Tumgik
#e mi manca talmente poco ma al tempo stesso mi sembra che questa fine non arrivi mai
janniksnr · 1 year
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weirdesplinder · 3 years
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I romance che rileggo più spesso
Per prima cosa intendo chiarire che quelli che elenco in questo post non sono i miei romance preferiti in assoluto (alcuni sì, ma non tutti), ma bensì quelli che amo rileggere spesso. E per me, le caratteristiche che rendono un libro rileggibile a poca distanza di tempo dall’ultima volta che l’ho letto sono la leggerezza, brevità, e l’ironia che lo permeano.
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Un amore inaspettato
TItolo originale: The famouse heroine
Mary Balogh
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L'aver salvato la vita al figlioletto di un duca cambia il destino della bella Cora Downes. La giovane viene infatti introdotta in quegli ambienti aristocratici di cui, come figlia di un semplice mercante, avrebbe solo potuto sognare. Il problema è che dove va lei i guai la seguono e anche se il suo altruismo e sprezzo del pericolo la rendono una beniamina del Ton, un passo falso e una risata di troppo la metteranno in una situazione compromettente con l’ultima persona al mondo a cui avrebbe voluto creare problemi.
La mia opinione: semplice, carino e divertente. Una lettura non impegnativa e veloce in grado di risollvarti la giornata se sei giù di corda, con un poco di romanticismo
Il segreto di Miranda
Titolo originale: The Secret Diaries of Miss Miranda Cheever
Julia Quinn
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Londra, epoca vittoriana. Miranda Cheever si è innamorata del fratello maggiore della sua migliore amica a nove anni e non ha mai smesso di amarlo. Lui non l’ha mai notata, e un matrimonio sbagliato lo ha reso freddo e cinico. Eppure solo ora si accorge di lei
La mia opinione:  romanzo veramente dolcissimo e struggente, che con il suo amore non corrisposto mi spezza il cuore ogni volta  e poi lo ricostruisce con il lieto fine, fortunatamente. Quando rileggo questo libro di solito dopo rileggo anche il suo seguito intitolato Quella volta a Londra che vede protagonista la migliore amica di Miranda, e che è molto meno struggende, ma molto carino e ironico.
A Sir Philip con amore
Titolo originale: To Sir Philip with love
Julia Quinn
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Trama: Eloise Bridgerton ha ormai ventotto anni compiuti ed è ancora senza marito. A spezzare il grigiore delle sue giornate arrivano le lettere di sir Phillip Crane, un botanico rimasto vedovo con due gemelli da crescere.
Dopo un anno di corrispondenza lui le chiede di sposarlo, ma quando finalmente si incontrano, Eloise scopre che Phillip, più che una compagna, cerca una madre per i suoi figli. Riuscirà il suo amore a fare breccia nel cuore apparentemente insensibile di Phillip?
La mia opinione: mi piace rileggere molti dei romanzi della serie Bridgerton, in particolare il secondo, il quarto, il settimo, ma probabilmente quello che rileggo più spesso è il quinto, questo. Eloise a volte come personaggio è troppo, lo ammetto, ma mi fa sempre ridere tanto.
Courting Miss Hattie
Pamela Morsi
Inedito in italiano
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Trama: 1800. America. Hattie ha ormai più di trenta anni, e non ha mai avuto un corteggiatore. Non è bella ma ha della terra sua e finalmente uno spasimante si fa avanti. Non è bello, è vedovo e non è simpatico, ma è sempre meglio che rimanere zitella. Hattie accetta il corteggiamento e pensa proprio di sposarlo…..ma non sa che qualcuno è molto geloso delle sue attenzioni.
La mia opinione:  Un bellissimo libro. I due protagonisti, amici da anni, solo grazie ad un terzo incomodo scoprono di amarsi. Lei è bruttina, lui è bello e più giovane di lei, ma innamoratto cotto di lei. Tra scazzottate, raccolti, lavoro duro, equivoci e risate, il libro scorre via che è un piacere.Courting Miss Hettie Pamela Morsi
Titolo: The Brides of Praire gold
Maggie Osborne
Inedito in italiano
Trama: Cody Snow non sa cosa l’abbia spinto ad accettare l’incarico di guidare una carovana di dodici spose per corrispondenza dal Missouri fino a Clampet Falls, Oregon, ma già prima di partire si è pentito di averlo fatto. Non solo dovrà sorbirsi le loro innumerevoli lamentele e proteggerle dai pericoli del viaggio, ma dovrà anche combattere contro l’attrazione che prova verso una di loro, Perrin Waverly, poiché lei è promessa ad un altro, e lui ha giurato a se stesso dopo la morte della moglie, che non si sarebbe mai più sposato.
La mia opinione: Il mio libro preferito di questa autrice al momento. Non li ho ancora letti tutti, ma sarà sicuramente ai primi posti, poiché mi è piaciuto un sacco, nonostante sia piuttosto corale. Che dire. Mi è piaciuto talmente tanto che ora sto leggendo tutti i romance che riesco a trovare con protagoniste spose per corrispondenza. Nel vecchio west vista la mancanza di donne alla frontiera e nei nuovi territori appena colonizzati, era usanza che gli uomini mettessero annunci sui giornali cercando moglie, e le donne, spinte dalle più varie ragioni potevano rispondere all’annuncio via lettera. Ne conseguiva una corrispondenza che spesso si concludeva con l’uomo che pagava il viaggio alla donna che lo raggiungeva e i due, pur non essendosi mai visti, si sposavano.Ora, di solito, se una donna rispondeva ad un tale annuncio era perché aveva dei problemi a trovare marito in altro modo o non aveva altro modo di mantenersi.In questo libro le dodici donne della carovana hanno avuto diversi motivi per decidere di affrontare un viaggio così duro e pericoloso: Perrin è vedova, non può mantenersi da sola e non vuole rimanere nel suo paesino dove la sua reputazione è a pezzi a causa di un suo errore di giudizio dovuto però alle sue circostanze. Le pesa andare a sposarsi lontano, non per il viaggio, ma per il fatto che gli uomini l’hanno sempre sfruttata o delusa e non crede che la cosa sarà diversa stavolta. Mem invece è una donna troppo indipendente, troppo alta e schietta per trovare marito nel suo paesino, e ha sempre sognato di vivere un’avventura, desidera ardentemente questo viaggio, e le spiace un poco che sua sorella, che dipende un po’ troppo da lei, abbia deciso di seguirla perché è rimasta vedova da poco. Hilda è una maestra troppo brutta per trovare marito in altro modo e abbastanza piena di coraggio tedesco per tirarsi indietro davanti a questa sfida. Sarah, vedova di un ufficiale, ha viaggiato al suo fianco per il mondo e sa cosa aspettarsi da questo viaggio, troppo avanti con gli anni, ormai trentenne se vuole marito deve andarselo a trovare e non ha certo remore a farlo. Augusta dopo gli sbagliati investimenti del padre e il suo suicidio non possiede più nulla al mondo se non l'orgoglio di quella che una volta era la famiglia più ricca della città e odia l'idea di questo viaggio, ma non ha altra scelta. Jane, figlia di un pastore si unisca alla carovana per non viaggiare sola verso il suo promesso sposo che conosce già bene e che l'aspetta. Alice è in fuga sotto falso nome da un marito troppo manesco. Thea, una dotata disegnatrice, timida e riservata, spera in un nuovo inizio. Cora, una povera serva illetterata non ha altre prospettive. Winnie è assuefatta all'oppio e i genitori sperano che allontanarla dal paese potrà aiutarla, mentre Ona nasconde un segreto ancora più oscuro.Il viaggio viene descritto non con troppi tediosi particolari, ma con la giusta accuratezza. Le difficoltà grandi e piccole, i problemi su come e dove occuparsi dei propri bisogni, la polvere, la sporcizia, la stanchezza la malattia, eppure è tutto parte di uno sfondo pittoresco e verosimile a una storia romantica e avvincente. In particolare, oltre alla storia principale tra Perrin e Cody. Assistiamo al triangolo amoroso tra Webb, la guida indiana della carovana (che in realtà è solo per metà indiano ed è unico erede maschio di Lord Albany, Un ricco Duca inglese), Augusta bellissima, ma arrogante e razzista, e Mem, non bella, ma atletica, dolce coraggiosa e sopra ogni cosa amichevole, leale e curiosa. Webb all'inizio è attratto dall'incredibile bellezza di Augusta, ma quando lei lo respinge perché mezzo indiano, per fortuna si accorgerà di Mem…..Ora queste poche parole non vi rendono l'idea della loro storia che è davvero molto dolce ed è la parte del libro che ho amato di più, ma fidatevi se vi dico che vale veramente davvero la pena di leggere questo romanzo. Poiché oltre a tutto ciò che vi ho già detto contiene anche un mistero da risolvere……
The river knows
Amanda Quick
Inedito in italiano
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Trama: tre donne che si suicidano gettandosi nel fiume nella stessa settimana., non può trattarsi di una coincidenza, anche se sembra essere così.
Anthony Stalbridge , il promesso sposo di una della vittime però non crede alle coincidenze ed inizia ad indagare sull'accaduto, è convinto che qualcuno abbia ucciso la sua fidanzata e sospetta di una persona in particolare,Elwin Hastings, ciò che gli manca però è una prova. Così decide di introdursi nella sua casa per trovarla. Lì incontra un'atra persona che sta a sua volta perlustrando la camera da letto, una donna: Louisa Bryce, che cerca prove di altro tipo riguardanti i loschi traffici di Lord Hasting, per un articolo giornalistico.
I due uniscono le loro forse per indagare a fondo su Hastings, scoperchiando segreti molto più oscuri di quelli che cercavano e scoprendosi pericolosamente attratti l'uno dall'altra. Louisa ha molto da nascondere al suo nuovo collaboratore, eppure è proprio il suo passato che fornirà loro la chiave per risolvere il mistero. Infatti lei sa bene come un finto suicidio sia un ottimo metodo per scomparire, e dei tre corpi delle donne suicide, solo uno è stato ritrovato…..
La mia opinione: rileggo spesso i romanzi di Amanda Quick in generale, perchè io la doro, ma al momento uno dei mei èpreferiti è questo perchè presenta un impianto giallo molto ben fatto.
Titolo: Summer Breeze
Autore: Catherine Anderson
Inedito in italiano
Trama: 1889. Rachel Hollister non ha messo piede fuori di casa, un ranch in mezzo alle prateria, da ben 5 anni. Vive tra l'altro non nell'intera casa ma solo in una stanza e mezza e tiene barricato tutto il resto. Il terrore l'attanaglia al solo pensiero di uscire. Ma non è sempre stasta così, tutto ebbe inizio cinque anni prima quando tutti i suoi famigliari durante un pic nic furono uccisi a colpi di pistola da un misterioso omicida posto su un rilievo. Una ad uno caddero davanti ai suoi occhi ma la pallottola destinata a lei si limitò a sfiorarla e farla svenire. Il colpevole dovette crederla morta e Rachel sopravvisse, ma da allora non è più uscita di casa. Sopravvive grazie ad un anziano ranchero che lavorava con i suoi e che le porta cibo e vende i suoi dolci, tramite una fessura tra le assi che barrano le porte. Poi però un giorno lui non viene al loro solito appuntamente asettimanale. E’ stato ferito e al suo posto si presenta il giovane ranchero , un forestiero, che lo ha trovato e curato. Rachel dovrà superare le sue paure e fidarsi di lui se viole sopravvivere….. anche perchè chi ha ucciso la sua famiglia la tiene d'occhio e aspetta solo che lei esca per finire la partita.
La mia opinione: un romanzo interessante, diverso dal solito (l’agorafobia nei romance non è molto diffusa) ,romantico ma anche pieno d'azione e introspezione, molto intimo con i due nostri eroi chiusi in casa all'oscuro di chi voglia uccidere Rachel. Conntiene sia la tensione dei classici gialli in ambiente chiuso, e il romanticismo dei romanzi d'amore nonchè una delle più belle lettere d’amore che sia mai stata scritta. Provare per credere.
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Eppure mi hai cambiato la vita
Parte due
Ho continuato a tenermi il passato cucito addosso per più di dieci anni ma un paio di settimane fa finalmente ho riempito le mie valige e sono partito verso Roma. Alla fine mi sono convinto e l'ho fatto, me ne sono andato e ho raggiunto il mio amico. Nuovo posto, nuova gente, nuova vita, mi sembrava veramente di aver finalmente chiuso i conti con il passato, di poter ricominciare tutto da capo senza il peso opprimente dei ricordi. Vedere Leo così tranquillo, così preso dalla sua nuova vita mi aveva convinto che forse c'era una possibilità per uno tormentato come me. Massì, va bene ricominciare qui, è il posto perfetto. Anche se il cuore continuava a battermi forte ogni volta che uscivo di casa e incrociavo un qualsiasi essere umano che me lo ricordasse anche per dettagli insignificanti. Lo stesso taglio di capelli, gli stessi occhi scuri, la stessa improbabile risata. Lui era ovunque e stavo impazzendo.
Per il primo mese non ho fatto nulla se non avere la paranoia ogni volta che mettevo piede fuori casa. Così Leo ha iniziato a suggerirmi di cercare un lavoro, una distrazione, sapevo che la sua pazienza stava finendo ma ehi, io ero in una piena crisi esistenziale che lui non poteva certamente capire. Lui sa a malapena di Fabrizio, figuriamoci se sa che mi sono appena imbucato nella tana del lupo solo per dimostrarmi che posso sopravvivere. Quindi mi sono limitato ad annuire un paio di volte finché stamattina mi sono ritrovato spedito fuori casa a calci in culo con la minaccia di dormire sulle scale del cortile se non mi sforzavo minimamente di fare qualcosa della mia vita. E ok, lo capisco benissimo quindi ci ho messo poco a convincermi a scendere in città alla ricerca di un qualsiasi cosa non sia "disperarsi a casa per essermi buttato in una cazzata più grande di me che nessuno capisce a mia esclusione."
Le strade sono piene di persone verso l'una, io è un po' che passeggio e non ho concluso molto. In realtà nulla. Mi sono reso conto con rammarico che probabilmente dovrei partire con aspettative piuttosto basse per il momento, sempre se ci tengo a tornare a dormire su un materasso vero. Questa prospettiva non mi fa impazzire ma alla fine sono venuto qui un po' troppo a caso e senza preparazione per avere qualsiasi tipo di pretesa. Così mi arrendo e metto da parte la vocina che mi dice "Hai studiato per fare molto di più nella vita!" e mi imbuco in dei bar a caso per chiedere se cercano nuovi dipendenti. Ho pure un po' di fortuna dal momento che da alcuni di quei bar me ne esco tutto contento con un foglio in mano pieno di numeri e "ci faremo risentire presto!" promessi con dei sorrisi smaglianti. A quanto pare in centro c'è una carenza di persone laureate in lingue che hanno voglia di buttare i loro anni di studio lavorando in un bar, chi lo avrebbe mai detto.
Mi siedo su una panchina con una leggera sensazione di soddisfazione che aleggia fra me e quei turisti distratti che mi passano davanti, uno uguale all'altro.
Oggi ero talmente distratto dalla mia missione che non ho nemmeno avuto tempo per farmi paranoie su Fabrizio, ero talmente preso dal mio presente che sono riuscito a dimenticarmi per mezza giornata del mio passato. Mi fa talmente strano pensarci che per un secondo mi sento vuoto come se la mancanza del pensiero di Fabrizio avesse lasciato un buco, che si riempie quasi subito della solita malinconia con contorno di rabbia e rimpianti. Sono a Roma per chiudere questo capitolo perché se qui, dove la presenza del suo ricordo diventa quasi fisica, riesco ad andare comunque avanti posso dire di essere libero, di aver vinto. E poi quante possibilità ci sono che me lo ritrovi davanti? Una su un milione se mi va bene? Dai, potrei quasi uscire vivo da questo mio tentativo di suicidarmi definitivamente a livello emotivo.
Dopo aver concluso la mia sessione giornaliera di "auto incoraggiamento a sopravvivere alle mie stesse paranoie", mi ricordo di non aver ancora mangiato nulla e la fame mi attacca come se ne fosse ricordata pure lei in quel momento. Sposto lo sguardo in giro alla ricerca di un posto in cui andare e opto di andare a mangiare qualcosa di veloce in uno di quei bar in cui non sono ancora stato, giusto per finire di catalogare mentalmente la quantità allucinante di edifici che mi ritrovo attorno. Roma è parecchio più grande di quel che mi aspettassi, ci si rischia di perdere al solo pensiero, figuriamoci gironzolare un po' a caso come faccio io che poi di senso dell'orientamento sto a meno uno.
Mi alzo e dopo aver ricevuto un'occhiataccia da parte di una turista che aspettava di sedersi su quella panchina da mezz'ora, mi avvio verso il primo bar che attira la mia attenzione. Non è proprio quel genere di posto che si può definire carino ma sicuramente ha un suo perché, uno stile a metà fra il rustico e il retrò che gli da un'aria esterna un po' improbabile. Mi convinco ad entrare spinto si dalla fame, ma anche da un'innata curiosità che mi si è insinuata in un angoletto della testa appena ho visto questo posto. Anche l'interno si riconferma improbabile, la prima cosa che si nota è questo gigantesco lampadario antico provato a rimodernare seguendo uno stile inesistente riassunto con un'accozzaglia di tante foto e cartoline attaccate un po' a caso. Lo osservo per un po' meravigliato alla ricerca di posti che ho visitato anche io. Trovo in un angolo una foto della mia Albania, una cartolina di Bari, di Firenze, Milano, Atene, qualche paesaggio spagnolo e tanti altri posti meravigliosi che però mi sfuggono. Alle mie spalle si avvicina qualcuno ma io sono ancora tutto preso dall'ammirare quel buffo e al contempo bellissimo lampadario.
<Bello, eh? E' quello che è grazie ai miei viaggi, con qualche contributo dei clienti più affezionati> gli si sente il sorriso nella voce mentre mi si avvicina ulteriormente.
Ci manca poco che mi prenda un colpo e muoia nel posto esatto in cui mi trovo. Mi sto sentendo male perché questo non è possibile, perché sono passato di fronte a questo bar almeno cento volte solo questa mattina e non posso credere che lui fosse qui per tutto questo tempo. Sotto il mio naso. Lui. Una possibilità su un milione. Una, cazzo. Davvero mondo, davvero?
<Tutto apposto, amico?>
Sobbalzo quando un Fabrizio Mobrici con una decina di anni in più mi si piazza davanti con un sopracciglio alzato. Mi fissa perplesso per un attimo senza capire, si chiede sicuramente che cazzo di problemi mi affliggano a starmene impalato di fronte a lui come mi fosse appena apparsa la Madonna. Ma poi finalmente capisce. Gli occhi gli si illuminano di consapevolezza e brillano come la prima sera in cui ci siamo conosciuti. Il bicchiere che stava per mettere a posto gli cade di mano e i suoi occhi si incollano ai miei come se ne dipendesse la vita di entrambi.
<Ermal...> lo sussurra appena e mi chiedo come riesca a parlare perché io mi sento gelare fino al centro delle ossa, l'unica cosa che da segno di vita è il cuore, che batte impazzito come se si stesse scavando una via di fuga da questa situazione. Probabilmente proverei anch'io a scappare se non mi fossi ghiacciato alla prima sillaba che ha pronunciato. 
Ebbene eccolo, per anni ho segretamente sognato di rivederlo e ora lui è qui di fronte a me in carne, ossa e un sacco di inchiostro. Gli fisso le braccia tatuate per staccare gli occhi dai suoi perché inizia a far male, sento tutti i ricordi repressi fare capolino insieme alle lacrime e non ho proprio voglia di fargli vedere quanto mi ha fatto male la sua assenza.
<Fabrizio...> la voce mi trema e mi maledico perché dopo tanti anni mi fa ancora un grande effetto solo dire il suo nome, figuriamoci averlo a due palmi da me. E' così fottutamente vicino e non accenna ad allontanarsi...
<Tu... cosa ci fai qui? Cioè, insomma, qui siamo a Roma e...> ha la faccia di uno che ha bisogno di sedersi per non cascare per terra dallo sgomento insieme al bicchiere che adesso se ne sta in frantumi ai nostri piedi. Continua a fissarmi alla ricerca di una risposta nella mia espressione ma in realtà non so nemmeno io cosa rispondergli. Sono venuto qua cercando di lasciarmi il passato alle spalle, sperando di ricominciare tutto da capo, io e le mie cazzo di convinzioni di merda. Ma che cazzo ho in testa? La segatura, forse?
<Volevo dimenticarti... non che abbia senso provarci a farlo nella tua Roma ma... diciamo che non mi aspettavo di ritrovarti, ecco> gli rispondo cercando di non far tremare la voce e un po' mi sento mancare, oltre che infinitamente coglione. Riesco solo a pensare che non ci parlavo da troppi anni e che pure una pseudo conversazione come questa fa bene a quella parte di me che lo aspetta da più di dieci anni. Sento il me diciasettenne riprendere possesso della mia testa e del mio cuore, davanti a me Fabrizio sembra ringiovanire in un battito di ciglia, mi sembra di essere di nuovo in quella vecchia pizzeria che amavamo tanto. Non riesco più a distinguere passato e presente e per un attimo sto bene davvero, tutto il dolore si cancella istantaneamente, tutto si mescola e io sono lui, lui è me e all'improvviso siamo di nuovo noi. Probabilmente sto ammattendo, già.
Mi viene da sorridere solo perché sono qua e c'è anche lui, non riesco a mettere in conto che probabilmente mi spezzerà il cuore di nuovo. Riesco solo a sorridere mentre il cuore mi si risana lentamente, vorrei avere la forza di fermarlo, di fargli capire che tanto è inutile, che tanto sarà di nuovo in pezzi prima di fine giornata, ma non ci riesco. E' così tanto che non batte così leggero che ho paura che se lo fermassi smetterebbe di battere per sempre.
Fabrizio mi sorride a sua volta ma sembra confuso. Chissà quanti cuori avrà rotto in questi anni, sarà abituato a vederli semplicemente sparire dalla sua vita -come gli esseri umani normali, s'intende- e invece io sono qui, a sorridergli come un povero scemo. A pensarci bene se fossi al suo posto sarei confuso pure io. Perché sono ancora qua? Mi aspetto davvero un lieto fine con un ragazzo che ha tutta l'aria di essere andato tranquillamente avanti nella sua vita in questi anni? Il passato mi rende davvero uno stupido, un illuso. All'improvviso è come se mi tornasse la ragione, lo guardo un'ultima volta e a fatica esco dal mio gelido torpore, mi volto e faccio per andarmene. Sono stanco di continuare a sperarci di nascosto, di illudermi, di lui che non è quello che mi serve nella vita. Mi serve andare avanti, solo quello. Bene Ermal, adesso l'hai visto bello e cresciuto, cresci anche tu, smettila di metterti idee coglione in testa e va avanti con la tua vita. Insomma, sempre che non sia chiederti troppo.
Sono quasi sulla porta quando mi sento afferrare per il polso sinistro, non faccio nemmeno in tempo a realizzare cosa sta succedendo che lui mi trascina fin dietro il bancone, sulla sinistra c'è una porta e con poca grazia lui ci si imbuca dentro e mi ci trascina al suo seguito lasciando il bar pieno di persone che ci guardano strabuzzando gli occhi. Oh, le persone, me ne accorgo solo adesso? Sto messo proprio male. 
Chiude la porta e me lo ritrovo faccia a faccia, a così pochi centimetri dal mio viso che sento le gambe tremare dalle caviglie al bacino. Istintivamente mi viene da indietreggiare ma non lo faccio, rimango lì a fronteggiarlo alla ricerca di tutta la mia scorta di coraggio che conservo da anni per questo momento. E anche perché mi ci sono ficcato da solo in tutto questo casino e sento che questa è la volta buona per perseguire le mie idee folli fino in fondo.
