questa dimensione - ancora chiare e precise: l’autorità paterna è oppressiva e arbitraria; la scuola si fonda sul ricatto e sulla minaccia; il datore di lavoro sfrutta il lavoratore; il manicomio distrugge il malato mentale. Tuttavia, la società cosiddetta del benessere e dell’abbondanza ha ora scoperto di non poter esporre apertamente il suo volto della violenza, per non creare nel suo seno contraddizioni troppo evidenti che tornerebbero a suo danno, ed ha trovato un nuovo sistema: quello di allargare l’appalto del potere ai tecnici che lo gestiranno in suo nome e continueranno a creare - attraverso forme diverse di violenza: la violenza tecnica - nuovi esclusi. Il compito di queste figure intermedie sarà quindi quello di mistificare - attraverso il tecnicismo - la violenza, senza tuttavia modificarne la natura; facendo sì che l’oggetto di violenza si adatti alla violenza di cui è oggetto, senza mai arrivare a prenderne coscienza e poter diventare, a sua volta, soggetto di violenza reale contro ciò che lo violenta. Il compito dei nuovi appaltatori sarà quello di allargare le frontiere della esclusione, scoprendo, tecnicamente, nuove forme di deviazione, fino ad oggi considerate nella norma.
Franco Basaglia, Le istituzioni della violenza, in:
AA. VV., L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, (a cura di Franco Basaglia; collana Nuovo Politecnico, n.19), Giulio Einaudi editore, 1974⁷ [1ª ed.ne 1968]; il brano citato si trova alle pp.115-16.
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gregor-samsung · 5 years
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A ben esaminarla, la malattia - come condizione comune - viene ad assumere un significato ‘concretamente’ diverso, a seconda del livello sociale di chi è malato. Ciò non significa che la malattia non esiste, ma si puntualizza un fatto reale di cui si deve tener conto, qualora ci si metta in contatto con il malato mentale dei ricoveri psichiatrici: le 'conseguenze’ della malattia mentale sono diverse, a seconda del diverso tipo di approccio che con essa si instaura. Queste «conseguenze» (e mi riferisco al livello di distruzione e di istituzionalizzazione del ricoverato nei manicomi provinciali) non possono essere ritenute come la diretta evoluzione della malattia, quanto del tipo di rapporto che lo psichiatra, e quindi la società che egli rappresenta, instaura con lui:   1) Il rapporto di tipo "aristocratico" dove il paziente ha un potere contrattuale da opporre al potere tecnico del medico. In questo caso esso si mantiene su un piano di reciprocità al solo livello dei ruoli, dato che si attua fra il 'ruolo' del medico (alimentato dal mito del proprio potere tecnico) e il 'ruolo sociale' del malato che viene ad agire come l'unica garanzia di controllo sull’atto terapeutico di cui è oggetto. Nella misura in cui il malato cosiddetto 'libero' fantasmatizza il medico come il depositario di un potere tecnico, gioca contemporaneamente il ruolo di depositario di un altro tipo di potere: quello economico, che il medico fantasmatizza in lui. Benché si tratti di un incontro di 'poteri' più che di uomini, il malato non soggiace passivamente al potere del medico, almeno finché il suo valore sociale corrisponde ad un valore economico effettivo, perché - una volta che questo venga esaurito - il potere contrattuale scompare, ed il paziente si troverà ad iniziare la reale «carriera del malato mentale» nel luogo in cui la sua figura sociale non avrà più peso né valore. 2) Il rapporto di tipo "mutualistico", dove si assiste ad una riduzione del potere tecnico e ad un aumento di potere arbitrario, di fronte ad un «mutuato» che non sempre ha la coscienza della propria forza. Qui la reciprocità del rapporto è già sfumata, per ripresentarsi - reale - nei casi in cui vi sia una presa di coscienza da parte del paziente della propria posizione sociale e dei propri diritti, di fronte ad una istituzione che dovrebbe essere creata per tutelarli. Quindi la reciprocità esiste, in questo caso, soltanto in presenza di un notevole grado di maturità e di coscienza di classe da parte del paziente; mentre il medico conserva spesso la possibilità di determinare, come meglio gli aggrada, il rapporto, riservandosi di rientrare nel terreno del 'potere tecnico' nel momento in cui gli venga contestata la sua azione arbitraria. 