Ci fissiamo in silenzio per alcuni minuti, lui sembra aver appena realizzato di avermi praticamente sbattuto nel suo ufficio lasciando di là il bar mezzo pieno di persone, persone che hanno assistito alla scena fra un mormorio e l'altro con lo sguardo di chi sta guardando un gatto volare per la stanza. Non so con che dignità uscirò da qui ma probabilmente sarà pure quella a pezzi, tanto per cambiare. Quanto meno posso metterla nella lista insieme al mio cuore e alle mie speranze.
<Non provare mai più ad andartene> il suo tono per un istante ha il potere di congelarmi di nuovo sul posto però non basta a farmi abbassare la testa. Eccheccazzo, che è 'sta storia che sono io quello che prende e sparisce a caso? Ma si è bevuto il cervello o cosa?
<Sei tu che te ne sei andato, Fabrizio, non io> lo vedo tentennare di fronte alla rabbia nella mia voce e quasi mi viene da ridere, sono riuscito a metterlo in difficoltà per una volta e non viceversa. È strano vederlo così, sicuro com'è,  non pensavo di poter fare tanto effetto a qualcuno, soprattutto a lui. Mi guarda e nei suoi ci leggo qualcosa di strano, qualcosa che non gli è mai appartenuta, la disperazione. La vedo dilagare nei suoi occhi a macchia d'olio, un attimo prima è quello con la situazione sotto controllo, un attimo dopo è quello che sembra pure più disperato e insicuro di me.
Alza la mano e me la passa lentamente sulla guancia in una carezza che mi sembra così dolce, che fa evaporare in meno di un secondo tutto quel risentimento che mi stava bruciando fino ad un attimo prima. Mi guarda come fosse incantato, come se non ci credesse che sono veramente qui e io non so più come dovrei sentirmi. Se lui è disperato, io che sono infinitamente più insicuro di lui come dovrei sentirmi? Dovrei cadere in ginocchio di fronte al grande amore della mia vita? Svenire, forse? Oh, ma smettila di farti seghe mentali, santo cielo Ermal.
<Sei qui...> per un secondo gli trema la voce e la sua frase finisce per sembrare per metà una domanda e per metà un'affermazione. Gli occhi gli brillano talmente tanto che mi sento io sull'orlo delle lacrime anche per lui.
<Sono qui> respiro a fondo e mi do una scossa mentale. Ripigliati Ermal, adesso che ce l'hai qui te lo vuoi lasciare scappare? Ma sei scemo?
Gli appoggio la mano sopra quella che ha sulla mia guancia e senza pensarci troppo mi avvicino sempre di più a lui, bramo la sua vicinanza da così tanto che non riesco nemmeno più a ragionare.
<Mi sei mancato.>
<Anche tu> glielo sussurro sulle labbra e sento i brividi ovunque. Voglio che questo momento duri per sempre.
<Non volevo andarmene, io ti amavo ma... mi hanno costretto...>
Rimaniamo immobili, ciò è quello che definirei sganciare una bomba e Fabrizio è sempre stato bravo in questo. Il mio cervello va totalmente in palla al suo "io ti amavo". Me lo sono chiesto così tante volte negli anni se lui mi avesse mai amato quanto l'avevo amato io o anche se si fosse mai posto il problema se mi amasse o meno, e adesso me lo sta dicendo. Fabrizio mi amava e lo dice talmente vicino a me che sento il suo respiro infrangersi sul mio, le sue labbra così vicine alle mie che sono ad un millimetro dal baciarsi.
<Io ti amo ancora> appoggia anche l'altra mano sulla guancia libera e con i pollici mi scaccia quelle lacrime che non mi sono nemmeno accorto di avere. Lui mi ama ancora e anche io lo amo ancora, non ho mai smesso di amarlo.
<Io non ho mai smesso di amarti> finalmente lo bacio, finalmente elimino anche quei pochi millimetri che dopo tutti questi anni mi stavano uccidendo. Non desideravo altro da quando ho messo piede qui dentro e l'ho visto, è come essere arrivato a casa dopo anni di pellegrinaggi attorno al mondo. Lui ricambia come se non aspettasse altro e si stringe a me come se non volesse lasciarmi andare mai più. Mi sento come fossi Ulisse e lui fosse la mia Itaca.
Quando ci separiamo sento la testa girare, Fabrizio davanti a me è come avesse a tratti diciannove anni, a tratti trenta. E' un incontro talmente perfetto fra passato e presente che nessuno dei due si azzarda a dire nulla, rimaniamo semplicemente l'uno perso nell'altro finché lui non mi bacia ancora. E poi ancora e ancora, finché non mi sento più le labbra, finché non sento più male al cuore.
Salve gente! Spero vi sia piaciuta anche la seconda parte di questa breve fanfiction. Vi lascio questa piccola nota sotto per dirvi che forse, in futuro, volevo aggiungere magari anche un terzo capitolo. Per quello però ci sarà un po' da aspettare dato che ho solo una lista piena di idee e poche cose effetivamente concrete. Spero di combinare in fretta, per il momento chiudo qui.
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La Febbre Del Sabato Sera, ma non Quella Buona
Mi chiamo Milena e anche se in teoria avrei kose da fare per la patente, mi sono ammalata come Ermal, per cui mi è partita una cosina. Con un po’ di Rindrea di sottofondo e un ospite a sorpresa manco fossi Maria de Filippi, eccoci qua.
Ermal si è ammalato.
Ok e grazie al cazzo direte voi: con tutto lo sbollattamento subito da Febbraio, prima o poi il suo corpo doveva cedere. 
Non che negli ultimi tempi non abbia dato prova di alcuni piccoli segnali: il polso infiammato, il cortisone, la voce fuori uso. Tutte cose che, però, era riuscito bene o male a superare con un po’ di salti mortali e fin troppi convinti “sto bene” che quasi nessuno si era bevuto.
Solo che questa volta, la grande differenza è che si è ammalato per bene.
Febbre a trentanove, mal di gola, tosse, indolenzimento, mal di testa, nausea. Insomma tutti i bellissimi sintomi che stanno a indicare un’influenza bella potente.
Indi per cui, è dovuto rimanersene a letto.
Ci ha provato fino all’ultimo, a non mancare. Ha preso più tachipirina di quanto fosse umanamente consigliabile, eppure il termometro è ostinatamente rimasto ad oscillare tra i numeri 38 e i 39.
 Ha perfino chiamato l’autista che l’ha raggiunto sotto casa, ma quando alzandosi per cercare di rendersi presentabili si è ritrovato con le orecchie che fischiavano e ha rischiato di dare un poco gentile e delicato bacio al pavimento con la faccia, ha capito che sì, per una volta la risposta doveva essere “no, non ce la faccio a venire, mi dispiace”
Quindi, una volta che ha barcollato di nuovo verso il letto e si è rimesso dentro alle coperte tipo avocado nel sushi roll, ha chiamato, disdetto, scritto un tweet di scuse, e poi ha collassato.
Si risveglia soltanto quando sente delle voci nell’ingresso
Infastidito, si rigira nel letto, la testa che gli duole come non mai
I suoi neuroni ci mettono qualche secondo di troppo a collegare che non dovrebbero esserci delle voci nel suo ingresso, ma quando ci arrivano apre gli occhi lucidi, sforzandosi di tirarsi su nonostante tutte le sue articolazioni siano in full mood Albano urla AAAA per dieci minuti
Tendendo le orecchie doloranti e mezze tappate, riesce a sentire qualcuno parlare
“... detto che non lo so, ma non posso” “Solo per qualche ora, davvero”
Riconosce, nelle voci che sente a stento, quello che sembrerebbe il tono di Rinald. 
“Rinald?” si sforza di chiamare, dubbioso, la voce che suona roca e impastata per il sonno e il dolore che la attraversa quando parla.
Le voci si fermano. Poco dopo, la porta si apre e sì, sbuca suo fratello. Suo fratello dietro al quale, timidamente, sbuca anche Andrea, che sembra voler fare di tutto per strizzarsi nello spazio occupato dalle sue spalle per non farsi vedere
Li osserva qualche istante, rintronato come non mai, prima di dire stupidamente “Che cosa ci fate in casa mia?”
I due si scambiano una lunga occhiata che ha la forma di un breve litigio interiore e poi Rinald fa un passo avanti, sospirando “Siamo passati per darti una mano. Ti abbiamo ritirato la posta e sistemato un po’ le cose che erano rimaste in giro. Io devo andare a lavoro adesso, ma Andrea rimarrà qui con te, ok?”
Ermal li guarda, più perplesso di prima
Non tanto per loro, ma perché nella sua mente ottenebrata dalla febbre sta comparendo il ricordo sfocato di Pastorino sulla porta della sua stanza che lo guarda in silenzio e quando si accorge che è sveglio proclama un “Ero passato a vedere come stai. Non entro per non ammalarmi. Buona guarigione, ciao”
“Ma per caso avete visto pastorino?” chiede
Rinald e Andrea si guardano come se non fossero del tutto sicuri che il suo cervello non sia stato fritto dalla febbre.
Nella testa di Ermal, i dettagli riaffiorano e compongono una visione piuttosto inquietante dato che se lo ricorda in penombra, quindi era probabilmente sera tarda. Deve essere mattino, ora.
“Che ore sono?” chiede infatti poi o, per meglio dire, gracchia, tossendo
“Le sette e mezzo” risponde Rinald, scrollando le spalle “Siamo venuti appena svegli”
Ermal non commenta la cosa. Lo sa che ormai i due passano più tempo insieme che da soli. E poi, non gli interessa di commentarla. Sta troppo male. Si sente la testa scoppiare mentre, con un sospiro, si riaccascia sul cuscino, recuperando un fazzoletto ormai freddo e inutilizzabile dal comodino per soffiarcisi il naso
Non commenta nemmeno che devono essere venuti la mattina a casa sua perché la sera erano impegnati a venire in altro modo. Lui vuole solo che gli venga una botta di sonno che lo faccia dormire fino a quando la febbre non scende
“Senti” dice Rinald guardandolo “Ti porto una tachipirina, ok? Poi tu riposi. Andrea magari ti fa un te o qualcosa da mangiare, va bene? E ci vediamo stasera” 
Annuisce, perché non ha nient’altro da fare
I due si baciano per salutarsi. Un bacio rumoroso, che prende più tempo di quanto Ermal vorrebbe
Potrebbe vomitare
Ma non per loro, perché sta proprio male
Solo che così gli verrà pure il diabete cazzo e ci manca solo quella
Alla fine Rinald esce e Andrea rimane a guardarlo con un sorrisino imbarazzato, lo stesso da “what the actual fuck” che aveva a Lisbona quando stavano comprando il deodorante
Ermal si chiede quanto Rinald faccia una scelta giusta, ma altro non può fare
Effettivamente, Andrea gli porta una tachipirina. Gliela fa prendere, guarda l’orologio, e gli assicura che tornerà a dargliene un’altra tra qualche ora. Gli fa provare la febbre, ostinatamente fissa su 38.8, e gli chiede se se la sente di alzarsi
Ermal gli rivolge lo stesso sguardo che rivolgerebbe a qualcuno che gli ha chiesto se vuole andare sulla Luna a piedi nel weekend e lui desiste. Gli lascia quindi il bicchiere d’acqua e gli porta un nuovo pacchetto di fazzoletti, evitando accuratamente di toccare gli altri lasciati sul comodino e sul pavimento
Alla fine scappa in cucina e se ne ritorna con un tè che gli posa sul comodino, suggerendogli di berlo. 
“Ci ho messo un po’ di zucchero, così ti ridà le forze” spiega, tormentandosi le mani
Il po’ di zucchero si rivela essere un quantitativo tale che dopo un sorso Ermal rischia di rimettere pure il pranzo pasquale di quando era un feto
Perciò, lo ringrazia con un sorriso che gli fa male alla faccia quanto all’anima e torna a sdraiarsi a letto.
Prende il telefono, ma ha un mal di testa talmente forte che dopo un “starò presto meglio, non preoccuparti” mandato a Fabrizio, deve mettere giù
Anche perché i commenti che ha intravisto sulla sua assenza gli hanno fatto di nuovo salire la voglia di rovesciare l’inesistente contenuto del suo stomaco sul pavimento
Leggere non se ne parla nemmeno. Per cui, sceglie di attendere che la tachipirina gli porti via un po’ di mal di testa per dormire, ancora
Si sente così debole e spossato che altro non può fare
“Ermal”
Viene riscosso dalla voce di Andrea che, sulla porta della stanza, si tiene in mano un piatto
“Ho pensato che potesse andarti di mangiare qualcosa” dice, entrando
L’occhiata sospettosa che rivolge al piatto, di solito scambiata per un gesto da persona schizzinosa, in quel caso è più che giustificata: nella fondina galleggia qualcosa che dovrebbe essere una sorta di minestrone, ma che somiglia più a una poltiglia dal colore malaticcio e dall’odore di morte liquida che gli causa un crampo allo stomaco
“Andrea” mormora piano “non credo che mi vada di mangiare”
“ma devi recuperare le forze, Ermal” insiste lui, avvicinandosi ancora. La consistenza della cosa è indubbiamente sospetta e Ermal si chiede cosa cazzo ci abbia messo. Al che, gli viene un gran dubbio
“Che cosa...è quella cosa?” chiede, sforzandosi per far uscire la voce, che comunque appare roca e nasale
“Emmm... tipo... una zuppa? Era l’unica cosa che avevi nel freezer di decente, cioè, hai il frigor vuoto e negli armadietti ho trovato solo cose che non vanno bene ora come ora... solo che non sono sicuro di averlo fatto nel modo giusto e... quando l’hai comprato”
“Buttalo” è la sola risposta che riesce a dargli “non ricordo quando l’ho preso, buttalo via” dice, storcendo il naso
Alla fine, Andrea si convince a portarlo via dato che lo vede che è sull’orlo dello sbocco 
Ermal lo sente trafficare con il lavandino. Si chiede quanto resisterà in quel modo. Però la tachipirina deve aver fatto un po’ effetto, perché si sente un po’ meglio
Intendiamoci, un po’ meglio significa solo che convince Andrea ad aiutarlo ad alzarsi per fare pipì e poi si schianta sul divano, non per volontà sua, ma perché si sente sul punto di svenire e non crede di riuscire a raggiungere il letto
Il fatto è che rimane bloccato lì per tipo diverse ore, avvolto in un rotolo di coperte e costretto a guardare uomini e donne, programma che l’amico sembra molto entusiasta di vedere
Amico che si è messo il più lontano possibile da lui e gli passa i fazzoletti praticamente tirandoglieli
Stronzo.
Non che non capisca la sua paura di ammalarsi, ma non è mica un appestato. 
Ermal ci prova, a fare conversazione. “Come va con Rinald?” chiede, la voce graffiante e bassa. Non vuole impicciarsi dei fatti loro, solo sapere. “Bene” gli risponde Andrea con un sorriso
Sembra felice della cosa. Non può che essere contento anche lui per loro, in fondo. 
Il punto è che mentre dice “Sono contento per voi” arriva a malapena alla metà di contento che scoppia in un attacco di tosse da cui impiega cinque minuti a riprendersi e che gli fa passare la voglia di parlare
E vaffanculo, deve tornarsene a uomini e donne, programma che odia, ma fa niente
Alla fine, stanco e indolenzito peggio di prima, si fa aiutare per tornare a letto, zoppicando come un vecchietto, e ingolla di malavoglia un’altra tachipirina prima di tornare a rotolarsi nella lenzuola lamentandosi come una balena spiaggiata nella speranza che la guarigione sopraggiunga presto
Dal salotto, sente Andrea parlare al telefono con quello che suppone debba essere Rinald dato che lo chiama “amore”
sorride al pensiero, e si allunga a recuperare il telefono
Scarico
E allora vita, che cazzo vuoi.
Finisce che, poco dopo, si riaddormenta di nuovo, sperando che il ritorno di Rinald non significhi che si risveglierà con la casa in fiamme
Non che non creda nelle capacità del fratello, ma con Andrea vicino l’ha visto sbrodolarsi con l’acqua mentre parlava, quindi non è tanto sicuro che sia in pieno possesso delle sue facoltà mentali quando l’altro è lì
Quando si risveglia, la prima cosa che sente è una mano fresca e appena ruvida premuta sulla sua fronte calda
Si sente andare a fuoco e nonostante sia così caldo sta tremando
Eppure, le coperte gli sembrano più pesanti e non sente tanto freddo quanto la notte prima. 
In casa, oltretutto, c’è un profumo caldo e piacevole, che non identifica ma che gli fa brontolare la pancia vuota ormai da troppe ore
Andrea ha provato, prima, a fargli ingollare qualche pavesino che si era portato dietro-e non sapeva perché e nemmeno voleva saperlo-ma masticare e mandare giù gli faceva dolere la gola troppo perché potesse sopportarlo e quindi si era arreso. Erano troppo secchi per lui.
Il profumo di cibo gli ricorda Fabrizio. 
E’ abituato che, quando sta da lui, ad un certo punto ci sia sempre l’odore del cibo che proviene dalla cucina e questo gli fa muovere una sorta di moto di speranza nel petto
Forse è venuto per lui
Non rimane però nemmeno troppo deluso quando, aprendo gli occhi, si rende conto di aver sperato un po’ troppo, è vero, ma che comunque in cambio ha avuto “Dino”
Gracchia il suo nome con fatica, deglutendo poi con una smorfia. Ha la gola secca e riarsa e si sente la testa che scoppia
Dino è seduto accanto a lui, sul letto, e lo guarda con preoccupazione, anche se concentrato. Sul letto è comparsa una nuova coperta, i fazzoletti sono spariti.
E poi gli sorride appena, alzando le labbra e la barba
“Ho fatto il prima che ho potuto. Hai la febbre alta, comunque” gli annuncia, scuotendo appena la testa “Ti sto facendo un po’ di brodo caldo, va bene? E ho portato delle medicine decenti, non quelle che hai tu. Sempre che tu le abbia, certo. Quini tachipirine, spray per la gola, sciroppo per la tosse, la crema per il naso irritato e a proposito, ho buttato via lo schifo di fazzoletti che c’erano qui attorno, e insomma Ermal, perché non mi hai chiamato quando hai capito di stare così male?” sciorina, guardandolo
Ermal sospira, tirando su con il naso
“Non volevo disturbarti” gracchia, accettando il fazzoletto pulito che l’altro gli tende. 
Dino alza gli occhi al cielo
“E io non voglio che tu muoia, quindi la prossima volta magari evita di far venire Andrea. Che, a proposito, sta dormendo sul divano in sala con tuo fratello. Cercava aiuto per disfarsi del cadavere?” 
Un sorrisino si dipinge sulle labbra secche dell’altro 
“Probabile” dice, prima di leccarsele e ridendo rocamente quando Dino gli passa del burrocacao
“Grazie” dice, tossendo, cosa che fa sbucare nelle mani altrui uno spray “Parli come una cornacchia. Tieni” dice, e poi notando quanto lentamente si muove sospira “Apri, faccio io” 
“Non ho due anni” rimbecca, offeso, aprendo poi la bocca per lasciarlo fare
“Guarda che è amaro” dice Dino e già lui sta sentendo il sapore atroce della medicina in bocca e una smorfia gli piega il viso, cosa che fa ridere l’altro “Dai che ti fa bene, signor non ho due anni” dice, passandogli una mano tra i ricci “Sei tutto sudato. Ti devi cambiare” dice poi, alzandosi “Dove tieni i pigiami?”
“Il cassetto...non quello...sì. Quello lì in fondo” lo guida Ermal, ancora muovendo la bocca come un bimbo disgustato
Lascia che l’amico recuperi un pigiama pulito e glielo porti, sospirando quando deve tirarsi su, le giunture che cigolano e scricchiolano 
“Aspetta” mormora l’altro, alzandosi e uscendo dalla stanza. Torna dopo qualche minuto con una salvietta umida, che gli tende “Sistemati un po’, così almeno ti metti a letto un po’ più fresco” dice, cosa che fa sorridere Ermal mentre lo aiuta a levare la maglia
“Grazie. Avrei dovuto sposarti io, a questo punto. San Dino”
Dino si limita a sorridere, scuotendo il capo “Non diciamo cazzate dai”
“Lo consideri il divorzio per me?” gracchia scherzosamente, passandosi la salvietta sul collo madido di sudore 
“Ti piacerebbe” ride l’altro, aiutandolo poi a rivestirsi prima di fargli un cenno “Cambia lato del letto” dice, aiutandolo poi a spostarsi
“Meglio?” gli chiede quando lo guarda riadagiarsi sul cuscino fresco e pulito mentre gli tende dell’acqua fresca e una tachipirina
“Meglio” risponde lui, accettando le cose
“Vado a prenderti da mangiare, allora” sussurra Dino, passandogli di nuovo una mano tra i ricci
Sorride Ermal, annuendo appena
Ne hanno passate tante, lui e Dino, eppure l’altro è sempre rimasto
“Ah Ermal? Ti ho messo il telefono in carica. Ti converrà sentire Fabrizio, ti ha chiamato tipo nove volte” lo avverte l’altro prima di sparire accostandosi la porta dietro le spalle
Ermal sospira, allungandosi a prendere il telefono. Gli fa ancora male la testa, ma non abbastanza questa volta perché non riesca a premere il tasto della chiamata 
Squilla a vuoto per qualche secondo prima che una voce preoccupata dall’altra parte risponda “Pronto Erma?”
In automatico, il sorriso gli si allarga sul viso.
“Bizio” gracchia piano
“Erma. M’hai fatto morì, non riuscivo a chiamarti” “Si scusa, lo so” bisbiglia, il tono preoccupato di fabrizio che gli fa male e gli scalda il cuore insieme “Mi si è scaricato il telefono e poi mi sono addormentato” spiega
“Ah. Capito. Che brutta voce che c’hai. Come stai ora?” gli chiede, la voce bassa e più tranquilla
“Meglio, dai. Cioè, no, sto ancora una merda ma è arrivato Dino quindi meglio. Almeno so che non morirò avvelenato per colpa del brodo di Andrea” ride, anche se la risata viene stroncata a metà da un colpo di tosse, cosa che fa sospirare Fabrizio
“Sta al caldo. E mangia. E prendi ‘e tachipirine, eh. E qualcosa pe a gola. Verrei a Milano, se potessi, ma sto co’ Anita che pure c’ha ‘a febbre” gli spiega, contrito, cosa che fa scuotere il capo a Ermal anche se non può vederlo
“Non fa niente. Spero che si riprenda presto anche lei. Dille che la saluto” mormora, schiarendosi la voce più che può e tirando però su con il naso. 
“Comunque so contento che ci sta Dino” dice poi Fabrizio, il tono più dolce “Che almeno si prende cura di te. Per una volta lascia che ‘o facciano gli altri, per favore. Che te devi riprendere e se te sento di che dai fastidio guarda che mi arrabbio” 
Di rimando Ermal ride appena “Per una volta, credo che farò così, grazie. Non ho chiamato Dino subito” ammette “Ma effettivamente mi serve che sia qui” dice, sospirando poi “Mi manchi” soffia “Ma ci vediamo presto, ok? Appena guarisco” gli promette, tossicchiando
“Ma certo. Mo vado che Anita sta a piagnere, scusa. Ci sentiamo dopo” mormora Fabrizio
“A dopo” sospira Ermal chiudendo la chiamata con un sospiro.
Salvo poi ridere quando sente che, dal salotto, Andrea deve essersi svegliato dato che sente un tonfo e poi un urlo
Probabilmente è caduto dal divano 
E mentre si riaccomoda tra le coperte pensa che sì, può lasciare che gli altri si prendano cura di lui per una volta
Anche perché senza Dino, dubita che sarebbe sopravvissuto un altro giorno in balia di quei due che, fortunatamente, passano a salutarlo e poi decidono di andarsene, tenendosi la mano
Sono carini, insieme
Quando Dino si presenta in camera con una fondina piena di brodo caldo e profumato, Ermal giura che potrebbe piangere dalla gioia
Mentre lo mangia, con Dino seduto accanto a lui che gli da una mano a non sbrodolarsi come un bambino, si ricorda della cucina della nonna, dove aleggiava sempre un profumo caldo e avvolgente, che ti faceva brontolare la pancia e sognare di pane e dolci e tanti altri buoni piatti che cucinava
“Grazie” mormora quando finisce, lasciandosi ricadere a letto tra le coltri calde e morbide con un sospiro
Si sente già meglio, così
Alla fine si ritrova steso vicino a Dino, che ha scelto di sdraiarsi accanto a lui nel letto nonostante le proteste sul fatto che sarebbe finito ad ammalarsi a sua volta
Finisce che, come anni e anni prima, si ritrova accoccolato vicino a lui, uno sbadiglio che soffoca vicino al suo collo mentre sospira appena
“Ti voglio bene” mormora piano, nel silenzio della stanza
“Anche io ti voglio bene” replica l’altro, carezzandogli appena la schiena
Se ci ripensa, Ermal quasi non crede a quanta strada hanno fatto negli ultimi anni e di quante ne abbia fatta anche da solo, personalmente, negli ultimi tempi
Sa solo che è grato, grato di avere Dino, grato di avere Marco e Andrea e Pace e Emiliano e tutte le altre persone che gli sono accanto in quel momento
Grato di avere Fabrizio, che è come arrivato dal nulla e che si è guadagnato nel suo cuore uno spazio enorme, incontenibile, e che nella sua anima ha lasciato più di un’impronta indelebile
E mentre scivola nel sonno, seppur malato e stanco, si sente più sereno che mai.
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iodanessunaparte · 5 years
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Ei tu. Sì tu che hai iniziato a leggere questo stupido tumblr quando avresti di meglio da fare. Hai una buona immaginazione? No? Io sì. Quindi ti aiuto io. Immagina di essere in classe a fissare un foglio, che dovresti compilare perché è una verifica. Un fottuto pezzo di carta che “misura” quanto sai di una certa cosa, che sommato ad altri tanti di questi fogli ti danno una nota. Su cui sarà basato il tuo futuro e su cui dovresti concentrarti.
Be’ tu immagina di non essere più nervoso/a come un tempo eri, quando avevi tra le dita una penna che non accennava a star ferma per via del tuo tremolio causato dall’ansia. Immagina tu, di guardare quel foglio, spazi che dovresti completare, domande che attendono risposte e accorgerti che non ne sai molto, anzi praticamente niente, e che nonostante tu ti sia impegnato per fare ciò che dovevi fare, tu non riesca a fare nulla, impotente; dinanzi ad un foglio. Ti guardi in giro e vedi i tuoi compagni a testa bassa, concentrati a fare ciò che a te sembra un’enorme impresa. Ma oramai tu sei abituato. In realtà non ti aspettavi altro, sapevi che non ce l’avresti fatta, perché come sempre non riesci a fare niente. Sai di essere inutile, non solo per questa verifica ma anche per le altre. Sei stupido/a, non sai usare il tuo cervello, non ti impegni abbastanza e quando lo fai finisci per fallire. Ti deridi quando ti illudi di riuscirci e puntualmente ti deludi. Ma ora, non ti trema la mano, sai già che farà schifo. Perché fai schifo. Così il tuo subconscio raduna i tuoi altri fallimenti... come il fatto che tu sia escluso, il fatto che nessuno ti sopporti, il fatto che tu non riesca a dimostrare le tue emozioni, il fatto che tu sia vuoto e pieno. Il tuo fallire nel voler migliorare , la tua pigrizia nel voler cambiare. Pensi al fatto che sei tu in primo posto a poter cambiare la tua vita, magari dandoti un motivo per essere orgoglioso, magari partendo da quel fottuto pezzo di carta su cui hai scritto il tuo nome, il nome di un mostro, una nullità, un fastidio, il nome di un oggetto talmente usato da essere rotto.
Rammenti quelle volte in cui hai dato la tua fiducia in mano a gente che ti aveva sorriso due volte e che avevano chiesto il tuo aiuto, ricordi che hai pensato ti volessero bene, ti manca per un millesimo secondo i sentimenti che dimostravi a gente come quella, perché “gentilezza porta gentilezza”. Guardi l’orologio e riguardi il foglio, su cui hai disegnato uno smile, hai messo qualche risposta un po’ per culo e mentre guardi i tuoi compagni lavorare, arrivi alla conclusione che sei stupido. Sei ingenuo e proprio come dimostra quel foglio: non sai niente, niente della vita, non impari niente e anziché impegnarti per il tuo unico ruolo. Perché sì in fondo oltre ad ascoltare musica, mangiare e cagare tu vai a scuola e l’unica cosa di cui importi qualcosa alla tua famiglia sono le tue note. Ma tu la sera prima anziché studiare ti stavi tagliando il braccio di nascosto. E quando hai studiato perché in fin dei conti qualcosa di utile devi fare, i tuoi pensieri si sono affollati al perché poco prima ti stavi imponendo tali trattamenti e torni al punto in cui sei adesso. È inutile. Perché sto facendo questa stupida verifica? Tanto tra qualche mese questo sarà solo il nome di un fottuto cadavere. Il tempo per il foglio di merda sta per scadere e tu hai scritto poche cose. Le lacrime di cui non avevi notato la presenza rischiano di uscire. Cerchi di trattenerle, le tue dita lasciano la penna e scorrono discrete sui tuoi polsi dove le cicatrici ti sussurrano che sei quello. Sai solo distruggerti e lamentarti, senza cambiar nulla. Così stufo di te, ti alzi consegni il foglio al prof e te ne torni seduto, con un sorriso da “ahaha ma che mi frega della scuola”. Tipico dei cretini. Esatto. Cretini come te. Fai così per tutta la giornata, ti chiedono come sia andata la verifica e ridi, mostrandoti indifferente, dici solo la prima parte di quello che pensi per davvero.
«È solo un pezzo di carta. È andata di merda, mah tranquilli già lo sapevo, non me ne frega molto.»
Davvero? E perchè adesso hai la mano in tasca, a tenere... uhm quella è una lametta? Oh sì. Ti chiedi e ti rispondi. Non appena sei solo: urli, tiri pugni e piangi, non per la nota, non per la verifica, non perché ti è andata male ma perché non va. Non va proprio. Tu non vai. Tu non vai bene. Tu fai schifo e probabilmente se vivi la vita che ti aspetta sarai un barbone o un fallito davanti alla TV a riempirti la pancia mentre maledirai il vecchio te. Quello che davanti allo specchio pensa al suicidio, quello che ora mentre scrive questo tumblr pensa a come sarebbe bello il suo corpo tagliuzzato sui binari dei treni, schiacciato al pavimento, irriconoscibile e chissà, forse saresti anche più bello/a di quanto sei adesso.
Vorresti spaccare quello specchio, romperlo e romperti. Ti odi e odi odiarti. Non sai cambiare un cazzo, incapace per te stesso e per gli altri.
Così eccoci che scopri di avere un’ottima immaginazione... La mattina seguente mentre aspetti il treno, con le solite cuffie a isolarti dal mondo che odi e dai mostri che sai che ti circondano, ti vedi. Mentre fissi le rotaie, vedi i tuoi problemi, tu: il problema. Vedi il tuo inguardabile corpo steso lì in mezzo, in una posa disumana, con la testa da una parte e il corpo dall’altra, sangue, sangue dappertutto, tu dappertutto e al tempo stesso più da nessuna parte. Pensi al fatto che i prof avrebbero un allievo di merda in meno, pensi che così nessuno potrebbe più crearsi false speranze in uno scarto come te, pensi ai tuoi fallimenti, errori e scelte finalmente abbandonare la tua testa, i tuoi ricordi venire sparsi insieme alle tue budella. I tuoi ““amici”” non dovranno più fingere di sopportarti, i tuoi genitori non dovranno più deludersi guardandoti. Le persone che ti odiano finalmente l’avranno vinta, finalmente nessuno dovrà più avere a che fare con te, le tue stranezze, i tuoi difetti e la tua faccia da cazzo. Non dovrai più fingere di essere un menefreghista del cazzo, non dovrai più fingere di sorridere perché sei un idiota e niente ti scalfigge, non dovrai più vedere il disgusto negli occhi di chi ti guarda e la delusione negli occhi dell’immagine che lo specchio riflette.
Così mentre il tuo cuore accelera al solo pensiero di sfiorare la morte, vedi vividamente la tua bocca digrignata, con un urlo zittito dalle ruote del treno che ti amputano velocemente il collo, proprio com’era nel tuo intento. I tuoi occhi chiusi per la paura quando in realtà la paura di vivere aveva superato quella di morire. Mentre immagini il dolore che deve provocare questa fine, sai di meritartela, perché semplici tagli non bastano, non hai più spazio, sono diventati così tanti che nasconderli è difficile e chi li vede dà per scontato che sia per chiamare l’attenzione, perché tu sorridi sempre e nessuno ti ha mai visto triste, piangere, distrutto, con tutte le tue crepe. Vorresti vedere il tuo corpo diventare vitreo e gelido come ormai sei dentro e deduci che così magari qualcuno si accorgerebbe che sei a pezzi. Lo vedranno. Ma ormai sarà tardi. Perché ora come ora: distrutto dentro, non frega a nessuno e non appena ti distruggerai fuori, alla gente farà comodo dire belle parole per liberarsi dai propri sensi di colpa.
Ti piacerebbe realizzare quell’immagine, ti piacerebbe sparire. Ma sei codardo e sai già che anche nel suicidio saresti un fallimento. Come lo sai? Perché ci hai già provato tante volte e giustamente neanche a toglierti dai piedi per bene sei capace.
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thebigbrohill · 4 years
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[ Blake & Shoto_  •THE•DREAM•_ #Ravenfirerpg _ Soundtrack : https://m.youtube.com/watch?v=OK3GJ0WIQ8s ] 
* A Ravenfire non vi è persona che non immagina qualcosa: c’è chi, infatti, vede attraverso gli occhi degli altri; chi, invece, si nutre attraverso le immagini di paura provenienti da chiunque e poi, poi c’è Blake Hill. Ebbene sì, quest’ultimo è un caso a sé, uno di quelli che ancora sogna con il dito in bocca come un fanciullino o forse è meglio dire che ancora sogna ad occhi aperti cose che non potranno mai esistere. Ma cos’è un sogno se non un’immaginazione che vive nella tua mente e che sembra essere reale? Cos’è un sogno se non affidarsi e vivere pienamente in quelle emozioni? Cos’è se non un vero e proprio desiderio che ti porta a vedere un altro orizzonte, un altro te, un’altra città e pur sempre lo stesso amore? Si gira e si rigira fra le lenzuola, il giovane ventisettenne di fianco a Shoto, eppure tutto è così reale in quelle immagini che si susseguono....* •• 깨어나기 싫다고 나의 𝒟𝒶𝓎𝒹𝓇e𝒶𝓂 𝒟𝒶𝓎𝒹𝓇e𝒶𝓂 È la musica di una canzone proveniente da un vicolo, anzi no, proviene da una finestra a piano terra. L’inquadratura mentale di Blake, ovvero i suoi occhi stessi, si fa più stretta, cercando di mettere a fuoco quel posto che, in verità, ha soltanto visto per cartolina e per foto. Si guarda attorno con più attenzione: quella che ha intorno a sé sembra essere Seoul. Seoul? Ma stiamo scherzando? Ma quindi....? Sì, si sente decisamente umano, quindi forse lo è. È strano. Deglutisce, non capisce molto di ciò che sta vivendo, finché non vede dietro la cornice della finestra... « Dio.. Sei.. bellissima. » Sussurra, sorridendo, per poi corrucciare la fronte: Blake è Blake, ma è una donna avente una voce fine, gentile, eppure è piena di tatuaggi come sempre.  •• * È strano, troppo strano, ma è curioso, dunque non pensa si sveglierà presto. * Shoto Ryuck *Shine è nel salotto di casa dei suoi amati zii, ha messo una delle sue canzoni preferite che la descrivono perfettamente e si esercita in una coreografia da lei inventata mentre i capelli lunghi le saltellano attorno al viso adorabilmente. Non si è accorta di essere osservata finché la musica non finisce e non si volta per spegnere la musica. Una ragazza dai tratti occidentali, mora con gli occhi color ghiaccio, la guarda come se non avesse mai visto altro al mondo. Non può fare a meno di arrossire, la giovane Shine, guardata così intensamente da una sconosciuta così bella. Si avvicina al vetro e le fa ciao con la mano, dopodiché si imbarazza di nuovo e di getto chiude le tende, restando schiena alla finestra e sospirando con le guance rosse* Blake Edward Hill * Blake è figlia di immigrati, sicuramente. Lo deduce dal fatto che, nel mondo in cui è sommersa, nessuno per strada ha gli occhi come i suoi né i suoi modi di fare così stronzi, quasi da ragazzino cresciuto in strada. Ragazzino. Sì, perché lei si è sempre considerata una ragazza diversa, un uomo con la voce sensuale, un’anima speciale. Per sfortuna, però, ella non ha mai studiato, non riuscirebbe mai a definirsi in maniera poetica e, dunque, si ferma al “ragazzino”, “maschiaccio dai capelli lunghi”. L’unico particolare? È che non l’ha mai confessato a nessuno, se ne va per vicoli a spiare ragazze e, chissà, a farle innamorare dei suoi tratti occidentali. Quel giorno la fortunata di quello spionaggio era proprio quella tipa, quella tipa molto affascinante che... beh, le forme ce le aveva, l’età anche, in poche parole era ben messa. È ancora lì con gli occhi puntati su di lei e con una mano sulla cornice della finestra, quando l’asiatica non si accorge della sua presenza e arrossisce. Bruscamente le fa ciao e poi chiude le tende. Blake ride e a questo punto parla. * « Ho aperto un negozio da poco! Faccio tatuaggi! Ho anche un biglietto da visita. » * Sta flirtando anche in un modo viscido, ma, come si suol dire, ognuno ha la sua arte: chi di arrossire e chi di arrampicarsi sugli specchi. * Shoto Ryuck *nonostante la sua femminilità, le sono sempre piaciute le ragazze, fin da bambina, da quando faceva fidanzare le barbie più belle che aveva e faceva formare loro delle famiglie dolcissime composte da mini peluche e giocattolini vari. Tuttavia non ha mai avuto una storia, è sempre stata troppo concentrata sulla danza o troppo timida per cercarne... Almeno finché questa non ha trovato lei. La sente parlarle attraverso il vetro e in un qualche modo lo trova estremamente romantico. Shine è sicuramente molto timida, ma non le manca l'audacia, perciò, dopo aver tentennato ancora un po' compie un po' di passi verso la porta d'ingresso, ed esce fuori per raggiungerla con le gote ancora in fiamme. Guardarla da vicino le toglie ancora di più il fiato, è talmente ingenua e inguaribilmente romantica la nostra Shine, che sarebbe già pronta a regalarle il suo cuore se lei lo chiedesse nel modo giusto. Fatto sta che non riesce a parlare per l'imbarazzo e si limita a porgerle la mano, impacciata, per ricevere il suo biglietto da visita...con il suo numero sopra si spera* Blake Edward Hill * Lei con le Barbie non ci ha mai giocato, semplicemente perché non le piacevano. Preferiva le moto e le macchinine, le aveva preferite anche più tardi fin quando, partecipando ad una gara clandestina, Blake non aveva ucciso una ragazzina per sbaglio ed era finita in carcere per qualche tempo. Era stato lì che aveva imparato l’arte del disegno sulla pelle. Si nota tantissimo che è una tipa tutta strana che non parlerebbe molto, ma che farebbe di tutto per raggiungere un obiettivo. Come si suol dire: la determinazione è donna! Non si sposta, gli occhi occidentali sono puntati lì, su quelle tende. Pensa che la ragazza sia ancora lì ed invece... Invece trasalisce quando si accorge che la ragazza è uscita dalla porta di ingresso e le porge la mano. Le porge la mano. Quel dettaglio le provoca una tachicardia assurda, pensava che... che fosse impossibile sfiorarla. Accenna un sorriso e prende il biglietto da visita. Lo controlla, c’è il numero, come ovvio che sia. * « Ecco... Quindi te lo faresti un tatuaggio? » * Chiede, è curiosa o forse vuole soltanto continuare a parlare. Da vicino è ancora più gradevole osservarla. * « Non arrossire, potresti farmi innamorare di te.. » * Confessa, lasciva, come se il tutto non fosse già estremo. Sì, può sembrare una psicopatica, forse un po’ lo è in realtà o forse è solo una donna con una voglia matta di amare. * Shoto Ryuck *quel sorriso accennato, Shine lo divora con gli occhi, ogni dettaglio, ogni sua movenza, ogni suo particolare Shine lo cattura con gli occhi e lo imprime a fuoco dentro di sé. Si sente stupida perché ha una cotta per una sconosciuta e se l'è presa in 3 secondi, giusto il tempo che i loro sguardi si incrociassero. Prende il biglietto da visita e legge il suo nome "Blake"... È squisito, lei lo è.. Stava finalmente raccogliendo il coraggio per dire qualcosa, schiude anche le labbra a cuore quando sente quella frase e le manca un battito facendo passare le sue guance da rosee a bordeaux. Non ce la fa più, con tutte quelle frasi, fra poco scappa dentro dalla vergogna senza neanche parlarle* D-dici...tante sciocchezze... Blake... L'ho pronunciato bene? *non era proprio quello che intendeva...ma al momento non le viene di megli in mente che non sia una proposta si matrimonio e non può sposare qualcuno solo per i suoi occhi... I suoi zii non lo accetterebbero. Respira profondamente però, soddisfatta di essere almeno riuscita a dire qualcosa e sorridendole, in imbarazzo* Blake Edward Hill * Non lo direbbe mai, ma Blake ha notato lo sguardo della ragazza su di sé e sta pensando che sembra essere curiosa della sua persona. In una frazione di secondi, la bruna annuisce, consapevole di aver incominciato a scrivere già un film nel suo cervello. È incredibile come i suoi pensieri per un minimo flirt incomincino ad essere sempre così pronti a costruire un vero set da drama. La verità è che le palpitazioni non stanno passando e quella sensazione la confonde, perché fondamentalmente è nuova. È probabile che sia a causa di un piccolo colpo di fulmine nei confronti di quella fanciulla, ma forse nulla è ricambiato vista la chiusura delle tende. Si è trattenuta, o meglio non ha detto tutto ciò che avrebbe voluto dire, perché in fondo neppure la conosce, quella dea. * « Nessuna sciocchezza. Sì, Blake. Hai detto bene principessa.» * Continua con quelle sottigliezze e quell’educazione che, nonostante il suo essere rozza in tutto e per tutto, esiste ancora in lei e che, di tanto in tanto, viene utilizzata. È a questo punto che, diversamente da come avrebbe fatto la mente che sta producendo quel sogno, Blake fa un passo in avanti, verso di lei, mentre cala il silenzio per non farla sentire a disagio. Gli occhi di Blake non la mollano un istante, continuano a fissarla sorridere fin quando: * « Sei in imbarazzo. Perdonami. » * Ed è così che accenna un lieve inchino, senza spostare quegli occhi mare che si ritrova. La bellezza dell’altra la sta proprio affascinando. * Shoto Ryuck *se Blake pensa che Shine sia interessata a lei...beh, ha assolutamente ragione. In questo momento la dolce e ingenua Shine è vittima del cosidetto "colpo di fulmine" e man mano che la guarda è sempre più senza parole perchè non sa come affascinarla. Guarda e tiene in mano il suo biglietto da visita come se fosse il più prezioso dei tesori, ed è così importante per lei. Sorride a quel cartoncino con delicatezza per poi ridacchiare quando la chiama principessa* Sei brava con le lusinghe....non scusarti, io...non ci sono abituata a tanti complimenti, per questo mi imbarazzo un po' *si inchina di rimando per educazione, facendo svolazzare appena i capelli, mentre le rivolge un grande sorriso per tranquillizzarla e le si avvicina, dopodichè un'espressione sorpresa le si forma in viso, mentre batte piano una mano sulla fronte* Ma che sciocca! Io non mi sono presentata...mi chiamo Shine, è un nome un po' strano lo so. *e ora come glielo spiega che non le interessa tatuarsi ma che vuole solo conoscerla? Si vergogna troppo a ammetterlo così bruscamente, anche per timore che lei possa non avere lo stesso interesse* E si! Come dicevi, mi interessano i tatuaggi! Blake Edward Hill * È vera quella diceria la quale afferma che lo sguardo sia il riflesso dell’anima. Non ci aveva mai creduto quella piccola peste dai capelli corvini, ma ora, a pensarci bene, potrebbe crederci davvero. Chissà quale espressione stanno facendo i suoi occhi in quel momento, a quella vista così semplicemente divina. D’altra parte, Blake non fa nulla, nient’altro che guardarla, imprimere quell’immagine all’interno della sua mente e produrre mille film, mille tatuaggi con lei come figura d’ispirazione. Sì, la userebbe, ma non farebbe mai un suo calco preciso. Nessuno dovrebbe ammirarla così come l’ammira lei. Ok, sta dando di matto. * « Non sapevo di essere brava, perdonami per l’imbarazzo. Come... Come fai a non ricevere complimenti? » * l’ultima domanda le sorge spontanea, quasi come se non fosse nemmeno lei a chiedere. L’attimo dopo, però, quella domanda le si contorce contro. I capelli della giovane svolazzano da qualche parte, lontano dal suo collo, per poi tornavici. Blake deglutisce. Il tutto sembra svolgersi a rallentatore, in una specie di slow motion del cuore. Quando la ragazza batte la mano, tutto ritorna a velocità normale. Deve rispondere. * « Shine... Nella mia lingua d’origine significa... che brilli in un certo senso. O forse in tutti i sensi. » * Questa volta sta arrossendo anche lei. Si sta spingendo oltre, troppo oltre, forse. Sorride, o meglio accenna un sorriso, perché del sorridere davvero è meglio non parlarne. * « Davvero? Dimmi che ti piace l’Old School.. » Shoto Ryuck Io...ecco...immagino di non essere granchè carina rispetto alle altre ragazze, ma non m'importa...referisco ricereverne sul miomodo di ballare. E' qualcosa su cui sicuramente sono più sicura di me! *per il nervosismo inizia un po' a straparlare, ma la aiuta anche a sciogliere un po' il ghiaccio suppone...o almeno spera, deve essesre per forza un progresso il riuscire a dire qualche frase di senso compiuto in più di fronte a quei penetranti, bellissimi, ammalianti occhi ghiaccio di cui è già follemente innamorata* Oh..lo so...i miei zii dicono che i miei genitori hanno scelto questo nome proprio per questo, spero mi rappresenti in qualche modo *sorride malinconica, non ha mai conosciuto i suoi genitori, sono morti che era molto piccola e l'hanno sempre accudita i suoi zii e suoi cugunetti, ma ogni tanto pensa a loro e spera siano orgogliosi di lei e che brilla talmente tanto che, ovunque si trovino, possano vederla* Ah....L'Old School? Assolutamente, mi piace moltissimo! Però sono più tagliata per tendenze più moderne *non ha la minima idea di cosa stia dicendo, ma spera comunque che in qualche modo la ragazza se la bevi, anche se è praticamente impossibile...perchè ammettere che è una frana a rimorchiare sarebbe troppo umiliante* Blake Edward Hill * Le parole di Shine brillano nella mente di Blake danzando in maniera solenne e persuasiva. Non sa neppure cosa sta pensando, sa solo che quella ragazza le ha rubato tutto e ora continuerà la sua vita deambulando come uno zombie senza amore, perché l’amore ce l’avrebbe tutto l’altra senza neppure saperlo. * « L’immaginazione non ha senso. Io sto parlando della realtà e... sei davvero squisita. Non ho mai visto guance così, anche se sono più alta io... » * Finisce per sorridere, o meglio accennare una risata leggera e sentire allo stesso tempo le farfalle nello stomaco. Come ha fatto quella ragazza? Non può crederci nemmeno lei, ma si getterebbe ai suoi piedi se potesse, perché la sua bellezza è letale, è come uno di quei tatuaggi assolutamente perfetti. * « Immagino che balli molto bene, i tuoi... » * I tuoi fianchi su i miei. Sì, Blake, fai la spudorata così ti scappa per sempre. Deglutisce e passa velocemente la lingua sul labbro inferiore. * « Stili di danza quali sono? Non so niente di che, ma un tempo facevo hip hop. Può bastare? » * Adesso ride, ma non per l’imbarazzo, bensì per il come si è salvata da un disastro estremo come quello che stava per dire precedentemente. È bella da mozzarle il fiato, come potrebbe non pensare quelle cose?! Sta’ calma, Blake. * « Perfettamente. » * Risponde alla domanda implicita sulla rappresentazione del nome, ma neppure se n’è accorta. A parlare è stata direttamente la sua mente. Quando il discorso si sposta verso i tatuaggi, Blake non può che essere felice, soprattutto perché i gusti sembrano combaciare. Sorride, dunque, e si lascia andare a quel discorso. * « I tatuaggi dell’Old School mi ricordano i marinai innamorati che si dipingevano le ancore che li tenevano a terra... come le proprie mogli... Anche lo stile colorato giapponese non è male, a dire la verità, ti starebbe anche bene. » * Confessa alla fine, perché è normale o forse no, ma Blake se la sta immaginando tatuata. * Shoto Ryuck *arrossisce ancora quando continua a farle complimenti, avere il suo sguardo su di sè le mozza il fiato, e la dolce e ingenua Shine non può che guardarla come sotto incantesimo, già persa per lei* Tu sei bellissima....sei perfetta.... *era convinto di averlo solo pensato, ma poi si accorge di averlo detto ad alta voce e si imbarazza ancora di più, abbassando lo sguardo sulla punta dei suoi piedi. Come può essere già così cotta di lei? Così inetta! Cerca di calmarsi, concentradosi sul ballo e parlando di esso, solo così le sue guance riescono a tornare di un roseo normale* Va benissimo, anche io pratico per lo più hip-hop, street dance, break dance, popping...tantissimi generi, non mi piace fermarmi ad una cosa sola, voglio saper fare tutto *continua a sorridere ingenuamente, continuando la sua recita da persona che si intende di tatuaggi e non chè è la prima volta che vede una persona tatuata da vicino...e che se gli zii la vedessero le darebbero della criminale e la chiuderebbero in casa* Sono d'accordo con te! Oh...tu dici? A cosa pensi in particolare....che ti piacerebbe su di me? Blake Edward Hill *A quel semplice eppure straordinario complicato Blake non riesce a non pensare a quanto sia delicata Shine, a quanto i suoi occhi sono fortunati ad aver incontrato una simile bellezza. A Blake non piacciono le ragazze sfrontate come lei o peggio ancor più di lei, sarebbe imbarazzante avere a che fare con una tipa così. La realtà è che la imbarazza anche un po’ Shine, ma pazienza. * « Gr-Grazie. » * Dice con un’espressione che contrappone allo stesso tempo gioia, sorpresa, punti interrogativi come nei manga... insomma, di tutto. Gli occhi cerulei della giovane assistono al mutamento delle guance di Shine, è perfetta... Si perde, si perde nelle sue parole, le guarda solo le movenze, le guance, tutto. * « Mh.. anch’io voglio saper far tutto. » * Sussurra, ma non si sta esattamente riferendo al ballo. Vorrebbe sapere tutto dell’amore per una donna, come si fa a comprenderla, ad abbracciarla... a innamorarsi tutti i giorni di più di quella persona. Il suo cervello si riconnette quando risente dei tatuaggi. A quel punto, prende il cellulare, accennando una risata. * « Sì, penso a molti in particolare. Se potessi ti riempirei.. Aspet- Guarda. »
Shoto Ryuck Siamo due perfezioniste allora! *sorride alla ragazza, ipnotizzata da quegli occhi celesti, da quel modo desideroso che hanno di guardarla, dalla luce che vi si accende quando parla di ciò che realmente le piace fare. È un vero e proprio atto di coraggio, quello di Shine. Non lascia che le passi semplicemente il telefono, ma le si avvicina lei, abbastanza da sentire il suo profumo ed esserne inebriata, ma mai quanto è estasiata da quei disegni*
Oh.... Wow.... Sono bellissimi! Mia zia mi ucciderebbe.... Ma sono stupendi, tutti! *sorride, l'ha presa a braccetto mentre guarda sul suo telefono e con il dito scorre quelle quattro foto, con un sorriso che va da parte a parte del viso, tradendo forse il momento prima in cui aveva finto di intendersi di tatuaggi, per far colpo su di lei*
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lost4soul · 7 years
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A volte vorrei solo addormentarmi dolcemente e non svegliarmi più. Vorrei non avere più tutti questi incubi, vorrei non doverli più vivere. Tu mi hai dato forza. Ma cazzo io lo sapevo, lo sapevo che te ne saresti andato di nuovo come al solito. Perché sono così stupida e fiduciosa? Perché ci ricasco ogni fottutissima volta? Pronta ad essere fredda e a parlare solo se necessario. Poi ti vedo dopo tanto di quel tempo e mi sciolgo completamente. Ti detesto e ti voglio un mondo di bene allo stesso tempo. Sono anni che provo una rabbia enorme nei tuoi confronti. Continuo a seppelirla ma temo il giorno in cui la fossa non sarà abbastanza profonda. Esploderò. Ed è meglio che tu sia pronto. Perché sono stata zitta troppe volte. Sono andata oltre troppe parole, troppe situazioni, troppe emozioni. Continuo a dirti basta ma non metto mai il punto alla fine della frase. Perché la verità è che spero che prima o poi tu torni da me... non chiedo molto, non ti ho mai chiesto molto. Vorrei solo far parte della tua vita, essere nei tuoi pensieri giusto ogni tanto. Vorrei che ti chiedessi come sto senza arrivare a domandarselo solo se sono in ospedale. Perché non riesci a vedere tutto questo? Perché devi essere così egoista? Perché ormai conta solo la tua nuova famiglia? Perché hai voluto cancellare quel poco che esisteva di noi? Era poco si lo capisco...ma per me valeva così tanto. Non dirò "adesso basta", "non mi ferisci più" perché tanto non è vero. Tu continui a farmi male. È una ferita aperta da anni, non guarisce mai. Quanti fantasmi, quanti scheletri che girano per questa casa. Mi manca il tuo odore, mi manca la tua voce, mi mancano i tuoi occhi furbi. Eppure quando finalmente ti vedo è come se non fossi più io. Non sono nel mio corpo, mi sembra di non sentire più niente talmente tante sono le emozioni che mi pervadono. Aspetto solo il giorno in cui ti decida a tornare. Perché posso essere distaccata quanto vuoi, ma la verità è che mi manchi. Mi manchi tanto, troppo, più di quanto meriteresti. Perché la verità è che tu non meriti nemmeno questo post. Però ti penso lo stesso e ti auguro di dormire tranquillo, al contrario di me.