3) Il rapporto "istituzionale" nel quale aumenta vertiginosamente il potere puro del medico (non è più neppure necessario che sia 'potere tecnico'), proprio perché diminuisce vertiginosamente quello del malato che, per il fatto stesso di essere ricoverato in un ospedale psichiatrico, diventa - automaticamente - un cittadino senza diritti, affidato all’arbitrio del medico e degli infermieri, che possono far di lui ciò che vogliono, senza possibilità di appello. Nella dimensione istituzionale, la reciprocità non esiste, né la sua assenza viene in qualche modo mascherata. È qui che si vede - senza veli e senza ipocrisie - ciò che la scienza psichiatrica, come espressione della società che la delega, ha voluto fare del malato mentale. Ed è qui che si evidenzia come non sia tanto in gioco la malattia, quanto la mancanza di valore contrattuale di un malato, che non ha altra alternativa per opporsi che il comportamento abnorme.   Questo abbozzo di analisi dei modi diversi di affrontare e di vivere la malattia mentale, di cui per ora non conosciamo che 'questa' faccia in 'questo' contesto, evidenzia che il problema non è quello della malattia in sé (che cosa sia, quale la causa, quale la prognosi), ma soltanto di 'quale tipo sia il rapporto che viene ad instaurarsi con il malato'. La malattia, come entità morbosa, gioca un ruolo puramente accessorio dato che, pur essendo essa il denominatore comune di tutte e tre le situazioni suggerite, nell’ultimo caso sempre (spesso nel secondo), assume un significato stigmatizzante che conferma la perdita del valore sociale dell’individuo, già implicita nel modo in cui la sua malattia era stata precedentemente vissuta.
Franco Basaglia, Le istituzioni della violenza, in:
AA. VV., L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, (a cura di Franco Basaglia; collana Nuovo Politecnico, n.19), Giulio Einaudi editore, 1974⁷ [1ª ed.ne 1968]; il brano citato si trova alle pp.120-22.
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gregor-samsung · 4 years
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“ Il nuovo psichiatra sociale, lo psicoterapeuta, l’assistente sociale, lo psicologo di fabbrica, il sociologo industriale (per non citarne che alcuni) non sono che i nuovi amministratori della violenza del potere, nella misura in cui - ammorbidendo gli attriti, sciogliendo le resistenze, risolvendo i conflitti provocati dalle sue istituzioni - non fanno che consentire, con la loro azione tecnica apparentemente riparatrice e non violenta, il perpetuarsi della violenza globale. Il loro compito - che viene definito terapeutico-orientativo - è quello di adattare gli individui ad accettare la loro condizione di «oggetti di violenza», dando per scontato che l’essere oggetto di violenza sia l’unica realtà loro concessa, al di là delle diverse modalità di adattamento che potranno adottare. Il risultato è dunque il medesimo. Il perfezionismo tecnico-specialistico riesce a far accettare l’inferiorità sociale dell’escluso, così come lo riusciva a fare, in modo meno subdolo e raffinato, la definizione della diversità biologica che, per altra via, sanciva l’inferiorità morale e sociale del diverso: entrambi i sistemi tendono a ridurre il conflitto fra l’escluso e l’escludente confermando scientificamente l’inferiorità originaria dell’escluso, nei confronti di chi lo esclude. L’atto terapeutico si rivela, in questo senso, una riedizione - riveduta e corretta - della precedente azione discriminante di una scienza che, per difendersi, ha creato «la norma», superata la quale si cade nella sanzione da essa stessa prevista. L’unico atto possibile da parte dello psichiatra è quindi quello di non tendere a soluzioni fittizie, ma di far prendere coscienza della situazione globale in cui si vive, contemporaneamente esclusi ed escludenti. L’ambiguità delle nostre figure di «terapeuti» sussiste fintantoché noi non ci rendiamo conto del gioco che ci viene richiesto. Se l’atto terapeutico coincide con l’impedimento a che la presa di coscienza da parte del malato del suo essere escluso si muova dalla sua particolare sfera persecutoria (la famiglia, i vicini, l’ospedale) per entrare in una situazione globale (presa di coscienza di essere escluso da una società che realmente non lo vuole), non ci resta che rifiutare l’atto terapeutico qualora tenda solo a mitigare le reazioni dell’escluso nei confronti del suo escludente. Ma per far questo bisogna che noi stessi - gli appaltatori del potere e della violenza - prendiamo coscienza di essere a nostra volta esclusi, nel momento stesso in cui siamo oggettivati nel nostro ruolo di escludenti. ”
Franco Basaglia, Le istituzioni della violenza, in:
AA. VV., L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, (a cura di Franco Basaglia; collana Nuovo Politecnico, n° 19), Giulio Einaudi editore, 1974⁷ [1ª edizione 1968]; il brano citato si trova alle pp. 116-17 (corsivi dell’autore).
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