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Perugia e ogni provincia ossia il vuoto
Sembra tutto molto esplicito per la particolare disposizione del luogo, una stazione di provincia,  e la folla  ossessiva e soffocante mostra all’apparenza caratteri drammatici, stampati su fondali di cemento. D’accordo qualcosa è cambiato. Intorno alla scuola, nel perimetro che la circoscrive le saracinesche sono chiuse, le vetrine vuote, a parte una tabaccheria, il bar della stazione e qualche self service, e nell’insieme l’impressione di un vuoto o di uno svuotamento non è artificiosa ma reale,  i motivi si perdono in meandri troppo complessi, ma ad occhio nudo la miseria è lampante. La miseria di chi chiede l’elemosina e il risultato è  questo, un’interminabile serie di prospettive senza attrattiva all’interno di varchi vuoti. Escono i ragazzi da scuola, scomposti, entrano nella pizzeria d’angolo per una sosta prima di ritornare a scuola per l’autogestione. Intorno è un labirinto di case e di vite a porte chiuse. La sera dalle finestre affacciano rettangoli di luce, ma molti restano nell’androne della stazione nonostante la pioggia incessante e il freddo. Una chiesa di lato alla scuola nascosta, e poco visibile a chi non ne conoscesse l’esistenza, comprende un piccolo giardino molto curato e pulito, in realtà l’unico luogo geometricamente curato in quella macchia fittissima di casermoni fuori dal centro storico, e che del centro hanno solo l’apparenza di una serie interminabile di labirintici agglomerati, in una sorta di gioco a nascondino. Per la polizia e i carabinieri la zona è realmente a rischio ed è necessario un controllo, comunque è ipocrisia, se si guarda al tasso di povertà registrato negli ultimi anni in tutta la provincia. Ma è un disordine al quale ci si è arresi da tempo, del quale si entra a far parte all’inizio con un istinto ribelle, poi lo spirito diventa sempre più arrendevole anche se rimane la delusione, visibile e palpabile, e una città in distruzione. E’ troppo difficile ed è come se di colpo il sentimento di un oltraggio rendesse inutile qualsiasi domanda, ti chiedi solo chi abita in questa casa o in quell’altra e perché ogni ordine diventa trascurabile, e inopportuno.   Benedetta è in biblioteca con un berretto di piume calcato sul capo e una stufetta per un po’ di calore. In quella scuola è bibliotecaria, un ufficio come un altro, solo può fumare una sigaretta ogni tanto prima di tornare a casa nel condominio di un palazzo centrale, al primo piano di una palazzina liberty, dopo che svogliatamente nella biblioteca  ha ascoltato le richieste, risposto educatamente, registrato prestiti e restituzioni, in un antro polveroso fittissimo e carico di libri, tracce di una documentazione durata un secolo, volumi importanti mai letti. Prima di entrare ha bisogno di un momento per riflettere e per capire che le colleghe la osservano con poca amabilità, e solo Sara protegge la sua infelicità da sguardi indiscreti, la collega,  non la ferisce mai, è impegnata, e Benedetta può restare silenziosa e immobile alla scrivania, così magari legge un giallo e dice solo che sono tutti d’accordo e tutto va bene. Ogni tanto Giulio dalla segreteria passa in biblioteca per un saluto, anche lui con abiti d’occasione, visto il tempo che tira, miseria e scarpe vecchie, ma  Giulio comunque ride e concede battute e fa sorridere, fino a saldare, anche se per poco, i pezzi di un puzzle scomposto. Ricompone i dettagli di un  vuoto che Benedetta si è costruita tra le sbarre di quello sgabuzzino carico di libri, in un silenzio distaccato.
Benedetta era delusa. Ogni fede riposta era stata un insuccesso. Vedeva il vuoto, voleva dire qualcosa ogni tanto, ma non riusciva. Magari provare a spiegare, spiegare grammatica, qualche libro, un racconto, figure retoriche  o grammatica latina, lingua greca,  ma alla fine  se stessero almeno seduti senza saltare sui banchi sarebbe già molto.  E poi le cose rimaste, un grumo povero, restavano le stagioni con i contorni sempre identici, la pioggia incessante e una vecchia signora senza arie né abiti adeguati. Qualche roba vecchia e una finestra che dalla camera  di una casa accogliente affacciava sul pendio di un piccolo giardino pubblico, e al rientro la sera poteva osservare il buio dai vetri appannati, e mentre pensava e contemplava l’esterno sdraiata nel letto sotto il piumone caldo, rifletteva su tutto, e tutto si era fatto cosa, cosa e ingiurie, anche se lei lasciava correre e non voleva discutere e non amava chiedere, non voleva parlare. Una biblioteca è migliore rispetto alle urla di presidi e vicepresidi frastornanti. In fondo non era male, la scuola era la migliore in assoluto, nessuno urlava e almeno lì non esercitavano il potere ipocrita e indiscreto nei confronti di una nessuno aggrappata allo stipendio, che serve per mangiare. Com’è futile il potere. Mettevano in ridicolo la sua solitudine, mogli irreprensibili in una provincia irreprensibile fatta di celebratissimi personaggi, eppure i quotidiani parlavano di povertà e in fondo molti recriminavano, oppure gli abiti eleganti  nascondevano le sconfitte  e gli stati depressivi. Per molti la forma era una sostanza, e la sostanza era denaro, altri come Benedetta avevano accantonato gli orgogli per non sperare più e non restare amareggiati, altri, molti, stendevano la mano e forse mancava anche un tetto, e comunque gli inverni erano troppo rigidi. Pioveva a dirotto, continuamente, dopo un’estate talmente torrida da togliere il respiro. Il senso di vuoto, ancora, nonostante tutto, lasciava spazio all’attesa, ma l’attesa impegnava, a volte ripugnava, svuotava d’energia, e voltarsi indietro era impossibile. La pienezza ormai era un’illusione perduta, nei rimpianti si dilatava l’esistenza,  le recriminazioni interiori erano la bestia dentro da placare.    C’è un momento in cui bisogna rendere conto a se stessi della propria intera esistenza. Non esistono più anticipazioni, esiste una sola possibilità, una disposizione ad arrendersi al destino già dispiegato, e il caso e la volontà hanno ormai stabilito. Una volontà sbadata, il caso poi va da sé, per un pezzo la vita sembra che la giochi come in una scacchiera, poi tutto cambia. La volontà si fa ridicola, ha sbagliato e non tornano i conti, e il caso ha piegato le faccende dell’intera vita, che si dimentica tutta insieme, tanto il futuro non cambia, il passato annoia, i ricordi potrebbero farsi morbosi. Meglio pensare a un piatto caldo al rientro a casa, serve il sapore e un nido, come serve credere in quegli abiti preziosi confezionati a scuola o nei ricami raffinatissimi, o nei dipinti di artisti su tele  colorate. I colori del mare che non c’è, di arcobaleni perduti, di case lontane, lavori di pazienza e tecnica magistrale. Placano l’umore, e nel lavoro eserciti la metodica successione senza scarti o salti, che alterano la personalità. All’uscita da scuola la sera prende l’autobus. Il traffico è intenso, clacson e motori sulla strada in salita verso il centro. La quiete del ritorno pacifica. E finalmente cessa la battaglia, il miracolo di una casa di una tavola. La resistenza è un po’ questo, un campo di battaglia e una collina fatta di pietra. Cadere disarmati è facile  restare feriti e arrendersi, basta una parola di troppo, e la ferita si strappa. Una battaglia, una collina, il silenzio. L’omertà. I passi spingono attraverso il buio, la resistenza è ogni giorno ogni attimo, sfuggire ad un inseguimento con un vecchio armamentario, la ribellione è finita, le speranze rastrellate.
La gabbia
Un bagliore di luce tra i palazzi che chiudono lo sguardo fuori e dentro il cortile. Ombre di cemento e al fondo inesorabile una deformazione, una maschera sicura,  la fatica d’essere si trasforma nel rigore con il quale conti i soldi e la paga a fine mese. Da altre radici ritorna il senso ma mai in abili dissertazioni, questo non fa per me. Il senso è un esercizio mille volte ripetuto  all’ombra di un cortile.
Un lembo di Terra franca. Dalle prime luci fino a sera ripeto meccanica gli stessi gesti, senza mete ulteriori,  metafisiche e  mai raggiunte, l’economia domestica mi impegna, se  ragiono è  per caso e solo  da straccivendola del pensiero, le frittelle di riso sono mille volte più buone.  La guerra  è un’immane sacrificio di vittime innocenti.
Oggi c’è il sole è tornato dopo un anno di oscurità.
Alla frontiera, quando ti fermano per chiederti “Chi sei?”, e rispondi semplicemente “Sono al limite di un cammino e la strada non la so”, solo allora non conviene arrendersi, arrendersi  alla secca di una  Terra  esangue fatta di neon e spazzatura.
Comunque la Terra. E’ il poema mai interrotto di rinascite gagliarde. Tra i nasturzi il verde il giallo e il sangue troppe volte versato  la Terra non si arrende. Ora, io, qui,  tra il cemento i neon e le guerre, coltivo il mio stile demodé con un  mio attaccamento tenace ma  svagato, con  ritmi sempre identici, monodici, timidi, discosti, d’accordo è sopravvivenza ma che mi importa, in fondo l’ho sempre saputo lo diceva il Filosofo, “Perché l’essere e non il nulla?”. L’Essere mille volte indagato che ritorna su stesso non comprende quanto il mio io limitatissimo sia legato al mio docile nido, non manca mai la minestra calda la sera e  un arancio, un bicchier d’acqua e un buon giallo. Simenon. In fondo è come giocare a nascondino. Se nessuno ti vuole, ma gli angoli sono sempre gli stessi, osserva sempre un ottuso silenzio, pensa che è solo giudizio di lingue biforcute. Sono ciò che mangio. O ancora “ciascuno secondo le proprie necessità e i propri bisogni”.  Un “io esisto” eppure al contempo non ci sono, Volere l’esclusione per amletici dubbi, mirto maggiorana fiori d’arancio. Un lavoro una lista di amanti e la noia di una scuola impossibile. Non chiedetemi giudizi o teoremi, e le scelte responsabili in autonomia forse neanche esistono, magari ricordo solo il dono di Prometeo all’uomo, il fuoco, e ricordo la cultura come cottura degli alimenti, i fornelli e il lievito e il forno, il pane è buono ma nessuno te lo offre, gli intellettuali hanno altro da pensare, un pasto caldo una porta aperta un tavolo da cucina li riguarda solo per se stessi, e gli altri? L’identità è complessa. Il viandante si ferma sulla soglia. Resta fuori, forse su una panchina, lontano dal calore di un camino scoppiettante.
Comunque da viandante e accattona a volte, semplicemente,  ritrovo il confine della mia terra in una città turrita.  E alzo lo sguardo per capire il tempo e i secoli trascorsi.  Il sole si affaccia con sprazzi d’allegria, tra cemento armato e storia dimenticata, e misuro lembi di terra e chiazze di prati appena inverditi. Allo stesso modo ricamo e lavoro all’uncinetto. Un cappello per ogni stagione. Sono una signora con mezzo secolo di vita,  e anche oggi di un panino per sfamarmi ho bisogno. Gli abiti, i soliti, jeans  e un maglioncino scolorito violetto, come le viole a ciocche. La città è un Corso profumato, chiuso tra stradine laterali, e si gioca, disarmati,  ad esserci con importanza, alla politica insomma, tra un caffè e le solite chiacchiere. A casa ritorno sempre. Un tetto serve. La lavatrice, stendere i panni, un caffè zuccherato una sigaretta il piumone. La mia camera è una soffitta ed è disordinata. Troppi libri.  Non è un ordine in realtà, è un riparo e ti affezioni, a tutto così com’è, poco borghese tutto, ma per questo piuttosto eccezionale. Un tetto   carico di oggetti accumulati nel tempo e che del tempo hanno l’eternità, e questo non renderebbe possibile un ordine borghese. Libri in disordine ovunque scaffali stracarichi. Un disordine arcaico e prezioso,  e comunque ho imparato a fare il pane dunque esiste la possibilità di un ritorno. Nella Testa? Forse, che sia  il numero di Pitagora, o le stelle in una notte di plenilunio, che disfano il tempo nostro irragionevole, resta nel tempo  un ritorno di prati e roseti, e glicini e zinnie, e non di allucinate parole, qualcosa come una rosa  sempre  dolce per l’anima,  mentre si svolge la matassa e io sforno il pane caldo fatto a mano. Terra Pane. La sera  il buio nasconde la giornata, altrimenti il dispiacere s’acquatta, ma il sonno è sereno.  E tra i libri ho ritrovato, gioia immensa, Autobiografia di un baro di Luca Canali, in quel caos di arte e polvere, una meraviglia.  Canali. Nella sua follia si racconta,   con onestà e ironia racconta la nevrosi, e io mi diverto, è uno specchio nel quale mi osservo, credo allora nel mio essere qui comunque, senza pregiudizi e pietosa anche con me stessa e la mia follia. La mia e l’altrui. Follie che vivono in me come un libro scritto a metà, incompiuto, un libro di cartacce a malapena corrette, distratte,  e con le quali  ripeto la stessa ipotesi, e in fondo d’accordo, gli errori tanti, ma la memoria nostalgica ritorna agli anni lontani,  ma è  un ricordo e un camposanto. Una casa immensa un camino e tante camere, i piccoli e i grandi, in una casa fatta per accogliere. La Terra. Ricordo che la nonna comprava la farina mentre  tutto il resto, i ricchi  doni d’abbondanza, erano  la sua pazienza e la sua arte a offrirli. Ed era dono  per tutti. Con gesti veloci e esemplari stendeva e tagliava la pasta dopo aver lavorato il lievito, o ancora  preparava centinaia di conserve di pomodori, raccolti nel campo, e  le zucche fiorivano, e allora  cucinava i fiori di zucca fritti. Non si faceva mai vedere stanca, sempre regale, preziosa,  elegante, e portava fili di corallo intorno al collo bianco e delicato. Le signore si davano del Voi. “Voi come state?” – “Noi bene e voialtre?”. La cucina era il luogo che amavo di più e maneggiare la pasta era un gioco divertente. Le chiacchiere in cucina. Il camino aveva il ceppo e accanto al fuoco leggevo. Il portone e la porta di casa erano sempre aperti perché si potesse senza chiedere entrare e uscire. E dalla dispensa i doni d’abbondanza erano per tutti. Bastava entrare e prendere. Ora i portoni chiusi rendono tutto più complicato.
Da ragazzini si giocava  in strada ed era divertente correre scalzi, e si era felici.  Sono ricordi lontani di un mondo trascorso. Ora i miei passi sono veloci, anche oggi, con il mio ascesso e il mio mal di denti che mi costerà caro, forse bisogna chiedere un prestito alla banca, è un ritmo continuo adeguato ai tempi non all’età. Né alle finanze. Le saccocce come le chiamava il nonno sono vuote.
La speranza è questa monodia che al limite rassicura, forse,  un po’ fissata, in un identico schema, e forse si strappa in una tela con su dei girasoli, e i piccoli gesti quotidiani dal sapore d’antico, sicuramente non un impeto di gioia, l’amore è un mito trascorso del secolo che fu.  Amo la pace e la pretendo, anche dal mio terrazzo mentre mi affaccio sento odore di metallo,  in trappola, un cubo di cielo tra i palazzi, la solitudine della terra mi separa dal resto. Il computer  mi aiuta a rimarcare l’eco di una gioia trascorsa tra i limoni e la vendemmia. Succhi dolci rilucenti e lesta e guizzante l’agilità di ragazzina  che si arrampicava sui ciliegi e divorava i frutti. Emblemi di rimandi come in un labirinto di specchi con una linea di fuga,  che traduce i riflessi all’infinito, e quando esci dal labirinto un colpo di vento e il tramonto,  e torni a casa ad infornare il pane.  La Terra non ci appartiene è di tutti senza distinzioni e ha tutti i colori, il più dolce lo ha descritto un poeta … è il giallo verde delle ginestre fiore dei deserti.  A casa mi aspetta la mia cuccioletta Scilla. Danza di gioia al mio arrivo e con lei divido il pane. Si dissolve la sera. Quant’è dolce la mia cucciola. Mi ripaga delle offese subite. Della solitudine che mi ritaglia nello sfondo di una folla assordante. Scilla lenisce le ferite. E’ giocosa festaiola ballerina. Geppetto aveva quel burattino di pinocchio e un camino dipinto per scaldare. Io ho scilla che parla canta scodinzola. E’ piccolissima, è il leoncino dei monaci tibetani. Mi aiuta a camminare baldanzosa. Sono rimasta giorni senza mangiare e nessuno offriva nulla. La civiltà vorrebbe diversamente  … Mastro Don Gesualdo o l’Avaro di Molière … di amore e sesso questi uomini parlano molto … sesso sesso sesso … e il dono? Nelle civiltà tradizionali il dono rituale è sacro. Tra tradizione e azione abbiamo dimenticato le tradizioni, e i portafogli cuciti nelle tasche, stracarichi, dicono quanto poco si tratti di politica e quanto invece di disumanità. A volte vorresti dirlo. Tieniti i tuoi soldi la mia minestra calda ha il sapore giusto e dentro si rispecchia la luna. Siamo streghe notturne e inizia il Sabba. I miei piccoli sentieri sono tortuosi ma li preferisco. Scilla ama la lana e leccarmi le ferite o sbaciucchiarmi. Siamo  lunatiche ma Scilla è troppo fragile  per sapere … che il male esiste esiste davvero e non è amore, e io Scilletta devo proteggerti. “Buona la pappa!” – Scilla mangia i Nipiol e alza il musetto a dire “Grazie buono buono!”. La nevrosi? Lunga complessa da descrivere. Nell’assenza restano parole, romanzi che sono grandi affreschi per vivere avventure comunque. Molto più dolci del male.
Ho un ascesso. Denti da curare. Costa troppo. Certo non è Anna Karenina o Delitto e castigo. Bisturi trapano soldi. Il mio odio. Per quale motivo tanta avidità? Questa città? Mi rende apolide ma ovunque sarei apolide. Il mio contorto sentiero. “… Sole e luna del tempo/scordatevi la strada. Fermatevi, annientate/ i grovigli del ritmo.” Scrive Garcia Lorca. Allora sono già strega sotto la luna. Ma scordatevi di me della mia strada interrotta, del cammino rubato, di un bar di provincia, di occhi castani, e abiti stanchi e stinti come i passi trascinati. Vecchie signore che fumano una sigaretta in attesa della mezzanotte. Suona il pendolo. I rintocchi esatti, e il mio pulcino Scilla viene nel mio letto sotto il piumone “Ma quanto sei dolce tesoro?” le dico e lei gioca e scodinzola. Il sonno è un riparo. Dimentico e dormiamo serene. Sono pazza senza rimedio. Cerco Shakespeare in internet, un aforisma.  "Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e la nostra piccola vita è circondata dal sonno
Sono pazza. Schizofrenica. Ogni giorno ci rifletto mi guardo allo specchio e vedo una vecchia demente che ha dimenticato tutto. Ogni giorno va peggio, il sorriso si è spento. Secoli fa, mezzo secolo fa, già serpeggiava nella testa il fallimento inevitabile. L’unica cosa che so fare è scopare, ma neanche bene, sono passiva. Ogni giorno della mia santa vita che butterei nel secchio la stessa routine in un lavoro odiato. Con un senso di nausea ogni giorno. I Patriarchi avevano ragione. Mi ricordo di quando sedevano tutti intorno alla tavola, ognuno come di consueto al posto assegnato da sempre, in un ordine immutabile, nel rispetto di una cerimonia ripetuta infinite volte. Quanto spesso mi  ero chiesta se quel ripetersi esatto e misurato, destino che mi legava ad un punto esatto del suolo, non fosse altro che violenza mascherata. Un’ombra mi suggerisce la rivoluzione, mandiamo tutto in rovina fino a toccare il fondo. Insieme sbarcheremo altrove il lunario. Ok tutto all’aria, capovolgiamo tutto in un mondo alla rovescia, ma il tempo è comunque da sempre per tutti un nemico, una partita persa da sempre, una caduta irrimediabile. E il tempo mi tormenta senza lasciarmi la possibilità di voltare la schiena e andarmene, i pensieri  sono solo un errore nella cavità del cervello. Una trama tessuta, un’idea solo cerebrale che architetta la fine di un mondo, la mia anima nel tempo. Ricordo che a tavola si parlava di politica,brutto affare sicuramente,  mangiando la minestra di pane e brodo di gallina, i ragazzi che eravamo si interessavano al discorso, senza storia, senza capire,  e avremmo votato con tutta la voglia fresca di impegnarsi.  Le rivoluzioni sono giovani. Ora  contemplo silenziosa, mia madre è triste, anni sulla schiena pesanti, siamo rimaste sole, e io non sono moglie, madre neppure, e osservo la tavola  scarna, piena di briciole, i prodotti della terra, quella rimasta, quella povera che non dà più i suoi frutti, e  solo a volte, su invito, ascolto la conversazione delle cugine e dei cugini e dei rispettivi consorti, con la voglia di fuggire senza temere l’abbandono.   Solo così renderei giustizia alla volontà mia propria, sollevare le ali del desiderio. Ho fatto amicizia con un uomo su facebook, facebook quel mostro moderno poco adeguato e anzi maligno a sentire i pareri della vecchia guardia, e nutro il  desiderio taciuto, e ricambiato, di conoscenza. Un filo di speranza.  Mi rende triste il torpore profondo nel quale mi getta  una famiglia che ricorda aneddoti, eventi di un passato nel quale ormai io non ci sono più. E io che racconto? Qualche parola sbieca. Un tempo sognavo di diventare scrittrice. E ho scritto un libro bruttissimo che nessuno legge. Mi sono ritirata in soffitta a vivere, una splendida soffitta con un computer e un allaccio internet, lontana dal clamore di chiacchiere su  trascorsi troppo lontani che mi annoiano,  un sonno profondo dal sentore di morte.  Mi sento veramente intontita, ma dolce, remissiva, perché ho anche io una mia compagna di vita,  che lenisce ogni ferita,   la mia ombra dolcissima, Priscilla o Scilla, una cagnolina dal cuore d’oro e più minuscola di una gatta. La paura comunque ritorna, mi guarda dagli angoli, si insinua nelle conversazioni, è fatta di metallo, e del metallo ha il sapore, tranne di notte quando la luna si apre a ventaglio, e il biancore argenteo ricopre il corpo nudo e dimenticato. Spegne il fuoco, è acqua che miracolosamente riempie l’anima e l’increspa dopo l’arsura.
A tavola parlano della passeggiata in centro, un paese di provincia, ma io non ho una storia mia da raccontare, in quel vociante mondo intorno. Con la testa, organo delicato, attraverso  nuove ragioni, nuovi orizzonti , eppure non c’è tregua. Il tempo governa tutto. Sono lontana perché sola, e sola ci voglio essere, è la mia natura profonda, sola con Priscilla. Sono fatta d’esperienza laboriosa e un cuore di ghiaccio, da sciogliere, non è pietra d’altronde. la pietra impenetrabile e impossibile da scorticare se non lavorando con la falce. La pietra di cui è fatta la provincia. Sono pensieri incoerenti, scherzi  della mente.   Sono stanca e troppo affaticata da una vita di lavoro e durezze, mi sembra di aver già vissuto, e di vivere un oltre che è una platonica caverna d’ombre ingannevoli, e solo con  fatica, e travaglio, si risale alla luce. All’inizio la luce acceca poi è cristallina. E’ uno specchio d’acqua increspato. Lo tocchi e affondi nell’inconsistenza. E’ giusto salpare se il coraggio sostiene i remi ma io resto, e non mi disperdo nell’invidia del mio ostinato silenzio, specchio  che riflette reti di amare profondità. Inesplorate.
La mia voce ha un timbro delicato, afono, sembra incantata. La voglia di vivere dimessa, non più follie, ma impazzisco come felina in gabbia, e attraverso con la mente scene colossali in cui tutto sembra riemergere dal passato eppure tutto è quotidiano e dimesso.  Basterebbe scavalcare il muretto per essere al di là. Ma oltre è il nulla. Oltre è il computer e la lena con la quale scrivo racconti che nessuno legge e  chatto su facebook. C’è un uomo in chat che mi attende e forse verrà a trovarmi in soffitta dal Nord, e cucinerà a basso costo una pizza, solo pochi centesimi per una pizza fatta con lievito puro e salsa di pomodoro. Cucinerà lui, io sono un disastro ai fornelli. Ho appena partecipato al Flash Mob vestita da strega con un vecchio cappello della bisnonna fiorito e con la velina, per le grandi occasioni, ma questo non basta a rendermi simpatica a scuola, la scuola nella quale lavoro. Come sono noiose le insegnanti.
Già allora a tavola il nonno raccontava di come le cose fossero proprio storte,  mentre la più energica delle cugine, un volto di porcellana, e deliziosamente simpatica quando giocava a tirar fuori battute che le sorgono sempre spontanee, giocherellona com’è, smitizzava e si alzava da tavola  per portare i piatti sporchi in cucina e  metterli nella lavastoviglie, con garbo lasciava la sedia vuota per poi ritornare accanto al marito che le cercava la mano intimidito, lui ha meno coraggio, mentre lei sistema i capelli lunghi e biondi con un fermaglio, raccogliendoli sul capo per lasciar scoperto il volto d’angelo. Il nonno ha un modo imperioso e austero, ma è anche piuttosto caustico, e sempre sagace senza mai farsi sgarbato.
Ieri Immaginavo: attenderò il mio fantasma, la voce dolce mai udita, che  non deve sfuggire come  fantasia e inganno. Una misura diversa del tempo se condividerlo è possibile. lo psicanalista che mi cura sbaglia tutto, e il desiderio di ucciderlo è forte. Conficcato nel cervello e nella scatola cranica, ma ora forse ho un uomo, con braccia forti, ancora solo immaginate,  ma  ha coraggio, affronta il cielo. Quella penna gentile in chat, con una foto che ne esalta l’azzurro degli occhi, lui, un uomo solo virtuale, si scalderà al mio seno.  
Mi è rimasta solo un’amica, Giulia, che in questo momento sta andando ad un party in una villa fuori zona,  anche lei vive la gabbia del corpo, e non so come farle comprendere che può uscirne. Le mando un messaggio con il cellulare “Al party vengo anch’io ma più tardi, ci vediamo lì.”
                    La notte
La luna e una visione da nottambula, quando si fa buio, e tra le visioni allucinate si ingigantisce goffamente, ma tanto nessuno la guarda, legata al destino, senza direzione, del pensiero che non vuole ordine.e potrebbero deriderla. Ma l'ombra torna ogni notte a giustificare il quotidiano. E' fresca della frescura dei glicini e rigogliosa come uva matura che assapori nei campi quando il tempo ricopre le viti. E' acqua che lava il bitume, tradisce il giorno per fertilizzare la notte. Dopo un tragitto, tra le pietre arse e le strade deserte. Entra come tramontana d'amore e porta con sé il sapore del mare e della spuma, che non c’è perché la città è fatta di pietra,  ed è dolce il ricordo dei frangenti puliti e della risacca sciabordante che scomposta richiama all'orizzonte lo sguardo, e la voglia pazza di naufragio. La vita si è prosciugata, un’esile speranza soltanto, da quando con una sorta di dolcezza dell'anima,allegro e giocherellone, un uomo ha inciso una speranza profonda che  rende impaziente, e mi divora la voglia, sarà un bacio?
E’ lontano. La mancanza carnale  attraversa ogni tendine, ogni muscolo, mi ricaccia in un disorientamento e un abisso. Solo la notte torna clemente il silenzio, come vento tra i capelli. Ma è avaro di sé e all'alba fugge spezzando l’incanto, per riaffermare la solitudine di sudario e bitume e cenere e mura. Le basta un'occhiata allo specchio per accorgersi che la solitudine incide segni, lacrime, e l’ultima speranza è lui “l’ombra”. Uno sconosciuto,  solo un’amicizia su facebook, e poi incontrato in un fine settimana giocoso, eppure serio, pazzo e divertente, puro nel senso migliore,il senso con il quale ci si eleva sopra le mille giustificazioni che sei  obbligata a fornire rispetto alla vita a ritroso, e alla solitudine improvvisa. E’ stato un atto coraggioso invitarlo a dormire in soffitta in due per fare l’amore, nella frenetica emozione. Ha lasciato segni indelebili, pianti di solitudine,  contro i quali non hai rimedi, se non il trucco come apparenza superficiale. Di nuovo al lavoro, di nuovo derisa per il coraggio di mettersi a nudo. Tra le pietre che formano i muri di quella provincia medievale, giocattolo che si svita, prevale il frenetico ricorso a pettegolezzi e malignità, e di lei dicono le megere che è stata ridotta alla demenza per aver preteso troppo. La definiscono  pazza perché ha intrapreso uno stupido cammino psicanalitico durato trent’anni. In realtà è solo fragile e timida.  Intanto la recessione miete vittime. E autorevoli assassini restano a guardare, indifferenti.
Lui scrive un messaggio al cellulare “ sei una sarabanda di confusioni tu,  ti incanta Bergman e finisci per credere solo ai manicomi, comunque ti  va di venire alla notte bianca a Roma? “Ok se vuoi””.
Ho iniziato allora un colloquio furtivo con me stessa e il computer con il quale scrivo, accudisco e proteggo l’anima nascondendo agli altri il vero. Amo il fantasma di facebook, ora che lo conosco e ci siamo divertiti a letto, nonostante la pessima figura mia, mi sono ubriacata in un’enoteca, e poi ho vomitato anche l’anima, per “l’ombra” come si chiama al Nord, io però l’ho amato appassionatamente, ed è una malattia. Io lo voglio così com’è, con la sua solarità che mi rende sorridente.
E’ ritornato, forse gli sono piaciuta, nonostante tutto.
Appena ci troviamo in soffitta tolgo gli abiti e lascio che lui mi penetri. Prima mi bacia mi abbraccia, mi accarezza. Lui che è la luce e il vento tra i capelli. lui che nell’abbraccio carnale rende fertili le mie notti,  Come in un gioco che abbia smesso di essere un gioco nel limite stravolto e rigettato della realtà netta, veritiera, agonizzante, uno spazio di libertà, accarezza i seni e dona il più dolce degli amplessi, sotto il palmo suo, stretta al suo corpo, sento la pelle fino al ventre, soffoco i singulti perché non mi sentano. L'ombra, mi accarezza mi bacia mi tiene stretta. Uno scherzo del tempo che mi ridona la grazia. Lui accarezza i capezzoli, e io mi lascio penetrare dolcemente. “Sei vergine” mi dice. Quando riparte lo accompagno alla stazione, intristita.  il sogno di lui che torna come il vento tra i capelli. E' preziosa la nostra intimità,  amplesso che illumina di mistica luce riflessa le lontananze dolorose, e vorrei il suo calore sulla pelle per affermare la presenza-assenza ancora più dappresso e sentire la voce di lui farsi richiamo invincibile, sicuro. Un richiamo ogni giorno del vento, nella casa che dorme.  Chiudo dentro il piacere serrando le cosce. Perché si rinnovi l’ardore. Amor mio sei la mia meteora, districhi i miei pensieri sciogli le mie voglie.
Volgi a me beato i tuoi occhi, guarda osserva la mia devastazione. Turgidi i capezzoli chiamano induriti di voglia e premono contro la pelle  sua. . “L'ombra” l’accarezza. Le dita si apprestano a strazianti sfioramenti, il fuoco non si spegne, caldi i seni, i sensi dilatati, la pelle sprigiona umori e chiama il piacere carnale che offre il corpo smunto,   non appartengo ad altri, solo per te sorrido,  aggrappata a te, grido e gemo. Quando tu te ne vai, amore mio pazzo, a volte ostile come in una guerra appena iniziata,  il letto resta caldo e bagnato dei miei umori, a te mi consacro e per te abbandono tutto, per te si fa sregolata la testa e premono le tempie. Tu sei il mio nido, per te sistemo il cuscino quando tutto tace. E' un duello mortale e notturno di pazza sonnambula che trapassa il buio per incarnazioni miracolose. Ma l'ombra rinfresca e purifica la terra, e piccoli germogli vergini radici tornano come per incanto a nutrirsi alla fonte sicura. Non appartengo più a me stessa. Appartengo a lui, al vento, alla notte nella mia cameretta.
Prima di conoscerlo scrivevo così, ormai pregavo per non restare troppo sola, perché io le parole non le so, e gli eloqui delle donne mi risuonano in testa come mostruosità, e ne fuggo. Nei fogli persi, perché persi il computer e non avevo registrato su chiavetta usb, e poi ritrovati tra il disordine di carte, scrivevo ingenuamente così. Come di seguito:
In chiesa.
Era troppo veramente troppo. Era necessario cercare un principio essenziale di quiete che tendesse verso il basso, verso la terra per ancorarsi, una forza compiuta, visibile e determinata. Non hanno limiti ora gli angelici cori per le sue orecchie e infinito è il tempo che scioglie l'animo dal mistero di un corpo  abbracciato alla sua fragile umile carne, ma ora è ricordo, ora è lontano, e ecco affiorare il filo dei pensieri che riunisce tutte le condizioni di possibilità della sua vita, smarrita nei sentieri inessenziali, fra le dita intrecciate in preghiera lei ammette la necessità di confessare a se stessi ciò che le cose dicono per loro natura fuori dai labirinti ossessivi. Requie eterna - eterno riposo- la preghiera si alza in coro, distratta come ogni domenica ma stentorea; la grazia rallegra e definisce il tempo del  fantasticare psicotico. Sa comunque di aver perso la strada superba e chiara della ragione, ha osato indagare i misteri e ora è solitudine anche nel viso smagrito, sciupato, che pure manifesta nei tratti ingenui e dolci la disponibilità a rimettere in discussione ogni tentativo di risposta per nuove possibilità. Presa da angoscia incrocia le mani, socchiude gli occhi. Ecco un luogo nel quale protetti dalle volte e dalle arcate in ritrovata pace tentiamo di sfuggire alle tempeste e saldare l’ancora della sorte disancorata, per una donna che si vuol riposare i nervi tesi e i giovani cervelli audaci sono musica stridente. Gocce di sudore le imperlano la fronte, ha disimparato la propria bellezza e l‘ha dissolta nell'oceano del dubbio, e tuttavia non si spezza il sogno, la vittoria non giustifica nessuno né redime, perdere non significa null'altro che sacrificio, trovarsi a soffrire e poi chiedersi nel martirio d'amore se un angelo qualunque giungerà a togliere la croce. Sono il trofeo di questo santuario si dice la donna e vuole scordare; dolcissimo angelo condannato a morte, non fiera ma felina , miagola e graffia ad un tempo, col desiderio di uccidere e poi giacere sulla propria tomba, da quando uno spesso fendente ha trafitto il cuore che s'è imbambolato.
Il cuore accogliente  e solo non pensava, però, nulla di nuovo. Implorava Dio di darle un lui con giravolte d’anima come Luci della ribalta. Non aveva conosciuto l’amore e era fatta di copie d’autori, primi i  vecchi Don Chisciotte che l’avevano amata sulle panchine con qualche straccio ritrovato nei bidoni della spazzatura, per proteggersi dal freddo senza il tic tac di orologi, senza tempo, né giovani, né vecchi. Da tempo lei restava solo ad ascoltare con il mento piegato,  ferita da un vecchio  abbandono troppo sola da allora, , ossia senza far altro che fumare e leggere fino a perdere il sonno.  Un libro una sigaretta una birra. Sara Scrive messaggi al cellulare “Amore sono qui, doppia duplice con una cagnolina come compagna”. Non era più stato felice neanche lui da quando l’inverno si era fatto spesso e le stagioni della sua tenerezza morte per mancanza d’amore da riempire di carezze.
Le finestre della  camera di Sara danno sul presbiterio, allora è lì la domenica appena fuori dalla camera, per musiche maggiori di quelle che riecheggiano nella stanza delle sue astrazioni di chimera. Eppure lui, sempre invisibile, ma presente, sa esattamente, così lei lo immagina, roteare abile le braccia forti e i pugni tesi, squadernare quelle pareti anguste, e scoperchiare le volte gotiche per aprire al cielo le preghiere e attraversare le nuvole volando, sotto arcobaleni o  scrosci di pioggia adamantina,  perché i manti verdi  muoiono di siccità e piccoli germogli vergini radici tornano a rivestire manti di terra e allora c’è di che nutrirsi. Ma alla fine resta solo un’ombra, l’angelo, l’anima divina. Gioioso prima, l’incontro un caso fortuito di face book, solo un’amicizia faace book e dopo, dopo, paura allarmante, che ho fatto mio Dio è peccato? Il senso del peccato è l’arma di delitto, lascia ai singhiozzi la possibilità di farsi strada, perché tutto resti così com’è, marcio dentro, e la scatola chiusa, serrata, trasudante carogne e scheletri del passato.
Ma sussurrano le donne  litanie   alla luna strega. La luna  avvicina  il mondo, è fedeltà al fantasma,  lui solare, affamato di voglia di vivere. Sola nuovamente, Sara è  impietrita e fissata su fondo come Dafne fuggitiva, e lei,  donna  che non si è mai fermata con il tenace desiderio d’amore, lei che ha sempre abbandonato o è stata abbandonata, agogna ora il ritorno scacciando i pensieri di abbandono.
Ricordi. Pupazzi di stoffa come le bambole della sua infanzia che conserva, infanzia lontana come matassa inestricabile,  perduta freschezza giovanile. L’immediatezza è perduta. Sogna il mare e i suoi flutti, sì, le perle di conchiglia raggianti di splendore femminile. E  ascolta; l’amore  non sfugge al serpente, è avido di croci ed essicca i cuori perché resti il deserto di morte libagioni. Allontanare il giudizio non è facile. Da bambina era facile riflette la donna, se ritrovassi la fune che mi allaccia al passato resterei a decifrare la concatenazione degli eventi per annodare le trame del destino. Torna però con poca voglia a quei tempi perché il ricordo è una rivendicazione troppo tardiva. E la morte li allontana in una lontananza indefinita. Pensa alla casa, alla famiglia, il volto solcato di rughe,  con la fantasia eccitata,  da sedare con i farmaci, e ricorda la perduta infanzia e giovinezza come in una saga di fiabesca provenienza. Scorre recitando gli stessi interminabili versi in schemi sempre identici. La casa la solitudine i passi le voci. Tornare a cercare è complicato. Pensa al giorno trascorso, rievoca il limite di attimi, momenti di quiete. Prima del delirio. La sfrontatezza delirante è un ordigno che è la lucida coscienza delle responsabilità, della solitudine e di una guida che ha perso. E’ un’ombra ed è un sogno. Un fantasma e un angelo. Mai indiscreto eppure spregiudicato e imprevedibile le ha concesso la piena libertà delle sue azioni senza fare domande perché non si sentisse intrappolata e suggellando nel cuore un patto d’onestà. Ma battono alle tempie le parole di un cattedratico a lei rivolte.  “ora basta sei perversa sterile non comunicativa”. Ora basta. Non comprende, è inverosimile il suo ostinato silenzio, dopo gli insulti, quasi sfacciato di fronte ad una donna che cerca l’intero. Dicono sia pazzo. Eppure tanta sapienza dovrebbe rendere la saggezza.  Sei perversa sterile e non comunicativa le ha detto ed è scomparso, si è dileguato come impossibile enigma. Sono iniziate le vacanze di pasqua e lui non telefona. Continua assorta a scrivere disordinate parole, frugando nella borsa piena di libri per cercare le sigarette. È tornata da scuola. Le piacerebbe sfidare la sorte imbrogliare il destino, voglia di rinascere come fiore nella solitudine del deserto senza impronte, e lacrime, e fiori senza i quali si muore di violenza. Ma poi il malinteso si è chiarito. “devi smetterla di sentirti malata,  tu ti allontani con questa ossessione della malattia psichiatrica”.
Le gambe tremano paura furiosa di camminare. Paura del vento tra i capelli, Paura dell’acqua che lava il corpo. Piuttosto che lavarsi accende un'altra sigaretta. Paura nullificante che schiaccia annienta distrugge incenerisce. Ferite inferte ai prigionieri del tempo, un demone nemico canta un canto macabro sibilando alle orecchie il rumore che soffoca, voci fantasie parole taciute,  un orologio  esatto ma vuoto. Scavare le parole come in un museo per trovare il resto, i rimasugli della vita che resta da vivere con uno sguardo al cielo. Una terra nuova, un manto d'erba, ciclamini e nasturzi in giardino, sono riposanti, e quando la notte si alzano le stelle si ricrea l'anima che traduce la croce, curvata sotto il peso, inginocchiata, a fatica rialzata, la donna chiusa nella sua cameretta di ragazza prende penna e carta e intreccia parole che la giustifichino .
La messa è finita
«Sicché tutto qui? Bè,  vecchia mia non so che farmene. Dov'è che hai messo le sigarette? Ora non ho tempo, ritorno al circolo per il bridge - il medico ordina di curare la pressione ma dovrei allarmarmi? Trovami il cellulare nella borsa che lo chiamo. Almeno si decide con questa medicina miracolosa!» Nella calca all'uscita una moltitudine ipocrita vocifera mentre correndo i bambini escono scomposti. Il fendente ha trafitto il cuore e i raggi accecano la vista che sbatte e spalanca. Nulla appare più certo, quattro spiccioli al mese e un po' d'acquisti sfaticati, scarpe tirate a lucido, un cappotto nuovo, la passerella di domenica al centro per non sfigurare. Ma è come essere nudi. Soltanto la donna, che ha sottobraccio un libro nuovo e lucido di zecca, nuovo acquisto, ha un aspetto un po' diverso. O almeno dà ad intenderlo. Almeno lei ha un libro, un libro mentre passeggia con fare irridente e discosto sotto il cielo, quasi giustificata come in un certo definito tratto d'anima da quel possesso che la distingue, io no, intende, ritorno ai miei libri e non resto a contemplare, non appartengo al corteo di ombrelli in piazza che attraversa la strada sotto la pioggia.
Cercava riposo in quella casetta di anticaglie dal suo lavoro infaticabile. Scrive un messaggio a Giulia “Allora? Come va?”. Giunge immediata la risposta “Matteo è impossibile non si fa trovare mai è pieno di amanti non ce la faccio più…aiutami incontriamoci” “ok appena posso. Sono inguaiata anche io tra psichiatri e paure”.
Colpevole. Per il momento l'altro, l'intruso amorevole, agognato, spasimato, non c'è. Era il suo quarantesettesimo compleanno quando per la prima volta è entrato nella sua casa nella sua vita. Il concerto lunatico della sua esistenza è una partitura misteriosa, genera sogni e languidi abbagli, e ottenebrata perde ciò che illumina e rischiara la strada nell'ordalia dei suoni strampalati e mutevoli.  Orsaggine e selvatichezza si affacciano, la superbia si fa aspra, e si profila spontaneo e immediato il raccapricciante ribrezzo che è la sensazione di restare sospesa nell'aria. Ha sognato che le entrava nel fianco una mucca con sette zanne il corpo bianco come la neve e la testa di smeraldo. L'analista interpreta i sogni. Lei ha sognato la mamma le ha detto. Probabilmente è un sogno di conversione. Vorrebbe nel suo corpo veder nascere un fiore, una rosa,  ma avverte che è un desiderio impossibile e forse per questo gli acquisti di creme profumi abiti non la soddisfano comunque e diventano un fatto compulsivo. Le manca il giardino da coltivare, la fertilità, e il corpo lo avverte come fortezza.  Il vuoto che dice di percepire nel fianco destro, è il sentimento della sterilità. Lei dice di sentirsi mezza, senza la destra, e forata al fianco destro all’occhio destro che si chiudeva meccanicamente, e  anche la difficoltà a muovere  il braccio destro e la spalla destra, e  sente il vuoto dell'anima.  Cerca l’incomparabile e intangibile, cerca l'anima che lei definisce vittima di troppi furti. Vogliamo provare ad attraversarli gli specchi come Alice che è al di là?” Ma come si fa? Gli occhiali da presbite nella corsa euforica verso il cancello e la strada deserta, dopo quell'ora nella stanzetta d'oro, erano caduti, e lei non si era fermata a raccoglierli.. Si ferma a riflettere, non vuole tornare indietro e prosegue. Teme profondamente le responsabilità. E' l’inizio di un viaggio. Non più  sola e senza orizzonti disponibili. Chi farà scudo al nemico? In fondo era un capriccio pensa. E ha fallito. L'indecente in tutto questo è l'averlo previsto. Aveva fatto irruzione nella sua vita un angelo che agitava la corrente delle sue monotone giornate, e poi era mutato cambiato. Forse lei non comprendeva. II medico che sistema le “teste ha cura di un arto complicato”. Sylvia Plath. Un ordine ragionevole ammorbidisce il delirio e trasmette la sensazione di una timidezza che deriva dalla vergogna. Carica di divisi pensieri, rivendica un'imparzialità che non trova, è imparziale con se stessa e insieme iniqua.
Una  resa a un nuovo amore, si è fatta improbabile davvero? nutre orrore per la dimenticanza. Una donna smaliziata da fantastiche allucinazioni. Non sopporta il freno alle sue briglie che la immobilizza e la priva di dolcezze. Intrisa di frantumate memorie. Ancora pronta a infiammarsi ma con uno sguardo indietro e il pensiero incandescente di aver subito una truffa del destino. Eppure lo sapeva. " l’idea di qualcuno accanto mi dilania l'anima. Sono all'altezza sono adeguata sarò capace? la risposta è no non sono all'altezza non sono adeguata non sono capace. Pazienza … Ora si tratta di tentare in quella stanzetta d'oro con un estraneo che ascolta e di trovare chiarezza  e di sapere perché accade. Far luce in questo tumulto per  proteggere l'argine che straripa". In autobus disegna arabeschi su un foglio, distratta, scarabocchia svolazzi, e  viaggia verso future esultanze, ammesso che il buon senso e il criterio dell’analista siano scienza e snocciolino il bandolo dell'anima. Ma l’analista sembra un cialtrone. Comunque è un tentativo.  Affaticata, giù di tono, indossa una giaccone e jeans. Si ferma in un bar per prendere una birra e fumare una sigaretta. Lo psichiatra è l’assassino, e anche piuttosto venale.
Vede all’angolo del vicolo il suo vecchio professore di università, sciatto, trasandato, occhi bassi, passo lento. C’era stata l’anno precedente una discussione durata ore al tavolino del bar del centro.
Era impazzito, colpa di una donna, quell'essere sconosciuto che non aveva osato indagare per viltà misogina e stima del suo intelletto grave ma forte, di pietra, e per lenire ferite si era fatto con gli anni legnoso, un burattino senza forza che ratificava per mera necessità tutte le ingiustizie del mondo.
Ora era agonia dubbio scomposizione. Era diventato un cialtrone biascicava le proprie ragioni camminando a passo lento, senza criterio, allontanato da tutti, tutti schiamazzavano chiacchiere da bar, nei tavolini del centro. Lui con la mente ottenebrata camminava con gli occhi in basso e incurante di quel monologo stralunato e solitario che sfacciatamente ostentava, un canto scandito alla pallida luna rivestita di stelle. Un pensiero grigio cupo, un sogno di riscatto ormai abbandonato, un ricordo che richiama l'illusione, poi il no secco della coscienza e la consapevolezza carica d'odio del male subito senza rimedio. La vendetta impossibile inutile fuorviante. Era  un giorno qualunque tra giorni senza importanza; una mattina d'estate inoltrata, dopo una cena in un ristorante del centro, veloce, camminava per il corso con la voglia di distruggere prima di tornare agli studi tra le carte disordinate. All'uscita aveva intravisto un uomo che usualmente ostentava la massima eleganza con una forma di sfacciata caparbia, quasi a dire le mie tasche sono piene e se sono piene le mie tasche anche il mio onore, e lo aveva sorpreso a ridere del suo soliloquio da mentecatto. Comunque il ristorante d'angolo dall'insegna sciatta e all'apparenza poco invitante era poco frequentato.. L'uomo pensava e parlava da solo in un monologo strascicato, tornava con angoscia ripetuta a contare gli attimi i minuti che si rivestivano di significati giganteschi, in quel giorno maledetto, in quell'urto improvviso. Battevano le tempie, basta basta, uscire dalla gabbia dimenticare. Bisognava imparare a memoria le regole della comunicazione come la tavola pitagorica, farne una logica del pensiero, conoscere la realtà iscrivendola in un quadrato o mettiamo un cerchio anche, purché sia iscritta, perché faccia parte di un universo concentrato e forse rattrappito d'accordo, ma così era solo paura, del futuro, e lui era già vecchio e gli anni si facevano sentire. bastava esaminare la sua andatura incerta, gli occhi bassi, la vergogna di esserci ancora, il desiderio di restare appartato negli angoli nascosti, lontano dalla folla, per capire quanto fosse infelice per quell'anarchia del mondo insensato, come una trottola impazzita e girava e girava e lui non poteva più giocare come un ragazzino con quell'equilibrio incerto su due gambe come moscerini e la rabbia soffocata. Ci sono anch'io raccoglietemi cercate di capire e d'accordo sono superato ma posso esserci, anche se di lato, nascosto, travestito di memorie e rimpicciolito dal peso di una fatica senza speranza, ad occhi chiusi. Regole e leggi nuove da subire in un mondo grande quanto un guscio di noce ma feroce di fronte alle diversità, ostile con chi aveva modi inusuali o non conformi ad uno stile che lui onestamente definiva da bifolchi e straccivendoli da mercato, bifolchi travestiti da nobili per un'osservanza maniacale ad un'esteriorità solo formale. Un'eleganza in fondo triviale come immancabile travestimento, e in fondo era l'invidia trasparente negli sguardi curiosi ed avidi.
Il rapimento della voluttà. Ma io, si disse,  molto più abilmente so volare e levarmi rapido in alto per fuggire da chi non avendo ali cammina e cammina una strada faticosa e sconosciuta senza armi di sorta se non la cura della casa degli anni da trascorrere con quattro spiccioli e un lavoro qualunque, e se ho sottovalutato è per via dell'abitudine alla solitudine e modi da vero selvaggio, come minotauro disabituato alla luce, pensò suo malgrado, ma in fondo era stata sbadataggine, semplicemente uno sguardo poco allenato ai colori e ai riflessi screziati e confusi di un'anima senza traduzioni intellettuali, era l'animo gentile di una donna incrociata per caso; sicuramente in cerca di fuga e con poca sagacia e disabitudine al nuovo aveva, lui, cieco e sordo al richiamo imprevisto, ascoltato con la noia del già troppo noto e troppo detto, per tornare senza perdere tempo tra i labirintici meandri imperiosi e noti dell'intelletto che ai testi si applica senza posa e non ama distrazioni, eppure era l'animo accorto di una donna forse in pena, ma alla fine chi non lo è a questo mondo? Aveva dimenticato dunque i versi di Dante sull'anima? la creazione dell'anima, da parte di Dio
-esce di mano e lui la vagheggia- prima che sia, a guisa di fanciulla- che ridendo e piangendo pargoleggia-l’anima semplicetta che sa nulla.
Pensò che per la prima volta in anni aveva dimenticato di recitare le preghiere prima del desinare. Tre volte al giorno recitava le preghiere e regolarmente santificava le feste - Ma la donna era un pasto a cui non si era mai abituato; lo attraversò il pensiero cosi, nudo e macabro, e ne ebbe orrore, lo ricacciò nel fondo perché non riaffiorasse. "Se si recita la preghiera non si giunge comunque alla fine della giornata con la coscienza perfettamente in funzione e a posto. Non basta . E' vero che la preghiera prima dei pasti rende grazie del bisogno concesso ai bisognosi, ma non basta". Così pensava a voce alta come gli succedeva spesso ormai. Era sempre stato metodico e severo, estremamente puntuale e sempre attento alle orazioni quotidiane. non esisteva il caffè a metà mattinata, o l'abbondanza di vini nella tavola scarna e appena apparecchiata di pane affettati e prosciutti, né sigarette o droghe inquinanti, il caffellatte o la cioccolata con cornetto a colazione erano proibizioni che risalivano all'infanzia, quando i soldi erano pochi e il cibo misero e da dividere in una famiglia contadina nella quale nessuno portava scarpe che non fossero state mille volte fasciate per chiudere gli strappi e tenere legata la suola che proteggeva dalla neve i piedi intirizziti dai geloni. Ora se possibile, pranzo a mezzogiorno e alle sei la cena! Ma prima mezz'ora di ringraziamento per il nutrimento che non mancava e del quale si era grati al signore che non aveva abbandonato quella tavola, e dunque santificare i suoi doni era dovere d'onestà e rendimento di grazie. Ma era  la pazzia di un ordine che si era mutato per sortilegio in un incubo incomprensibile per un uomo che aveva sempre preso sul serio il suo spirito quanto la sua solitudine e che ora, nella vecchiaia, aveva creduto di ricavarne soddisfazione infinita per la quantità di beni accumulata in anni di lavoro.
Sara
E’ tornata, dopo una lite con un lui che la soffocava, nella soffitta, la sua camera di ragazza.
Suona una canzone alla radio in sordina che suggella il limite estremo del giorno, dalla strada sale il rumore frenetico di motori come note strappate di cingoli che stordiscono e abbacinano. Le orecchie. Gli occhi. Di nuovo gli occhi di un'ombra che schiude il mistero superstizioso del suono e ordina il silenzio. La donna guarda di fronte,  in una sua immobilità senza movimenti, fedele cerca di apprendere quell'arte che è il silenzio tra le morte cose, avanza e si dilata l'ingiunzione dell'ignoto, seduta con gli occhi verso il muro di fronte,   le labbra immobili. Di colpo, nel silenzio delle loro voci ammutolite, sale attimo dopo attimo, veritiero, crudele, il palpito soffocato dei loro respiri, ritmici nell'aria, e l'avversione odiosa, febbricitante, annega in una vibrazione del tempo che scorre mutando i suoni amplificati e disarticolati. Il silenzio è un ombra di luce che ha corpo e nasconde il suono teso a vomitate nauseabonde parole. Denso e grigio si riflette il disgusto, la donna tesa all'estremo urla "non ti voglio io non ti voglio"; l'uomo non risponde non si muove,  pietrificato.  Nero vibrante catramoso    il silenzio, e una lacrima scende riga il volto segnato di Sara , segnato di  vergogna, poi lenta un'altra e un'altra ancora, piano si scioglie il tumulto incessante per un attimo di pietà.
Il dolore inclemente, chiuso isolato liquefatto poi spalancato di lei intenta ad ascoltare i colpi che intontiscono. L'uomo cerca la domanda cruciale oltre quelle sghembe parole gridate, paziente ascolta quei frammenti allucinati. Una spiegazione semplice del complesso, un ordine, procedere per deduzione e sbrogliare l'intrico, comprendere cosa implica e perché, e perché spontaneamente come un boato si produce quel delirio che fulmina, inintelligibile. Trovare l'armonia dell'anima comprendere l'inganno e sfuggire alla trappola che è diventata il luogo di lei smembrata in uno spazio non suo, fatto di sbarre. Non c'è stata una parola tra loro in tutto il giorno ma se anche il vuoto ha un nome in qualcosa si deve tramutare. E' necessario scampare a questa miseria d'amore e delirio che ha frantumato l'incanto dei loro corpi abbracciati. " L'amore non esiste. Esiste la solitudine l'abbandono la paura." Dice la donna guardando straziata fra le cose a destra a sinistra come a cercare l'orientamento nello spazio quadrato che non riconosce, negli angoli negli oggetti nelle pareti nei mobili nella tavola apparecchiata.
Ha creduto di essersi persa in una distanza ignota e tra i singhiozzi ha cercato di orientarsi sorda a ogni muto rimprovero, perché la sopravvivenza è così. Una fine una memoria una fuga un fantasma che appare in mezzo alla più conviviale delle conversazioni ed è un'ombra travestita, nascosta, grave, accesa e spenta all’ombra dell’enigmatico silenzio delle strane cose risucchiate. Trattiene il tempo e ne espande le vibrazioni, ed è come morire senza morire, con un nemico accanto invincibile, sulle prime lo credi un angelo e lo tieni nascosto come l’amante più segreto, sedotta ammaliata , ma il tradimento è vicino, ha un passo e avanza marziale, è un corpo diverso, un vecchio aguzzino rigido travestito di fessure che sono occhi tesi, e annuncia cori di voci disgiunte come parti di un corpo metallico, si prolunga in un'eco sterminata il dialogo forsennato dentro il corpo rattrappito, e si svita la testa di bambola dopo un sonno in cui la ragione conservava fedele i suoi buoni quotidiani argomenti. Un intruso speciale, occhieggiante, non uno come noi, con sguardo imperioso trafuga parole nel vigore estremo del silenzio, cicalecci che incendiano, distruggono, fucilano, prefigurano il gioco temibile di una fuggitiva senza speranza nel brivido della solitudine ad occhi chiusi. Il giorno prima c'era stata una scenata. Piangeva aggrappata ai cuscini del divano e graffiava la stoffa, bella comunque nel suo abito di seta indaco indossato per l’occasione nella speranza di mascherare la prigionia che avvertiva dentro, nonostante si riconoscesse colpevole, e quella gabbia dal canto suo la meritava come ogni altra cosa. singhiozzava "tu mi uccidi mi uccidi io soffoco". Lui aveva il volto coperto dalle mani.  Si offriva paziente a quell'incubo improvviso e atroce. Poi si era alzato e le aveva strappato il bicchiere di mano e aveva urlato "ora mi dici tutto con ordine"
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entheosedizioni · 4 years
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I classici riassunti: Madame Bovary di Gustave Flaubert
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Riassunto semiserio: Madame Bovary Pur non riscuotendo grandi simpatie come personaggio (men che meno le mie), Madame Bovary è uno dei capisaldi della letteratura mondiale, uno di quei titoli da leggere almeno una volta nella vita. E, se come me, lo avete fatto di fretta, in una lontana gioventù, di certo non vi pentirete a rileggerlo. Questa infatti la ragione per cui sono riuscita ad andare oltre il personaggio e apprezzare il cosiddetto realismo del libro, completamente sfumato a una prima lettura. D’altronde, la prima volta non ero riuscita a capacitarmi dalla totale vacuità del nostro personaggio, perdendomi dunque la mirabile scrittura di Flaubert, nonché la sua sublime attenzione nella scelta delle parole.
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Dove, quando e cosa Provincia francese, vicino a Rouen, intorno al 1840. Ambientazione tranquilla fra piccoli paesi di campagna quasi bucolici oserei dire – frenata solo dai conoscitori di Flaubert che interpretano le sue ambientazioni come aperte critiche al provincialismo e alla classe medio-borghese, un altro insulto alla società. Per dirla tutta, mi sono sorpresa non di rado a invidiare un poco il placido scorrere delle stagioni, le colline verdeggianti nel morbido levar del sole, i profumi portati dal vento e i suoni della natura. “A volte si alzava un vento a raffiche, brezze marine che, superando d’un balzo tutta la pianura della regione di Caux, portavano molto addentro nelle campagne una frescura salmastra. Rasoterra fischiavano fra i giunchi, rumoreggiavano con un rapido fruscio fra le foglie dei faggi, mentre le cime di questi alberi continuavano il loro maestoso mormorio dondolandosi senza posa.” Come vi dicevo, tanto male non era. Ed è qui che la nostra Emma Bovary trova il suo tormento e la sua fine. Il pensiero fugge ad Anna Karenina, altra indimenticabile eroina dal simile finale, eppure fra le due ci sono abissi invalicabili, non solo per estrazione sociale o per ambiente – una rammenda calzini aspettando che il marito rincasi, l’altra pasteggia a caviale e champagne nei palazzi pietroburghesi fra la più fine nobiltà. Che poi, quello che ha la seconda è esattamente quel che sogna la prima, eppure il finale non cambia. A quanto pare, l’insoddisfazione nasce sempre dal nostro profondo, non da chi o cosa ci circonda. Siamo noi, dunque, insoddisfacenti? Ma torniamo al libro. Chi è chi? Charles Bovary, medico di campagna diventato tale per accontentare la madre e non per doti proprie, consapevole dei propri limiti, s’impegna al suo meglio per portare a casa la pagnotta. Di gusti semplici e fondamentalmente un buon uomo (nonostante lo sforzo dell’autore di renderlo inutile), sbaglia solo nel scegliersi la moglie. Per due volte. Ma, per consolarci, non è il primo e non sarà l’ultimo. Bonaccione. Emma Bovary, seconda moglie di Charles, inizialmente non lascia trasparire nulla sul suo carattere volubile e sulla smania di romanticismo portato all’estremo. Graziosissima giovane, sboccia in una bellissima donna dalla figura delicata e sensuale al contempo, tratti fisici sprecati per la campagna – come lei stessa pensa. Legge libri d’amore e sogna di vivere in uno di essi. Eterna sognatrice. “Non parlavano che di amore, di amanti e di innamorate, dame perseguitate che scomparivano in padiglioni fuori mano, postiglioni uccisi a ogni tappa, cavalli sfiancati in tutte le pagine, foreste tenebrose, cuori in tormento, giuramenti, singhiozzi, lacrime e baci, barche al chiaro di luna, usignoli nei boschetti, cavalieri coraggiosi come leoni, mansueti come agnelli, e virtuosi come nessuno, sempre ben vestiti e malinconici come sepolcri.”
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Léon Dupuis. Giovane impacciato, condivide con Emma la sua passione per il romanticismo e le dolci letture – da un diverso punto di vista, suppongo –, quindi si innamora di lei. Smidollato. Rodolphe Boulanger. Rozzo benestante travestito da dongiovanni, mira alle grazie di Emma da quando le posa gli occhi addosso. Gioca tutte le sue carte affinché la preda sia sua, incarnando tutto quello che lei aborre in un uomo. Ma, lo abbiamo detto: lei vive sognando, e per sognare si tengono gli occhi chiusi. Viscido. Monsieur Homais. Personaggio non fondamentale alla storia (non alla nostra, perlomeno), raffigura la caricatura della classe medio-borghese che tanto disprezza Flaubert. Attentissimo alle apparenze, pronto a salvarsi la faccia in ogni occasione, aspira alla Legion d’Onore senza meritarla, finto perbenista: possiede insomma tutte le qualità tanto care a molti di noi ancora oggi. Opportunista. Monsieur Lheureux. Commerciante sciacallo, usuraio all'occorrenza, il classico tipo che campa sulle debolezze altrui. Carogna. Chi fa cosa È presto detto: Bovary corre a destra e a manca per sistemare ammalati come meglio può, mentre la moglie, dopo una festa in un castello nelle vicinanze, sospira, passeggia afflitta, soffre pene immaginarie, odia la campagna, disprezza il marito, domandandosi perché lo abbia sposato. Ma, soprattuto, langue. Talmente da far venire il latte alle ginocchia al lettore e un colpo al marito che, preoccupato, deve abbandonare il ridente paesino in cui si stava costruendo un nome, per trasferirsi a Yonville. Il cambiamento d’aria giova a Emma, che partorisce una bimba e sembra più serena. Specie da quando passa il tempo con il giovane Léon, con cui condivide il disprezzo per la vita di campagna e l’amore per la bella vita e i fasti parigini. Fasti che entrambi sognano soltanto, non avendoli mai vissuti. Ma Lèon, non vedendo un futuro oltre al romantico blaterare con Emma, va a studiare a Parigi, abbandonando così la campagna e la dama sofferente. Che, tanto per cambiare, cade nuovamente in uno stato di prostrazione davvero avvilente, obbligando il marito (l’unico sano in tutta la faccenda) a preoccuparsi a più non posso. Indovinate, però: rinsavisce appena Rodolphe inizia a ronzarle intorno, corteggiandola incessantemente con gesti e frasi da infimi romanzi rosa: “Non vuole convincersi che vive nella mia anima come una madonna, su un piedistallo ben alto, solido e immacolato. Ma ho bisogno di lei per vivere. Ho bisogno di guardare i suoi occhi, di ascoltare la sua voce, di sapere che qualche volta pensa a me. Perché non vuole essere mia amica, mia sorella, il mio angelo?” A questo punto io russavo oramai da dieci minuti, si capisce però che per Emma le sue parole sono miele colato. Andata, convinta. La donna inizia quindi una passionale storia d’amore con Rodolphe, che per un pò riesce a stare al passo, ma accontentare una che non si accontenta mai è davvero impossibile. A Emma infatti la storia non basta più, per non parlare della gente che inizia a mormorare. Fuggiamo insieme. L’idea sembra buona: Emma inizia a spendere soldi che non ha per acquistare vesti e tappeti, pizzi e bauli, nastri e tendaggi; tutto per il viaggio, tutto per la nuova vita. Di nascosto dal marito, s’indebita fino al collo, incurante di ogni buon senso. La sera prima della fuga, Rodolphe le manda una lettera in cui le confessa di essere un codardo, lui voleva solo divertirsi, non intende fuggire con lei. Ah, sono parole mie, ma ci arriva pure lei a capirlo. La storia si ripete: Emma cade malata, per mesi vaneggia in preda alla disperazione, il marito fa di tutto per lei, senza nulla sospettare. Per farla distrarre, la porta all’Opera, a Rouen, dove incontrano Léon, oramai diventato uomo. Sapete già il resto: lei rinsavisce (per modo di dire), inizia una romantica e rocambolesca storia d’amore con lui, continua a spendere senza criterio, in una parola: si dà alla pazza gioia. Finché Lheureux le manda a casa il conto stratosferico delle sue cambiali e gli allegri omini preposti a pignorare tutto. Disperata, si rivolge a tutti quelli che ama o conosce per farsi aiutare: chiede a Léon, essendo lui lo smidollato di cui vi parlavo potete capire che non ha modo di tirarla fuori dai casini; si umilia davanti a Rodolphe, che, essendo l’egoista egocentrico che sappiamo, non alza un dito per lei; va persino dal notaio, che ci prova con lei, insomma: è distrutta dall’angoscia. Eppure anche in questi momenti senza speranza non riesce a ragionare semplicemente, non riesce ad affrontare le sue colpe che mai considera colpe: piuttosto che mostrarsi a Bovary per quello che è – una povera illusa –, preferisce l’arsenico. Non per un nobile sentimento, quanto per una veloce scappatoia.
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Chi ama chi Bovary – ama Emma, la moglie. La ama con un amore tenero, devoto, pieno di cure e attenzioni, rispetta le sue opinioni, dà peso alla sua parola. Mentre lei giudica tutto questo semplicemente ridicolo. Emma – ama follemente l’idea d’amore. D’accordo: tutti noi sogniamo l’amore (persino io), tutti noi abbiamo idealizzato un sentimento o un atteggiamento, tutti abbiamo sospirato per cose che erano solo nella nostra testa. Emma va molto oltre a tutto questo: lei pretende il sogno, se riesce ad averlo, esige che esso si pieghi alla sua volontà e, quando questo accade, soffre e smania per un sogno diverso. Léon – ama il romanticismo e quindi pensa di amare Emma. Non è abbastanza cresciuto per andare oltre un immagine dell’amore. Rodolphe – ama se stesso. E le belle donne. Con Emma riesce ad avere entrambe le cose, finché non arriva il conto. Ama anche defilarsi un attimo prima di pagare. Chi uccide chi Due sono gli assassini in questa storia: il primo è la smania patologica di Madame Bovary e il secondo è Madame Bovary. La folle incontentabilità di Emma la spinge a fare una scelta sbagliata dietro all’altra, fino a quella finale: il suicidio. Lei però non sceglie di morire perché in preda ai rimorsi, non sceglie di morire per il troppo dolore nel comprendere le sue azioni e nemmeno sceglie di morire perché non più in grado di sopportare se stessa. No. Lei sceglie di morire semplicemente perché la morte le sembra una facile soluzione. Mangia l’arsenico, serena e, in pace con se stessa, va a dormire, sperando di svegliarsi morta. Non succede così, l’arsenico non è quella fatale dolce morte instantanea che lei sogna, Madame Bovary muore dopo una lunghissima e atroce agonia in cui ci si dispiace più per il marito, che per lei. Anche da morta, la moglie fa danni: Bovary, assediato dai creditori, afflitto dalla morte di Emma, con un’ultima, eroicissima prova d’amore, continua fino all’ultimo a illudersi su di lei. Finché trova le lettere d’amore dei suoi amanti. Allora lui, unico vero personaggio che incarna l’amore, si lascia morire di dolore. Conclusioni Amare sono le conclusioni di una tale storia, poiché in tutti noi aleggia una certa insofferenza così comune nell’animo umano: non si è mai contenti di quello che si ha, sentimento che spinge al facile oblio: troppo spesso dimentichiamo che la felicità è nelle piccole cose. Piccole cose che sono ovunque, ma che non vediamo perché, a occhi chiusi, siamo intenti a sognare. Attenti dunque a quello che desideriamo, perché potrebbe avverarsi. Annabelle Lee Read the full article
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eleanordahlia · 4 years
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- Parco - #RavenfireRpg
Ombra e luce, luce e ombra, era come uno di quei draghi che si mordono la coda, lentamente, senza inizio o fine, ciò che era iniziava a convivere. Aveva deciso di farcela da solo, non aveva bisogno di nessuno, della pena o della carità di chi non sapeva ciò che provava.
Era così, l'umanità di Ivar si fermava solo quando doveva proteggere qualcuno o qualcosa, ma lui, probabilmente uno dei pochi scappati al consiglio proprio perché non era solito dare spettacolo di sé, non voleva fare del male a nessuno.
Non aveva chiesto lui di diventare ciò che era, impazzendo per comprendere cosa gli era accaduto quando aveva ripreso memoria di sé e tornando a casa aveva scoperto di avere un vuoto di mesi.
Tutto era cambiato per quel ragazzo che se non fosse stato cresciuto da Alaric, dopo la morte dei genitori sarebbe impazzito si dolore, lui che avrebbe voluto rendere fiero quell'uomo forte che aveva subito imparato ad amare più del padre biologico.
Tra college, rifugio per animali selvatici e palestra, le giornate del biondo scorrevano frenetiche e da un lato, per lui era davvero un vantaggio, calmare lo spirito consumando energia, ma alla fine, aveva davvero bisogno di prendersi un momento di relax.
Seduto su una panchina del parco, si guardava intorno, respirando un briciolo di aria pulita, guardava un ragazzo che giocava col suo cane e si era perso in quell'immagine di gioia, oltretutto, studiando veterinaria ammirava volentieri l'animale correre, senza però immaginare che di lì a poco, tutto sarebbe cambiato.
Eleanor Dahlia H. Janssen
Tese erano le spalle della giovane che percorreva il parco come fosse padrona di tutto. Lo sguardo assorto, senza realmente osservare ciò che le si parava davanti, e un'espressione apparentemente vacua s'era dipinta sul di lei volto che, con il freddo dell'inverno, drizzava maggiormente la sia figura. La figura di Eleanor sembrava uscita dall'ultimo libro noir, vestita di un nero come la notte, mentre avanzava imperterrita attraverso il parco cittadino sotto i raggi che filtravano dalle fronde degli alberi. Era assorta, la mente a centinaia se non migliaia di chilometri tra lì, ma fu una testa bionda a farle ritrovare il giusto punto focale. S'avvicinò con passo lento, si sedette accanto all'amico ed osservò ciò che il biondo stava osservando. « Così ora ti diletti nella pratica del voyeurismo? Non sapevo che fossi avvezzo. » Disse ridacchiando l'esperimento mentre attirava così l'attenzione di Ivar. Era ormai trascorso diverso tempo dal loro ultimo incontro, ma sapeva perfettamente che stuzzicarlo non avrebbe portato a nulla di buono. « E non guardarmi così, era divertente osservare la tua espressione. »
Ivar Jonathan Daley
In realtà era davvero assorto, aveva bisogno di rilassarsi, bisogno di dormire,ma era così carico che neppure le nottate passate al Rifugio lo avevano stancato abbastanza. Quando riconobbe la voce della ragazza arricciò il naso, sapeva che lo stuzzicava volutamente,ma nonostante questo, si voltò verso di lei spingendole la spalla con l'indice. - Hey che ne sai tu ? Magari devo spiare qualcuno perché sono diventato una spia.. A proposito, come te la passi miss sparisco per qualche settimana e poi torno senza dire nulla?- La frase sarcastica fu anche condita dalla linguaccia del ragazzo, chiaramente si sentiva preso in causa, ma sapeva come era fatta Ele.
Eleanor Dahlia H. Janssen
Stuzzicare il prossimo, vedere la reazione di nervosismo che sapeva di poter innescare nell'altro era un qualcosa a cui la Janssen non sapeva resistere, ma sapeva anche porsi il limite. O almeno il più delle volte. Eleanor aveva preso il proprio tempo per osservare il biondo, che con sguardo assorto osservava il tempo scorrere davanti agli occhi, ma ciò che spinse la donna ad avvicinarsi fu il desiderio di capire che cosa gli stesse passando per la mente. « Tu, una spia? » Scoppiò in una fragorosa risata che scosse il suo corpo tonico e longilineo mentre con un movimento scosse la sua lunga chioma castano chiara. « Dovresti allora affinare le tue tecniche, sai? E a parte gli scherzi, sto bene, ho semplicemente avuto da fare. » Si limitò a fare una leggera scrollata di spalle, mentre a poco a poco tornò più seria e distolse lo sguardo dall'amico. Condividevano entrambi un passato accomunato da ricordi che Eleanor voleva dimenticare ma spesso le conseguenze erano ben più intense di quanto non volessero. Venire a patti con un cambiamento radicale non era sempre facile, soprattutto quando tutta la realtà che si conosceva fino a poco prima, veniva stravolta in un attimo e tutto era diverso, a partire da lei stessa. « Ci sono momenti in cui ho bisogno di isolarmi, capire appieno ciò che mi succede non sempre è facile, per non parlare delle sensazioni che il più delle volte mi pervadono... A volte spaventano perfino me. »
Ivar Jonathan Daley
Ivar annuì alle sue parole, anche a lui capitava qualcosa di simile, quindi non stava impazzendo totalmente. Immaginava che gli impegni si fossero accumulati anche per Made , non era facile quando capitavano quelle giornate in cui non si poteva fare a meno di staccare la spina. - Non sai quanto ti capisco.. Quando stò in mezzo alla confusione, è difficile controllarmi.. a volte è come se fosse più semplice lasciarsi andare, abbandonarsi a questa natura piuttosto che combatterla per avere ancora un filo di controllo...- Sussurrò lanciando un sasso contro il tronco di un albero, senza riuscire in realtà a sfogarsi veramente. Era stato difficile rinunciare ai viaggi, era stato difficile tutto da quando i dottori lo avevano trasformato in un mostro senza che lui ricordasse alcunché. Era come dover accettare una nuova vita forzatamente, ma questa volta, sentirsi se stesso era assai più complicato. - Non riesco davvero a darmi pace.. La cosa mi fa incazzare da impazzire .-
Eleanor Dahlia H. Janssen
Era difficile per la Janssen fare determinate affermazioni per con Ivar sentiva quella giusta connessione che le permetteva di farlo. Spesso il bisogno di isolarsi diventava talmente forte da farla correre lontano, al limitare di Ravenfire e ripensare a come sarebbe stata la sua vita se non si fosse mai trasferita, ma v'erano altri momenti in cui benediva quel giorno. Ella si ritrovò così a socchiudere per un momento gli occhi, ma subito il rumore del sasso lanciato le fece drizzare nuovamente la schiena, aprendo di scatto le palpebre. « A volte mi chiedo che senso abbia combatterla, sai? » Confessò la giovane mentre osservava il punto in cui il sasso aveva colpito l'albero. Alzò poi lo sguardo, lo rivolse al cielo sopra di loro che sembrava essere ancor più nitido e infine si ritrovò a dire ciò che mai aveva detto ad alta voce. « Mi manca New York, mi manca la mia vecchia vita, ma allo stesso tempo sento che quello che è successo potrebbe essere un dono. Allontano chiunque possa avvicinarsi, a volte mi sembra di essere pazza, ma la sensazione inebriante di ciò che è successo sembra essere una nuova linfa vitale... Sono combattuta, Ivar. Credi che sia normale? » Forse aveva parlato troppo, forse aveva perfino lasciato intravedere una di quelle sensazioni che amava tenere per sé, eppure in quel momento, aveva sentito il bisogno di lasciar entrare qualcuno, per un istante, qualcun altro. Scosse il capo in modo impercettibile, incapace di accettare di aver fatto un simile errore, e senza nemmeno attendere una risposta, ella si alzò. « Non rispondermi, è meglio che vada. »
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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eventiarmonici · 5 years
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PASQUALE DI MATTEO E L’INVERNO DEL MONDO
Sabato 23 novembre, ha preso il via la Mostra Collettiva intitolata L’INVERNO DEL MONDO, curata dal Critico d’Arte, Pasquale Di Matteo e allestita presso la suggestiva Chie Art Gallery, in Viale Premuda, 27, a mille metri dal Duomo di Milano.
di Vincenza Mei
Fuori piove e la giornata è tipicamente autunnale, mentre all’interno della galleria, Pasquale Di Matteo ci accoglie con il sorriso che accompagna sempre quello che è anche il nostro direttore.
« Di Matteo, vuole parlarci del perché di questa mostra, con un titolo così… Forte? »
Il Critico d’Arte mi invita a osservare la pioggia, che cade battente, quindi mi spiega: « Stiamo andando incontro all’inverno e non soltanto sotto il profilo meteorologico. Viviamo un tempo in cui sembra che il mondo giri al contrario, dove milioni di persone si svegliano ogni mattina per percorrere lo stesso tragitto, prima di giungere in luoghi più o meno insalubri, più o meno fatiscenti, in cui svolgere mansioni ripetitive, sotto la guida di superiori dei quali non si nutre alcuna stima. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, fino alla fine. Il nostro è un mondo in cui la bellezza del vivere e la potenzialità dell’uomo è totalmente soffocata e incanalata esclusivamente nella produzione di oggetti per lo più inutili che il sistema al potere ci induce a desiderare attraverso i media, facendo credere che possedendo una bella auto, un vestito firmato, l’orologio di marca o il gioiello costoso, si diventi migliori e ci si allontani da una condizione di vita che opprime e che depaupera lo spessore culturale di ciascuno. ».
« Perciò, lei pensa che siamo giunti alla fine di tutto? Non esiste alcuna speranza per l’uomo? ».
« Speranza è un termine vuoto senza compagni di viaggio, quali: denuncia, lotta, comprensione e verità! », afferma Di Matteo. « E non ci può essere speranza, per l’uomo, se non ci rivolgiamo ai giovani, ai più giovani, dando loro gli strumenti per comprendere cosa accade e perché… Viviamo un tempo in cui la macchina del progresso è talmente lanciata a folle velocità da bruciare persino il polmone del pianeta, la Foresta Amazzonica, senza che la cosa scuota più di tanto le presunte grandi menti del mondo; viviamo un tempo dove non siamo neppure liberi di scegliere se curarci oppure no, se vaccinarci oppure no, mentre si discute già su come eliminare il denaro contante, una delle pochissime forme di libertà individuali ancora in essere, tanto che l’establishment vorrebbe rendere legali soltanto i pagamenti elettronici, in modo da finanziare in maniera esponenziale le banche e da tracciare ogni spostamento degli individui; in sostanza, si tratta di installare un microchip sottopelle, trasformando gli uomini in automi, in codici a barre. Manca solo la Precrimine, poi sembrerebbe di vivere in un racconto di fantascienza, dove la finzione, purtroppo, è meno cupa e pericolosa della realtà e dove i tentativi di schiavizzare gli uomini da parte di regimi del passato appaiono ben più ridicoli rispetto a quanto in atto ».
Di Matteo parla con trasporto, tanto da lasciar trasparire la passione che mette in ciò che fa e che lo ha condotto a traguardi importanti, diventando l’unico referente per l’Italia di una delle più importanti organizzazioni artistiche del mondo, la giapponese Reijinsha.com, e collaborando con le sedi istituzionali a Roma.
Il clima è informale, visto che ci conosciamo da tempo, e, tra un biscotto e un sorso di cioccolata, gli chiedo: « Lo spaccato che emerge dalla sua analisi è quello di una società senza più valori, che non è neppure capace di comprendere che si sta autoeliminando. E’ corretto? ».
« Assolutamente! Viviamo un tempo in cui gli Stati devono adeguarsi al dio denaro e alla Chiesa della Finanza, con governi obbligati ad amministrare i rispettivi Paesi, tenendo conto dell’agenda dettata da Banche e Finanza, e dei loro ricatti, anziché del volere dei popoli; perciò, ci ritroviamo Stati gestiti come aziende, in uno scompenso umano esasperante e oppressivo, in cui non conta più la morale, ma la calcolatrice e la legge dei numeri. E nessuno si preoccupa di ricordare che, mentre, per un’azienda, i deboli, i disoccupati, i malati e chi ha bisogno di assistenza, sono una voce di spesa inammissibile, da eliminare, al contrario, gli Stati devono farsene carico, in virtù dell’uguaglianza e della dignità umana, concetti che dovrebbero prevalere sempre, su ogni altro. Eppure, viviamo un tempo in cui l’indignazione per questi scempi è labile, marginale, perché le masse sono bombardate da media che propongono eroi circondati di oggetti, come maschere per interpretare ruoli importanti. ».
« Quello dei ruoli e delle maschere è un tema che si ripropone spesso nei suoi eventi; lo considera l’elemento che più di ogni altro caratterizza il nostro tempo? ».
« Sicuramente, uno dei più caratterizzanti. Però, bisogna ricordare che di maschere e di ruoli si parlava anche durante il secolo scorso: come dimenticare, per esempio, Pirandello!? Se dovessimo leggere molti dei suoi scritti senza riconoscerli e senza poterne leggere la firma, potremmo ritenerli attuali. Lo svilimento dell’identità è una costante del mondo industrializzato, dove le masse sono spinte a ragionare per ruoli e a non porsi domande su temi che trascendano il ruolo rivestito, per non causare troppe grane a chi muove i pedoni sulla scacchiera del mondo. Perché ciò si determini, i media assumono importanza fondamentale nel creare sogni, desideri, aspirazioni che non vadano in contrasto con quanto appena affermato. Ed ecco, allora, che gli eroi moderni sono uomini e donne bellissimi, dai fisici statuari, alla guida di auto di lusso, stretti in abiti firmati e con indosso gioielli griffati. E costoro diventano influencer, nuova attività coniata dal nulla proposto dalla società del consumo, in cui le masse non sono altro che schiavi e clienti automi da condizionare affinché continuino a desiderare proprio quel nulla, in modo da alimentare la produzione di oggetti e i lauti guadagni di chi comanda, di chi non aspetta di certo uno stipendio a fine mese per vivere. E, in questo stato di cose, ecco che chi è disposto a rischiare la vita per sfuggire da guerre e carestie, per sfuggire alla fame, viene demonizzato dai media, in modo che le masse non modifichino le loro attività produttive, né smettano di desiderare gli oggetti di cui circondarsi per emulare i nuovi eroi. Il sistema vuole che le masse non siano acculturate, che non si pongano domande, ma che vivano esclusivamente di desideri, perché solo dal desiderio nasce la domanda aggregata. »
Chie Yoshioka, Haruko Mitori, Pasquale Di Matteo.
« E da chi sarebbe costituito questo sistema? »
Di Matteo sorride, poi mi spiega: « Da chi o da cosa, sarebbe meglio chiedere. Io penso che non esista un grande complotto internazionale, magari orchestrato in una notte buia e tempestosa in mezzo a un bosco da uomini incappucciati o da chissà quale setta al governo del mondo. Quella è roba da thriller… In verità, ritengo che il Capitalismo, che si fonda e si sostiene attraverso il desiderio dell’accumulo di denaro, di preziosi, di oggetti e di status, sia come un’entità che si autodetermina, utilizzando chi si trova ai vertici del potere come mezzo per manifestarsi.  Lo dimostra il fatto che le grandi conquiste sociali del passato sono state ottenute con lotte talvolta dure, ma si sono verificate, perché alcuni uomini ai vertici del potere, ovvero, alcuni Capi di Stato, Ministri, Economisti.., hanno posto la morale a dottrina imperante per trovare soluzioni alle crisi sociali. Il sistema, alimentato da personaggi sempre più agguerriti per giungere al successo, in questi ultimi due decenni, è mutato, soppiantando la Morale con la Legge delle banche, con gli Stati gestiti come aziende. Uno scempio che parte da lontano, dalla DEREGULATION attuata da Reagan, che ha dato al potere finanziario libertà di manovra, senza alcun vincolo da rispettare. Tale inversione culturale non poteva non favorire il proliferare di tesi secondo cui studiare materie umanistiche sia poco intelligente, poiché si tratterebbe di formazioni culturali non in grado di garantire le figure professionali più ricercate dalle imprese… Un concetto che punta a formare persone che siano capacissime nelle mansioni lavorative, ma incapaci di pensare a temi più importanti, a cominciare dai propri diritti sociali. Un dramma culturale che alimenta se stesso perché chi raggiunge i posti di potere è sempre meno disposto a tenere conto della Morale, poiché indottrinato dalla Legge dei Numeri e dall’idea imperante, nel nostro tempo, secondo cui non vi possano essere altre strade… ».
« Perciò, questa collettiva nasce con l’intento di dare spazio ha chi ha la capacità di denunciare la deriva culturale in atto? ».
« Questa collettiva nasce per trattare della deriva sociale in atto, una deriva sociale che l’Arte, come già altre volte in passato, ha la facoltà e il compito di denunciare, provando a proporre soluzioni diverse. Pensiamo ai Surrealisti, agli Espressionisti, ai Dadaisti, agli esponenti del Movimento del Novembergruppe… L’Inverno del Mondo si propone proprio di affrontare i grandi temi del vivere moderno, quali: la crisi di valori; la perdita dell’identità; la deriva autoritaria; la sottrazione di libertà; la depauperazione del pianeta; la paura per svilire diritti; l’idolatria del denaro; la pericolosità del potere dell’immagine; la creazione di nemici per sfavorire le aggregazioni… Perché anche oggi, proprio come Espressionisti, Surrealisti, Dadaisti… L’artista, quando è davvero tale, ha la facoltà di andare oltre l’immagine, oltre le notizie ottriate, sviscerando la verità del nostro tempo. Purtroppo, anche navigando sul Web, vedo troppi eventi aperti a chiunque, senza un tema, senza un numero chiuso, in cui importano soltanto le quote degli iscritti, mentre avremmo bisogno tutti di eventi di serie A, in cui, partendo da un’opera, si possa comprendere le dinamiche del vivere, denunciare ciò che non va e, magari, proporre soluzioni per dare ai nostri figli un futuro. Non uso volutamente l’aggettivo “migliore”, perché, vista la deriva che stiamo vivendo, ritengo che già garantire un futuro sia una vittoria. ».
« Quindi, Pasquale Di Matteo vede nero? »
« Pasquale Di Matteo vede una società alla deriva, come tanti pensatori ben più importanti, a cominciare da Umberto Galimberti, tuttavia, da inguaribile ottimista, auspico una presa di coscienza, soprattutto da parte dei giovani, di quella generazione Z, la prima totalmente multimediale, nata in un’era in cui lo smartphone era già consuetudine. Paradossalmente, credo che solo i più giovani, nati nell’era dell’immagine, possano trovare le soluzioni per dare proprio all’immagine il giusto peso, tornando a focalizzare l’attenzione su elementi e valori di ben altro spessore; nella storia del mondo, infatti, la normalità passa di moda e viene soppiantata da qualcosa di nuovo. Credo che le generazioni future possano comprendere che i modelli ottriati dall’immagine, che poi alimentano la corsa al consumo e l’idolatria del denaro, siano soltanto mera superficialità e che le vere ricchezze siano altre. L’arte e gli artisti possono, e devono, essere il generatore di domande, di dubbi, per far nascere proprio nei più giovani la consapevolezza ».
« Sono tanti i temi affrontati in questa collettiva, dai diciassette artisti partecipanti: innanzitutto, come mai questo numero e, se c’è, qual è il tema che trova più interessante? ».
« Per filosofia personale, io lavoro solo a numero chiuso. Per questa collettiva avevo posto un limite di venti artisti, ma le opere proposte che potessero adattarsi al tema erano, per l’appunto, diciassette. Poi, quanto a preferenze, non ne ho. Qui abbiamo Rita Carrodano, che parla di speranza e di libertà; Galia Draganova e Massimo Bionda, invece, affrontano il tema dell’identità e delle relazioni umane, così come Francesca Ghidini. Bruno Scarpini, “Il Malaspina”, ci parla della lotta di classe e del prevalere della cattiveria nella natura umana; Damiano Pizzetti vede l’uomo moderno come un burattino; Carolina Moretti ci parla dello stupore, della genuinità del bambino, mista alla paura del viaggio; Daniela Bussolino e Stefania Lubatti focalizzano l’attenzione sull’unicità e la diversità, in un mondo monocromatico; Serena Pescarmona ribadisce il concetto della schiavitù del tempo; Teresa De Sio enfatizza le carenze di affetto e la necessità di amore; Massimiliano Sciuccati parla di moneta, vero dio del nostro tempo; Liliia Kaluzhyna ci ricollega alla natura; Monda Maksutaj pone l’accento sui confini; Giuseppe Zumbolo tratta della solitudine dell’uomo; Patrizia Testoni tratta di donne e del dualismo uomo/natura, mentre Silvy Favero parla di meditazione e di inconscio. Tuttavia, in ciascuno si sviluppa il tema del cambiamento, in una spinta propulsiva volta proprio a migliorare il nostro tempo ».
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Chie Yoshioka & Pasquale Di Matteo
La gallerista, Dott.ssa Chie Yoshioka, aggiunge che: « … Sono sempre felice degli eventi organizzati dal Critico d’Arte, Pasquale Di Matteo, con il quale collaboro piacevolmente e il mio desiderio è quello di trovare artisti italiani meritevoli per il mercato giapponese. Il prossimo anno, infatti, io e Pasquale porteremo 30 artisti a Tokio e tale collaborazione, mi auguro, possa proseguire ed essere ricca di successi per lungo tempo. Per la Chie Art Gallery, per la carriera di Pasquale Di Matteo e per tutti gli artisti che lavoreranno con noi. ».
L’INVERNO DEL MONDO sarà in esposizione da lunedì 25 a sabato 30 novembre, dalle 11 alle 18.30, presso la Chie Art Gallery, in Viale Premuda 27, a mille metri dal Duomo di Milano; il vernissage si terrà mercoledì 27 novembre alle ore 18.
PASQUALE DI MATTEO E L’INVERNO DEL MONDO PASQUALE DI MATTEO E L’INVERNO DEL MONDO Sabato 23 novembre, ha preso il via la Mostra Collettiva intitolata L’INVERNO DEL MONDO, curata dal Critico d’Arte, Pasquale Di Matteo e allestita presso la suggestiva Chie Art Gallery, in Viale Premuda, 27, a mille metri dal Duomo di Milano.
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pangeanews · 4 years
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Breve esegesi dei “walteromanzi”. Ovvero: Walter Veltroni si è dato al “giallo” (ma non tutti i lettori sono cretini)
«Il sindaco di questa città è fissato con la sicurezza dei bambini e il decoro delle ville. Vuole che vengano garantiti sempre al massimo livello. E per questo ha convinto il ministro e il capo della polizia a…» (Walter Veltroni, Assassinio a Villa Borghese, Marsilio 2019).
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Come sappiamo, per anni Walter Veltroni ha tramandato se stesso in diverse forme, dal campo politico a quello cinematografico e letterario, arrivando a sfornare una serie di romanzi – talmente connotati da poterli definire “walteromanzi” – con cui ha regolarmente colonizzato i giornali, le televisioni, le librerie e il mercato intero, piazzandosi sempre al centro della scena. Adesso l’ex-sindaco di Roma, non ancora sazio, è arrivato all’impensabile: pubblicare un “giallo” in cui materializza addirittura sé stesso come il deus ex machina che «ha convinto il ministro e il capo della polizia a istituire il commissariato di Villa Borghese».
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Quando Alessandro Baricco scrisse su la Repubblica il famoso articolo dell’11 gennaio 2019, mise subito in chiaro (con oltre un decennio di ritardo) il nocciolo della questione: “la gente concede alle élites dei privilegi e perfino una sorta di sfumata impunità, e le élites si prendono la responsabilità di costruire e garantire un ambiente comune in cui sia meglio per tutti vivere”. Ma da quando le cose non funzionano più, le élites si sono chiuse nel loro habitat protetto in cui difendono e tramandano i privilegi, impedendo l’ingresso a chiunque, e “tengono per i coglioni il mondo”: così la gente “ha decisamente stracciato il patto e se n’è andata direttamente a comandare”. Ora, se si vuol trovare un esempio plastico di questo problema, si può partire da Walter Veltroni.
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Sappiamo che nella sua produzione letteraria Veltroni è ricorso a tutti gli espedienti possibili per trovare scorciatoie, per fare meno fatica, imitando idee e stili altrui, riempiendo di citazioni – dal cinema, dalla televisione, dallo sport, da qualsiasi cosa – tutto il riempibile. Stavolta, nell’ultimo romanzo, s’inventa un commissariato romano a Villa Borghese, e per imprimergli una spinta di comicità parte con un incipit che vorrebbe essere “la madre” di tutte le citazioni: «Vieni avanti, Buonvino».
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Non ci si crede: usa la celebre battuta d’avanspettacolo dei fratelli De Rege che risale a più di ottant’anni fa, ripresa in televisione sessant’anni fa da Walter Chiari e Carlo Campanini, poi riprodotta nel titolo di un film con Lino Banfi quarant’anni fa. Non sappiamo quanto l’effetto comico venga colto dal lettore, anche per ragioni anagrafiche, ma l’autore offre subito qualche chiarimento: “Dopo aver bussato, l’ispettore superiore Buonvino alzò gli occhi al cielo e, sbuffando, aprì la porta. «Silvestre, sono vent’anni che fai la stessa battuta. Dai tempi dell’Accademia. Tu hai fatto carriera, sei diventato persino primo dirigente, ma devo proprio ricordarti come ti chiami? Il tuo nome è Giuseppe Silvestre. E ti fai pure chiamare Pino. Ma perché mi hai cercato, dopo tanto tempo? Promozione in arrivo?»”.
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Santo cielo. Insieme al “Vieni avanti, cretino” ci viene appioppato il “Pino silvestre Vidal”, il famoso bagnoschiuma del carosello anni Settanta col cavallo bianco che correva nell’acqua: due super-citazioni sparate in faccia nelle prime righe, da restarci secchi. E nel seguito si snocciola una quantità di roba, la Casa del Cinema, Dario Argento, Ettore Scola, il Giardino del Lago, l’hotel Villa Borghese, gli spyderini, i palloni Super Santos, la Bibbia, Nick Novecento, Dalla, De Andrè, Ornella Muti, William Shakespeare, Emanuela Orlandi, Giovanni Falcone, James Tont eccetera. Il tutto mescolato in un favoleggiare improbabile e dilettantesco (“Il suo ufficio, un barattolo senza finestre, nel quale spesso trascorreva le giornate guardando e contando le crepe sul muro”), con espedienti da film di serie B e tasselli informativi ficcati senza riguardo, come se si dovesse guidare un lettore semi-incapace.
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“Buonvino decise di andare a piedi da Villa Umberto fino al luogo del delitto. Ora quello scenario paradisiaco − verde e cultura, bambini e innamorati − gli appariva come un luogo sinistro, carico di misteri e grondante sangue”: questo è il frammento proposto in tutte le pagine web che incitano all’acquisto. Peccato che, secondo chi ci vive, certi lati dello scenario paradisiaco siano da tempo luogo di prostituzione, di tossicodipendenza, di violenze e rapine, tutte cose che Walter Veltroni forse conosce poco, protetto com’è nella sua rassicurante visione del mondo. Siamo certi che scrivere una cosa come questa – spacciata per divertissement – non sia stato difficile: basta assemblare una trama con suggestioni e stilemi rilevati da altri libri, dai recenti Bastardi di Pizzofalcone alle avventure di Rocco Schiavone, risalendo al padre nobile Andrea Camilleri e alla truppa del commissariato di Vigata, con le sue situazioni pseudo-comiche e i dialoghi da babbioni di paese. Naturalmente, i personaggi sono senza spessore, la trama è raffazzonata e poco credibile, i luoghi comuni fanno da legante insieme alle citazioni, i “colpi di scena” restano nella testa dell’autore e dell’editore, che le battute se le ridono da soli, mentre il finale “a sorpresa” è qualcosa che lasciamo giudicare a chi riesce ad arrivare alla fine.
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Per mantenere un’impostazione scontata e puerile, Veltroni crea un protagonista piacente e politicamente correttissimo, mentre il suo antagonista è brutto, ha un passato oscuro e le dita ingiallite dalla nicotina: “Buonvino si era detto che forse, sotto o dietro l’odiosa discriminazione, c’erano la malcelata invidia di colleghi meno dotati fisicamente e meno avvenenti di lui, o anche ragioni politiche. Lui aveva avuto i nonni partigiani e ne era orgoglioso. Silvestre, per esempio, si diceva invece affondasse le sue origini familiari in una losca dinastia di agenti dell’Ovra e della Gladio”. Dunque, non manca la politica, che divide i buoni dai cattivi, ovviamente coniugata con il calcio: “Il colore delle sue dita, qualcosa a metà tra le magliette della Roma anni Sessanta e quelle canarino del Modena, testimoniava invece il fallimento di tutti i tentativi fatti per smettere di fumare”.
*
“Sotto o dietro”, “o anche”, “losca dinastia”: si notino le finezze stilistiche. Va da sé che questo walteromanzo non solo minaccia di avere un seguito, come annunciato dall’autore, ma è facile che diventi una serie televisiva, ipotesi raccapricciante ma abbastanza realistica per chi è stato segretario della Fgci, uomo politico, ministro per la cultura, sindaco, fondatore di partiti, saggista, romanziere, documentarista, autore televisivo, regista cinematografico eccetera. Insomma, dire essere introdotti è dire poco; qui sembra esserci l’ambizione di creare una sorta di “Codice Da Vinci” alla romana, forse ispirato a La grande bellezza di Paolo Sorrentino, con tutte le sue suggestioni. Ma la resa è svilente, di una banalità che diventa offensiva: per rendersene conto basta riportare un brano della parte iniziale.
*
“«Promozione in arrivo?» Il sorriso era finto, meccanico, e la domanda gli sembrava fosse semplicemente rotolata sulla testa china di Silvestre, che neanche lo guardava. Aveva fatto la solita battuta sul suo cognome senza nemmeno alzare gli occhi verso la porta, quando Giovanni era entrato; avrebbe anche potuto esserci Ornella Muti al suo posto.
Quando infine sollevò la testa, però, il primo dirigente non reagì come se avesse visto la bella attrice, e fece una smorfia. L’evocata promozione restò così nell’aria per un tempo immotivatamente lungo. A Buonvino sembrò che rimbalzasse sulle pareti, scuotesse la porta, le finestre, e poi tornasse dov’era partita, sul sorriso tonto di un ispettore superiore al cospetto del suo capo. Lo stesso che negli ultimi quindici anni gli aveva affidato burocratiche e insignificanti mansioni di ufficio negandogli ogni tipo di avanzamento.
Silvestre e Buonvino restarono così per un tempo assurdo. Il primo in silenzio scrutante e il secondo col residuo di sorriso fesso, anche peggio del sorriso fesso.
Fu Silvestre a rompere il malefico incantesimo. Lo fece mostrando disappunto. Stava per dare una buona notizia, il che lo infastidiva davvero. Sbuffò: «Sì, Buonvino, hai ottenuto una promozione. Ti faremo commissario».
Per un momento Giovanni pensò di abbracciare quell’uomo che gli aveva appena comunicato la buona, attesa novella, ma scartò subito l’ipotesi. Anche per via del colore delle dita. Poi un atroce dubbio: che il perfido Silvestre stesse spietatamente proseguendo la sua stanca gag a imitazione dei fratelli De Rege − «Vieni avanti, Buonvino» − e volesse davvero dimostrare erga omnes che lui era un cretino, credulone e babbeo?”.
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La bella attrice, il malefico incantesimo, la stanca gag a imitazione dei fratelli De Rege. Spiace dirlo, ma questo walteromanzo giallo è la cosa più scadente, meno opportuna e più dannosa che il suo autore poteva farsi venire in mente. Un lavoro pessimo, di cui porta la responsabilità anche chi ha favorito, alimentato, realizzato l’idea. Una trovata talmente stupida da far temere che i profitti attesi, sempre robusti per le camionate di libri che Walter Veltroni rovescia regolarmente sul mercato occupando tutti i media, saranno inferiori alle previsioni: il parco lettori (qui considerato come il “parco buoi” di borsistica memoria) non è illimitatamente sprovveduto, e quando si insiste a imitare il già imitato, quando s’infarcisce tutto di battute melense e citazioni, quando si assembla senza criterio e senza visione – e senza vergogna – non si può pretendere un consenso a oltranza. Soprattutto quando si usano trovate e stilemi sorpassati, con dialoghi innaturali e meccanici, costruiti per spiegare l’antefatto al lettore, come nelle peggiori sceneggiature:
«Ancora? Sono passati quindici anni!»
«E quanti ne sono passati da quando Graziani sbagliò il rigore con il Liverpool? E Zaza quello con la Germania? Gli errori sono cicatrici, e più sono gravi più sono profonde».
«Vabbè, grave… Un’imprecisione…»
«Imprecisione? Tu sei matto, Buonvino. Devo forse ricordarti il fatto? Eri di turno alla Mobile di Caserta e ti arriva la segnalazione di un raduno della camorra durante la comunione del figlio di un boss. Si svolgeva in un ristorante di via Fratelli Bandiera. Tu mandasti i Nocs in via Fratelli Cairoli, dove c’era la cresima del nipote del prefetto. La suocera di sua eccellenza ebbe un infarto grave e il bambino rimase sotto shock per mesi».
«Vabbè, ho confuso due eroiche figure risorgimentali. La sfiga ha voluto che ci fosse un ristorante in tutte e due le vie, e che entrambi avessero ricevimenti per cresime e comunioni. Vabbè che era maggio… Una macchia, ma in una carriera irreprensibile».
*
Riassumendo, le élites sono “una minoranza ricca e molto potente”, scriveva l’anno scorso Alessandro Baricco: “Osservati da vicino, si rivelano essere, per lo più, umani che studiano molto, impegnati socialmente, educati, puliti, ragionevoli, colti”. Peccato che restino chiusi nel loro recinto e non riescano – a cominciare da Baricco – né a interpretare il fuori nel suo divenire, né a valutare il loro dentro per com’è davvero.
Paolo Ferrucci
*In copertina: Walter Veltroni (l’immagine è tratta da qui)
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jucks72 · 7 years
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Risotto agli asparagi: la ricetta perfetta
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Risotto agli asparagi: la ricetta perfetta
Mi piacerebbe bendarti e poi metterti in mano un asparago dopo l’altro. Ma ridi, lettore… Mi piace sentirti ridere. Sei l’unico che ha il senso della ricerca, una saggia (in)tolleranza- basta così, che sembra che sia tu stesso a incitarmi a cuocere questo risotto sfacciatamente primaverile.
Non so se hai capito che ho sfogliato i diari di Anaïs Nin.
Sì, lei, l’autrice di letteratura erotica. Ho voglia di andare oltre i soliti racconti attorno al riso vialone nano e alle Liliaceae per questa ricetta perfetta. Già solo chiamarlo, l’asparago, ortaggio mi rende irrequieta.
Bendati e fammi vedere che cosa ne sai.
Asparagi e Sparcs
Prendo il primo sparc e dimmi qual è?
Non fare il puritano, non chiamare gli sparagi di Artusi in ballo. Io vengo dal Friuli e per me sono sparcs. E’ un bell’aiuto per riconoscere, anche ad occhi chiusi, che si tratta di un asparago bianco. Non ti chiedo se DOP Friulano di Tavagnacco o veneto di Bassano del Grappa.
Se fossi sadica, pretenderei che mi raccontassi della storia dell’asparago bianco di Sant’Andrea di Gorizia, che viene addirittura citato nel trattato del 1866, che mise fine alla terza guerra d’indipendenza. Eppure oggi questi spargli sono praticamente scomparsi. Lo so, non per colpa (solo) tua.
Mi aspetto, però, che tu sappia che il turione (il frutto) di un futuro asparago bianco viene cresciuto sottoterra. Gli è negato il piacere di sviluppare la clorofilla e deve dimostrare di essere tosto. Si ingrossa –lo senti quanto?– per reggere il peso del terreno. Tutto questo carattere alla fine diventa uno sparc tenero e poco fibroso.
Ora palpeggia questo. Per tradizione un asparago così verrebbe raccolto solo alla destra del Po per via del suo colore. Il Saraceno di Vinchio non fa eccezione.
Chissà cosa pensò Rosetta Laiolo quando gli diede il nome di Saraceno. Sarà stata talmente sedotta dalla sua carnosità da volergli dare un nome esotico? Illuso, le donne sono più pragmatiche di quanto credi. Rosetta conosceva le colline del “bricco dei Saraceni” e la loro storia fatta di viti e cavalieri armati.
Eccezione alla regola del Po la fa il più amaro asparago Montine. Non so quanto il tatto ti possa svelare. Proviamoci. E’ l’unico verde in Veneto e in realtà non conosce confini. Predilige, infatti, i litorali adriatici dall’Istria alle Marche. Eppure, per la zona compresa tra la foce del fiume Sile fino a Punta Sabbioni, non lontano da Venezia, ha un debole. Lui sì che sarebbe ideale per un risotto, certo con un vino di carattere per contrastarne l’amarezza.
Non lontano, tra Bologna e Ferrara, l’asparago verde di Altedo fa capolino.
Potrei, poi, persino stuzzicarti gli appetiti con un asparago verde di Canino e Montalto di Castro, ma comincio a stancarmi di questo gioco. Meglio osare. Resta bendato e sussurrami qualcosa dell’asparago di Albenga. Viola come vogliono i suoi 40 cromosomi. Niente trucchi. Natura allo stato puro.
Ora Eros! E’ la varietà dell’asparago rosa di Mezzago, a due passi da Monza. Bianco sotto e rosa sopra. Basta poco sole alla fine della crescita, quando esce dal terreno argilloso, per farlo arrossire.
E’ tempo di lasciarti solo con un asparago selvatico. Più filiforme. La personalità delle foglie gli vale anche l’appellativo di asparago pungente o spinoso.
Ma non lamentarti perché non ho trovato l’asparago di Pastor. Non ho avuto proprio tempo di andare in Sicilia e, poi, il mondo degli asparagi selvatici è più ampio di quello che ti aspetti.
Tra risi e vini
Mentre ti ostini a osservarlo, ora che non hai la benda, tiro fuori il riso. Sei talmente distratto dal grosso asparago bianco che non ti accorgi che ho del Vialone Nano e non del Carnaroli come nel risotto con la zucca.
Per un gioco del destino mi è giunto un pacco da Paradiso. Ancora il Friuli che mi chiama tra uno sparc e l’altro. A Paravîs, Paradiso di Pocenia sulle mappe italiane, oltre alla Trattoria al Paradiso, c’è Domenico Fraccaroli che coltiva del riso.
Nel 2010 Tiziano Fraccaroli e i figli (Domenico predilige il vino, in realtà) hanno visto una risaia. Sì, in Friuli dove c’era dal 1750 fino ai primi del Novecento. Eppure a fine Ottocento il riso friulano raggiungeva la corte viennese, grazie anche alla pilatrice ad acqua della contessa Rosa di Strassoldo.
Trovato un nobile giaciglio per gli asparagi verdi, manca il calice giusto. Ci vuole seduzione nella vita. Ci vuole un risotto delicato che faccia gridare a Anaïs Nin: l’eguaglianza! L’equilibrio dei sapori è eguaglianza nei toni. Nulla stona, nulla eccede, tutto si combina. Non è cosa facile raggiungere l’eguaglianza quando c’è l’asparagina di mezzo.
Ce la possiamo fare con una ribolla spumantizzata come Optium Ribolla Gialla di Zorzettig, persino con un Est!Est!Est! di Montefiascone; ma Mara, sommelier-cardiologa-amica di fiducia azzarda pure uno Chardonnay.
Ammetto di aver osato col mio solito Tio Pepe Palomino Fino per sfumare il riso. Con sorpresa la compostezza del piatto lo tiene a bada per poi lasciargli la standing ovation finale. Diventa veramente l’ultimo aroma percepito.
Tra risi e vini mettici di mezzo lo zafferano ed il formaggio.
In certi momenti della vita, come il risotto agli asparagi, non acconsento alla presenza dello zafferano. Ma è una mia personale perversione.
Col formaggio è tutt’altra storia. Si può abbandonare il Grana Padano o il Parmigiano Reggiano, per concedersi al pecorino toscano, meglio se morbido come  Jul’s Kitchen con gli asparagi verdi ma selvatici.
La ricetta perfetta
Ingredienti per 2 persone
Brodo vegetale leggero 1,5 litri di acqua mezza cipolla bianca 1 carota 1 gambo di sedano le parti legnose di alcuni asparagi
Risotto 15 grammi (+ 10 grammi per la mantecatura) di burro mezzo cipolla bianca 200 grammi di asparagi senza la parte legnosa 200 grammi di riso Vialone Nano mezzo bicchiere di vino bianco (30 grammi circa) 40 grammi di Grana Padano grattugiato
Preparare il brodo vegetale in anticipo. Mettere a bollire l’acqua assieme alla mezza cipolla, la carota spellata ed il sedano tagliati in pezzi di alcuni centimetri. Aggiungere anche la parte legnosa (finale) di alcuni asparagi. Per mantenere l’eleganza del piatto ho omesso il pepe. Sobbollire il brodo per un’ora circa e poi filtrarlo.
Quando il brodo è fatto e caldo, si possono preparare gli ingredienti per il risotto. Prima di tutto, affettare e tagliuzzare la cipolla bianca. Poi, pulire e tagliare gli asparagi. Per separare la parte finale – legnosa – degli asparagi e le punte non serve il coltello. Con le mani è facile tagliarle, perché flettendo l’asparago si scopre rapidamente il punto di rottura.
Ovviamente, però, per tagliare a rondelle gli asparagi serve il coltello. Le rondelle del gambo dell’asparago devono essere di grandezza il più possibile uniforme.
Mettere in un’ampia casseruola il burro e farlo sciogliere su fiamma bassa. Unire la cipolla e farla imbiondire per alcuni minuti. Ricordarsi di mescolare spesso con un cucchiaio di legno o plastica. Unire le rondelle degli asparagi. Le loro punte vanno unite più avanti. Mescolare e far sudare, sempre su fiamma bassa, gli asparagi.
Unire il riso. Mescolare ed attendere che il riso diventi traslucido. Versare il vino bianco e farlo evaporare.
Unire alcune mestolate di brodo caldo. Continuare la cottura su fiamma medio-bassa. Mescolare col cucchiaio ad intervalli regolari ed aggiungere brodo caldo al bisogno.
Affidarsi ai tempi di cottura del riso scelto. Con questo Vialone Nano friulano, dopo circa 10 minuti il riso appare già quasi cotto a puntino. Fare sempre la prova di assaggio. Unire, quando mancano alcuni minuti alla cottura ideale, le punte degli asparagi. Mescolare.
Mantecare col burro e col Grana Padano.
Servire caldo.
PS. Sì, io ho omesso il sale per via del formaggio, ma è concesso aggiungerne un pizzico.
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